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Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Leggo Hamid sempre con grande interesse – Exit West, il romanzo precedente, credo sia un libro importantissimo e avevo aspettative assai vispe anche per questa novità. In L’ultimo uomo bianco – in libreria per Einaudi nella traduzione di Norman Gobettinon ci si sposta nello spazio utilizzando porte “magiche” (passatemi la semplificazione) ma al centro della storia c’è un altro fenomeno insolito, rivoluzionario, pronto a sovvertire l’ordine costituito e pure inspiegabile: i bianchi cominciano all’improvviso a diventare neri. Lo scopriamo insieme al protagonista, che un bel giorno si sveglia, si specchia e scopre di avere la pelle marrone. Così, sbam. È sempre lui, ma non è più un uomo bianco.

Quello di Anders è un caso isolato? Giammai. Tutti attorno a lui cominciano gradualmente a cambiare, in un crescendo di sconvolgimenti identitari che il tessuto del mondo non può che metabolizzare in maniera conflittuale, farraginosa, imperfetta e faticosa. Seguiamo la parabola di questo mutamento rimbalzando dal punto di vista di Anders a quello di Oona, la ragazza (anche lei bianca) che stava frequentando alla vigilia di questo immane cambio di paradigma.

Anders e Oona non sono due antropologi e nemmeno due col dottorato in sociologia, quindi non ci offriranno effetti speciali “concettuali” di portata sconvolgente, ma accompagnandoli nella loro quotidianità ci faremo strada in questo grande WHAT IF constatandone l’impatto su un orizzonte di ordinarietà che potrebbe somigliare a quello di chiunque. Questa normalità che incarnano penso sia al contempo una scelta utile, ma anche una fragilità di fondo. O, almeno, è così che ho provato a spiegarmi la sensazione di “ma tutto qui?” che ho spesso provato leggendo.
È un romanzo che parte da una premessa ricchissima di implicazioni e, sebbene sia delicato, profondo e splendidamente eseguito, lascia comunque una certa insoddisfazione – e non di sicuro per carenza di conflitto che emerge nel mondo “nuovo”. Sono personaggi che sembrano svuotarsi col procedere della storia, come se l’aver vissuto un fenomeno così portentoso li riguardasse alla lontana. Non so se è Hamid che vuol dirci che possiamo superare egregiamente anche il più inedito e potenzialmente destabilizzante dei fenomeni – e che nessun preconcetto regge di fronte al vivere davvero nei panni di qualcun altro – o se son solo Anders e Oona ad avermi “dato” un po’ meno di quel che volevo sapere.

I libri “risolvono” problemi? Nei libri possiamo trovare soluzioni funzionali ai nostri crucci o grimaldelli infallibili per raddrizzare le storture della nostra esistenza? Mi capita tutti i giorni di ricevere variazioni sul tema del “cosa leggo per neutralizzare [inserisci difficoltà esistenziale molto specifica]” e non so mai bene come gestire un’aspettativa così potente e mirata. È un assunto di base che equipara l’effetto di un libro a quello di un medicinale, quasi. Aiutami, opera di narrativa, mostrami la strada, spiegami esattamente cosa fare, tirami fuori da questo pantano. A me viene da prenderla molto più alla larga ed è capitato spesso che in una storia che faceva altro rispetto alle mie tribolazioni trovassi incidentalmente qualcosa di “utile”. Diciamo che leggo con un certo fatalismo e senza cercare esattamente uno specchio. Potrebbe sembrare poco romantico, ma penso sia vero il contrario: ci speri così tanto che il libro-medicina può essere ogni libro che leggi, anche se non lo prendi in mano con la pretesa che ti illustri per filo e per segno come campare meglio. Ogni volta che ti trovi è una specie di miracolo e, aspetto doppiamente dirompente, quando non ti cerchi ma ti trovi non puoi che vederci un grande disegno del destino. E che c’è di più romantico di un destino risolutore?

Ester Viola, qua, non la vede troppo diversamente, anche se dalle premesse Voltare pagina (Einaudi) potrebbe somigliare a un libro che parla di libri capaci di districare a colpo sicuro i garbugli dell’amore. Le conviene che venga venduto così, per l’attitudine alla ricerca del libro-medicina di cui si parlava prima e per la fortuna che i “libri sui libri” continuano ad avere, ma c’è quel buonsenso di fondo e quel sano istinto al non crederci troppo che tende a restarti appiccicato addosso dopo aver superato una serie di fregature e tranvate spiacevolissime ma molto formative. La corazza dell’ironia e una perentoria esortazione a dosare le aspettative fanno il resto. Qui, in dieci “casi di studio” appaiati ad altrettanti libri, Viola riflette sulla realtà minuta dell’amore e sull’estrema fallibilità a cui tutte e tutti ci esponiamo quando ci son di mezzo i sentimenti. Dalle corna all’asimmetria dei rapporti, dal matrimonio alla fiducia reciproca, dall’abitudine alla vendetta, Voltare pagina è sorretto da un’idea strutturalmente buona che Viola tiene in piedi con palese divertimento – anche nostro.

Ecco l’indice:

Sì, ne uscirete magari anche con qualche spunto bibliografico da esplorare ulteriormente, se già non vi è capitato di leggere queste storie. Vi troverete in Reza, Hornby, Starnone e compagnia? Solo il destino può stabilirlo. Voi, però non aspettatevelo. 

Dato che il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è bellissimo, ho deciso che la butterò in caciara.
È trascorso un discreto numero di anni dalla pubblicazione della sua ultima creatura e, nonostante i numerosi “non voglio più scrivere narrativa” qua e là pronunziati, Ammaniti è tornato. Ho letto Anna e ho visto la serie – ricavandone parziale consolazione – ma in fondo al cuore mi sono sempre rifiutata di credere alle dichiarazioni di auto-pensionamento dal mestiere di romanziere. Preferivo immaginarmi Ammaniti alle prese con la sindrome di George R.R. Martin, una situazione che visualizzo così, avvalendomi della pubblicità del digestivo Brioschi.

Fai la televisione, Niccolò. Segui i tuoi interessi. Mettici il tempo che ci vuole. Anzi, falli aspettare. Maledetti, sempre lì a chiedere dei libri nuovi. Un assillo. Escono trendordicimila romanzi l’anno, ma loro no, non possono leggere uno di quelli, il nostro vogliono leggere. E INVECE NO, TIÈ, DOVETE ATTENDERE. Quanto? Non si sa. Non dare spiegazioni, allontanali con un bastone nerboruto.

Maria Cristina Palma, la protagonista di La vita intima – inevitabilmente in libreria per Einaudi Stile Libero -, divide con noi solo la stupidità assoluta che ci assale quando andiamo dal parrucchiere a chiedere “qualcosa di nuovo”. Stavamo così bene prima. Ci riconoscevamo. E invece no, dobbiamo farci del male e uscire azzoppate da un nuovo cruccio. La gente che ti ama, per pietà, ti dirà che stai bene e che il nuovo taglio è molto francese ma, grazie al cielo, i nostri scempi non avranno il potere di far vacillare il governo. I capelli di Maria Cristina Palma sì.

Perché? Perché Maria Cristina è la moglie del presidente del consiglio, è dotata di una bellezza fuori scala rispetto alle altre femmine della nostra specie – certificata, per altro, dallo studio di una remota università americana che dopo calcoli estenuanti l’ha ufficialmente individuata come DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO, facendo la gioia di ogni testata giornalistica che sfrutta spudoratamente il clickbaiting  e non può muovere un passo senza che i suoi comportamenti vengano analizzati, sezionati e aggiunti al mosaico infinito di un’immagine pubblica che ha conquistato vita propria, allontanandosi a grandi falcate dalla Maria Cristina originaria. Che poi è questa – l’impietoso ritratto è curato dalla sua mamma, comparsa memorabile e dalla lucidità tombale:

Ricorda che questa bellezza non te la sei conquistata. È un dono che ti abbiamo fatto io e tuo padre e devi saperla portare, proprio come il vestito da reginetta. Oggi, se fossi stata spiritosa, te ne saresti fregata degli altri e avresti fatto vedere a tutti chi era la regina della festa. La bellezza, senza coraggio, è un guaio. Proprio perché sei bella non verrai presa sul serio e ti dovrai impegnare cento volte di più delle altre per dimostrare che sei intelligente, profonda, per non essere usata e trattata come una scema dagli uomini. Tuo nonno è il primo che ha portato dall’America il latte detergente in Italia e la nonna sa prendere al lazo i buoi. Tuo fratello sa tuffarsi di testa dallo Zingaro. E tu che sai fare? Sai piangere e scappare come Gina Mangano, la figlia del panettiere? Noi che abbiamo il sangue dei Sangermano, dobbiamo fottercene del giudizio della gente. Persino tuo padre, che è uno stronzo, ha scalato l’Everest. Tu, gioia, non emergi per carattere, ma almeno impara a portare la bellezza come una regina. Capito, amore mio?

Son solo le sfighe a schiacciarci o possono pensarci anche le fortune? Maria Cristina è un magnifico vaso di coccio in mezzo a tantissimi recipienti molto meno gradevoli alla vista ma più coriacei – e forse pure pieni di qualcosa, più capaci di orientarsi nel mondo, più duttili e scafati. Accusata spessissimo e volentieri di sapere di poco, percepita quasi universalmente come appendice muta e gradevole a vedersi di uomini importanti – dal primo marito scrittore al premier in carica – e cronicamente in cerca di un punto di riferimento che non la abbandoni in circostanze tragiche, Maria Cristina cerca di limitare i danni e di tenere in piedi le apparenze, ma avrà mai la possibilità di raccontare davvero una storia che sia sua? Il domandone si fa ineludibile quando, per un fortuito incrocio di antiche traiettorie, Maria Cristina si imbatte in una fiamma di gioventù che le gira un video “d’archivio” potenzialmente in grado di devastarle la vita. Barcollando – anche grazie a un alluce tumefatto – sul filo sottile dell’accettabilità, Maria Cristina andrà di fatto alla ricerca del suo nucleo reale, spogliandosi come una favolosa cipolla di tutte le stratificazioni, le preoccupazioni e le sovrastrutture che la spingono automaticamente a mettersi in posa per una schiera di fotografi ipotetici anche quando è da sola in mezzo a un bosco. Chi diventiamo, quando smettiamo di volercelo far dire dal riflesso che produciamo sugli altri? Che cosa serve davvero per sentirci in pace?   

Come da tradizione, Ammaniti ci accompagna a passo di carica e con un’allegria tragica e incontenibile verso un orizzonte minaccioso. Maria Cristina è un gorgo di paradossi che affondano le radici nel presente delle nostre piccolezze, mentre attorno a lei si affollano schiere di comprimari miseri, strambi e stupendi. Ho riso come non mi capitava da Ti prendo e ti porto via e, tra lampi grotteschi e sprazzi illuminanti, ne sono uscita pure più speranzosa. Dal Bruco – evanescente spin-doctor e guru eccentrico della comunicazione – ai custodi astiosi delle decadute terre di famiglia, dai fantasmi dell’adolescenza ai santoni della creatività perduta, dai personal trainer agli hair-sculptor delle ricche signore, dai cani zoppi alle molte comparse della politica nostrana, dal giornalismo ruffiano alla mondanità opportunistica c’è poco da stare allegri… ma forse dipende solo da come la si prende. “Portare la bellezza come una regina”? Forse vale anche per il resto… soprattutto per le miserie troppo vere, troppo cattive e dolorose per essere confezionate, mascherate e riconvertite in intrattenimento per una platea famelica e incontentabile. A chi dobbiamo la verità? Al nostro cuore, prima di tutto. 
Grazie, signor Ammaniti. Che gioia rivederla in giro.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

Siamo in una cittadina irlandese nei giorni che precedono il Natale del 1985. Fa freddo e alle stufe del circondario pensa Bill Furlong, alacre commerciante di legna da ardere e carbone. Ha una moglie e cinque figlie. È una brava persona.
A casa sua regna un’atmosfera di indaffarato ma caloroso disordine e i dipendenti della sua ditta non hanno nulla di cui lamentarsi – la paga è puntuale e i conti sono in ordine, anche se il camion delle consegne perde qualche colpo e tutti hanno imparato a convivere con la fuliggine che li ricopre in pianta stabile. A domenica si va a messa col vestito buono e le notizie della città – chi nasce, chi muore, chi s’ammala, chi dovrebbe frequentare un po’ meno il pub e chi sta passando un guaio – circolano in un costante chiacchiericcio che non azzoppa eccessivamente le regole del buon vicinato.

Furlong è cresciuto nella proprietà più ricca della città, dove sua madre prestava servizio. Non sa chi sia suo padre, ma sa che la signora Wilson non ha mai pensato di sbatterli fuori. Pur non mancando di tenerli “al loro posto”, ha provveduto a loro e ha sostenuto l’educazione e i primi passi di Furlong in un mondo che non è abitualmente clemente con chi ha scarse credenziali dinastiche o dubbie origini. La gente mormora e mormorerà sempre, è vero, ma di Furlong non si può che mormorare bene.

Piccole cose da nulla di Claire Keegan – tradotto da Monica Pareschi per Einaudi Stile Libero – è una cronaca lieve ma densissima degli ultimi giri di consegne di Furlong in vista delle feste. Le porte a cui bussa sono tante – anche quelle impenetrabili del convento della cittadina – e i ricordi che affiorano, avvolgendo il presente in una malinconia indaffarata, sono quelli di un uomo che tenta con grande cocciutaggine di continuare a meritarsi le fortune che gli pare d’aver costruito.

Siamo abituati a considerare l’ambizione come uno slancio titanico verso traguardi rivoluzionari, conquiste che riusciranno a elevare la nostra posizione in una immaginaria catena alimentare. Furlong è un uomo pratico, vuol cambiare gli infissi di casa perché sua moglie soffre gli spifferi e vuole sentirsi “presente” quando è circondato dalle persone che ama, anche se non è abituato a godere di un tempo improduttivo e d’istinto rincorre continuamente quel che va fatto per continuare a tenere su la baracca. Quand’è che ci si sente davvero autorizzati a meritarsi quel che si ha? Furlong sente di non potersi fermare, soprattutto quando un destino che pare rimasticargli un “e se fosse toccato a noi?” del passato lo mette di fronte a dilemma.

Keegan riesce a raccontare un tempo recentissimo – e anche un orrore istituzionalizzato, come scoprirete – con il passo di un piccolo classico. Sembra una storia fuori dal tempo, ma è un’indagine calorosa e profonda sulla giustizia, sulla dignità e sui nostri grandi dilemmi: chi vogliamo essere, soprattutto quando nessuno ci guarda? Perché siamo spesso convinti che a far meglio ci penserà sempre qualcun altro? Dove ci collochiamo, agendo nel quotidiano, tra quello che ci conviene – perché rispettando lo status quo ci preserviamo – o quello che sarebbe più giusto fare? Perché accogliamo in maniera così arbitraria e respingiamo le difficoltà altrui come se potessero contaminarci o incrinare la nostra “posizione”?
Insomma, in un universo non sempre clemente o misericordioso – nonostante le genuflessioni in chiesa -, Bill Furlong porta il fuoco… anzi, porta quel che serve per accenderlo e scaldarci. E fa una fatica immane, perché il carbone pesa, sporca e non basta mai, ma lui ci prova – e arriva puntuale quando comincia a far freddo davvero.

Le Quattro galline di Jackie Polzin – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Letizia Sacchini – non sono le occulte custodi dell’antica saggezza del mondo. Nel loro razzolare non troveremo la sapienza del cosmo o le indicazioni velatissime di un’entità superiore – assai opaca ma fondamentalmente pronta a guardarci le spalle. Le galline sono un pretesto. Sono vittime inconsapevoli. Sono in balia del caso, del caos e della fortuna. Le galline non sanno niente e possono controllare solo quello che hanno davanti al becco. Le galline, in un certo senso, siamo noi. Anzi, potrei azzardarmi a dire che godono di un relativo privilegio: nel microcosmo solo all’apparenza inoffensivo di questo libro, hanno chi le accudisce e veglia sulla loro strutturale impossibilità di contrastare gli accidenti della vita.

Le galline vivono nel pollaio di una casa dal valore immobiliare in picchiata. Sono le galline di una coppia formata da un accademico condannato ad essere promettente (forse) in eterno e da una donna che sta cercando di uscire dal limbo di un desiderio viscerale frustrato. Si sorreggono a vicenda senza grandi gesti plateali e, a vederli così, non sembrano neanche travolti da chissà quale formidabile sentimento. Vivono in un quartiere che dovrebbe avere una collocazione urbana ma pare composto da una serie disordinata di microscopici feudi infestati da predatori boschivi, tratte commerciali diventate troppo invadenti, cortili pieni di roba che nessuno sa come smaltire, depressioni periferiche e gentrificazioni al contrario. Non si capisce da dove piglino i soldi per campare, ma quattro galline le possono mantenere.

Il libro ci invita senza particolari preamboli a partecipare alla quotidianità di lei – che funge anche da voce narrante – e delle sue galline. Quando arriviamo, c’è una possibilità di futuro che si inserisce timida nel clima di disillusione generale. Seguiremo questa possibilità immergendoci in una stratificazione di dettagli “piccoli” che, nell’accumulo graduale, son poi quelli che costituiscono la realtà del vivere. Puliremo case – e penseremo a cosa vuol dire -, compreremo granaglie, visiteremo madri, scalderemo avanzi, baderemo al bambino della nostra amica, risponderemo alle rimostranze dei vicini e aspetteremo lettere importanti mentre cerchiamo di capire se in giardino abbiamo un albero che sta per crepare o no. Le galline saranno una preoccupazione costante.
Perché non fanno le uova?
Il freddo le sterminerà?
Hanno da bere?
I procioni possono raggiungerle?
Ci preoccuperemo per le galline perché abbiamo paura di preoccuparci per noi. Ci prenderemo cura di queste benedette galline perché abbiamo bisogno di scoprirci in grado di proteggere almeno loro.

È un bellissimo libro strano. Restituisce dignità “filosofica” a un pragmatismo che sembra risalire alle pulsioni più viscerali e sincere, ma senza menarcela con piccoli mondi antichi e con la magia delle creature semplici. È un libro pieno di dolori tremendi e destini di una normalità spietata, di teste che lavorano – e rimestano quel che di irrimediabile c’è nel passato – mentre le mani sono impegnate. Racconta quello che succede quando il posto dove vivi muore e tu non hai modo di aggiungere vita a quel che c’è, ma puoi solo provare a limitare i danni in vista di qualcosa che non sai bene se arriverà. E in mezzo ai piedi hai queste quattro galline che non sanno niente, ma forse hanno capito chi sei.

Allora, io non so niente di meditazione. Non lo dichiaro per vantarmi di una lacuna – perché tendo a vergognarmi sempre molto delle mie lacune -, ma per palesare con franchezza un punto di partenza individuale. Non ho mai seguito un percorso di meditazione – né a livello di “corsi” né avvalendomi della nutrita galassia di app fai-da-te che ti spiegano come sgombrare la mente e trasformarti in un’entità superiore che affronta la vita levitando -, ma sto al mondo cercando di assecondare la curiosità, anche perché sarebbe assai noioso soffermarmi solo su quello che mi pare di conoscere già, senza trovare spiragli per scoprire mondi nuovi.
Eccoci dunque qui con Chandra Livia Candiani e Il silenzio è cosa viva – che è uscito nelle Vele Einaudi e che ho ascoltato su Storytel, potendo avvalerci solo dei tormenti narrati più o meno tangenzialmente da Carrére e di una solida ammirazione per la ricerca poetica dell’autrice, che è una delle voci ormai consolidate della Bianca.

È un testo snello e relativamente breve, che un po’ ci introduce alla pratica della meditazione e un po’ serve a Candiani per spiegarci che cosa significa e ha significato per lei. È una cronaca metodologica che parte da un approccio personale per costruire un percorso “filosofico” accessibile a tutti, perché il come affrontiamo gli urti e i doni della vita è di certo un tema trasversale.
Candiani medita e insegna a meditare, esplorando con un linguaggio di raro spessore e ricchezza quello spazio di silenzio ed estrema vigilanza che possiamo imparare ad occupare per “sentire” più distintamente.

Nell’immaginario profano si tende a pensare che meditare somigli allo sgombrare il terreno dallo sgradito e dal doloroso, creando un posto sicuro, vuoto e libero dal turbamento. Leggendo, però, si scopre che è piuttosto vero il contrario.
Credo di aver capito che si tratta, in realtà, di accedere a una consapevolezza più “pulita”, sfrondata del superfluo e coltivata come un giardino pronto a ospitarci. Ci si accede imparando ad abitare un silenzio che non è assenza di stimoli o di relazioni, ma ascolto dell’impatto delle cose su di noi. Non è contemplazione del vuoto, ma la capacità di lasciarsi attraversare da quello che succede, rimanendo presenti e vigili a noi stessi. Il disordine ci disarma ma, anche nel marasma peggiore, quel che salva è sapersi costruire una bussola.
Fra venti minuti mi iscriverò a un corso di meditazione o partirò per un ritiro fra gli eremiti della montagna? Non penso. Ma sono contenta di essermi donata questa parentesi di infarinatura – splendidamente narrata.

 

[Visto che di Storytel abbiamo parlato, ecco qua il solito link per beneficiare di un periodo di prova gratuito di 30 giorni].

Per definizione, i cataclismi hanno il potere assoluto e terribile di mutare per sempre lo status quo. Impongono un cambiamento radicale (e tragico) della realtà che conosciamo e a caro prezzo ci obbligano a immaginarne un’altra, a ricostruirla sulla nostra pelle oltre che nel pensiero. Non c’è catastrofe che possa vederci preparati o che ci offra appigli per capire come ne riemergeremo – se questa fortuna di “esserci” ancora ci verrà concessa da chissà quale sorte inconoscibile. Nessuno ha merito, nella salvezza come nella morte, ma chi rimane non può che domandarsi cosa fare con quel futuro che, in mezzo all’annullamento del mondo a cui si appartiene, sembra a maggior ragione dono e miracolo, visto che a tanti altri è stato sottratto arbitrariamente e all’improvviso. Il disastro in cui si muovono Nicola e Barbara, i due narratori che ci accompagnano in Trema la notte di Nadia Terranova, è un disastro realmente accaduto: il terremoto del 1908 che ha raso al suolo Messina e Reggio Calabria.

Entrambi, a modo loro, lottano con un presente che non asseconda i loro desideri.
Barbara fugge spesso a Messina dalla nonna per vivere la grande città e allontanarsi da un padre che la vorrebbe sposata con un ragazzo che non ama. A lei piacerebbe studiare e scrivere, ma i margini di manovra per una donna sono ancora molto scarsi e l’indipendenza è un miraggio.
Nicola è un bambino, figlio unico di una famiglia ricca ma piagata da fanatismi quasi inverosimili: la madre lo fa dormire in cantina su un catafalco, legato, sorvegliando ogni sua mossa in cerca dello zampino maligno del diavolo. Nicola ci capisce poco, ma intuisce perfettamente che l’indifferenza del padre e le torture di sua madre non sono il genere d’amore “giusto”.
A fornire loro una seconda occasione per immaginarsi liberi e senza vincoli è, paradossalmente, proprio il terremoto. Oltre al trauma della distruzione, però, ad accomunarli ci sarà un incontro che a Barbara consegnerà un’eredità assai tangibile e a Nicola l’imperativo di crescere per dimostrarsi migliore di quello che le ha visto subire. I loro destini si somigliano nell’idea di reinvenzione e di lotta per la sopravvivenza in due città sfatte, ma la parabola concreta delle loro rinascite sarà diversissima. Entrambi impasteranno quelle macerie per cambiare pelle e plasmarsi un’identità nuova, con l’ostinazione dei sopravvissuti e il coraggio di chi ormai ha già perso tutto.

Il libro procede assegnando un capitolo a Barbara e uno a Nicola. Ogni capitolo fa il suo sotto la vigile benedizione di un arcano maggiore: m’è sembrato bellissimo, perché se c’è una cosa che ho vagamente afferrato dei tarocchi è la possibilità di leggerli seguendo più direzioni “di senso”, più interpretazioni e incroci cangianti. Un terremoto è un orrore che la natura ci infligge, ma in questo romanzo diventa anche un acceleratore di destini, un grande calderone in cui convivono l’immobilità della perdita e lo slancio verso il domani di chi resta e trova il modo – imperfetto, doloroso e pieno di compromessi – di ricostruire.
Anche la lingua di Terranova trova, qui, un passo che somiglia molto alla divinazione: è ricchissima, suggestiva e fluida. Restituisce la componente maestosa che ogni disastro vastissimo trasmette suo malgrado ma anche la forza più circoscritta degli istinti individuali più basilari.
Cosa ce ne facciamo di un male assurdo che si abbatte sul mondo che conosciamo? Dipende. Da noi e dalla carta che pescheremo dal mazzo. Niente è scritto, ma tutto si può immaginare… così come lo Stretto può continuare ad essere attraversato, a seconda del riflesso che il mare ci restituisce.
Un evviva per Nadia Terranova? Decisamente sì.