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tegamini

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Allora, qua devono proprio piacervi molto le piante… ma se vi garbano e vi interessano vi troverete a meraviglia. Non vi prometto che vi ricoprirete di possenti boccioli, ma qualche germoglio di curiosità di certo spunterà.

Con La confraternita dei giardinieri – tradotto da Federica Oddera per Ponte alle Grazie – Andrea Wulf esplora, sviscerando le gesta di una manciata di personaggi indubbiamente attratti dal verdeggiare delle frasche, un momento rivoluzionario per la botanica globale, localizzando nell’Inghilterra del Settecento  il crocevia decisivo del cambiamento.
Nonostante la collettiva mitizazzione del “giardino all’inglese”, infatti, prima del  Settecento non è che la piovosa Albione potesse vantare delle gran punte d’eccellenza. Prati stupendi e curati con scrupolo estremo, certo, ma la varietà botanica era relativamente scarsa, le fioriture “poche” e concentrate in periodi specifici e a guidare davvero i trend paesaggistici per le grandi dimore erano Francia e Italia.
Un bel giorno, però, un vivaista intraprendente sfidò la collera di Dio e osò modificare la creazione dell’Onnipotente, producendo il primo ibrido floreale “intenzionale”… e da lì tutto cambiò, inaugurando anche la mania per il giardinaggio che non smette di contraddistinguere la Gran Bretagna moderna. Wulf parte da Thomas Fairchild e arriva fino a Linneo – che tra molte resistenze riuscì con gradualità a introdurre un sistema di classificazione delle piante universalmente utilizzabile e finalmente “razionale” -, intrecciando la storia della botanica come nascente e rigorosa disciplina scientifica alla storia commerciale e culturale dell’Impero (e del mondo).
Tra gentiluomini dilettanti, viaggi d’esplorazione, collezionisti, allievi ingrati (ma favolosi), semi e talee trasportati da una sponda all’altra dell’Atlantico, specie scoperte e specie importate, Wulf costruisce un’avventura del pensiero – nella nascente epoca dei Lumi – splendidamente documentata e rigogliosissima, mi viene da dire.

Indicazioni di potenziale fruizione? Eccoci. Ho ascoltato Wulf su Storytel con la splendida lettura di Ginestra Paladino – se serve è sempre attivabile il nostro tradizionale periodo di prova gratuito del servizio di 30 giorni -, ma nulla vi vieta di optare per il libro-libro.

Inizi a tradurre e, come romanzo d’esordio, ti assegnano Le correzioni di Jonathan Franzen. Anzi, non proprio. Silvia Pareschi aveva firmato un contratto per Il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy – un altro signore di scarsa rilevanza, insomma – e si era messa di gran lena a lavorarci, ma poi era spuntato Franzen e Marisa Caramella – l’editor Einaudi che aveva preso Pareschi sotto la sua ala durante il “praticantato” – le aveva intimato di piantare tutto lì e di cominciare subito a occuparsi delle splendide rogne della famiglia Lambert. Dev’essere andata più che bene, perché sono passati venticinque anni e Pareschi può fregiarsi di aver tradotto alcuni dei nomi più illustri della narrativa angloamericana contemporanea, mostri sacri e classici compresi. Visto che è dalle più brave che conviene industriarsi per imparare qualcosa, mi sono immediatamente procurata Fra le righe – in libreria per Laterza – e ci ho trovato dentro del confortante pragmatismo, insieme a un vivacissimo amore per una professione resa spesso ingrata da condizioni “ambientali” non proprio auspicabilissime ma sempre strabiliante per inventiva, rigore, sensibilità e cocciutaggine.

Tra autobiografia professionale e collezione di dilemmi (risoltissimi), Pareschi condensa in questo saggio parecchio di quello che succede quando si traduce un’opera letteraria nel “mondo reale” – dai giochi di parole agli ibridi linguistici, dall’addomesticamento ai dialetti, dall’approfondimento delle più minute circostanze fattuali all’importanza della revisione e, quando si può, del dialogo con autrici e autori. Non c’è scelta che non affiori sulla pagina come la minuscola puntina di un vasto iceberg sommerso, che resta invisibile ma deve esistere per consentire a ogni decisione “strategica” di non colare tragicamente a picco, trascinandosi dietro il resto del libro. La traduzione è una pratica guizzante, fatta di innumerevoli micro-decisioni a loro modo SEMPRE campali. Si fa il possibile per restituire quello che c’è scritto – la componente letterale del testo – ma anche come suona quello che c’è scritto, sia a livello stilistico che di contesto culturale, spostandosi lungo un continuum di senso molto più ingarbugliato, ricco e fascinoso della tritissima dicotomia che contrappone graniticamente una traduzione “bella” ma infedele o una “brutta” e fedele. E come si fa? L’unica risposta può essere un bel DIPENDE. Pareschi, qui, si fa le pulci da sola e ci dona una carrellata di gustose gatte da pelare incontrate nel corso della sua carriera, dalle freddure lapidarie all’arduo compito di ritradurre un classico – Il vecchio e il mare, in origine curato da Fernanda Pivano… una passeggiata di salute, ancora una volta.

Se il tema v’incuriosisce e se siete in cerca di riferimenti che ben bilanciano la teoria a un approccio “pratico”, il laboratorio di Pareschi potrà rivelarsi un ottimo punto di partenza. Magari continuerete a lamentarvi a caratteri cubitali delle traduzioni che “fanno schifo!111!!11”, ma prima di esprimere indignazioni così perentorie vi verrà voglia di ripensare al processo… e ci guadagnerete qualche riferimento critico in più, oltre a utili red flag per distinguere una traduzione “umana” da quella prodotta da una macchina. Perché sì, come ci racconta anche Pareschi nella sezione conclusiva del libro, le macchine sono abbondantemente qui. Spesso con risultati comici e maldestri… ma per quanto ancora? Ci raccontiamo storie per spiegarci il mondo e, per trasportarle lontano con amore, buonsenso e rispetto, potrebbe ancora aver senso sedersi qui e procedere con la calma che si deve alle cose preziose e importanti… una parola alla volta.

Cenni rapidissimi per una lettura altrettanto guizzante e curiosa.
Cos’è Souvenir di Rolf Potts – in libreria per il Saggiatore con la traduzione di Camilla Pieretti? Un saggio agile sulla storia e le origini dei souvenir. 

Perché ci piace tornare dai posti che visitiamo con un ricordo tangibile?
Perché spesso non ci accontentiamo di rievocazioni “mentali” e di tutte le foto che scattiamo ma ci imbarchiamo in vere e proprie imprese collezionistiche?
Per chi lo facciamo?
Per chi lo si faceva?

Dalle principesche wunderkammer al Grand Tour – passando per la paccottiglia fatta in serie che infesta ogni località anche vagamente lambita dal turismo -, Potts cerca di spiegarci la valenza narrativa del souvenir all’interno dei nostri disparatissimi percorsi esperienziali – dai primi pellegrinaggi in Terra Santa alla più moderna rincorsa al viaggio come proiezione individuale e performance, come casellina da spuntare o impresa che deve “rendere” e giammai deluderci – o smentire le nostre già ben radicate convinzioni, spesso lontanissime dalla realtà dei fatti e dei luoghi altri.
Insomma, si colleziona per fissare chi siamo stati in un determinato posto e tempo… e per illuderci di avere un punto fermo sulla mappa del mondo, forse. Si raccolgono “feticci” per ricordare – come suggerisce l’etimologia stessa del termine souvenir – e per misurare le distanze fisiche e interiori che abbiamo percorso. Chi finiamo per diventare, una volta fatto ritorno, non è semplicissimo da stabilire, ma è probabile che in valigia ci sia qualcosa che non siamo stati capaci di lasciare dov’era. Volevamo rimanere là anche noi? Può darsi… ma per esprimere quel sentimento abbiamo a disposizione una valanga di # già frequentatissimi.

Un libro che potrebbe fare amicizia con questo?
Fare i bagagli di Susan Harlan.
No, non è un manuale per sfuggire alle policy draconiane delle compagnie low-cost, ma buon viaggio lo stesso.

 

Chi era Gustavo Rol? Forse non lo sapremo mai, un po’ per deliberata “opacità” del personaggio in questione e un po’ per l’intrinseco mistero dello spazio liminale in cui si è sempre mosso. Francesca Diotallevi – ormai collaudatissima autrice di romanzi ispirati a figure che della poca appariscenza hanno fatto la loro cifra esistenziale – maneggia l’enigma di Rol con cautela, basandosi su documenti, cronache e testimonianze e riempiendo le inevitabili lacune con il punto di vista di un narratore smarrito ma tenace, scettico e romantico insieme.

Piccola digressione per inquadrare meglio la faccenda. Carismatico, altissimo, sempre ben vestito e assai garbato, Gustavo Rol faceva l’antiquario a Torino, se vogliamo proprio dargli una definizione triviale che ben funziona nel “nostro” mondo. Nel dopoguerra aveva cominciato a ospitare a casa sua in via Silvio Pellicoun appartamento UMILISSIMOpiccoli gruppi di spettatori ben selezionati e, di fronte a loro, si esibiva in esperimenti al confine tra telecinesi, chiaroveggenza, spiritismo e… magia? Senza chiedere un soldo a nessuno e domandando solamente ai presenti di mantenere il massimo riserbo sugli eventi di queste serate, Rol ha per anni compiuto apparenti prodigi, molti dei quali restano ancora avvolti dal più denso MA CHE DIAV. Interpellato da ricchi e potenti – dal Duce all’avvocato Agnelli, passando per Fellini -, Rol ha vaticinato disgrazie e fortune, letto nel pensiero e letto libri chiusi, parlato coi morti e attraversato i muri, senza mai muoversi attivamente per alimentare la propria leggenda o trasformare questi perturbanti talenti in una montagna di soldi. Understatement sabaudo? Indole autenticamente generosa e disinteressata? Vero spirito compassionevole? Chissà. Quel che sappiamo è che, in mezzo a tanti ciarlatani – che vogliono deliberatamente infinocchiarti – e più che sinceri illusionisti – che il trucco non te lo spiegano ma non fingono che non ci sia –, Rol ha trovato il modo di spiccare per prodezze fuori dal comune e per una sorta di impianto “etico” altrettanto peculiare. Non si è mai prestato all’esecuzione dei suoi esperimenti in un ambiente controllato e scientificamente monitorabile, ma la sua fama è lievitata per una sorta di accumulo di cronache spontanee, per la stupefatta loquacità dei testimoni suoi contemporanei e per l’umanissimo bisogno di credere in qualcosa, probabilmente.

Il romanzo di Diotallevi si avvicina a Rol senza fretta, intrecciando la figura del “mago” a quella di un reduce di guerra che dopo una lunga prigionia torna in patria e non è più in grado di “funzionare” nel mondo. Per sfuggire ai debiti di gioco e a compagnie poco raccomandabili, fa i bagagli e parte per Torino – la sua antica città – dove Miriam, l’amore di gioventù, ha sposato un altro. Sarà proprio Miriam, che già frequenta la casa di Rol con una devozione totale, a introdurre Nino a una delle famigerate serate. Nino, che gradirebbe riuscire a scrivere per il cinema, fiuta all’istante il potenziale di quella storia e si mette in testa di smascherare Rol… perché sì, vuoi che non ci sia un trucco?

L’espediente del personaggio/narratore profondamente disilluso e ben radicato nella razionalità è molto salutare, mi viene da dire. Nino guarda Rol come un rompicapo da risolvere e non come una sacra manifestazione del sovrannaturale in cui riporre una fede cieca. Non sempre Nino ha saputo suscitare il mio profondo interesse, leggendo, ma mi rendo conto della necessità “pratica” di consegnargli il timone e il punto di osservazione. Rol è ovviamente il pezzo forte e le pagine in cui ci onora della sua presenza hanno un passo diverso, credo. Quello che sostiene di voler fare – mostrarci che può esistere “altro”, donarci uno spiraglio di meraviglia e testimoniare l’esistenza di una realtà infinitamente complessa – è struggente e quasi fanciullesco. La tragedia di Rol si radica nella ricezione mondana del suo “lavoro”: io sono qua per farvi pensare, per lasciarvi intuire l’immensità della mente e del mondo, ma voi siete qua per divertirvi, per mitigare il tedio delle vostre giornate, per esigere trastulli o, al massimo, per capire quali e quante balle racconto. Non voglio e non devo dimostrarvi niente, perché nemmeno i miei prodigi saranno sufficienti a scalfirvi davvero – io, per voi, sono e sarò sempre un pupazzo, un diversivo, uno spettacolo.
Ecco, Diotallevi abbraccia lo scoramento di Rol e, vivendo in un’epoca che ha fatto dell’intrattenimento cinico uno dei suoi pilastri portanti, ce lo racconta senza agiografie e senza istruire processi, lasciandoci invece lo spazio di dubitare – almeno un pochino – delle nostre certezze.

Effetti speciali aggiuntivi: qui c’è Piero Angela che va a trovare Rol. Una citazioncina tratta dal pezzo integrale:

Da decenni Rol si produce nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a “scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale” ecc.: cioè tutte persone… incompetenti in trucchi! Perché invece non vuole mai fare i suoi “esperimenti” sotto l’occhio di un esperto? Neanche una volta? Non serve rispondere che Rol non fa queste cose per lucro: il problema è di sapere se ciò che produce è autentico oppure no. Ma perché dovrebbe fare trucchi, affermano i suoi sostenitori, se non guadagna una lira? Si potrebbe facilmente rispondere che il prestigio (e il potere) che si ottiene convincendo gli altri di avere certe facoltà è forse ancora maggiore di quello che si può avere col denaro.

Qui c’è il libro – è uscito per Neri Pozza – e qui c’è il consueto link per il periodo di prova gratuito di Storytel. Ve lo rammento perché io l’ho ascoltato lì.

 

Parenti serpenti? Parenti serpenti. E anche particolarmente velenosi. Serpenti a sonagli. Crotali. Vipere cornute.
Evitate Pioggia sottile di Luis Landero – in libreria per Fazi con la traduzione di Giulia Zavagna –, se mal tollerate la gente che litiga o se somigliate un po’ ad Aurora… lei ascolta tutti con infinita mitezza, è paziente e ragionevole. Un po’ remissiva, certo, forse eccessivamente mansueta e fiduciosa, ma disponibile. Tollerantissima. Così brava ad ascoltare e ad offrire sempre una spalla su cui piangere che prima o poi ogni lagnanza finisce per esserle sottoposta. Solo tu mi capisci, Aurora. Solo tu mi dai retta. E Aurora capisce e ascolta… ma per quanto, ancora?

La famiglia in cui approda non è originariamente la sua. Sposa Gabriel e vince anche gli altri. Anzi, le altre. Gabriel è il figlio più piccolo di una stirpe in origine felice, fantasiosa e allegra. Le sorelle, Sonia e Andrea, non hanno mai smesso di rimpiangere il solarissimo padre, scomparso troppo presto per lasciare campo libero a una madre gelida, malmostosa e arcigna. Dedita al lavoro e perennemente terrorizzata dall’indigenza, ha allevato il trio con severità marziale, poche smancerie e lugubre efficienza. Le sorelle le attribuiscono l’origine di ogni infelicità e scelta sbagliata delle loro vite e Gabriel, che ha deciso di votarsi alla filosofia, non si sa bene chi sia diventato e si sospetta sia ancora il figlio prediletto. Sarà lui, innescando una catena di eventi (e conversazioni) irreparabili, a imbarcarsi in un tentativo di riconciliazione: cosa dite se ci rivediamo per festeggiare gli ottant’anni della mamma? GRANDE IDEA GABRIEL LASCIATELO DIRE.

Il romanzo “copre” le giornate campali dell’organizzazione di questo benedetto pranzo di famiglia. A raccontarcelo sarà Aurora che, in qualità di confidente e sfogatoio di Sonia, Andrea e pure dell’anziana madre, si trasformerà suo malgrado nel crocevia definitivo di ogni rissa. Mentre osserva con crescente perplessità lo scorrere della sua vita – a fianco di un uomo che ha saputo deluderla, nonostante lei fosse di ben poche pretese -, le sorelle la subissano di telefonate, messaggi e resoconti che partono dai torti dell’infanzia per approdare alle fratture scomposte – e guarite storte – dell’età adulta. Il risultato è una storia corale piena di miti fondativi “di casa”, testimoni inattendibili, punti di vista discrepanti, rancori grevi ed eterne ruminazioni per stabilire chi merita maggior compassione, chi ha sofferto di più, chi ha sacrificato di più.

Al di là delle specifiche beghe – che si propagano come un’infezione e si fanno via via sempre più grottesche, paradossali, turpi e inquietanti -, Pioggia sottile ci offre anche la prova del potere devastante delle narrazioni. Che siano racconti collettivi – che plasmano identità, intenti e orientamenti di masse altrimenti informi – o mitologie domestiche, le storie non sono mai neutre, innocue, prive di conseguenze. Landero consegna ad Aurora la terribile responsabilità di custodire quelle di tutti i suoi congiunti, in ogni tempo, in ogni versione. Quello che osserviamo è il progressivo sfaldamento del concetto stesso di realtà, perché ciascun componente dello scalognato clan non può che rivomitarle addosso il proprio pezzettino del puzzle, una soggettività che mescola i fatti all’emotività, ricordo nitido a invenzione. Il contesto comune scompare e sparisce anche ogni ricerca del dato di fatto, perché la memoria sopravvive solo nel racconto e il racconto è terreno instabile, influenzato da quello che vogliamo ficcarci dentro per prevalere, per magnificarci, per chiedere vendetta, per far riemergere quello che abbiamo provato e che anche a distanza di anni non smettiamo di provare – aggiungendoci pure qualche sensazione o conclusione inedita, maturata gradualmente o deflagrata all’improvviso. Quello che per una sorella può essere un episodio indelebile e campale per l’altra si riduce a una stupidaggine mai successa e ognuno di questi innumerevoli frammenti produce nuovo materiale da commentare, nuove opportunità di edificazione narrativa, nuove armi, nuovi segreti da sfoderare al momento giusto e da brandire come oggetti contundenti. Aurora, nel mezzo, è l’unica che tace. È un recipiente che capta e contiene. Ma ben sappiamo che anche il recipiente più volenteroso ha pur sempre una capienza limitata…

Pioggia sottile è un libro crudele e incalzante, un piccolo gioiello dell’esasperazione e del conflitto. Ne esco rasserenata? Direi di no, ma il punto è proprio quello: le storie non sono mai innocenti. E nemmeno noi che le ascoltiamo. 

È possibile innamorarsi perdutamente di una persona che non riusciremo mai a conoscere davvero e che in maniera sistematica ci nasconderà per tutta la vita informazioni rilevantissime sulla sua identità? C’è un limite fisiologico in quello che possiamo dire di sapere degli altri – “vicini” o lontani che siano: spesso dipende da omissioni deliberate e altrettanto spesso dipende da noi, da quello che capiamo e di cosa ricaviamo dai dati e dai racconti che riceviamo. Ma dove possiamo tracciare un confine d’accettabilità – sempre che tracciare un confine abbia senso? Gli inganni reggono perché scegliamo di farci prendere in giro o perché pensiamo di essere speciali, di essere le uniche persone al mondo che hanno potuto beneficiare del vero volto di qualcuno? O forse è solo una questione di fede o di sottomissione? Prendo quello che vuoi darmi e se vorrai darmi solo le briciole mi accontenterò, perché son bastate quelle tre briciole lì a rivoluzionarmi la vita e a farmi sentire felice.

Catherine Lacey si mette nei panni di una donna che è stata sposata per anni con un enigma all’apparenza insondabile. La X del titolo era una poliedrica artista che, per decenni, ha spaziato dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla fotografia. Una persona famosa, conosciutissima per il suo lavoro, onorata da retrospettive e considerata a pieno titolo una figura di spicco del mondo creativo.
X conquista una prima notorietà grazie a una performance decennale di rara ambizione, Il soggetto umano. In quest’opera tentacolare, che viene esposta in un accumulo di “prove” fotografiche e documentarie, X appare come una collezione di maschere: per quei dieci anni lì ha incarnato identità diverse, travestendosi, scegliendo nomi fittizi e presentandosi “in società” senza mai abbandonare questi personaggi. Le sue identità alternative hanno fatto musica, scritto libri, fondato case editrici, scatenato polveroni, fatto cinema e dipinto, senza lasciar mai intuire che dietro a tutta quella roba si celasse un’unica mente. Anche dopo essere uscita allo scoperto e aver raccolto gli applausi del caso, X non spiega mai le sue motivazioni, la sua vera provenienza, la sua storia. Non lo spiega alla stampa – che glielo chiede con assiduità – e non lo spiega a sua moglie, C. M. Lucca. Sarà proprio Lucca che, dopo la morte improvvisa dell’artista, decide di scrivere questa Biografia di X, un po’ per confutarne una piena di scemenze – per quel che può saperne, in fondo – e un po’ per esorcizzare X, per ricomporne l’immagine e scoprire, finalmente, chi era la donna che tanto ha amato… e che così poco ha condiviso con lei. Anche il loro matrimonio era solo un esperimento? Possiamo forse dire di aver creato una felicità autentica? Ma chi mai ho conosciuto io? Gambe in spalla, proviamo a capirlo, anche se molto male farà.

Lacey è molto abile e anche molto paziente. Il circo che tira in piedi con Biografia di X – tradotto per Sur da Teresa Ciuffoletti – è ambiziosissimo e anche ben congegnato, mi vien da dire.
Ogni volta che in un romanzo c’è un personaggio e se ne racconta la parabola si compila in fin dei conti una biografia immaginaria, ma qua troviamo una sovrapposizione di “filtri” e un’operazione di mimetismo che deforma la storia conosciuta del Novecento per creare una dimensione alternativa. Tanto per cominciare, gli Stati Uniti non esistono… almeno, per come li intendiamo noi. Nel mondo che Lacey immagina per Lucca e X, gli stati del Sud sono riemersi dalla Seconda Guerra Mondiale autodeterminandosi in un Territorio indipendente teocratico e totalitario. A questo Sud oscurantista e repressivo si contrappone un Nord dai valori liberali accentuatissimi e un Ovest che va un po’ per conto suo. I territori non comunicano tra loro – c’è proprio un bel muro a separarli – e si campa in una condizione di tensione perenne.
Il fatto che il paese di Lucca e X sia fatto così ha una profonda rilevanza e anche la scelta di collocare queste vite fittizie – ma riprodotte con la precisione che spetta a personaggi reali – tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta è funzionale alla tenuta del gioco. Sono anni di figure pubbliche mitologiche, anni di costruzione di un’idea di fama e celebrità che va a braccetto con sogni e volontà di riscatto, anni di tumulto creativo e tentativi di teorizzazione dello spazio individuale nella sfera pubblica. Di prese di posizione. Di truffe possibili, perché ancora possibile era far perdere le proprie tracce, cambiare pelle, vestirsi di inganni. Lacey consolida questi sforzi di radicamento in una realtà per noi familiare – ma anche profondamente straniante – costellando la Biografia di Grandi Nomi da far incontrare a X, nelle sue varie emanazioni. Da David Bowie a Carla Lonzi, X sfarfalla qua e là portando scompiglio e moltiplicando le superfici riflettenti e le cortine fumogene di questa storia. Ma c’è dell’altro, perché tantissimi passaggi, dichiarazioni pubbliche di X, dialoghi e testi critici che Lucca riporta come frammenti del “suo” mondo sono in realtà citazioni che Lacey ricava da testi, romanzi, interviste e saggi che esistono nel “nostro”. Non lo dichiara nel testo, se non in un’appendice conclusiva ricca, gustosa e labirintica, separata dal libro di Lucca.

Ma com’è, alla fine? Io l’ho trovato più interessante che “piacevole”, se devo sintetizzare. Lucca documenta la sua ricerca trascrivendo interviste, ripercorrendo la sua relazione con X e riempiendo i periodi di vuoto “informativo” con le parole di testimoni, fantasmi del passato e “vittime” quasi sempre ignare degli inganni di X. Incrocia quello che ha intuito con le prove contenute negli archivi di X, tramutando tutto questo materiale in un ritratto che riesce a ricomporre un puzzle fattuale ma mai a catturare davvero le motivazioni di sua moglie. Certe scelte diventano più chiare e certe congetture meno campate per aria, ma X resta un’anomalia, un pozzo auto-conclusivo di solitudine e mistero. Non tutte le parti dell'”indagine” hanno la medesima incisività, c’è una mastodontica quantità d’incredulità da sospendere – soprattutto perché ci viene chiesto espressamente di aderire all’inganno -, ho odiato X e ho odiato Lucca e nemmeno per un istante ho trovato in X un briciolo di quel fascino ammaliante che il mondo intero pareva attribuirle.
X è un mostro?
O X è diventata un mostro per sopravanzare circostanze mostruose?
Chi siamo noi per assolverla o condannarla?
Che diritto abbiamo di considerare patetica la sua vedova – che la piange e la maledice… ma la ama, anche se di lei ha intravisto solo un frammento?
E quanto senso ha poi associare alla trasparenza, alla sincerità e alla verità esibita e “vissuta” una dimensione di indiscutibile moralità?
L’arte è finzione?
O è mettendo gli altri nelle condizioni di immaginare che si può fare arte?
Quanto si può disperdere e frammentare la propria essenza prima di scordarci chi siamo?
Ed è importante sapere chi siamo o conta di più badare a quello che sentiamo?
Può un amore diventare l’unica verità da proteggere, anche se tutto il resto è un’illusione?
Se lo scoprite, venitemelo a raccontare. Nel mondo di X ci sarà sicuramente posto anche per un saggio critico sulla sua fosca eredità. 

Per individuare la mia scarsissima dimestichezza col giallo non occorre di certo un’indagine. Di indagini – più o meno audionarrate – mi occupo in generale pochissimo e ancor meno mi avventuro nel territorio del true-crime. Un po’ mi fa impressione per quello che succede e un po’ a farmi impressione è l’approccio collettivo alla cronaca nera tramutata in contenuto d’intrattenimento. Insomma, non è il mio… e forse è per quello che ho deciso di leggere due libri “d’indagine” che, nel fingersi totalmente “reali”, costruiscono un impiantone così artificioso da mettermi al riparo da quello che di solito mi infastidisce o poco mi avvince. In parole povere: se Janice Hallett non utilizzasse la struttura che abbiamo incontrato in L’assassino è tra le righe e che ritroviamo in questo secondo malloppone – sempre in libreria per Stile Libero con la traduzione di Gabriella Diverio e Manuela Francescon – mai mi sarei avvicinata. Ma ho un debole per le strutture matte… ed eccoci dunque qua.

Per Il misterioso caso degli angeli di Alperton non dobbiamo più destreggiarci tra carte processuali da revisionare per porre rimedio a un presunto errore giudiziario, ma seguiamo “in diretta” una giornalista/scrittrice nel lavoro investigativo che dovrebbe sfociare in un bel bestsellerone da spiaggia che, diciotto anni dopo i fattacci, ambisce a gettare nuova luce su un caso particolarmente torbido e sconvolgente, che molti punti oscuri conserva.
C’è di mezzo una setta – siamo angeli che devono proteggere il mondo dall’imminente venuta dell’Anticristo! …OK -, un neonato, due giovani plagiati e quello che appare come un suicidio rituale collettivo. Il leader carismatico è già in galera, ma poco o niente si è capito. Il neonato superstite sta per diventare maggiorenne e un’aura di omertà avvolge chi è uscito vivo dal magazzino di Alperton dove si è consumata la carneficina. CORAGGIO, TIRIAMOCI FUORI IL TITOLO DI PUNTA PER UNA NUOVA COLLANA DI TRUE-CRIME!

Amanda Bailey, tenace e sgradevolissima, si mette all’opera sollecitando contatti in polizia, riesumando documentari e opere di fiction spuntate come funghi dopo il caso, intervistando antichi testimoni, importunando assistenti sociali e incrociando elementi e vaghe piste per rintracciare il bambino e i due sopravvissuti. Insieme al caso “puro”, Hallett produce anche un gustoso backstage del lavoro editoriale e, in qualche modo, si arriva in fondo. Non mancano dei buoni colpi di scena e, nel complesso, resta sfizioso leggere trascrizioni di colloqui, messaggi, pagine di copione e mucchi di e-mail. Qui c’è anche una mezza ciavatta sovrannaturale che parte e di certo l’aspetto che ha più solleticato me è il commento – che voglio immaginarmi forse più satirico e pungente di quel che è – sul succulento mercato del true-crime bieco per davvero, ma di miracoli se ne verificano pochi. È farraginoso, insomma.

Caso a parte – che può sembrarci più o meno “soddisfacente” -, la domanda di fondo riguarda proprio l’opportunità etica di riesumare un caso vecchio per spettacolarizzarlo e rinnovarne la redditività. Quella che per un ipotetico pubblico è una storia, un puzzle da rimettere insieme per diletto o un modo per dimostrare la propria arguzia o affermare un successo professionale, per chi ha attraversato in prima persona quelle acqua torbidissime è vita reale, è passato che non si lascia seppellire, è macchia indelebile o brutto ricordo. Che diritto ha Amanda Bailey di specularci su? Dove va tracciato il confine tra sacrosanta ricerca della giustizia e puro opportunismo? Anche quello è un bel mistero… forse l’unico su cui sarebbe davvero interessante riflettere.

Dunque, Keanu Reeves aveva già gettato le fondamenta di questo mondo qua con una serie a fumettiBRZKR. Vorrei potervene parlare ma non l’ho letta e quello che sono in grado di dire è che Unute – il berserker del titolo – è disegnato per evocare una certa somiglianza con Keanu Reeves, anche se non abbiamo la corrispondenza perfetta che si è manifestata con Cyberpunk. Se ci mettiamo dentro pure John Wick – celebre per la sua allergia alla morte e il suo vasto talento per lo sterminio di nemici, amici e semplici passanti – mi viene da pensare che Keanu Reeves gestisca la sua produzione creativa all’interno di un vasto trope a metà tra il funereo e il metafisico. Ne siamo felici? Personalmente sì. Per The Book of Elsewhere si è fatto prestare tutte e due le mani da China Miéville, che del fantastico “letterario” è un nobile esponente e che in libreria mancava ormai da un decennio. Il risultato finale di questo incontro di mortifere ambizioni meditabonde somiglia più a Evangelion che a Kentarō Miura e, pur avendo un respiro piuttosto cinematografico e una base zarra indiscutibile, resta un esperimento cervellotico e misterioso, direi degno della curiosità che ha inevitabilmente suscitato.

Una dadolata di elementi di contesto: c’è questo tizio che non può morire e che è al mondo da circa 80.000 anni. Nato in circostanze quantomeno leggendarie – sei figlio del fulmine! -, vaga ramingo e invulnerabile per il pianeta cercando risposte e seminando occasionalmente distruzione. Legami? Pochi, se escludiamo un maiale particolarmente aggressivo – anzi, un babirussa. Unute accetta di farsi “studiare” e di collaborare con un’unità militare segretissima nella speranza che qualcuno trovi il modo di garantirgli la mortalità. Unute non vuole morire, vuole avere la POSSIBILITÀ di morire. Può sembrare una strana ambizione, ma io non sono una specie di semidio che campa dai tempi del Neolitico, quindi cosa ne posso sapere. E cosa ne sanno Reeves e Miéville? Il giusto, direi.

I libri con personaggi che gestiscono l’eternità o l’immortalità sono quasi sempre ridicoli o, ben che vada, poco appaganti. Ogni volta che il personaggione eterno apre bocca ci aspetteremmo chissà quale rivelazione, ma finiscono spesso per donarci delle cretinate conclamate. O li si ammutolisce – TROPPO INSONDABILE È IL MISTERO CHE MI AMMANTA, ECCOVI UN SILENZIO CHE DOVREBBE FARMI PASSARE PER SAGGIO MA È SOLO UN MALDESTRO ESPEDIENTE! – o li si rende oracolari fino all’ingestibilità – insomma, non si capisce niente – o la si butta dichiaratamente in caciara, trasformando tutti quanti in macchiette e buonanotte. Con Unute, qua, c’è una dignitosa via di mezzo. Aiuta il contesto, che funziona su molti registri diversi, e aiutano i flashback che esplorano diverse epoche e fasi della lungherrima vita di Unute – e aiuta quello che lui sostiene di sapere sul funzionamento della memoria. C’è una trama con indagini, cospirazioni, doppiogiochismi e spazi decenti dedicati alla relazione “umana”. Unute crea frizioni, paura e discordie, perché non controlla quello che fa durante la “trance” e non ricorda cos’ha fatto.
È un mostro?
È una divinità?
È uno scherzo del cosmo?
È unico nel suo genere?
È l’araldo dell’apocalisse o una “semplice” forza della natura?
Va distrutto o va aiutato?
Là fuori potrebbe esserci di peggio?
Chissà! Ma mi farebbe piacere se Reeves e Miéville continuassero a domandarselo – supercazzolandoci magari un po’ meno sul finale.

[Una nota pratica: com’è in inglese? Non proprio una passeggiata di salute – Miéville non può non oracoleggiare e il nucleo complessivo è leggenda o speculazione filosofica. Se non volete affannarvi eccessivamente, forse conviene attendere la traduzione.]

Esordirei ribadendo il mio assoluto plauso per l’ultima uscita pubblica di Wolverine – che doveva essere anche la sua gloriosa uscita di scena… ma poi OPPALALÀ IL MULTIVERSO! Logan è un film talmente riuscito e mirabile che, in un contesto completamente metanarrativo come quello di Deadpool, diventa un pezzo della trama… anzi, una premessa “fondante”, capace di sgretolare addirittura una linea temporale.
Ciò detto, che accade?
Non ve lo spiattello con dovizia di dettagli per non produrre spoiler, ma facciamoci bastare questo: Deadpool pare ormai condurre una vita “normale”, ma la grigiastra routine viene ben presto sconvolta da un Prestigioso Incarico che si rivela all’istante una Gran Fregatura. Deadpool va dunque in cerca di un Wolverine – fra i tanti disponibili nelle linee temporali e nelle dimensioni alternative – da “usare” per salvare il suo mondo e per aiutarlo a diventare, finalmente, un eroe degno dei nobilissimi Avengers.

Il fatto che ci sia la TVA “operativa” e che ci sia ancora la Sacred Timeline da tenere in piedi aggiunge spasso e un utilizzo creativo delle varianti dei personaggi – con risultati INCREDIBILI. Credo sia la prima volta (dopo un Loki Coccodrillo) in cui ho pensato che l’introduzione del multiverso non fosse l’anticamera dell’inferno ma qualcosa che può mettersi al servizio del divertimento dello spettatore, senza ridursi a un mero espediente per impalcare trame improbabili o allungare il brodo.
E da cosa dipende? Dal tono.
L’umorismo greve di Deadpool è una cifra stilistica marcata e non posso dire di trovarlo particolarmente geniale, ma al di là delle battute sulle chiappe e dei doppi sensi da spogliatoio, la roba che mi fa divertire davvero è la quarta parete che va a farsi benedire. E un espediente che può risultare furbetto o diventare bellissimo: qua è come avere un personaggio che commenta quello che succede come se fosse parte della stessa fandom che guarda il film al cinema e che conosce le vicissitudini produttive delle saghe. E funziona.

Se nel multiverso vale tutto – e quindi niente ha più quell’aura di irreparabilità che ti fa credere fermamente che quello che stai guardando è significativo, serio e importantissimo -, il multiverso trattato come il paradosso matto che è diventa un gioco favoloso e “credi” ai personaggi perché sembrano al corrente del “tuo” mondo. Anche loro vengono da lì e lo sanno… e vogliono regalarti un bello spettacolo.

Ci sono camei EPICI, pernacchie continue alla Fox, una colonna sonora ragguardevole e combattimenti coreografati con la follia che solo due personaggi tecnicamente immortali possono reggere. È come guardare i blooper di 35 film di supereroi frullati insieme… e l’esagerazione è talmente iperbolica e sfacciata che tutto quanto trova un suo equilibrio e ti tira dentro. Una gioia? Una gioia.

Dunque, fughiamo subito un dubbio: se volete leggerlo perché amate Roger Federer (o il tennis) in maniera viscerale non credo vi convenga. Qui il tennis e il blasonato torneo di Wimbledon sono elementi utili a produrre un effettone di romantica abnegazione, ma non è un romanzo SUL tennis.
Henry Evans, il giardiniere del titolo, ha effettivamente curato per mezzo secolo i prati di Wimbledon, ma manco a lui frega niente del tennis –  o del verde, direi. La ragazza che amava era una giocatrice accanita e, nella speranza di ritrovarla, Henry ha accettato un posto di giardiniere al circolo perché giocare a Wimbledon da professionista era il grande sogno della sua Rose. Com’è andata? Non benissimo.

Il padre di Henry, rimasto vedovo, si trasferisce col figlio a Blake Hall per prendere servizio come giardiniere. Blake Hall è Downton Abbey, tanto per produrre un’immagine immediatamente comprensibile. Henry conosce Rose – terzogenita dell’altolocata famiglia – mentre gironzola in bici per la tenuta. Sono coetanei e l’indole dimessa e arrendevole di Henry pare garbare alla determinatissima Rose. Dato che sono poco più che bambini, il loro legame non desta scandali o tragiche preoccupazioni, ma l’amicizia è destinata a crescere e il tempo a passare. Sullo sfondo – ma mica poi tanto – i prodromi della Seconda Guerra Mondiale sono in pieno svolgimento. Che ne sarà di Blake Hall e dei suoi occupanti?

Il giardiniere di Wimbledon – in libreria per Feltrinelli con la traduzione di Chiara Mancini – è costruito a partire da una testimonianza diretta di Henry, resa a una giornalista specializzata in questioni di cuore un po’ smancerose. Quest’intervista fittizia a Harry “anziano” diventa un grande flashback che ci presenta la sua versione della storia – con la “s” piccola e con quella grande – e della relazione con Rose. Ora, io ho faticato enormemente a trovare verosimile i cinquant’anni passati ad aspettare a Wimbledon la fidanzatina di gioventù e credo dipenda anche un po’ dall’esecuzione. L’idea è struggentissima, ma per reggere uno struggimento simile credo serva un peso specifico diverso… e Crilly m’è parsa poco sostanziosa. È un amore raccontato per schemi ricorrenti – resi necessari dalle circostanze di clandestinità della relazione, certo, ma anche molto poco avvincenti da seguire – e azioni “pure”, senza chissà quali indagini interiori.

Quello che spicca e che ho trovato molto più “forte” è l’abbozzo di indagine sociale. Henry e Rose sono condannati dalle diverse posizioni che ricoprono nella catena alimentare e quello è l’unico conflitto davvero rilevante del romanzo.
Henry sa che i figli dei giardinieri non sposano le figlie del proprietario della tenuta e Crilly è brava a creare un’atmosfera corale che accentua la dicotomia tra i piani alti della casa e quelli bassi del personale. La condiscendenza dei “ricchi” verso i loro dipendenti – che regge solo se tutti restano al loro posto -, l’incapacità di percepirsi in una posizione di privilegio, la deferenza obbligata – che tramuta un lavoro onesto e dignitoso in servitù “vera” – e un intero sistema sociale che vuol farti credere che svuotare il pitale del signor Blake sia un grandissimo onore si può riassumere un po’ così: vi concederò la possibilità di lustrarmi le scarpe se mi dimostrerete gratitudine eterna e se potrò rammentarvi di continuo che pure voi mi appartenete. Ecco, l’andazzo è quello… e Rose è figlia di quel mondo, oltre che del suo tempo. Dopo aver visto in azione Lady Sybil, qua ti piglia lo scoramento.
E il tennis? Rose usa Henry come sparring partner, punto. Il tennis è il suo unico afflato di sincera rottura con un contesto di partenza che dice di schifare ma che in realtà le fa comodo – perché non ha idea di cosa ci sia davvero oltre i cancelli della sua splendida dimora.

Insomma, per me è stata una lettura tiepidina “da viaggio”. O forse ho un cuore di pietra e rosico ancora per Sinner-Berrettini al secondo turno di Wimbledon.