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tegamini

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Dunque, Walter Fontana per me – e sospetto per la mia generazione nel suo complesso – è stato il genio che ci ha donato Frattale e Carcarlo Pravettoni, tanto per citare i miei personaggi preferiti di quell’epoca SONTUOSA di Mai Dire Gol. Già lì si perculavano con immensa creatività i tic aziendali e le gloriose megastrutture, i rapporti surreali tra umili impiegati e onnipotenti dirigenti, i dispetti da scrivania e le iniquità macroscopiche che avvelenano l’aria di ogni ufficio. Di libri suoi, però, non ne avevo ancora letti… ma il mio cammino di redenzione è iniziato ed eccoci qua con L’uomo di marketing e la variante limone, che sono particolarmente felice di aver approcciato in versione audio su Storytelil libro è riapparso da Bompiani in una nuova edizione con un piccolo expansion-pack. Nell’audiolibro troviamo Fontana che ci legge prefazione e postfazione, mentre la narrazione complessiva è affidata a Luca Ravenna – voce adattissima.

La freschezza “contenutistica” è sorprendente e, per un libro uscito originariamente nel 1995 che ambisce a fare dell’umorismo su un’epoca e su un contesto molto specifici, il fenomeno sconfina nel prodigioso. Fontana ha a lungo militato in blasonate agenzie pubblicitarie e questa storia – che un po’ è un racconto corale e un po’ è uno studio antropologico – ci colloca tra i due fuochi “classici” dell’orrida dinamica. Da una parte troviamo il cliente – colossale conglomerato che ha un nuovo detersivo al limone da lanciare – e dall’altra creativi, account, copy e tutto il cucuzzaro che costituisce un’agenzia. Riusciranno i nostri eroi a mettere insieme una campagna per Bello Bellissimo Lemon Lemon o soccomberanno senza rimedio alla fumosità del brief e ai continui ripensamenti del cliente? Il resoconto che Fontana ci offre era e resta di un’accuratezza dolorosa – verso il terzo “siete dei geni e vi facciamo tantissimi complimenti ma non ci siamo ancora” ho manifestato una gamma completa di gastriti e tic psicosomatici -, anche se si comunica via fax e non ci sono slide spettacolari da proiettare.

Al caso di studio di Bello Bellissimo, Fontana alterna dialoghi al baretto in pausa pranzo e struggenti riflessioni impiegatizie. Si parla di soldi, di processi decisionali demenziali, di intoppi, di gerarchia, di carriera, di colleghi e del quotidiano sforzo per darsi un contegno, pur sapendo perfettamente di essere dei cialtroni – se non proprio delle canaglie conclamate. Si ride assai e, anche nei frangenti più surreali e grotteschi, ho il grande onore di comunicarvi – nonostante i tanti anni che ci separano dal ‘95 – CHE È TUTTO VERO. È COSÌ CHE VA. SUCCEDE SUL SERIO. E mai più guarderete un flacone di detersivo con gli stessi occhi.

[Come ogni volta che vi segnalo un audiolibro, vi segnalo anche la possibilità di collaudare Storytel. Qua trovate un periodo di prova gratuito di 30 giorni.]

Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.

Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.



Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.

Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.

Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.

Sei la bambina più bella, brava e intelligente del mondo, Sabrina Mannucci. Il tuo sarà un avvenire luminoso. L’universo intero ti deve ammirazione e ti sarà devoto, perché ogni qualità umana e ogni talento confluiscono nella tua personcina. Fama e fortuna, gloria e felicità ti apparterranno di diritto e, di riflesso, eleveranno la tua famiglia, che ti ha amata, “vista” e sostenuta come meriti. È il 1977, Sabrina è pronta per salire sul palco dello Zecchino d’Oro e tutto questo sembra ancora plausibile. Ma i poteri del Mago Zurlì basteranno?

Figlia di un funzionario RAI di caratura irrilevante – ma certo di contare moltissimo -, Sabrina cresce con la ferrea convinzione di essere speciale per davvero. Riccardo, suo padre, la porta in palmo di mano e sembra puntare su di lei – il cavallo migliore tra i figli – per iniziare un’ascesa in piena regola. Da famiglia piccolo borghese – con tutte le grettezze del caso – i Mannucci possono fare di meglio, possono seriamente tentare di insinuarsi nei giri che contano. Sabrina è uno strumento d’interposta ambizione e il prodotto mostruoso delle illusioni e delle frustrazioni altrui. La televisione è sempre accesa, pronta a istruire il pubblico su cosa sia legittimo sognare e a fornire un traguardo sempre visibile da tagliare: se arrivi qua dentro sei a posto, tutto cambierà.
Nel 2007, ritroviamo i Mannucci al capezzale di Riccardo e scopriremo gradualmente che ne è stato di loro. Sabrina sarà riuscita ad agguantare l’avvenire promettente tanto agognato? Sarà riuscita a trovare qualcuno capace d’amarla quanto l’ha amata suo padre? La famiglia sarà finalmente stata accolta nella cerchia dei ricchi e dei potenti? Son davvero tutti stupidi, brutti, grassi, ignoranti e grezzi a parte Sabrina o, nemmeno troppo in profondità, c’è sempre stato qualcosa di tragicamente sbagliato? E per noi che leggiamo, sarà così mostruoso tifare per il fallimento di Sabrina?

Sabrina è un personaggio ciabattesco da manuale. Contiene illusioni, vanagloria, megalomania e tutte le spiacevolezze e le robe orrende che vorrei tanto poter dire di non aver mai sentito crescendo, ma nel credersela così tanto si smaschera da sola e ci offre anche la possibilità di trovarla patetica e vittima di un contesto altrettanto “piccolo”. È l’eterna lotta tra pezzenti e ricchi, ultime ruote del carro e blasonati dirigenti, umili ingranaggi e macchinari pesanti. Nel rifiutarsi di restare al proprio posto possono emergere virtù e meraviglie che migliorano l’universo, ma non è il caso dei Mannucci. In loro si riassume molto di quello che non va nella “catena alimentare”, ma fanno parte del problema. Sperare non è peccato, ma è l’assoluta ineleganza con cui falliscono a risultare ripugnante. Anche quella, però, è una pura questione d’apparenza. Volete leggere qualcosa di malvagio? Sabrina è qua per voi.

[Vi va di ascoltarlo come ho fatto io? Trovate I giorni felici di Teresa Ciabatti su Storytel. Vi ricordo che passando per di qua vi donano un periodo di prova gratuito “prolungato” – 30 giorni invece di due settimane.]

Cinema! Sogni! L’età d’oro di Hollywood! Cellulosa! Divi! Dive! E Lucia Wade, sceneggiatrice. Insieme al marito Vincent – istrionico regista e assiduo sollevatore di bicchieri – forma una promettente coppia creativa. Lì per lì innamoratissimi, affiatati e pieni di idee, i coniugi Wade si fanno in quattro per racimolare i finanziamenti per il loro debutto sul grande schermo e, tra mille rogne e soluzioni creative, approdano ai tanto agognati successi. Si fanno un nome, si trasformano in acclamati autori e li troviamo pure candidati all’Oscar. Lui, vulcanico e umorale, si gode il prestigio riservato ai registi emergenti mentre Lucia macina pagine alla macchina da scrivere, senza badare troppo al ruolo evidentemente defilato che Vincent tende ad accordarle. È sicura del suo amore e farebbe di tutto per sostenerlo, anche se i rospi da ingoiare non sono pochi, i soldi scarseggiano sempre e l’ambizione (spesso frustrata) scava solchi di non facile gestione. Tutti quanti – Lucia compresa – sono convinti di vivere un Grande Amore Speciale, superiore alle tribolazioni e alle meschinità che distruggono i legami degli altri, ma scopriremo all’istante che nemmeno i Wade sono fatti per durare.
Chi siamo diventati?
Dov’è la persona che ho conosciuto?
Chi ho amato io è mai esistito?
Ne vale la pena?
Lucia si rifiuta di trasformarsi nel cliché della moglie abbandonata e affranta che tanto detesta scrivere e si aggrappa all’unica certezza che ha – che è proprio la scrittura, incidentalmente. Con o senza Vincent, lei è una sceneggiatrice. Brava, pure. Avrà vita facile fra produttori, studios, agenti e agghiaccianti consulenti con le competenze di nostro cugino chiamati a rivedere le sue pagine? Certo che no. A Hollywood o fai l’attrice o fai la segretaria… di sceneggiatrici in giro ce ne sono poche. E quelle quattro gatte già sembrano troppe…

Lucia Wade è Eleanor Perry e Pagine azzurre è una versione romanzata della sua vita e delle sue peripezie sentimental-lavorative. Uscito nel ‘79 negli Stati Uniti, il libro spunta qua da noi per la prima volta per SUR nella traduzione di Marco Rossari – che riesce a preservare mi pare assai bene il taglio da commedia brillante e a mantenere scoppiettanti e caustici i dialoghi.
La struttura non è lineare ma procede per balzi temporali e “scene”, come in un buon copione che non abusa dell’esposizione o dello spiegone trito. Lucia e Vincent ci appaiono a diversi gradi di deterioramento, anche se l’ossatura principale è fatta dal presente di Lucia, tra lavori frustranti, rivendicazioni di competenza che cadono tendenzialmente nel vuoto e relazioni con emeriti imbecilli. Il passato è fulgido e miserabile insieme, pieno di segnali che solo il senno di poi fa risultare ovvi. Lucia è disillusa ma battagliera, stufa marcia ma abbastanza scafata da godersi gli episodi più grotteschi che le capitano come uno spettacolo. Questo libro è uno sberleffo e una rivincita, il ritratto di un’epoca e di un settore specifico – molto meno favoloso di quanto vorrebbe la leggenda.
Ci son signore che hanno preso più di un pesce in faccia, risparmiandone forse qualcuno a noi, signore del futuro. La rete è ancora piena, ma Perry – facendoci ridere e schiumare di rabbia – è una voce degnissima di essere ancora ascoltata.

Appunto sparso: c’è pure Capote. Ovviamente camuffato. Ma si vola altissimo lo stesso.

All’avventura!

Infarinatura introduttiva.

  • Siamo stati a Marrakech a metà febbraio. Che clima abbiamo beccato? Caldo fondamentalmente estivo di giorno e un bel freschino di sera o la mattina presto. Una gioia per la valigia, insomma. Se tendete a patire il gelo come me, a parità di periodo vi consiglio di partire con una giacca da mezza stagione – vi tornerà utile al calar del sole e per cenare all’aperto senza patemi.
  • Sì, serve il passaporto e le operazioni di arrivo/partenza in aeroporto non sono molto rapide. Noi siamo arrivati di giovedì sera – un momento che ci pareva piuttosto “neutro” e lontano da grandi flussi di traffico turistico – ma ci abbiamo messo un’ora abbondante a superare i controlli. Il ritorno un po’ più snello ma piuttosto laborioso lo stesso.
  • Procuratevi dei contanti in valuta locale perché tanti posti non accettano le carte. Con “posti” intendo ristoranti alla buona, bancarelle per strada, esercizi commerciali dei suk, attrazioni assimilabili ai musei e taxi. Potete cambiare i soldi o ritirare al bancomat senza rogne.
  • I taxi sono TANTISSIMI e fermabili per strada senza dover usare app, chiamare centralini o chissà cosa. Dall’aeroporto alla medina abbiamo pagato 200 dirham – che son 20€, arrotondando per eccesso – mentre la tratta dalla medina al quartiere “nuovo” (Gueliz) viaggia sui 100. Spiegate bene prima dove volete arrivare e chiedete se il prezzo è ok. Quasi sempre i riad della medina prevedono un trasferimento privato per gli ospiti – domandate, perché certi riad incagnati più all’interno sono poi complicati da scovare a piedi coi bagagli.
  • Se volete avere sempre il telefono funzionante dovete prendere una SIM locale. Noi abbiamo deciso di approfittare del wi-fi dei posti in cui ci siamo fermati a mangiare o dell’albergo perché passiamo già tutta la vita a spippiolare al telefono e ci giova di tanto in tanto astenerci.
  • Il terremoto di quest’autunno ha purtroppo colpito Marrakech e ci sono ancora danni visibili nella medina, dove ci sono gli edifici storici o, banalmente, le costruzioni più datate. Troverete qua e là puntelli di legno, ponteggi e volenterosi cantieri. I ragazzi del riad ci hanno raccontato spaventi e momenti decisamente non rosei, ma le ricostruzioni procedono con buona lena e intralcio zero per i visitatori. Si tifa.
  • Prenotazioni? Dipende. Noi abbiamo prenotato dall’Italia l’hammam, una cena e un biglietto d’ingresso – dopo troverete i dettaglini precisetti. Le altre due cene le abbiamo prenotate il pomeriggio del giorno stesso, dopo esserci orientati un po’ meglio con le distanze e i tempi. È estremamente possibile che, in periodi di turismo più HARDCORE, sia saggio bloccare tutto con un certo anticipo per non restare a piedi.

Benissimo. Procedo per aree tematiche.


ALLOGGIO

Il mio consorte ha saggiamente pescato il Riad Dar Saad nella medina – la parte “vecchia” della città. Nella medina le auto non possono circolare, ma se vi fate mollare dal taxi nel più vicino punto ancora raggiungibile in macchina – il museo Dar El Bacha o il palazzo reale sono punti di riferimento validi – al riad ci arrivate a piedi in tre minuti d’orologio. La posizione è comoda perché per esplorare la medina e veleggiare verso la piazza centrale siete già “dentro” ma se volete riprendere un taxi e andare altrove arrivate con semplicità all’area esterna. Noi abbiamo sempre trovato taxi pronti a partire.
Altro sul riad? I ragazzi dello staff sono simpaticissimi e gentili. L’atmosfera è matta e variopinta e c’è anche una sorta di caotico giardino pensile sul tetto, molto piacevole. I prezzi mi son sembrati ragionevoli, anche se opterei per una stanza diversa perché la nostra – proprio questa, per l’esattezza – era davvero minuscola e pure un po’ umida.


“ATTRAZIONI”

Dunque, la medina è nella sua interezza un’attrazione, mi verrebbe da dire. La locuzione iper trita “perdetevi fra le viuzze” mi fa venire l’orticaria ma in questo caso è un buon consiglio. Il mio senso dell’orientamento è pessimo e non ho speranze di indicarvi un punto preciso fra i millemila suk tentacolari percorribili a piedi, ma vagate con fiducia e meravigliatevi delle imprevedibili mercanzie esposte. In caso di bisogno, mia zia Pinuccia è disponibile a fornirvi una consulenza su come contrattare con i venditori, ma confido nel vostro spirito d’iniziativa.

L’unica “via dello shopping” che mi sento di segnalarvi con sicurezza – e che brilla per eclettismo delle proposte – è il tratto che separa il Riad Dar Saad dal Dar El Bacha. Il resto è una scoperta perenne e davvero affascinante, gatti compresi.

E la piazza “grande”? Forse è l’agglomerato meno interessante di tutti. Indubbio folklore – incantatori di serpenti, scimmie che passeggiano, pavoni, bancarelle… – ma anche l’unico posto dove mi son sentita a disagio. Volete farvi fare un disegno tradizionale all’henné sulle mani? Ne avete facoltà. Meno piacevole è essere afferrata per un braccio da un’energica tatuatrice che comincia a colorarti le estremità senza dar retta ai tuoi fin troppo urbani “no grazie” e pretende a gran voce dei soldi per un lavoro che non le hai chiesto tu. Insomma, occhio. Non fate la fine della turista polla come me.

Occhio ulteriore? I motorini. I carretti con gli asini. I motocarrettini. Le strade della medina sono strette e certi suk son proprio dei vicoli – o delle gallerie coperte -, ma il traffico “leggero” persiste, anche a velocità sostenuta. Lì per lì la cosa è piuttosto spiazzante, ma ci si abitua. Voi, nel dubbio, fatevi in là e ricordatevi quello che vi diceva la mamma quando c’era da attraversare la strada.

Il Jardin Majorelle è uno dei posti più instagrammati del globo? Sì. Isola felice di Yves Saint-Laurent e Pierre Bergé, i giardini e gli squillanti complessi architettonici sono una sorta di luogo ideale che sintetizza arte e verde, vitalità e meditazione – calca permettendo. Mentre zelanti addetti alla manutenzione girano con pennello e secchi di blu Majorelle per mantenere la giusta tonalità cromatica delle costruzioni, piante di ogni genere prosperano in un poetico caos controllato. Gli abbondanti flussi di visitatori sono gestiti con rigore marziale ed è obbligatorio fare il biglietto online.
Non siamo stati al museo YSL – chiuso temporaneamente per riallestimento – ma nel padiglione centrale del giardino c’è il Museo Bergé dedicato all’artigianato berbero… dimensioni contenute ma da vedere, intanto che ci siete. Se dovete dare una rinfrescata ai muri di casa, poi, segnalo che al gift-shop si possono comprare dei bei barattoli di pittura – un souvenir eccelso? Totale.

La Medersa Ben Youssef è stata costruita nel quattordicesimo secolo come scuola islamica ed è stata a lungo la più grande del Nordafrica. Dopo fortune alterne, abbandoni e ritorno all’attività originaria, è ora un sito UNESCO più che visitabile e restaurato con grande attenzione al rispetto dei materiali originari. C’è un magnifico cortile centrale e si può salire al piano superiore per esplorare le “cellette” degli studenti.
Il biglietto si fa all’ingresso e accettano solo i contanti.

Le Jardin Secret è una gradevole bombonierina ripescata dall’oblio. La base è quella di un riad – uno dei più antichi della medina – poi disgregatosi per frazionamenti di proprietà e vari gradi di incuria. L’opera di ripristino è relativamente recente e nella struttura odierna troviamo una torre e dei padiglioni che delimitano un giardino esotico e un giardino islamico. Piacevolissimo e indubbiamente d’impatto, ma il baretto posizionato strategicamente sulla terrazza e il gift shop pretenzioso mi han lasciato un po’ una sensazione di posticcio.


L’HAMMAM

Vuoi non cimentarti? Non sia mai! Per Les Bains de Marrakech devo ringraziare molto una collega di Cuore – Viola, ciao! Ti siamo debitori!
Qua è indispensabile prenotare con anticipo sul sito, perché per certi percorsi serve del tempo e loro sono ORGANIZZATISSIMI. Si possono selezionare diversi trattamenti e combinarli insieme, scegliendo anche se procedere individualmente o in coppia. Noi ci siamo donati tre ore: hammam, fanghi, massaggio. In pratica vi prendono e da bruchi vi trasformano in farfalle.

L’hammam parte con una lenta cottura a vapore, seguita da innumerevoli abluzioni. A un certo punto arriva una signora con un guanto grattosino che vi friziona energicamente fino a staccarvi di dosso circa tre etti di pelle morta. Lisci come delfini e rincoglioniti dal tepore verrete poi scortati in un ambiente “asciutto”, cazzuolati di fanghi profumati e avvolti come salami nel cellophane e in tre strati di coperte soffici. Vi farete una dormitina? Sì. Una volta estratti dal bozzolo e lavati come bambini vi frolleranno per un’altra ora, massaggiandovi dall’alluce ai lobi delle orecchie. Raramente in questi ultimi due anni posso dire d’essermi sentita meglio.
Ambiente bellissimo, non si incrocia mai altra gente, bicchierini di tè alla menta che si materializzano dal nulla e staff impeccabile. Credo non sia fra le strutture più economiche della città ma quanto volentieri li ho spesi, porca miseria.

Bonus: la zona attorno all’hammam è molto vispa e interessante da girellare a piedi. Salutateci le numerose cicogne che nidificano nei paraggi.


MANGIARE

Le opzioni streetfoodesche sono innumerevoli. A ogni angolo della medina c’è qualcuno che spadella uova, cuoce a fuoco lento qualcosa, smercia pane – PANE BUONISSIMO -, ammucchia dolcetti, sbadila datteri, spreme melagrane, allinea fragole ENORMI. Insomma, se vi gira c’è di certo materiale. Qua trovate qualche posto dove piazzarvi con le gambe sotto al tavolo per un pasto meno estemporaneo – devo confessare la mia parzialità per questo tipo di soluzione, principalmente perché non son capace di mangiare in piedi e dopo aver scarpinato per ore ho bisogno di mettermi a tavola in pace per ripigliarmi. Ho un’età.

La prima sera abbiamo cenato alla Terrasse des Épices, pescato in maniera piuttosto estemporanea perché non mi ricordo dove ne avevo letto bene e perché era vicinissimo al nostro riad. Si mangia all’aperto su questo tetto a ferro di cavallo, servono alcolici – bar “serio” compreso – e la cucina è marocchina con qualche incursione internazionale per non far prendere paura ai turisti americani. Servizio di rara premura, abbondanza di porzioni e atmosfera molto gradevole. Il nostro felicissimo battesimo a base di tajine e couscous.

Il Petanque Social Club, nel quartiere nuovo di Marrakech, è dotato di campo da bocce – altrimenti non l’avrebbero battezzato così, mi vien da dire – giardino rigoglioso e un eclettico ambiente interno con diverse sale decisamente d’impatto. Anche qua servono alcolici e il menu è decisamente più virato alla clientela “estera” – l’ho trovato infatti da un suggerimento del New York Times Travel… e mi vien da alzare più di un sopracciglio. Non abbiamo cenato particolarmente bene, ma i cocktail sono apprezzabili e il posto è oggettivamente bello. Se bazzicate da quelle parti e vi va di bere qualcosa fateci un pensiero.

Cena finale? Grand Café de la Poste, locale storico aperto negli anni Venti e frequentato da monsieur Majorelle e sodali del bel mondo. Cucina francese, servizio attento e piacevolezza generale dei luoghi.

Pranzo assai ben riuscito nei pressi della piazzona grande: Amasia. Rooftop estremamente ameno – penso che al tramonto renda benissimo, ma noi siamo andati a fare le lucertole diurne – e cucina marocchina davvero apprezzabile. Servizio non fulmineo, ma eravamo così contenti di starcene in maniche di camicia a febbraio su una terrazza che non ci è proprio venuto in mente di sindacare sui ritmi.


Spero di aver prodotto qualche spunto utile. In ogni caso, buon giro! C’è favolosità. 🙂

Penso capiti di rado di imbattersi in una voce narrante come quella che Barbara Kingsolver decide di donare a Demon Copperhead, il caparbio protagonista di quest’epopea di disastri premiata col Pulitzer e approdata qui da noi in libreria grazie a Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino – che non invidio e molto ammiro per il coraggio.
Demon condivide con David Copperfield l’ambizioso arco narrativo – sono nato… ed ecco qua tutto quello che mi è successo – e con Rosso Malpelo il colore dei capelli e una specie di bersaglio invisibile dipinto sulla schiena. Demon in miniera non ci arriva, ma la sua contea natia è un centro estrattivo degli Appalachi già avviato al declino, popolato da gente che si arrabatta, griglia anche quello che non si potrebbe grigliare, coltiva tabacco, venera i giocatori di football del liceo e accoglie a braccia aperte il ristoro che le pillole della Purdue Pharma promettono di dispensare.

Demon nasce senza tante cerimonie sul pavimento di una casa mobile, da una diciottenne con già alcuni percorsi di disintossicazione (non molto ben riusciti) alle spalle. L’unico dono che il destino pare tributargli sono dei vicini che diventano una sorta di seconda famiglia. Pure loro sono hillbilly da manuale, ma in confronto a Demon e a sua madre – privi di mezzi, privi di radici, di direzione o di magici piani a lungo termine – sembrano il Rotary Club di Corso Magenta. Demon oscilla tra un’iperconsapevolezza della propria condizione di svantaggio “materiale” e una struggente capacità di assorbimento delle disgrazie. Non solo cerca di cavarsela, ma resta “intero”, anche se chi dovrebbe prendersi cura di lui non si dimostra mai all’altezza della situazione, anzi.

Ricapitolarvi anche solo a grandi linee la sua fosca parabola fatta di povertà, fondi di magazzino di Walmart, pezze al culo, assistenti sociali oberate dalla vastità delle catastrofi da gestire, fame, fornelli luridi, fratelli di sventura e genitori affidatari che si vendono pure i cotton fioc usati al banco dei pegni sarebbe sciocco, perché il punto di vista del piccolo Demon vale il prezzo del biglietto. La Lee County del libro è un posto che asseconda da un bel pezzo la narrazione di disfacimento del Sogno Americano, che qua resta in piedi per riti collettivi e per un’attitudine quasi comica alla venerazione della celebrità – status che in questo contesto di pochissime pretese è raggiungibile anche da quel tuo amico che piscia più lontano di te in mezzo a un bosco. Demon non ha mai potuto beneficiare del lusso dell’ambizione, perché arrivare indenne alla fine di una giornata è già un traguardo sufficiente, ma spicca strano e meraviglioso ovunque lo si piazzi. È piccolo e più che adulto insieme, disegna per sfogarsi e per immaginare supereroi che raddrizzino le storture del suo mondo… ma chi salverà lui?

Che da questa serie di sventure non scaturisca una narrazione dolente e lacrimevole è una specie di miracolo. Credo dipenda da come viene tratteggiato Demon, ma anche dall’intento di esplorare un contesto che ha una presa forte sulla realtà – piaga degli oppioidi venduti come caramelle assolutamente innocue compresa. Demon cresce e la sua voce cambia, creando un certo stacco tra la prima parte del libro – quella dell’infanzia – e la seconda, che è una prova generale di un’età adulta azzoppata dalla carenza di “esempi” virtuosi e da circostanze sistemiche che finiscono per risucchiarlo. La famiglia è un’entità ondivaga, inaffidabile, monca. Per Demon l’idea di “casa” perde senso molto presto, per essere sostituita dalla Lee County in generale, quasi. Ma è proprio quel posto, con le sue storture che affliggono chiunque resti, ad avvelenare ogni possibilità di riscatto. Quello che per noi potrebbe essere percepito come degrado, marginalità o circostanza “estrema” per Demon è ordinaria amministrazione, “prodotto tipico” della contea. Come si fa a salvarsi se l’unico punto di riferimento che si possiede è anche la radice di quello che ci fa più male? La grande sfida di Demon sarà proprio quella. E a ogni istante tiferemo sinceramente per lui. Anche nei momenti peggiori, anche quando ci deluderà o lo vedremo prendere decisioni sciagurate, non smetteremo di volergli bene e di provare a regalargli tutti i pennarelli del mondo.

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.

Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.

McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.

Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

Non pensavo fosse un buon momento per imbarcarmi in un mattone di mille e passa pagine. A dirla tutta, non lo penso praticamente mai. Credo mi capiti perché cerco di prevenire un eventuale fallimento, perché temo sempre di finire schiacciata da slanci avventurosi che non posso sperare di sostenere. I libroni mi attirano, però. Vediamo se riesci a tenermi lì con te, librone. Vediamo cosa sai fare. Vediamo se sarò degna di te, librone. Cominciare il 2024 con L’ottava vita di Nino Haratischwili – in libreria per Marsilio con la traduzione di Giovanna Agabio – si è dimostrato un azzardo riuscitissimo. Non tanto perché al romanzo serva ancora dimostrare qualcosa – l’accoglienza trionfale della critica è stata praticamente unanime già dalla prima pubblicazione, nel 2018 -, ma più per la crescente sfiducia nelle mie capacità di gestione di un’epopea monumentale, di un libro “importante”, ramificato, tumultuoso. Non credo si possa mai davvero scegliere da cosa lasciarsi catturare e non tutti gli atti di fede vengono sempre ripagati, ma quando l’impresa riesce è anche salubre mettere in piedi un piccolo festeggiamento. Bravo, librone. Eccoci qua.

Haratischwili ha trascorso l’infanzia in Georgia negli anni Novanta e abita in Germania dal 2003. Anche Niza, la sua narratrice e una delle “vite” del romanzo, è emigrata a Berlino e gestisce con estrema farraginosità la complessa eredità della sua parabola familiare all’interno dell’ancora più travagliata parabola “rossa” novecentesca. Haratischwili – che ha scelto di scrivere in tedesco, forse per garantirsi una sorta di cuscinetto protettivo – affida alla famiglia Jashi il compito di riprodurre su scala “umana” i molti stravolgimenti di un paese intero nel corso del Novecento. Visto che far piovere così tanta sfortuna su così poche teste potrebbe risultare un po’ bizzarro – nonostante l’inclemenza strutturale della storia in determinati angoli di mondo e il compiacimento del pubblico per la scalogna più nera -, Haratischwili porta in scena una sorta di profezia autoavverante: il capostipite degli Jashi è un pasticcere straordinario, unico inventore e depositario di una ricetta segreta per una cioccolata così buona da far spavento (letteralmente). Chi la assapora non avrà scampo… e di cioccolate se ne berranno parecchie, col procedere della narrazione.
Tutto comincia proprio da una florida bottega di dolci, nella Tblisi del 1917, per approdare a un recentissimo presente in cui la transfuga di un Est devastato tende la mano a una nipote ribelle, che balla sui resti di una storia di famiglia troppo intricata per essere ricomposta, troppo tragica per lasciar presagire futuri meno nefasti o disorientanti. Sarà Niza a rimettere insieme i pezzi per Brilka, a riconsegnarle il mosaico della sua discendenza, indissolubilmente legata alla storia di un paese dall’identità cangiante, fagocitato dall’orbita russa ma “produttore” certificato di ambiziosi progetti di rivalsa e di Grandi Mostri. Anzi, di Generalissimi – è così che Stalin viene identificato (o non nominato) nel libro – e di Piccoli Grandi Uomini – AKA Lavrentij Berija. Dalla deposizione degli zar alla battaglia di Stalingrado, dallo spauracchio del gulag alla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica, dalla Primavera di Praga al crollo del muro di Berlino, la famiglia Jashi procede sul filo del conflitto perenne e dell’incomunicabilità generazionale. È come se il disegno di una grande utopia fatta di pace, uguaglianza, collaborazione e abbondanza – così orrendamente disattesa dalla realtà – si riflettesse sulle utopie “private” di serenità, successo e amore della famiglia, disinnescandole o reclamando sacrifici impossibili. Haratischwili manovra con abilità sia la storia della sua terra d’origine (e della Russia, nelle sue tante emanazioni) che quella dei suoi personaggi, che diventano man mano sia strumenti utili a descrivere un movimento collettivo (o uno smarrimento generale di fronte alle enormità dei fatti) che creature indipendenti, “rotonde”, credibili nelle loro mancanze, nelle loro irrazionalità e nei loro vuoti. Tutti si misurano con un’ombra nascosta, con la perenne assenza di padri e con l’onnipresenza di padri della patria che tutto vedono e tutto possono prendersi. Gli Jashi sono – salvo un’unica eccezione, direi – dei disallineati, ma nessun colpo di testa verrà loro perdonato. E no, non si tratta soltanto della maledizione della cioccolata.

Come fila via la lettura? Molto bene. Chiaro, non tutte le sezioni – perché il libro è diviso in “vite”, di volta in volta dedicate a un personaggio che funge da snodo centrale – vi appassioneranno in egual misura o procederanno con il medesimo ritmo, ma c’è uno splendido equilibrio tra lo scopo di produrre un Grande Affresco e l’idea di raccontare cosa succede a della gente che si incontra, si innamora, va in malora, si illude, parte per la guerra, fa figli, si dimentica i figli, prende in casa figli non suoi, balla, sogna, immagina l’Ovest, cura il giardino, fuma sigarette, beve troppo, si dispera, combatte, si vendica, si nasconde, va a scuola, si vende pure i fazzoletti sporchi, casca, si tira su, ricasca, rimane per terra, vede i fantasmi, si inganna, si sbaglia, si intestardisce, scappa, torna. È un libro che mette insieme una lunga serie di eventi irrimediabili e si interroga su come ci si possa convivere. È il resoconto di un percorso accidentato, contraddittorio e violento, costellato da sprazzi di speranza e di legami che diventano ancore, anche quando si disgregano nell’illusione. Si sopravvive scegliendo di chi prendersi cura, forse. Anche quando non conviene, anche quando non ha senso ma ci si sente in dovere di esercitare almeno quel minuscolo margine di libertà. Non c’è clemenza nella Grande Storia di questo libro, ma mai uno Jashi vi darà l’impressione di volersi arrendere, di aver raggiunto la meta di una lunga ricerca. In bocca al lupo, Brilka. A voi, se vi capiterà di voler leggere L’ottava vita, non servono formule benauguranti. Fa già tutto Haratischwili, con l’Est che ha conosciuto e con l’Est che ha scelto di restituirci.