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L’episodio scatenante, in Tutto per i bambini di Delphine De Vigan, è la scomparsa di Kimmy, una bambina di sei anni già veterana di YouTube. La madre, Mélanie, gestisce con enorme successo (e proventi notevoli) uno di quei canali “di famiglia” che documentano con dovizia ogni avventura domestica. Cominciato quasi per gioco – e forse per un’esigenza di visibilità in grado di compensare una carriera da reality-star mai decollata -, quello di Mélanie è diventato un lavoro a tutti gli effetti, che coinvolge i due figli imponendo loro i ritmi pressanti che conseguono al dovere di “esserci” online, costruendo di fatto una normalità posticcia, dove si recita a beneficio degli sponsor e anche i più piccoli di casa sono chiamati a contribuire.

Mélanie, non si sa se per ingenuità, opportunismo o mera ambizione, cerca di convincersi che tutto quello che lei ama fare, apparendo, sia un gioco e una gioia priva di vincoli anche per i suoi figli – oltre che per un pubblico sterminato e molto partecipe -, ma sarà davvero così? Se il maggiore, Sam, non manca mai di dimostrarsi collaborativo, lo stesso non si può dire della sorellina minore, che crescendo pare sempre meno entusiasta di guardare in camera e recitare il copione prestabilito…

Il romanzo (tradotto per Einaudi da Margherita Botto) si muove su diversi piani temporali e punti di vista, invitandoci a esplorare i trascorsi e il presente delle protagoniste (Mélanie e Clara, la puntigliosa investigatrice/archivista assegnata al caso). A inframezzare la narrazione troviamo capitoli che riproducono i verbali della polizia parigina: le trascrizioni delle deposizioni raccolte o la meticolosa mappatura di quel che si vede sul canale YouTube della famiglia e sui social di Mélanie. Insomma, Tutto per i bambini è un ibrido tra il giallo e lo scavo virtual-sociologico, dagli albori televisivi dei reality a un futuro in cui De Vigan tenta di immaginare quali potranno essere le ripercussioni di questa sovraesposizione strutturale, mediata dalle piattaforme social ma comunque profondamente invasiva (per quanto non scevra di benefici materiali che si fanno man mano sempre più paradossali).

Al di là dell’indagine per ritrovare Kimmy (che qua funge da pretesto per esplorare un tema ramificato, riuscendo comunque a risultare avvincente), De Vigan costruisce una riflessione pungente e assai sensata sulle potenziali conseguenze a lungo termine della spettacolarizzazione fai-da-te del tran tran domestico. Il confine labile è quello tra strumentalizzazione e buone intenzioni, tra ricerca del benessere e sfruttamento spintissimo della privacy, tra spontanietà e canovacci commerciali, tra etica e intrattenimento. È una storia che indaga la nostra identità di consumatori (sia di merci che di contenuti) e ci ritrae nel ruolo di spettatori famelici e giudici implacabili, di “cittadini” di contesti virtuali che stanno modificando sia il nostro modo di guardare che di presentarci al resto del mondo.

 

Libri che mi hanno rovinato la vita è uscito questa settimana e, su Twitter, è partito un piccolo esperimento collettivo di raccolta dei libri che hanno in qualche modo rovinato anche le nostre, di vite. Così a occhio, son venuti fuori molti libri che classificheremmo come “tristi”. Anch’io, d’istinto, ho risposto con dei libri zavorrati da una potente mestizia di fondo o con dei romanzi che vanno a finire male. Che ne so, Quel che resta del giorno, Non lasciarmi, La strada, Il transito di Venere. Qua e là è spuntata spesso anche Hanya Yanagihara, nostra signora imperitura del trauma e del campare male.
Leggendo effettivamente quel che scrive Daria Bignardi, però, mi è sembrato di tornare alle superiori, alle tracce dei compiti in classe di italiano che sono riuscita ad assecondare solo parzialmente. Poi non è detto che uscissero dei brutti temi, ma di sicuro non erano dei temi granché centrati. In quelle circostanze lì me la cavavo anche bene, perché la prendevo talmente larga e buttavo talmente tanta roba nel calderone che alla fine davo comunque l’impressione di aver capito qualcosa – di preciso non si sa cosa, ma almeno facevo volume.

Ecco, Bignardi rompe (non senza allegria) il solido nesso causale, forse inconscio e sicuramente assai condivisibile, tra libro triste e libro che t’azzoppa o ti segna eternamente. Ci fa l’immensa cortesia di complicare le cose, di esplorare l’intersezione che si crea tra chi siamo in un determinato momento nel tempo e cosa leggiamo in quel momento nel tempo. Ci ricorda che molto spesso sono gli incontri accidentali – con un libro pescato per caso e senza programmaticità dallo scaffale di una sorella, ad esempio – a contenere un vasto potenziale rivelatorio. Ci sono romanzi che diventano destino, che scatenano quel riconoscimento che non sta solo nello scovare un personaggio a cui più o meno stanno capitando le nostre stesse brutture o gioie. Riconoscersi aiuta a partecipare? Penso di sì, ma anche quello dipende da chi siamo quando leggiamo. A rovinarci la vita può essere anche un romanzo che ci mostra un’allegria che sentiamo di non poter sprigionare o un personaggio che riesce a fare tutto quello che a noi costa una fatica strutturale. Ci rovinano la vita sia i legami spezzati che i cerchi che si chiudono fin troppo bene, la gente interessante e misteriosa che ci ricorda la nostra scarsa originalità, chi parte in smaccato vantaggio o chi ci fa venire il nervoso perché gliene capitano troppe. Quel che ci fa male non ci fa male in uno spazio vuoto, atterra col suo bagaglio di potenziali conseguenze in un territorio che possiede già un suo paesaggio di baratri terrificanti, radure idilliache e torrentelli vivaci. E come cambiano i paesaggi, nel corso del tempo cambiamo anche noi. Libri che mi hanno rovinato la vita, rende giustizia a questo processo di erosione e rinnovamento, collocando quel che leggiamo nel nostro tempo. È un po’ come sfogliare un album di ricordi, riconoscendo chi eravamo alla luce di quel che sappiamo oggi, facendoci aiutare dai libri che per una ragione o per l’altra sono stati rilevanti – e spesso motore di ripensamento, ombra e ferite.

Non so che rapporto abbiate voi con le vostre versioni passate. Io sono poco indulgente. Mi perdono poco e non mi osservo con grande tenerezza. Potrei cambiare idea, mappandomi coi miei libri importanti? Potrei scoprire che in fondo non ero così male? Intravedere progressi? Quel che ho trovato di bello in quest’esplorazione letteraria e interiore è anche l’allontanamento dalla pretesa che la lettura debba per forza insegnare qualcosa di utile e spendibile, o impartire una lezione che possa migliorarci. Bignardi ricorda chi è stata e dove è approdata principalmente attraverso tre grandi “demoni” letterari – Djuna Barnes, Sologub e Nietzsche -, concedendosi il lusso del mutamento, dalla contemplazione di uno scoglio superato. Mi pare gentile con le sue versioni passate… e non perché il tempo abbia cancellato i dolori, ma perché col tempo è possibile imparare ad addomesticarli, a vederceli addosso con franchezza, ironia e indulgenza. Che grande regalo sono i libri che ci rivelano accidentalmente qualcosa di noi, ma che regalo ancora più grande è la possibilità di girare pagina, cambiare forma, cambiare idea.

 

Che c’è di vero nei ricordi di famiglia?
Forse niente – ed è un niente molto più tentacolare di quello che accompagna i ricordi “normali”. Quel che c’è di vero sono le tracce che ci rimangono addosso e le spiegazioni che proviamo a darci, ma è una verità che associamo a un sentire sanguigno e non è raro che differisca di parecchio dalla cronaca imparziale e scientifica dei fatti.
Che possiamo saperne degli altri, poi?
Registriamo l’urto che generano su di noi, ma mai capiremo sul serio il perché profondo di quelle collisioni: si cresce compensando con l’invenzione i misteri imperscrutabili di casa propria e si cresce scegliendo cosa omettere o cosa infiorettare per cavarsela. Si cresce inventandosi una vita d’uscita e barando con tutta la gaiezza che possiamo chiamare a raccolta.

Vi ho quasi certamente attaccato una pippa superflua, però. Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), non è uno di quei cronaconi formativi dolenti, ma somiglia di più a un’allegrissima operazione di esorcismo del gettonatissimo POVERA ME GUARDA CHE MI È TOCCATO.
Una madre capace di localizzarti a casa di chiunque – esteri compresi – in un’epoca priva di cellulari. Un padre che tira su tramezzi in casa trasformando un appartamento di 60 metri quadri in una sorta di alveare labirintico. Vestaglie, emicranie e Radio3. Vacanze che vanno a rotoli. Diffidenze ginecologiche strutturali e fidanzati che non ti vogliono mai al momento giusto – e poi trovano pure Gesù. Cofani fracassati. Ragazzine mummificate nello Scottex per non farle sudare. Zie pugliesi che ti infamano perché sei l’unica senza tette. Randagismo e case altrui. Lettere piene di frottole e scarponi in spiaggia perché ci sono i vetri. Rompersi le palle – anche grazie ai libri -, fratelli prodigio, clamorose truffe artistiche, bidelli coglioni, maniaci con l’impermeabile e nonne che parlano con la televisione.
La mitologia domestica di Veronica Raimo è una collezione di pessimi esempi, un esperimento di fuga continua, di adattamento tragicomico, di costruzione storta ma efficiente di un orizzonte sgombro dalle menate che ci buttano addosso. Anzi, è una rivendicazione surreale e molto divertente del diritto di fabbricarci le nostre personalissime menate, perché almeno in quello sarebbe bello poter fare di testa propria.

Perché scriviamo? Non posso rispondere per Raimo, ma forse lo facciamo per inventarci un posto più abitabile, per vendicare una versione più antica di noi, per dimostrarci di aver scansato l’ennesimo sabotaggio, per sincerarci di aver scendo, per non concedere a un male di svanire col tempo o per vincere ridendoci su. Scriviamo sulle ingessature che ci toccano in sorte mentre aspettiamo che le nostre ossa tornino a saldarsi. Ne usciamo più storte e di certo diverse da un ipotetico “prima”, ma quel che conta è come decidiamo di ricomporci. Che sia osso o memoria poco conta: restano comunque pezzi strutturali di noi.

Con Mendelsohn non sono andata granché in ordine cronologico – ho cominciato dal più recente Tre anelli -, ma credo mi perdonerà. Nemmeno Omero era un grande fan delle narrazioni lineari, se ben vogliamo mettere a frutto tanto del contenuto assimilato con questa parabola autobiografico-letteraria che esamina un testo fondativo della tradizione occidentale per risalire al nucleo essenziale delle nostre relazioni.

Da dove si parte, con Un’Odissea – anche questo uscito per Einaudi nella traduzione di Noman Gobetti?
Si comincia con un classicista che ospita il padre ottantenne – un signore all’apparenza schivo e riservato, anche in famiglia – al suo seminario universitario sull’Odissea. Lezione dopo lezione, per un semestre intero Mendelsohn-figlio racconta Omero ai suoi studenti e, nell’approfondire le peripezie di Ulisse – accogliendo anche le numerose osservazioni del padre, più loquace ma non meno intransigente del previsto – si imbarca a sua volta in un viaggio di conoscenza, una rotta parallela che per la prima volta gli offre un punto di vista inesplorato su quel genitore così amante dell’esatto, delle soluzioni certe (da buon matematico) e dal “farcela” con le proprie forze. Mica tutti possono contare sull’aiuto e sulla sollecitudine di Atena, insomma. Anzi, farsi aiutare di continuo da una dèa è indegno un eroe vero. DANIEL MA CHE RAZZA DI EROE È ODISSEO!

Al termine del seminario – e sull’onda di questa riscoperta reciproca -, padre e figlio partono insieme per una crociera “a tema” nel Mediterraneo, seguendo un percorso che in teoria dovrebbe ripercorrere le tappe del lungo viaggio di Ulisse da Troia a Itaca. Sì, sembra molto trash, ma per una volta i legittimi sospetti iniziali si dimostreranno infondati. Navigazione e seminario si intrecciano a pluridecennali ricordi di famiglia e al grande enigma di cosa davvero sia stata la vita interiore di Mendelsohn-padre, sia come genitore che come individuo “indipendente”.
Conosciamo mai davvero i nostri genitori? O quel che ci è dato sapere è solo l’impronta che su di noi lascia la porzione di cammino che hanno trascorso con noi? La memoria che raccogliamo strada facendo – quello che vediamo “da figli” – è tutto quello che c’è da sapere? Com’erano prima di noi? Cosa sono diventati grazie o malgrado noi?
Ulisse, gran mentitore e maestro di stratagemmi e travestimenti, è forse il personaggio perfetto per esplorare i flutti dolci e mutevoli del ricordi – la sua, in effetti, è una storia di ricongiungimento e dei sacrifici che si fanno per essere finalmente riconosciuti.

Ogni famiglia ha la sua mitologia ma, come per tutte le storie che diventano patrimonio comune, è legittimo domandarsi da quale radice provengano. Il fascino di una storia – che parli di antiche navigazioni o della gioventù dei nostri genitori – sta anche nell’effetto che ci fa, nel constatare come le chiavi di lettura che troviamo parlino di noi e del nostro modo di intendere il mondo. Una delle domande definitive, per Mendelsohn, quella a cui si approda dopo un lungo navigare, è cosa ne sarà di quel mondo una volta scomparso il padre. Nell’anno emblematico che ricostruisce in questo libro si riannodano i tanti fili rimasti sciolti e misteriosi, si conclude la parabola di un eroe cocciuto e comincia quella di un figlio che, seppur adulto, si dovrà confortare con un’assenza mai esperita, unica nel suo genere.

È un libro per chi ha voglia di intripparsi con l’Odissea, certo, ma è anche un esperimento che ne riprende la struttura condensandone i temi “relazionali”, quelli che superano lo scorrere del tempo e possono parlarci in ogni epoca. Dovere e fortuna, ambizione e avversità, fedeltà e tradimento, padri e figli, slanci e paura, vittorie e sconfitte. Da sempre, ci raccontiamo storie per spiegarci chi siamo. E, quando arriviamo a una conclusione potenzialmente soddisfacente, scopriamo che il viaggio ci ha cambiati… per capire come, non ci resta che partire per una nuova avventura. A Itaca si arriva mai? Forse no.

 

Dunque, c’è una tecnica narrativa che nella sua rassicurante tondeggianza ci assiste sin dai tempi dell’Odissea: il racconto “ad anello”. Una vicenda si apre e, prima o poi, il cerchio si chiude, presentandoci una storia nella sua totalità senza tralasciare antefatti, peripezie mediane e conseguenze.
Quello che troviamo all’interno dell’anello è tutto ciò esiste? Dipende. Gli anelli sono estremamente funzionali, ma spesso lasciano margini per immaginare un mondo più vasto, senza pretendere di illuminarne la totalità. Il quanto “ci sia” nell’anello è anche una scelta di posizionamento filosofico, un modo di intendere la realtà che poco lascia al caso e molto all’arte di dosare il mistero. Quel che è certo, però, è che gli anelli ci concedono uno scheletro strutturale che può sorreggere ogni genere di racconto, dal ritorno a Itaca alle forme più recenti di esilio.

Con Tre anelli – tradotto da Norman Gobetti per Einaudi -, Daniel Mendelsohn torna nell’orbita di Omero per intrecciare ai propri studi le parabole biografiche di tre illustri personalità letterarie: Auerbach, Sebald e François Fénelon – che cadde in disgrazia per aver scritto Le avventure di Telemaco, malissimo accolto dal Re Sole. Tutti e tre hanno in comune uno sradicamento involontario da luoghi d’origine, un movimento che li porta alla deriva ma riesce anche ad ampliare l’orizzonte della conoscenza e le possibilità di intravedere un grande disegno complessivo – forse utopico – capace di accomunare culture e sensibilità storiche diverse.
Servono particolari infarinature di partenza su Auerbach, Sebald e Fénelon? No. È uno di quei libri che non costruisce altari facendoci pesare quel che non sappiamo, ma nasce come opportunità di incontro e scoperta.

Da Proust a un modellino fin troppo meticoloso del Partenone, dagli studi classici a una Istanbul che diventa asilo, epoca dopo epoca, per eruditi in fuga, Mendelsohn forgia con sapiente curiosità tre anelli ambiziosi e leggibilissimi. Il risultato finale è un’avventura storico-autobiografica che trasforma una riflessione sulla struttura “base” del nostro modo di raccontare in un viaggio letterario senza tempo.
Il destino sa quel che fa? Sicuramente sì, se riusciamo a identificare gli indizi giusti e se abbiamo la pazienza di prenderla abbastanza larga… in attesa che il cerchio ci riporti al principio, con tutta la fatale meraviglia accumulata lungo il cammino. E magari anche un po’ di saggezza in più.

Quanto mi sono arrabbiata per Oliva. Quanto mi sarebbe piaciuto materializzarmi a casa sua con una macchina del tempo. Ma mi è anche venuto da pensare che l’epoca che avrei potuto offrirle era sì relativamente migliore rispetto alla sua, ma di certo non ancora perfetta. Vero, si progredisce per gradini incrementali – e il nostro oggi, per Oliva, sarebbe stato fonte di stupore e di fantascientifica meraviglia -, ma quanta sofferenza è passata sotto traccia? Quanti destini deformati senza rimedio sono stati dimenticati? Quante vittime delle “circostanze” sono rimaste silenziosamente sepolte? Quante possibilità negate e compromessi ignobili?

Come parecchie lettrici e lettori, ho fatto amicizia con Viola Ardone grazie al Treno dei bambini e sono stata felice – al netto del legittimo furore suscitatomi dal popolo di Martorana – di ritrovarla qui.
Oliva Denaro è un romanzo che personifica un problema antico
. Ardone lo fa aprendoci le porte di una casa povera e onesta, una casa con un campicello e qualche gallina. Si raccolgono lumache da vendere al mercato, si ricamano corredi, si va a scuola ma senza esagerare – soprattutto le femmine. Le femmine con delle idee finiscono zitelle… e poi chi le mantiene? Siamo in Sicilia, sono gli anni Sessanta, il paese è così piccolo da occupare tutto l’orizzonte del possibile. Sembra un paradosso, ma ci sta. I mondi chiusi fanno quell’effetto: le regole sono queste, non si scappa perché si sa così poco di quel che c’è “fuori” che non si saprebbe dove andare, come comportarsi, dove mettere i piedi. È un posto che impedisce di concepire un’alternativa e, di madre in figlia, ci si tramanda una subordinazione strutturale. Padrone di quattro mattonelle di casa, dominatrici indiscusse delle proprie cucine (se va bene), officianti di rosari velenosi, le donne di Martorana si vessano a vicenda perché sono abituate a farsi carico anche delle colpe non loro.
Ci sono delle regole.
C’è un prezzo da pagare per la pace della famiglia, per la rispettabilità.
Dal padre di una svergognata non si vanno a comprare le lumache. E dire “no” quando non navighi nell’oro è da ingrate e da presuntuose. Modeste e prudenti, silenziose e al di sopra di ogni sospetto.
Se c’è chi si prende certe libertà è perché sei stata troppo disinvolta.
Se c’è chi si approfitta di te non c’è da sorprendersene: l’uomo è cacciatore, ha delle esigenze. Sta a te non provocare, sta a te preservare l’unico bene prezioso che hai.
Nessuno si prende una brocca rotta… tranne chi l’ha rotta, forse. E in quel caso bisogna pure ringraziare.

Oliva cresce in un mondo in cui il matrimonio riparatore è un istituto legislativo ammissibilissimo, un artificio asimmetrico che permette a tutti di salvare la faccia e alle ragazze “rovinate” di raggiungere l’unico scopo plausibile per una giovane: passare dalla casa governata dal padre alla casa governata da un marito. Come si fa ad avere sedici anni in un contesto simile? Si cresce nello spazio di una notte, senza averlo chiesto.
Ardone ci trasporta con immediatezza nell’universo interiore di Oliva. È una voce che ruzzola con candore dall’infanzia a un’adolescenza costellata di trappole potenzialmente irreparabili. Con uno sguardo semplice e testardo, questo romanzo è una sorta di risarcimento per le molte Oliva che ci hanno precedute, innumerevoli donne triturate o cancellate da una cultura sfavorevole che è stata la nostra e che, per certi versi, non ha cessato di esserlo. È un libro di un’immediatezza cristallina, privo di retorica – per quanto a tratti comprensibilmente didascalico -, toccante e combattivo. Non ci sono intenti consolatori, perché per tante è troppo tardi e tante non hanno nemmeno avuto gli strumenti per percepire un’ingiustizia di fondo. C’è la volontà, però, di dare un senso al male subito, di mostrarci uno spiraglio di sacrosanta rivalsa: una che ha avuto la forza di tentare… anzi, di sopportare le conseguenze di una scelta controcorrente. Un altro romanzo in cui il grigio dell’umano, delle cattive intenzioni portate a compimento e delle belle speranze disattese si fanno narrazione, perché i modelli che ci tramandiamo non contribuiscano a restringere gli orizzonti ma ci avvicinino costantemente a un futuro che potremo valutare come “migliore” di quello di Oliva… e anche del nostro.

 

Dunque, Veronica e il diavolo – in libreria per Einaudi – si avvale dell’antico ma sempre fascinoso espediente del manoscritto ritrovato… ma in questo caso il manoscritto è reale e arriva dall’Archivio Generale della Compagnia di Gesù a Roma. Che cos’è? È una sorta di “dossier” eterogeneo che ricostruisce l’esorcismo di una giovane donna attraverso le annotazioni quotidiane dei padri chiamati a liberarla dal maligno. Nello scartafaccio si imbatte quasi per caso – o per destino? – Fernanda Alfieri che, da storica dotata di penna suggestiva e grande visione narrativa, decide di indagare più a fondo e di cercare di restituire voce, contesto e dignità almeno fattuale a Veronica Hamerani, l’ossessa di via di Sant’Anna. Ogni capitolo si apre con un brano del “dossier” degli esorcisti e, da lì, Alfieri si imbarca in uno sconfinato lavoro di verifica dei fatti, ricostruzione dei precedenti, identificazione dei protagonisti e inquadramento degli eventi in un più ampio contesto culturale e storico.

Il risultato è un’opera ibrida, splendidamente ricca, eclettica e umanissima. Dalle peripezie biografiche dei gesuiti a cui toccò l’ingrato compito di fronteggiare il demonio in una casa romana si passa alla storia “globale” del loro ordine, dal mestiere degli Hamerani – incisori di monete e icone – si arriva a inquadrare la salute dell’istituzione papale nel 1835, dalla teoria della bile nera si approda allo stato della medicina del tempo – e a come anche lì ci venisse attribuita una strutturale inferiorità uterina da amministrare e blandire. Dalla politica alla fisiologia, dalla religione alla superstizione, Veronica diventa una sorta di campo di battaglia metaforico, il centro di gravità di un’intera concezione del mondo.

Non immaginatevi un esorcismo da “cinema”. Il diavolo di Veronica si avvale di pochi effetti speciali e di ottimi moccoli in romanesco. È burino e canzonatore, il grillo – libero – per la testa di una ragazza cresciuta in un contesto di luttuoso declino e miracoli caserecci, un limbo in cui la fede sconfina nella superstizione o nella ritualità pervasiva assimilata come automatismo.
Veronica non ha voce in capitolo, ma forse è il suo diavolo a parlare per lei, mentre una pletora di uomini (variamente castigati nella carne e votati alla castità) si avvicenda nella sua stanza per ridimensionare i suoi eccessi e ricondurla nel solco del concepibile, dell’appropriato e del controllabile, per decidere se è matta, impostora o pia martire perseguitata, per ristabilire il dominio della chiesa sulle sue greggi.
Veronica è muta, è la protagonista più tangenziale di sempre… e Alfieri – che con i comprimari che circondano Veronica edifica legittimamente un impianto storico magnifico – lo riconosce e lo evidenzia. Alfieri ci restituisce Veronica rispettandone la marginalità, perché è una marginalità emblematica, che comunica cosa doveva voler dire essere una Veonica nel 1835 molto meglio di come un qualsiasi demonio di passaggio – magari anche uno colto quanto Padre Manera – avrebbe mai potuto fare. Perché il problema, al tempo e forse anche un po’ adesso, è trovare qualcuno che ascolti…

 

Non mi sforzerò nemmeno lontanamente di compilare una classifica, che già è stato arduo arrivare a queste sintetiche conclusioni. Quella dei libri preferiti dell’anno è senza dubbio la lista più difficile da assemblare e mi getta puntualmente in un gorgo di dubbio, tentennamenti e FOMO retroattiva. Non si può nemmeno sfuggire a una certa ridondanza, perché se nell’arco degli ultimi dodici mesi ho apprezzato un libro è raro che non l’abbia già dichiarato qua e là, chiacchierandone su Instagram o scrivendone qua sul blog. Insomma, al netto di tutte queste menate, dedichiamoci a quest’impresa di sintesi che risponde alle seguenti coordinate:

  • i libri che mi sento di segnalare fra i preferiti dell’anno X non sono necessariamente usciti nell’anno X, anzi. La mia scarsa reattività al nuovo è tendenzialmente assai spiccata, quindi c’è un po’ di tutto – anche se nel 2021 sono caduta dal pero un po’ meno del solito, mi pare.
  • i criteri son più “sentimentali” e istintivi che rigorosi e bilanciati. Insomma, per una volta mi concedo il lusso di non pensare a equilibri ferrei tra fumetto, narrativa, saggistica, editori e cento altre interpolazioni possibili.
  • nel caso ci siano luoghi dove ho elaborato un po’ meglio le mie impressioni non esiterò a indirizzarvici per approfondire.
  • no, Crossroads di Franzen non l’ho ancora finito. Abbiate pietà per i ritmi altrui.

Benone, ribadendo l’onnipresente problema della fallibilità umana, ecco qua il mio miglior 2021 libresco.

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Bernardine Evaristo
Ragazza, donna, altro
(Sur)
Traduzione di Martina Testa

Un esperimento narrativo corale che sintetizza senza retorica o condiscendenza tanto del dibattito (finalmente) attuale su rappresentazione, genere, identità e privilegio. Un libro prezioso per innovazione strutturale, piglio bellicoso e per rifocalizzazione del punto di vista.

Ecco qua dove ne avevo parlato in origine.

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Elizabeth Strout
Olive, ancora lei
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Il ritorno di Olive Kitteridge, la bisbetica più amata del Maine, ha rinnovato la mia ammirazione per Elizabeth Strout, che si conferma splendida ritrattista delle minuzie del tran tran quotidiano e delle testarde meschinità con cui tendiamo a complicarci la vita. È anche un libro che indaga gli effetti del trascorrere del tempo e il coraggio necessario per concederci una seconda possibilità, per quanto tardiva e monca ci possa sembrare.

Serve un approfondimento? Accomodatevi qua.

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Teresa Ciabatti
Sembrava bellezza
(Mondadori)

Cianciamo tanto della necessità di dipingerci “forti” e poco inclini a compromessi, ci dichiariamo pronte ad accogliere ogni genere di sensibilità – inclusi i personaggi femminili capaci di concedersi l’indubbio lusso di una spigolosità palese e impenitente – e applaudiamo senza remore i più vari elogi dell’imperfezione, ma quanto ci crediamo davvero? Quanto li digeriamo senza subirne con stizza l’urto inevitabile? Forse Teresa Ciabatti non è facile da leggere. Anzi, non è piacevole da leggere. Nella voce narrante che sceglie per Sembrava bellezza non c’è nulla di comodo, edulcorato o strutturato per rassicurarci. Ecco, reduce da un biennio in cui il mondo sembra essersi accorto (con comodo) che anche il pensiero positivo perenne e onnipresente può risultare tossico e colpevolizzante, ho trovato questo romanzo particolarmente liberatorio. Ma non tanto per il gusto di seguire le peregrinazioni di una ragazza “cattiva” che mai metabolizza fino in fondo delle ombre dell’adolescenza, credo sia più una questione di zone grigie. Non c’è desiderio di rivalsa senza insoddisfazione e non c’è narratrice inaffidabilissima che non sia anche profondamente consapevole delle proprie storture e delle proprie mancanze. Non c’è ambizione all’ascesa – sia estetica che di “status” – che non parta da un’intima conoscenza di una distribuzione disomogenea delle fortune. Credo sia anche per questo che ho amato questo libro: è probabile che i personaggi imperfetti la sappiano più lunga di noi perché conoscono sia i loro deficit che quel che occorrerebbe per raggiungere la felicità e l’appagamento. Vivono all’interno di quella distanza impossibile da colmare e ci abitano concedendosi il loro unico guizzo sincero: un’insoddisfazione sacrosanta, velenosa, più vera di ogni tentativo di dipingersi meglio di quel che sono e, nel non sapersi vendicare in prima persona, vendicano noi.

Per una cronaca un po’ più lineare di questo libro, qua si può riguardare la diretta con la sottoscritta, Daniela Collu e – in coda – Teresa Ciabatti, che appare come un cigno-fantasma.

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Kazuo Ishiguro
Klara e il sole
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Ishiguro è stato uno dei graditi e attesi ritorni – non pochi, devo dire – del 2021. Anche a questo giro il tema al cuore del romanzo è il seguente: che cosa ci rende umani? Per ipotizzare una risposta, Ishiguro si fa aiutare da una schiera di simulacri – molto realistici e credibili, ma pur sempre artificiali – che popolano un mondo rarefatto e socialmente atomizzato. Si piange pure con gli androidi? Già.

Il post provvisto di tutti gli optional e degli upgrade più moderni si può leggere qua.

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Giulia Caminito
L’acqua del lago non è mai dolce
(Bompiani)

Ho tifato tanto allo Strega – non è servito -, ma Giulia Caminito ha avuto la sua rivincita al Campiello e ne sono stata immensamente felice, di certo per il valore del romanzo ma anche per la soddisfazione di veder riconosciuto, per una volta, il talento di un’autrice limitrofa alla mia condizione anagrafica e che di sconfitte generazionali ha parlato senza piagnistei e deferenza verso l’ordine costituito. Gaia, la protagonista, è una piccola gorgone di lago e anche la lingua che Caminito sceglie per guidarci nella sua lotta quotidiana sconfina quasi nell’incisività e nel piglio del mito. Si parte da una famiglia disastrata, tenuta insieme solo dalla forza di volontà e dall’impermeabilità all’umiliazione dell’ingombrantissima madre, Antonia. Si procede per tappe, verso un riscatto imposto che passa per lo studio e le violentissime reazioni all’accumulo di ingiustizie di quegli anni che ci vengono spesso venduti come i più verdi e belli, ma sono verdi e belli quanto il fondo limaccioso e buio del lago di Bracciano, cornice di questa storia. Non ci si lamenta, non ci si rassegna, non si mostra il fianco. Ma dopo tutta questa fatica, tutta questa brace incandescente che coviamo e che man mano diventa sempre più fredda e rassegnata, dov’è tutto quello che ci è stato promesso? È forse mai esistito?

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Leigh Bardugo
La trilogia di Shadow and Bone 

La serie di Netflix, almeno nel mio caso, ha prodotto quell’auspicabile esternalità positiva che prevede la trasformazione dello spettatore televisivo in lettore del materiale di partenza. Di solito preferisco arrivare “preparata” alla visione di una serie, ma in casi più rari può anche capitare che ci si trasformi in salmoni che compiono all’inverso il naturale percorso di avvicinamento. I tre romanzi di Tenebre e ossa mi hanno egregiamente tenuto compagnia, generando anche quell’effetto “devo vedere subito come va a finire” che non si manifestava da un po’. Per quanto trovi Alina irritantissima e per quanto io sia perfettamente in grado di scorgere più di un difetto nell’impianto generale e nella “resa” di questi libri, non è stato affatto impervio sedermi là a godermeli lo stesso. Innumerevoli sono stati gli incoraggiamenti a proseguire con Sei di corvi – se non proprio i “lascia perdere i primi tre, puoi leggere direttamente la duologia che è molto meglio”, ma m’è sembrato più opportuno farmi un’idea meno raffazzonata del mondo e dunque eccoci qua con un timbro nuovo di pacca sul passaporto del Grishaverse. Grazie per aver fornito il necessario intrattenimento, Leigh Bardugo. E un saluto anche a te, Ben Barnes.

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Emmanuel Carrère
Yoga
(Adelphi)

Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala

Che anno denso di attesi ritorni (non deludenti) e di narratori splendidamente inaffidabili, è il caso di dirlo. Carrère continua a menarci per il naso? È possibile, ma a questa ipotetica grande mistificazione – che forse poi è la mistificazione strutturale che passa per la soggettività del ricordo e di quello che ci raccontiamo per sopportare quello che succede, forse – continuo a cedere volentieri.

Per impressioni un po’ meno nebulose, il post era qui.

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A cura di Sheila Williams
Relazioni – Amanti, amici e famiglie del futuro
(451)

Dodici racconti – raccolti da Sheila Williams per l’annuale impresa antologica della longeva serie tematica Twelve Tomorrows del MIT – per ipotizzare altrettante nuove strutture dello “stare insieme” in un contesto più o meno dominato dalla tecnologia. Coppia, figli, dating, eredità e memoria… cosa ci riserverà il futuro nel vasto calderone del legame sentimentale, dell’ordine sociale e della relazione umana? Grandi nomi della speculative fiction e della fantascienza cercano di immaginare una risposta – e no, non è detto che sia catastrofica.

Per approfondire, ecco qua.

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Anna Maria Ortese
Il mare non bagna Napoli
(Adelphi)

Qua c’è un racconto che chissà in quale maniera sconclusionata avevamo letto a scuola. È il racconto della bambina che non ci vede e finalmente riceve un paio d’occhiali, per poi scoprire che tutto sommato stava meglio prima, in una realtà ovattata e nebulosa che le risparmiava l’orrore di una messa a fuoco precisa dell’esistente. E quel che esiste attorno a lei è Napoli, una vertigine urbana che sobbolle e digerisce a ciclo continuo ogni possibile configurazione dell’umano. Non rammento una lezione su Anna Maria Ortese, a scuola, ma il racconto della bambina mezza orba sì. Gli altri quattro movimenti di questa sinfonia dissonante e magnifica sono un tardivo recupero e, credo, anche una prova di coraggio – non tanto per me che leggo, ma più per Ortese che scrive senza pentimenti. Il tempo per pentirsi e limare sarebbe poi arrivato, ma quel che resta è una capacità magnetica di creare una distanza, il distacco necessario ad esercitare la libertà dello sguardo, a inforcare quegli stramaledetti occhiali per esercitare una soggettività unica, inclemente, poetica, mostruosa e viva.

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Madeline Miller
Circe
(Marsilio)

Traduzione di Marinella Magrì

No, non so ancora dirvi nulla sulla Canzone di Achille. Dopo aver così apprezzato Circe, però, sono certa che lo affronterò presto e con una certa fiducia. Figlia del Sole e della ninfa Perseide, Circe cresce fra i Titani imparando a schivare le folgori delle nuove divinità olimpiche. Da sempre poco malleabile e incomparabilmente meno luminosa dei suoi fratelli, compatisce Prometeo e crea mostri, cercando un luogo dove potersi sentire davvero a casa. Paradossalmente, la vita di Circe sembra germogliare davvero da quella che per dei e mortali potrebbe somigliare alla peggiore delle condanne: l’esilio eterno sull’isola di Eea. Tra animali e piante, Circe asseconda la magia e diventa il cuore pulsante di un universo di prodigi, incontri, lotte secolari e sorti illustri. Una rivisitazione godibilissima e colta che espande il mito e trasforma in protagonista indimenticabile una figura in cui siamo abituati a imbatterci quasi di sfuggita: la comparsa infida ed egoista nella grande epopea dell’astuto e nobile Odisseo assume qui rotondità, mente, cuore e potere. Non solo equipaggi trasformati in maiali, insomma, ma una maga che pur andando ben poco a spasso contiene moltitudini. Viva Circe. E occhio a Scilla.

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Paolo Cognetti
La felicità del lupo
(Einaudi)

Allora, io a Fontana Fredda non ci vivrei in pianta stabile, ma mi fa piacere soggiornarci per qualche tempo per andare a trovare i personaggi di Cognetti. Forse no, non ho ancora finito la mia decrescita cittadina e non sono ancora pronta a confrontarmi con l’immensità glaciale delle vette montane, ma anche questa volta il sortilegio d’alta quota si è ripetuto. È un romanzo che rallenta il ritmo del quotidiano e lascia intravedere un’alternativa che ha poco della negazione e del rifiuto e molto della ricostruzione ragionata. Pur restando dove sono, è un libro che mi ha fatto bene.

Per qualche impressione un po’ più articolata, vi indirizzo volentieri qui.

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Concluderei con un ringraziamento un po’ ridicolo. Vorrei ringraziare i libri che sono riuscita a leggere quest’anno – pure quelli brutti o deludenti – per avermi accompagnata per un pezzo di strada. Neanche il 2021 è stato un anno semplice o particolarmente ricco di speranze provenienti dal mondo esterno e poter costruire, leggendo, un rifugio o un’oasi di sano svago ha rappresentato per me un buon punto fermo. Pochi o tanti che siano, i libri che ho letto o ascoltato – e qua nei preferiti ce ne sono diversi che ho ascoltato, da Circe a Il mare non bagna Napoli, ma anche Giulia Caminito – sono stati un puntello e un posto diverso dove far lavorare il cervello. Pochi o tanti che siano, è andata bene così.

Ulteriori rotte per la navigazione:
– siete in ritardo coi regali ma volete fare dei regali “letterari”? Vi lascio un memo per Storytel. Ci sono un casino di gift card e qua c’è sempre il mese gratis che vi donano perché siamo amici.
– a parte Instagram, anche qua nella vetrina Amazon cerco sempre di tenere traccia di quello che leggo man mano.
la lista di Natale “generale”.
la lista di Natale per i piccoli e le piccole.

[Sì, come copertina del post ho scelto un evocativo fotogramma del camino di Netflix, pietra miliare delle feste nella nostra abitazione.]

Poche tradizioni si confermano salde – almeno da queste parti – come il listone dei libri da donare e/o farvi donare a Natale.
Il consiglio metodologico è sempre lo stesso: basiamoci un po’ meno sul mero dato demografico – AKA “cosa regalo a mia figlia che ha 24 anni?” – e cerchiamo di riflettere meglio su interessi spiccati, passioni manifeste e ambizioni esplorative dei destinatari e delle destinatarie. Un dono funziona se asseconda il cuore di chi lo riceve, credo, e la vivace produzione editoriale limitrofa al Natale – la vasta schiera delle famigerate “strenne” – è qua per assisterci con gran lena.

In vista delle feste faccio del mio meglio per assemblare lenzuolate di consigli in grado di inserirsi in maniera chiara in un determinato tema o filone, privilegiando magari le edizioni un po’ più “importanti” del consueto. Troverete dunque libri di grande formato, argomenti disparatissimi e anche parecchi illustrati. L’auspicio generale è di far felice chi aprirà il pacchetto (anche se fate schifo a fare i pacchetti, tipo me) e anche di farvi fare bella figura.

Visto che i libri non scadono, per completezza vi incoraggio anche a consultare le edizioni precedenti delle guide natalizie. Trovate qua quella del 2020 e qua quella del 2019.

Procediamo? Procediamo, che nel mondo c’è scarsità di carta.

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Mateusz Urbanowicz
Botteghe di Tokyo
(L’ippocampo)

Arrivato in Giappone nel 2016 per lavorare come illustratore di sfondi per uno studio d’animazione di Tokyo, Urbanowicz ha esplorato in lungo e in largo la città armato di macchina fotografica, catturando tanti di quelli che sulle guide turistiche che piacciono alla gente che piace tendono ad essere classificati come “posticini caratteristici”. Ha iniziato a disegnare, con poetica meticolosità, le facciate delle botteghe che più l’avevano colpito, alimentando gradualmente una collezione che nel tempo si è espansa fino a riempire questo meraviglioso volume. Diviso per quartieri, Botteghe di Tokyo è sia un esercizio visivo di rara bellezza che una guida alle numerose attività commerciali, spesso minuscole, che sembrano rievocare un’altra epoca e riportarci a una dimensione di familiare accoglienza e antiche stratificazioni.

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Irene Cuzzaniti
La casa verde. Piante e composizioni per ogni stanza
24 Ore Cultura

Sono innegabilmente diventata una gattara delle piante. Balcone, salotto, camera da letto… non c’è ambiente che venga risparmiato dalla mia furia verdeggiante. In questo adorabile manuale illustrato – che va benone anche per chi è alle prime armi -, Irene Cuzzaniti ci fornisce le informazioni base per cominciare a fare amicizia con le piante e per scegliere quelle più adatte ai nostri spazi. Il volume è diviso per ambienti domestici e propone anche numerosi tutorial ben fotografati e spiegati per destreggiarvi tra diversi progetti ornamental-orticoli, dai centrotavola al terrario aperto per i cactus.

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Tracy Turner & Andrew Donkin
La storia del mondo in 25 città
(Nord Sud)

Dall’antica Menfi alla San Pietroburgo degli zar (in odore di sanguinosa deposizione), diecimila anni di storia globale condensati in 25 mappe “parlanti”, per esplorare le città diventate simbolo di una precisa epoca o di un balzo “evolutivo” potenzialmente rivoluzionario per il genere umano. Un volume visivamente splendido – curato dal British Museum – che soddisfa curiosità topografiche e sintetizza con puntualità gli aspetti più salienti di civiltà, popoli e snodi geopolitici irripetibili.

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Art Spiegelman
Maus
Cofanetto in 2 volumi

(Einaudi)

Stile Libero ospita già da lunghissimo tempo Maus nel suo ricco catalogo e, negli anni, sono usciti anche diversi materiali “extra”, che completano l’universo di Art Spiegelman aggiungendo tasselli sempre preziosi alla sua opera più emblematica. È uno di quei libri per cui vale la pena sprecare l’abusata definizione di “necessario” e, se l’idea è quella di tramandarci un’opera fondamentale e di passare il testimone della memoria a chi ancora non ha avuto occasione di leggerlo, una nuova edizione è rubricabile tra le buone notizie. Dall’immagine si intuisce poco, ma questo Maus è in due volumi – che rispettano la suddivisione originaria di Spiegelman – raccolti in un cofanetto che contiene anche un sedicesimo con disegni preparatori, un albero genealogico dell’autore (pre e post Seconda Guerra Mondiale) e due storie brevi, uscite in altri lidi ma propedeutiche a Maus.

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Daniela Collu
Perché no? Il libro delle domande… che con le risposte sono tutti bravi
(Mondadori)

Da millenni ci rimettiamo alla presunta sapienza di oracoli di ogni genere, uscendone irrimediabilmente più confuse e confusi di prima. Perché non cominciare, dunque, a porci domande migliori invece di cercare risposte fin troppo semplici? Daniela Collu quest’anno aveva voglia di divertirsi e, prendendo ispirazione dalle surreali sessioni di Q&A che popolano le sue Instagram Stories, ha deciso di ristrutturare il tradizionale Libro delle risposte – feticcio editoriale che popola da quando ne ho memoria l’area limitrofa alla cassa del 100% delle librerie di catena che m’è capitato di frequentare nella vita – ribaltandone l’assunto di base: io non ti rispondo, anzi… son qua per proporti altri abissali quesiti. Per farsi una risata e/o per disinnescare i dubbi – spesso cretinissimi – che ci attanagliano inutilmente.

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Wally Koval
Wes Anderson, quasi per caso
(il Saggiatore)

Pochi account Instagram riescono a pacificarmi come @accidentallywesanderson. Il fenomeno è ben presto spiegabile, perché le premesse che animano questo ormai articolatissimo progetto fotografico sono le stesse che generano quel pesante effetto ipnotico che ci coglie di fronte alle pellicole di Wes Anderson. Non è più un regista “e basta”, Wes Anderson si è tramutato in una specie di vasta e puntigliosissima esperienza estetica fatta di simmetrie, piani sequenza, prospettiva centrale, un certo gusto rétro e una precisa palette di colorini. Vedendo le sue ultime imprese cinematografiche mi viene da pensare che l’ambizione estetica stia superando quella narrativa e che Wes Anderson sia ormai diventato una macchina perfetta che replica all’infinito i suoi stessi stilemi, ma la riconoscibilità di quel che produce è immediata e affascinante – per quanto io rimpianga la famiglia Tenenbaum. Questo volumone è una collezione di scorci del mondo reale che sembrano usciti da un film di Wes Anderson – ogni “quadro” è accompagnato da precise coordinate geografiche e va a comporre una variegato e pazzissimo atlante che pare l’emanazione diretta, per quanto accidentale, di scenografie, location e scorci andersoniani.

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Ursula K. Le Guin
La mano sinistra del buio
(Mondadori)

Ursula K. Le Guin non ha avuto in Italia una storia editoriale che grida accessibilità e facile reperibilità. Io l’ho scoperta relativamente tardi, ordinando cose qua e là in lingua originale o ascoltando in inglese su Storytel – le lacune sono ancora molte, per quanto mi riguarda, ma sono felice di registrare un’accresciuta attenzione sia per l’autrice che per il fantastico/fantascientifico. The Left Hand of Darkness è uno dei suoi romanzi più celebri e ricompare ora nella nuova traduzione di Chiara Reali per la brigata di Oscar Vault: un’ottima occasione per far capolino in un universo sterminato e per sostenere una riscoperta che spero possa dimostrarsi ampia e battagliera.

[Visto che siamo in tema “libri che tornano disponibili dopo un passato un po’ singhiozzante”, Fazi ha inglobato Jonathan Strange & il signor Norrell di Susanna Clarke, ripubblicandolo in una bella edizione. Clarke è già approdata da loro con Piranesi.]

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Caterina Zanzi (& company)
Conosco un posto. Milano
(Magazzini Salani)

Madame Zanzi è per me un molteplice punto di riferimento. Sono una fervente frequentatrice del blog – che in questi anni si è sempre dimostrato una risorsa preziosa per orientarmi a Milano – e considero anche Caterina una specie di collega fidata. Insomma, è una di quelle persone che se fa bene una cosa, come nel caso di questa guida, mi infonde fierezza e mi suscita della sincera partecipazione. Il libro è un lavorone sia di Caterina che della redazione di Conoscounposto, una sintesi ragionata e ben organizzata dal punto di vista della consultazione – sia per zona che per “occasione” – degli indirizzi migliori dove mangiare, bere, svagarsi, fare compere e “vivere” a Milano. Abito ormai da un pezzo in questa città ma non ho ancora finito di esplorarla e tanti degli spunti più azzeccati – che hanno poi prodotto ricordi belli e momenti di gioia in compagnia – li devo a Caterina e ai suoi sodali. Insomma, che siate autoctone/autoctoni o neo-Milanesi, è un tomo utile che non mi farei scappare.

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COSE – Spiegate bene. A proposito di libri
(Il Post feat. Iperborea)

Da operatrice editoriale ormai quasi veterana, mi trovo spesso (soprattutto su Instagram) alle prese con un vasto e anche legittimo domandone: “il mio sogno è lavorare nel mondo dell’editoria. Da dove comincio? Come si fa?”. Non è un interrogativo banale, anzi. Il mondo dell’editoria viene spesso percepito come una sorta di bolla mitologica popolata da titani della cultura, nobilissimi propositi e stanze ricolme di imperdibili manoscritti. La realtà dei fatti è di certo meno poetica, ma non per questo manca di fascino. Il Post – facendosi di volta in volta aiutare da “collaboratori” d’eccezione – ha lanciato qualche mese fa una rivista a forma di libro, ospitata da Iperborea. Il primo numero – A proposito di libri – mi sta aiutando a rispondere alla domanda di partenza: fornisce un’infarinatura sintetica su come mediamente funzionano le case editrici e offre una panoramica generale su ruoli aziendali e struttura del settore, a metà tra racconto curioso e spiegone introduttivo.
Se il progetto vi interessa, è uscito anche il secondo numero: Questioni di un certo genere.

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Antoine Pecqueur
Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga: il nuovo soft power
(ADD Editore)

Che diamine è il “soft power”? Il concetto è stato coniato nel 1990 da Nye – politologo americano – per definire l’uso dell’arte e dei valori culturali come leva di potere a livello geopolitico. L’Atlante della cultura di Antoine Pecqueur, in trenta capitoli o casi di studio tematici, esplora i meccanismi relazionali, politici, comunicativi ed economici che compongono il grande ingranaggio dei nuovi rapporti di forza mondiali, evidenziando come la cultura – nelle sue molteplici espressioni – si sia affermata come uno dei pezzi più importanti della scacchiera, nonostante spesso rifugga le metriche numeriche “oggettive”.
Per approfondire ulteriormente, qua il post dedicato.

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Pokémon – L’enciclopedia
(Mondadori)

Qua siamo in realtà in possesso di un vasto catalogo editoriale a tema Pokémon, un po’ perché in questa casa abita un ex-bambino che ha vissuto l’epoca d’oro dei Pokémon e un po’ perché il bambino vero che abbiamo messo al mondo si sta godendo con grande trasporto il revival – già, sono usciti parecchi cartoni nuovi e l’universo dei Pokémon pare destinato a un’espansione infinita. Insomma, non di soli Pikachu, Charizard e Bulbasaur campano i giovani virgulti del presente e questa enciclopedia è un garrulo strumento per aggiornare le vostre antiche conoscenze o passare il testimone alle generazioni future.

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Brooke Vitale & Teo Skaffa
I Goonies. La storia illustrata
(Nord Sud)

Mi sono infilata nel tunnel del vintage coi Pokémon, tanto vale proseguire con un’altra pietra miliare della mia infanzia: i Goonies! Anche in questo caso l’applicazione è doppia: un ottimo dono per i fan di vecchia data che non si imbattono in un’emanazione “nuova” dei Goonies da un bel pezzo, ma anche piccoli lettori da coinvolgere in un’avventura senza tempo. Ma com’è fatto? È presto detto: è la trasposizione a fumetti del film. A Cesare – anni 5 – lo stiamo leggendo noi senza riscontrare difficoltà di comprensione. Se avete bambini o bambine che leggono per conto loro è assolutamente proponibile in autonomia.

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Beatrice Mautino
È naturale bellezza
(Mondadori)

Beatrice Mautino è una delle divulgatrici che seguo con più attenzione e gratitudine per l’opera meritoria di informazione e pacato ma inflessibile “debunking” che ogni giorno viene portata avanti sul suo account Instagram – là la trovate come @divagatrice. Tanto si parla di sostenibilità, greenwashing, plastica diabolica, creme miracolose, materie prime da ostracizzare e virtù non sindacabili del “bio”, ma quanto di quello che compriamo o che ci viene venduto come indiscutibilmente buono per la nostra faccia e per il pianeta fa davvero quel che dichiara di fare? Quanto di quello che a suon di slogan pubblicitari abbiamo imparato a considerare benefico e quasi in odore di santità produttiva può dirsi davvero tale? Anche in questo saggio e con la consueta chiarezza argomentativa, Mautino ci offre qualche strumento interpretativo in più – powered by SCIENZA, baby – per accrescere la nostra consapevolezza di consumatori/consumatrici e destreggiarci con un pizzico di razionalità in più anche nel comparto della cosmesi.

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Angela Nicente
Atlante femminista – Alla scoperta del patriarcato
(Edizioni Clichy)

Grafica e illustratrice, Angela Nicente ha presentato una versione di questo atlante come progetto per la tesi di laurea. Ora è diventato un libro che, tappa dopo tappa – anzi, isola dopo isola – condensa i “temi caldi” del dibattito attuale su femminismo, patriarcato e questioni intersezionali limitrofe. Uno strumento sintetico e visivamente molto ben strutturato che può trasformarsi in un’efficace lettura introduttiva ai molti tasselli di tutto quello che ci fa quotidianamente arrabbiare e che varrebbe la pena demolire insieme. Per ogni isola troverete un riassunto di “cosa si dice”, chi la abita, una mappa territoriale – che in realtà è una mappa concettuale – e un testo con le doverose spiegazioni, fenomeno per fenomeno.

Intanto che siamo in quest’area tematica, vi rammento anche dell’esistenza dell’Atlante delle donne di Joni Seager, uscito per ADD Editore. Lavoro, salute, maternità, alfabetizzazione, contraccezione, diritti… una panoramica multidisciplinare che ambisce a fotografare la condizione femminile nel mondo, avvalendosi di dati assai aggiornati e di un assortimento di infografiche, cartine e grafici.

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Vivienne Westwood. Sfilate
(L’ippocampo)

Qua scelgo Vivienne Westwood come portabandiera, perché quella delle sfilate è una collana ormai molto ricca di volumi monografici curatissimi e dedicati, di volta in volta, a una diversa casa di moda. Scelgo Vivienne Westwood anche perché mi è particolarmente cara e sono una cliente fedele – non assidua come vorrei o come mi potrebbe disegnare Ai Yazawa, ma non lamentiamoci. Il librone – rivestito di godurioso tartan – è frutto di un improbo lavoro d’archivio e recupero: contiene i look di tutte le sfilate del marchio, dal 1981 a oggi, insieme a un succulento backstage, sia “storico” che filosofico…. perché il Vivienne-pensiero è quasi più avvincente di quel che vediamo transitare in passerella.

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Quaderno d’inverno. Giochi ed esercizi per adulti
(Blackie Edizioni)

Editori “giovani” con tradizioni ormai solide alle spalle? Eccoci! Blackie ha già sfornato con successo e spasso due eserciziari di compiti per le vacanze estive – sempre rivolti ai grandi – e questo Quaderno è il primo che promette di sostenerci anche nei mesi invernali. Lo spirito è sempre il medesimo: quiz, passatempi, rompicapi, cruciverba e zuzzurellonate varie che attingono alla cultura pop e puntano a intrattenerci con ironia.

Sempre di Blackie – visto che di zuzzurellonate stiamo parlando – segnalo volentieri anche L’arte di essere Bill Murray di Gavin Edwards. Trattasi tecnicamente di una biografia del pacioso attore ma, dato il personaggio, è più che altro un manifesto spirituale. Dagli esordi come spalla ben poco considerata del Saturday Night Live alle leggendarie incursioni alle feste di compleanno di privati cittadini ignari, Bill Murray proietta immancabilmente l’immagine di uno che si diverte moltissimo e che ha imparato a fregarsene al punto giusto. Come fa? Edwards cerca di spiegarcelo, catalogando le sue gesta e provando a restituirci un’immagine più “realistica”, ma non meno assurda e imprevedibile, del Murray che ci pare di conoscere.

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Zerocalcare
Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia
(Bao Publishing)

Qua io la metterei giù così: c’è in libreria una cosa nuova di Zerocalcare? Perfetto, la si compra a scatola chiusa. Che altro vi serve sapere? Niente. Esatto.
Mi rendo però conto che molti “nuovi” fan, complice Strappare lungo i bordi, possano sentirsi un po’ persi nella produzione ormai molto consistente dell’ottimo Zerocalcare e che amerebbero ricevere qualche indicazione per cominciare a volergli bene non solo su Netflix ma anche leggendo. Ebbene, Bao ha già fatto i compiti per me: qua trovate una comoda guida che, tra cavalli di battaglia e lista ragionata delle gesta, mappa efficacemente il lavoro del trafelato Michele. Se volete sapere la mia, per chi parte da una base non ancora nutritissima voterei per un approccio cronologico, visto che tanto di quello che racconta Zerocalcare procede per accumulazioni autobiografiche.

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Italia in 52 weekend. Itinerari inconsueti tra natura, arte e tradizioni
(Lonely Planet – EDT)

Ah, signora mia! Andiamo tanto lontano ma poi non apprezziamo le meraviglie della nostra splendida terra! Sembra una di quelle frasi da vecchi tromboni e trombone a cui reagire alzando con veemenza gli occhi al cielo, ma non posso negare che nasconda un fondo di verità – maledizione, quanto detesto dover dare ragione alla categoria dei tromboni. Comunque, regalare una guida di viaggio mi sembra sempre un gesto di sommo buon auspicio: vai, ti divertirai, scoprirai delle cose nuove, trascorrerai momenti spensierati. Di questi tempi – coi viaggi a lungo raggio tornati nemmeno troppo all’improvviso più impervi – una raccolta di itinerari “italiani” potrebbe rappresentare una validissima soluzione. Lonely Planet ne raccoglie qua 52 – uno a settimana per un anno intero, in pratica – occupandoci egregiamente i weekend ed esortandoci a vagare per borghi, città e luoghi relativamente vicini ma forse ancora poco battuti.

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Leonardo Bianchi
Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto
(Minimum Fax)

Ho condiviso con Leonardo Bianchi un divano al Salone del Libro. Io ho espresso la mia simpatia per quell’innocuo complotto che teorizza l’immortalità di Keanu Reeves e lui, che ai complotti ha deciso di dedicare un saggio intero, mi ha raccontato come si “costruiscono” le fandonie di maggior successo e cosa può trasformarle in ostacoli veri per la convivenza civile, oltre a un potente veleno che deforma il dibattito pubblico. Dal Pizza-gate agli Illuminati, un testo per esplorare la faccia più irrazionale del nostro rapporto con la realtà, l’informazione e la scienza. Se li conosci li disinneschi, mi verrebbe da pensare… ma forse la faccenda è assai più complicata di così. Nel dubbio, vi auguro di non trovarvi a Natale seduti a tavola con una schiera di complottisti agguerriti. Voi, se potete, opponete una strenua resistenza.

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Con la certezza di aver scordato circa l’86% dei libri che volevo segnalare, spero comunque di essere riuscita a fornire qualche spunto sfizioso per i vostri doni. Se ce la faccio, mi piacerebbe molto sfornare anche una lista focalizzata sulla narrativa. Vediamo come va. Nel caso servissero consigli miratissimi e personalizzati, mi trovate con indefessa costanza su Instagram o nel nostro bellissimo gruppo Telegram. Per frugare ulteriormente, vi indirizzerei senza indugio anche alla ricca categoria Libri qua sul blog.

 

Mentre l’umidità ci assedia, la pioggia battente ci flagella e cerchiamo di venire a patti con l’oscurità incombente – giuro, mai capirò che cosa diamine dovremmo farcene di un’ora in più di luce fioca al mattino quando potremmo beneficiare di pomeriggi più lunghi E INVECE NO TRASFORMEREMO LE VOSTRE GIORNATE IN UNA TOMBA UMIDA DI BUIO ALLE 15.23 SCUSATE PATISCO MOLTISSIMO IL MESE DI NOVEMBRE -, dicevamo, mentre il panorama attorno a noi si fa desolante e la speranza ci abbandona a poco a poco, Stefania Bertola appare per restituirci un po’ di gaiezza.
Sono persuasa da tempo immemore del valore quasi balsamico dei romanzi di Stefania Bertola. Non parlerò di “intrattenimento intelligente” – anche se è vero -, perché poi pare sempre che si debba creare una gerarchia antropologico-meritoria dell’umano impulso al divertimento e all’alleggerimento del cuore, ma è innegabile che la sana leggerezza di cui la nostra autrice è ormai portabandiera autorevolissima sia anche foderata della migliore arguzia e di un occhio acuto per il dettaglio minuto e quotidiano che molto contribuisce a fotografarci come un agglomerato collettivo di fissazioni, nevrosi e tran tran relazionali, dalle mura di casa allo scaffale dei preparati in scatola per far finta di aver prodotto una pizza regolamentare.

Con Le cure della casa (Einaudi), Bertola ci presenta una nuova schiera di protagoniste variamente alla ricerca di una casellina dignitosa da occupare nel mondo.
Lilli veleggia verso i cinquanta, la sua lunga carriera in azienda si è conclusa – AKA l’hanno congedata senza troppe remore – ed è naufragato anche l’improbabile progetto imprenditoriale che aveva deciso di avviare con un’amica – il business delle borsette fatte di cerniere non si è rivelato eccessivamente redditizio… chi l’avrebbe mai detto. Con una figlia migrata a Venezia per l’università, una colf dimissionaria che finalmente è riuscita a farsi assegnare l’ambito incarico di portinaia e una rendita immobiliare cortesemente piovutale tra le mani grazie alla dipartita di una zia ricca, Lilli si appresta ad affrontare un capitolo del tutto inedito della sua vita: farà la casalinga. Nonostante il biasimo della madre – femminista militante della prima ora -, le perplessità del marito e attitudini non proprio spiccatissime, Lilli si arma di Cif, panno in microfibra e tessera punti di Acqua & Sapone per far sfolgorare le superfici che la circondano e provare a riprendere il controllo dell’unico universo che può dire di padroneggiare davvero: il suo appartamento.
Dagli effetti devastanti di Pinterest alle virtù del purè Pfanni, Lilli farà del suo meglio per aderire al mito dell’impeccabile donna di casa, scoprendosi all’improvviso padrona del suo tempo e anche assai più avventurosa del previsto. Perché nella sua vita c’è stata almeno una casalinga perfetta che le piacerebbe prendere a modello, un’amica d’infanzia che già in tenerissima età pareva fregiarsi di virtù muliebri che Lilli ammirava come si ammirano le qualità altrui che mai saremo in grado di replicare. Ripensando a Noemi, che da decenni si è volatilizzata dalla sua vita – così come dalle vite di chiunque altro l’abbia conosciuta -, Lilli si mette in testa di ritrovarla, innescando una reazione a catena di incontri improbabili, misteri, menzogne e colpi di testa.

Le cure della casa è un delizioso plurilocale che contiene almeno tre ambienti: la storia di una donna che si confronta volontariamente con una scelta identitaria diventata impopolare tra le sue simili, un’indagine che mira a stanare una persona scomparsa, un manuale di economia domestica.
Che c’è di male nel voler fare le casalinghe?
Dove diamine è finita Noemi e perché nessuno l’ha mai più sentita?
Di quanti ammorbidenti ha davvero bisogno l’umanità?
Quello che Lilli cerca di fare, nello sgangherato percorso tracciato da questo libro spassoso e pungente, è abitare la zona disordinata della scelta individuale, concedendosi la libertà del tentativo e dell’esperimento. Lilli trasloca in quel margine di dubbio che spesso non ci concediamo di sviscerare e, facendoci divertire mentre spedisce mail ampollose al servizio clienti della Barilla o compila un quaderno pieno di indicazioni pratiche – per quanto approssimative – per sua figlia Iris, credo cerchi di dirci una cosa importante: nessuno è autorizzato a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non so neanche come si accende un ferro da stiro, non possiedo argenteria da lucidare e mi auguro vivamente che le fughe delle mie piastrelle trovino il modo di detergersi da sole, ma Lilli ci offre  un paradosso eloquente: anche decidere di trasformarsi nel prototipo di una donna “obsoleta” è una forma di libertà che presuppone una possibilità di scelta. Ed è proprio per ampliare quella possibilità di decidere – senza mai darla per scontata, perché scontata non è ancora – che vale la pena continuare a intestardirsi.
Lilli mi ha convinta a imbracciare secchio e mocio a tempo pieno? Zero. Ma sarò pronta a sostenerla strenuamente nella sua lotta impari contro gli aspirabriciole che NON ASPIRANO.