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Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Book cover

La gente di pianura diventa cattiva perché non ha niente da guardare: non c’è un ostacolo naturale capace di creare un limite ai desideri ma la vastità monotona di quello che ti circonda scoraggia l’iniziativa. Insomma, vuoi andare chissà dove perché il paesaggio appare “facile” – e pensi che l’orizzonte ti sia dovuto – ma per strada non ti ci metti perché il potenziale percorso è semplicemente eccessivo. Marta Cai esordisce per Einaudi con Centomilioni allestendo il suo teatro proprio in un’evanescente cittadina di pianura, affidando alle sue “vittime” di finzione il compito di raccontarci l’insoddisfazione, lo stallo perenne di chi molto vuole ma pochissimo crede di poter fare, la claustrofobia assoluta delle radici, della meschinità fatta passare per affetto, della cura come ricatto.

L’unica cosa che Teresa e Alessandro hanno in comune è forse la necessità viscerale di scappare. Lei non concepisce nemmeno la possibilità di comprare un vestito senza la supervisione della famiglia tutta, lui si piace da impazzire e non ritiene che serva altro. Lei ha ben superato i 40, lui ne ha poco più di 20. Lei è una via di mezzo tra una bambina decrepita e una zitella prigioniera, lui non ha mai trovato il modo di farsi prendere sul serio. Entrambi coltivano una sorta di esistenza parassitaria: lei ostaggio dei genitori anziani – “con tutto quello che abbiamo fatto per te non vorrai mica abbandonarci?” – e lui come zavorra per il Vecchio Porco che mantiene la madre. Lei lo ama come ci si innamora di un cantante alle medie… e lui l’ha capito.

Son poche pagine, ma il rancore che ci troverete dentro penso vi basterà per lungo tempo. Più che Teresa – che è una creatura paradossale che può far pena come rabbia – quel che colpisce è l’accuratezza della ricostruzione di quella miriade di grettezze quotidiane, abitudini impermeabili al cambiamento e superbie imbecilli che fanno “paese”… e che sono fin troppo vere. A tenere insieme tutto è l’eterno tema dei soldi: chi ne ha, chi se li merita, chi li butta, chi ne vuole di più, chi fa progetti senza averne, chi non ha nemmeno l’immaginazione per spenderli e chi li conta in tasca agli altri, incessantemente. Cento milioni, pensati in lire per farli sembrare di più – anche perché andranno divisi in tre: ecco il premio per il più mesto degli inganni. Sono pochi? Sono tanti? Non si sa, dipende da com’è il paesaggio di casa vostra. Teresa e Alessandro vivono in pianura. E vivere, per loro, è un debito insormontabile.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

Ho bisogno di servirmi di un potente stereotipo che mi risparmierà mille preamboli anche se l’uso stesso di uno stereotipo dovrebbe spingermi a dire che no, non dovremmo approcciarci alla realtà avvalendoci del mezzuccio dello stereotipo perché possiamo fare molto meglio di così e tutto questo discorso è di fatto un preambolo esasperante che spero mi aiuti a non farmi prendere a sassate MA bisogna dire che Janice Hallett – tradotta da Manuela Francescon per Einaudi Stile Libero – ha scelto di scrivere un giallo con una struttura atipica, una forma epistolare “moderna” e una quantità devastante di asimmetrie informative perché, sotto sotto, è alla nostra portinaia interiore che vuol parlare.

Credendomi saggia e illuminata ho spesso esclamato HALLETT A ME NON LA FAI, NON MI LASCERÒ IRRETIRE DA QUESTO IPERTROFICO INNO AL VOYEURISMO ma poi m’è anche venuta voglia di suonare tutti i campanelli per scovare il condomino che questa settimana non ha chiamato l’AMSA ma ha mollato in cortile vicino ai bidoni un trolley, due ventilatori industriali e una batteria di pentoloni. Quindi no, non mi credevo pettegola ma sono comunque sprofondata nell’abile trappola, trovando anche piuttosto liberatorio impicciarmi degli affari di questo manipolo di gente ben educata, ancor meglio intenzionata e irrimediabilmente disastrata.

Non spoilero, giuro. L’assassino è tra le righe gravita attorno a una compagnia di teatro amatoriale. La nipotina di 2 anni della coppia dei “fondatori” – che sono anche un po’ la Famiglia Alpha del microcosmo cittadino – va curata per una rara forma di tumore al cervello e bisogna raccogliere una barca di soldi per far arrivare delle medicine sperimentali, esosissime e miracolose dagli USA. Per buon vicinato e umana creanza, tutti si sbattono come matti in questa raccolta fondi che promette di salvare la vita alla piccola Polly e una persona ci lascia le penne. Chi è stato davvero? Il nostro punto di vista è quello di due tirocinanti di uno studio legale che ricevono man mano dal loro capo la documentazione processuale. Stanno preparando l’appello e la convinzione dello studio è che in galera non ci sia chi dovrebbe invece starci. Insomma, nulla è come appare e la vita della provincia inglese è un gran teatrino, uno spettacolo di certo migliore di quelli periodicamente messi in scena sotto l’autorevole supervisione dei coniugi Hayward.

Quello che ci ritroveremo a gestire insieme alle volenterose praticanti è un gran malloppo di e-mail,  messaggini e articoli che nel loro disordinato accumulo nascondono una verità dimostrabile. È divertente da leggere perché ci si sente al contempo più consci delle dinamiche “vere” del gruppo – negli scambi privati si svela spesso quello che a tutti non si può dire – ma anche estremamente azzoppati da una calibratissima opacità di fondo. Chi ci perde? Chi ci guadagna? Contano più i soldi o il prestigio sociale? Tra vergogna, rancore, opportunismo, manie di protagonismo, provincia asfittica e bugie bianche che diventano nerissime,
Hallett mette in scena – e con il fattore-teatro guadagna anche 1000 punti meta-narrativi – un godibile congegno investigativo che seguiremo con voracità, moti d’esasperazione e la sacrosanta indignazione che ogni Cittadino Rispettabile sente di dover periodicamente sfogare su Facebook… cosa che le portinaie professioniste non fanno, perché loro stanno lavorando sul serio.

Nota ulteriore, di non scarsa rilevanza: sì, c’è una soluzione. Hallett non vi congeda con un “e ora tocca a te scoprire chi è stato!”. Insomma, magari troverete altre motivazioni per scagliare il tomo contro al muro, ma dell’inconcludenza o dell’eccessiva interattività non servirà preoccuparsi.

Di potere, soldi e crudeltà credo si possa parlare a ogni latitudine e in ogni epoca. Deepti Kapoor sceglie l’India, casa sua – anche se vive in Portogallo e scrive in inglese -, per molla “morale” e per esperienza maturata sul campo, da giornalista che di Delhi ha visto sia i salotti dorati che i cantucci che difficilmente finirebbero in una presentazione istituzionale sull’ascesa di una nuova potenza del mondo globalizzato. Prima uscita di una saga già ambiziosissima (e in avanzata fase di adattamento televisivo/cinematografico, pare), L’età del male – tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile Libero – è un romanzo sul crimine come compromesso, come rivalsa e sogno vendicativo. È anche una storia dove non è previsto che si vinca o si perda, perché il gioco è truccato in partenza e gli abissi sociali, economici e culturali che separano le pedine in campo sono talmente macroscopici da deformare il concetto stesso di giustizia. Kapoor disegna un sistema che demolisce (o ha perso) i punti cardinali dei Grandi Ideali per rimpiazzarli con nuove divinità tentacolari: il male patito e subito diventa un credito nei confronti del mondo, la base “teorica” che giustifica il male che si infligge per riportare la bilancia in equilibrio.

Kapoor ci butta nell’orbita di una famiglia malavitosa all’apparenza onnipotente – intrallazzi politici, monopoli economici, devastazioni urbanistiche e via così – in via di “legittimazione”. Il più pulito dei Wadia ha la rogna, ma il sistema che hanno messo in piedi a partire dai due patriarchi – Bunty, quello di città che fa affari, e Vicky, quello di “campagna” che fa paura – ha generato una tale quantità di soldi da rendere la famiglia non solo intoccabile ma anche inserita nel tessuto governativo e finanziario della gente che conta e che decide. È come se tutti fossero alle loro dipendenze, dalla stampa alla polizia, perché conviene mangiare da quel piatto e a fare gli eroi o i difensori dei deboli si campa poco. L’anello “debole” è Sunny, unico figlio di Bunty, erede teorico dell’impero e pure un po’ rampollo mezzo coglione che nessuno sa bene dove piazzare perché dove lo metti fa danni e nemmeno lui ha capito con granitiche certezze chi essere o cosa ci si aspetta da lui. Sunny non è identico agli altri Wadia ma sa far schifo a modo suo, ha dei sogni che somigliano a quelli di un colonialista straniero (che cortocircuito strabiliante) e un invalidante bisogno – destinato all’eterna frustrazione – di essere approvato dal suo temibile papà. Come ogni pagliaccio, Sunny è triste. E questa sua ambivalenza, queste numerose identità che prova ad assumere nella speranza di trovarne una che attecchisca e lo trasformi in una persona degna di rispetto – ecco, è il dramma di questo bambinone crudele e fondamentalmente patetico a mandare avanti la narrazione. Attorno a Sunny gravitano Ajay – se c’è al mondo un povero Cristo è lui – e Neda, giornalista in erba che si lascia lì per lì abbagliare e che il fosso non lo scansa.

Il romanzo racconta la parabola di Sunny e dei suoi riluttanti satelliti in un’alternanza di punti di vista e di momenti diversi. Si salta qua e là beneficiando di informazioni astutamente incomplete che producono uno svelamento progressivo del quadro generale e che collocano ogni azione in quell’interessante zona grigia morale che penso sia l’anima vera di in una storia che indaga il male come compromesso o, come nella miglior tradizione, come “offerta che non si può rifiutare”. Succedono cose tremende, sbagliate, di un’ingiustizia che insulta ogni principio. E succedono in un labirinto con un difetto di progettazione intenzionale: non si può uscire, ma ci si illude di poter scegliere da che parte andare.

Padri! Figli! Sangue! Bei completi di sartoria! Dramma! Eredità! Ricatto! Tremenda vendetta! Disprezzo imperdonabile per la vita altrui! Macerie! Speculazione! Giornalisti prezzolati! Ubriachi! Ubriaconi! Ubriachi attaccabrighe! Altri ubriachi! Ubriachi armati di balestra! Rimpianto! Caste! Piscine! Delusione! Raccapriccio! Tirapiedi! Scrocconi! Ceffi tremendi! Imbecilli! Scalate sociali! Reietti! Conferenze stampa! Povertà nera! Feste dove non si capisce mai cosa ci sia da festeggiare! Prigioni! Colpa! Redenzione! Architettura! Schiavitù! Traffici abietti! Soprammobili carissimi! Santo cielo, c’è dentro di tutto e tutto contribuisce a tracciare un ritratto scoraggiante della disposizione dell’essere umano alla crudeltà. Cormac McCarthy a parte, non posso dire di avere una gran “esperienza” di epopee criminali, ma mi pare che Kapoor abbia messo insieme un congegno che funziona. Incalza al punto giusto, anche se non è sempre omogeneo a livello di ritmo e certe digressioni/parentesi mi son sembrate un po’ “troppo”, pur capendone la funzione nell’impianto generale del libro (e dei seguiti promessi). Insomma, è un polpettone di opportunissima complessità e di intriganti dilemmi – dotati anche di una rilevanza significativa, se li inquadriamo in un’ottica socio-economica che non può non tangerci e di cui inevitabilmente facciamo parte.

Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Leggo Hamid sempre con grande interesse – Exit West, il romanzo precedente, credo sia un libro importantissimo e avevo aspettative assai vispe anche per questa novità. In L’ultimo uomo bianco – in libreria per Einaudi nella traduzione di Norman Gobettinon ci si sposta nello spazio utilizzando porte “magiche” (passatemi la semplificazione) ma al centro della storia c’è un altro fenomeno insolito, rivoluzionario, pronto a sovvertire l’ordine costituito e pure inspiegabile: i bianchi cominciano all’improvviso a diventare neri. Lo scopriamo insieme al protagonista, che un bel giorno si sveglia, si specchia e scopre di avere la pelle marrone. Così, sbam. È sempre lui, ma non è più un uomo bianco.

Quello di Anders è un caso isolato? Giammai. Tutti attorno a lui cominciano gradualmente a cambiare, in un crescendo di sconvolgimenti identitari che il tessuto del mondo non può che metabolizzare in maniera conflittuale, farraginosa, imperfetta e faticosa. Seguiamo la parabola di questo mutamento rimbalzando dal punto di vista di Anders a quello di Oona, la ragazza (anche lei bianca) che stava frequentando alla vigilia di questo immane cambio di paradigma.

Anders e Oona non sono due antropologi e nemmeno due col dottorato in sociologia, quindi non ci offriranno effetti speciali “concettuali” di portata sconvolgente, ma accompagnandoli nella loro quotidianità ci faremo strada in questo grande WHAT IF constatandone l’impatto su un orizzonte di ordinarietà che potrebbe somigliare a quello di chiunque. Questa normalità che incarnano penso sia al contempo una scelta utile, ma anche una fragilità di fondo. O, almeno, è così che ho provato a spiegarmi la sensazione di “ma tutto qui?” che ho spesso provato leggendo.
È un romanzo che parte da una premessa ricchissima di implicazioni e, sebbene sia delicato, profondo e splendidamente eseguito, lascia comunque una certa insoddisfazione – e non di sicuro per carenza di conflitto che emerge nel mondo “nuovo”. Sono personaggi che sembrano svuotarsi col procedere della storia, come se l’aver vissuto un fenomeno così portentoso li riguardasse alla lontana. Non so se è Hamid che vuol dirci che possiamo superare egregiamente anche il più inedito e potenzialmente destabilizzante dei fenomeni – e che nessun preconcetto regge di fronte al vivere davvero nei panni di qualcun altro – o se son solo Anders e Oona ad avermi “dato” un po’ meno di quel che volevo sapere.

I libri “risolvono” problemi? Nei libri possiamo trovare soluzioni funzionali ai nostri crucci o grimaldelli infallibili per raddrizzare le storture della nostra esistenza? Mi capita tutti i giorni di ricevere variazioni sul tema del “cosa leggo per neutralizzare [inserisci difficoltà esistenziale molto specifica]” e non so mai bene come gestire un’aspettativa così potente e mirata. È un assunto di base che equipara l’effetto di un libro a quello di un medicinale, quasi. Aiutami, opera di narrativa, mostrami la strada, spiegami esattamente cosa fare, tirami fuori da questo pantano. A me viene da prenderla molto più alla larga ed è capitato spesso che in una storia che faceva altro rispetto alle mie tribolazioni trovassi incidentalmente qualcosa di “utile”. Diciamo che leggo con un certo fatalismo e senza cercare esattamente uno specchio. Potrebbe sembrare poco romantico, ma penso sia vero il contrario: ci speri così tanto che il libro-medicina può essere ogni libro che leggi, anche se non lo prendi in mano con la pretesa che ti illustri per filo e per segno come campare meglio. Ogni volta che ti trovi è una specie di miracolo e, aspetto doppiamente dirompente, quando non ti cerchi ma ti trovi non puoi che vederci un grande disegno del destino. E che c’è di più romantico di un destino risolutore?

Ester Viola, qua, non la vede troppo diversamente, anche se dalle premesse Voltare pagina (Einaudi) potrebbe somigliare a un libro che parla di libri capaci di districare a colpo sicuro i garbugli dell’amore. Le conviene che venga venduto così, per l’attitudine alla ricerca del libro-medicina di cui si parlava prima e per la fortuna che i “libri sui libri” continuano ad avere, ma c’è quel buonsenso di fondo e quel sano istinto al non crederci troppo che tende a restarti appiccicato addosso dopo aver superato una serie di fregature e tranvate spiacevolissime ma molto formative. La corazza dell’ironia e una perentoria esortazione a dosare le aspettative fanno il resto. Qui, in dieci “casi di studio” appaiati ad altrettanti libri, Viola riflette sulla realtà minuta dell’amore e sull’estrema fallibilità a cui tutte e tutti ci esponiamo quando ci son di mezzo i sentimenti. Dalle corna all’asimmetria dei rapporti, dal matrimonio alla fiducia reciproca, dall’abitudine alla vendetta, Voltare pagina è sorretto da un’idea strutturalmente buona che Viola tiene in piedi con palese divertimento – anche nostro.

Ecco l’indice:

Sì, ne uscirete magari anche con qualche spunto bibliografico da esplorare ulteriormente, se già non vi è capitato di leggere queste storie. Vi troverete in Reza, Hornby, Starnone e compagnia? Solo il destino può stabilirlo. Voi, però non aspettatevelo. 

Dato che il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è bellissimo, ho deciso che la butterò in caciara.
È trascorso un discreto numero di anni dalla pubblicazione della sua ultima creatura e, nonostante i numerosi “non voglio più scrivere narrativa” qua e là pronunziati, Ammaniti è tornato. Ho letto Anna e ho visto la serie – ricavandone parziale consolazione – ma in fondo al cuore mi sono sempre rifiutata di credere alle dichiarazioni di auto-pensionamento dal mestiere di romanziere. Preferivo immaginarmi Ammaniti alle prese con la sindrome di George R.R. Martin, una situazione che visualizzo così, avvalendomi della pubblicità del digestivo Brioschi.

Fai la televisione, Niccolò. Segui i tuoi interessi. Mettici il tempo che ci vuole. Anzi, falli aspettare. Maledetti, sempre lì a chiedere dei libri nuovi. Un assillo. Escono trendordicimila romanzi l’anno, ma loro no, non possono leggere uno di quelli, il nostro vogliono leggere. E INVECE NO, TIÈ, DOVETE ATTENDERE. Quanto? Non si sa. Non dare spiegazioni, allontanali con un bastone nerboruto.

Maria Cristina Palma, la protagonista di La vita intima – inevitabilmente in libreria per Einaudi Stile Libero -, divide con noi solo la stupidità assoluta che ci assale quando andiamo dal parrucchiere a chiedere “qualcosa di nuovo”. Stavamo così bene prima. Ci riconoscevamo. E invece no, dobbiamo farci del male e uscire azzoppate da un nuovo cruccio. La gente che ti ama, per pietà, ti dirà che stai bene e che il nuovo taglio è molto francese ma, grazie al cielo, i nostri scempi non avranno il potere di far vacillare il governo. I capelli di Maria Cristina Palma sì.

Perché? Perché Maria Cristina è la moglie del presidente del consiglio, è dotata di una bellezza fuori scala rispetto alle altre femmine della nostra specie – certificata, per altro, dallo studio di una remota università americana che dopo calcoli estenuanti l’ha ufficialmente individuata come DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO, facendo la gioia di ogni testata giornalistica che sfrutta spudoratamente il clickbaiting  e non può muovere un passo senza che i suoi comportamenti vengano analizzati, sezionati e aggiunti al mosaico infinito di un’immagine pubblica che ha conquistato vita propria, allontanandosi a grandi falcate dalla Maria Cristina originaria. Che poi è questa – l’impietoso ritratto è curato dalla sua mamma, comparsa memorabile e dalla lucidità tombale:

Ricorda che questa bellezza non te la sei conquistata. È un dono che ti abbiamo fatto io e tuo padre e devi saperla portare, proprio come il vestito da reginetta. Oggi, se fossi stata spiritosa, te ne saresti fregata degli altri e avresti fatto vedere a tutti chi era la regina della festa. La bellezza, senza coraggio, è un guaio. Proprio perché sei bella non verrai presa sul serio e ti dovrai impegnare cento volte di più delle altre per dimostrare che sei intelligente, profonda, per non essere usata e trattata come una scema dagli uomini. Tuo nonno è il primo che ha portato dall’America il latte detergente in Italia e la nonna sa prendere al lazo i buoi. Tuo fratello sa tuffarsi di testa dallo Zingaro. E tu che sai fare? Sai piangere e scappare come Gina Mangano, la figlia del panettiere? Noi che abbiamo il sangue dei Sangermano, dobbiamo fottercene del giudizio della gente. Persino tuo padre, che è uno stronzo, ha scalato l’Everest. Tu, gioia, non emergi per carattere, ma almeno impara a portare la bellezza come una regina. Capito, amore mio?

Son solo le sfighe a schiacciarci o possono pensarci anche le fortune? Maria Cristina è un magnifico vaso di coccio in mezzo a tantissimi recipienti molto meno gradevoli alla vista ma più coriacei – e forse pure pieni di qualcosa, più capaci di orientarsi nel mondo, più duttili e scafati. Accusata spessissimo e volentieri di sapere di poco, percepita quasi universalmente come appendice muta e gradevole a vedersi di uomini importanti – dal primo marito scrittore al premier in carica – e cronicamente in cerca di un punto di riferimento che non la abbandoni in circostanze tragiche, Maria Cristina cerca di limitare i danni e di tenere in piedi le apparenze, ma avrà mai la possibilità di raccontare davvero una storia che sia sua? Il domandone si fa ineludibile quando, per un fortuito incrocio di antiche traiettorie, Maria Cristina si imbatte in una fiamma di gioventù che le gira un video “d’archivio” potenzialmente in grado di devastarle la vita. Barcollando – anche grazie a un alluce tumefatto – sul filo sottile dell’accettabilità, Maria Cristina andrà di fatto alla ricerca del suo nucleo reale, spogliandosi come una favolosa cipolla di tutte le stratificazioni, le preoccupazioni e le sovrastrutture che la spingono automaticamente a mettersi in posa per una schiera di fotografi ipotetici anche quando è da sola in mezzo a un bosco. Chi diventiamo, quando smettiamo di volercelo far dire dal riflesso che produciamo sugli altri? Che cosa serve davvero per sentirci in pace?   

Come da tradizione, Ammaniti ci accompagna a passo di carica e con un’allegria tragica e incontenibile verso un orizzonte minaccioso. Maria Cristina è un gorgo di paradossi che affondano le radici nel presente delle nostre piccolezze, mentre attorno a lei si affollano schiere di comprimari miseri, strambi e stupendi. Ho riso come non mi capitava da Ti prendo e ti porto via e, tra lampi grotteschi e sprazzi illuminanti, ne sono uscita pure più speranzosa. Dal Bruco – evanescente spin-doctor e guru eccentrico della comunicazione – ai custodi astiosi delle decadute terre di famiglia, dai fantasmi dell’adolescenza ai santoni della creatività perduta, dai personal trainer agli hair-sculptor delle ricche signore, dai cani zoppi alle molte comparse della politica nostrana, dal giornalismo ruffiano alla mondanità opportunistica c’è poco da stare allegri… ma forse dipende solo da come la si prende. “Portare la bellezza come una regina”? Forse vale anche per il resto… soprattutto per le miserie troppo vere, troppo cattive e dolorose per essere confezionate, mascherate e riconvertite in intrattenimento per una platea famelica e incontentabile. A chi dobbiamo la verità? Al nostro cuore, prima di tutto. 
Grazie, signor Ammaniti. Che gioia rivederla in giro.