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Gli studi che tentano di mappare il funzionamento dei nostri cervelli o anche solo di descrivere la “mente” o la nostra capacità di reagire al mondo e di muoverci su piani che aggiungono creatività, immaginazione e sentimento alla mera dimensione del reale sono numerosissimi, multidisciplinari, intricati. La carne al fuoco è tanta, ma su un assioma si tende a concordare: abbiamo capito parecchie cose, ma il cervello è ancora un mistero. Abbiamo scalfito la punta dell’iceberg, ma l’ignoto resta inconcepibilmente vasto.

Di cosa siamo davvero capaci? La mente “sa” qualcosa che sfugge alla nostra stessa consapevolezza? È possibile che alcune persone siano in contatto più diretto con queste ipotetiche “sacche” cognitive misteriose che ci permetterebbero di sbloccare chissà quale forma di conoscenza? Le coincidenze esistono e basta o ci sono cervelli portentosi che sanno unire i puntini e vedere quel che ancora non c’è? Non ci è dato saperlo e non lo sa nemmeno Sam Knight, che con Ufficio premonizioni – in libreria per Mondadori Strade Blu con la traduzione di Doriana Comerlatiricostruisce la parabola professionale di un giovane psichiatra britannico e delle sue ricerche (insolite per gli anni Sessanta/Settanta come potrebbero risultarlo anche ai giorni nostri) al confine tra scienza, ragione e paranormale. Ambizioso e desideroso di affrancarsi dalla casa di cura – anche se sarebbe qua davvero più corretto usare il termine “manicomio”, con tutte le tetre accezioni che si tira dietro – in cui prestava servizio, John Barker comincia a interessarsi al tema della precognizione dopo il terrificante disastro di Aberfan – un cumulo di detriti minerari collassa e seppellisce una cittadina del Galles. La tragedia aveva delle cause spiegabili, ma meno spiegabili parevano essere i tanti presagi di sventura che qua e là per il paese erano stati “registrati”, con riferimenti precisi e circostanziati. CHE QUESTA GENTE ABBIA VISTO IL FUTURO? Riflettiamoci meglio, pensa Barker, strutturiamoci per mappare l’operato di questi presunti veggenti e per capire quanto spesso i fatti daranno loro ragione.

Insieme a un giornalista scientifico – che poi diventerà una voce celebre nel documentare il programma spaziale – Barker “apre” una casella postale per raccogliere premonizioni e si appoggia a una redattrice per catalogare e verificare quel che arriva. L’Ufficio Premonizioni abita una zona grigissima, a cavallo tra sensazionalismo, curiosità morbosa, mitomania e autentico interesse scientifico e, nella sua stramba ambiguità attira innumerevoli ciarlatani ma anche una manciata di “veggenti” che sembrano sapere il fatto loro con inquietante accuratezza.

E quindi? E quindi niente, mi vien da dire, perché Knight è un eccezionale catalogatore di informazioni ed è molto bravo a mappare fatti e a mettere in fila con dovizia di particolari una storia vera (e corale) fatta di numerosi stimoli e anime… ma finisce lì. Proprio quando l’abisso dell’inconoscibile potrebbe irretirci davvero finiamo un po’ in una palude compilatoria e smettiamo di farci domande. Non si tratta di prendere le parti – scienza o chiaroveggenza? FIGHT! – ma forse di metterla solo giù con un piglio più vispo, curioso, “vivo”. Forse esiste una via di mezzo tra una puntata di Mistero e il rigore implacabile della mia commercialista e sarebbe stato avvincentissimo percorrerla… ma forse è presto. Si sa, non usiamo ancora il nostro cervello al 100%.

Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Allora, il libro “fonte” che Christopher Nolan ha usato per Oppenheimer è quello di Kai Bird e Martin J. Sherwin – in italiano è uscito per Garzanti. Io non l’ho letto e questo vuole essere un cenno puramente informativo. Se il tema vi intriga, però, La brigata dei bastardi è un suggerimento collaudatissimo e di sorprendente godibilità. E no, non parla solo di Oppenheimer.

Sam Kean scrive di scienza e di contese scientifiche col piglio di un avventuriero e con il godimento palpabile di chi adora un argomento e vuol renderlo fruibile anche a me che non ho mai preso più di 3 in una verifica di fisica.
La brigata dei bastardi – pubblicato da Adelphi con la traduzione di Luigi Civalleri è un librone molto ambizioso e intricato – sia per complessità del tema che per sterminata ricchezza delle fonti – che spazza via col piglio deciso ogni sospetto di noia o pedanteria. Di che parla? Della corsa alla bomba atomica e del perché gli Alleati ci siano “arrivati” prima, nonostante la Germania avesse inaugurato il suo programma con un paio d’anni buoni di vantaggio. Partendo dalla ricerca sull’atomo e dalla sequenza di scoperte strabilianti dell’era pre-bellica, Kean posiziona sulla scacchiera premi Nobel, generali, spie e guastatori per raccontarci un tassello decisivo della Seconda Guerra Mondiale e, nemmeno troppo incidentalmente, la perdita dell’innocenza della scienza.

Non vi tedierò con del name-dropping che risulterebbe molto più prolisso e meno interessante di come se la cava Kean nella descrizione dei personaggi chiave – fenomenali, anche i più biechi – e non vi tedierò neanche col bigino del testa a testa tra Club dell’Uranio e Progetto Manhattan, ma spero vi basterà sapere che qua dentro troverete la degna cronaca di un’impresa umana di rara complessità, sia per l’estrema difficoltà “concettuale” ma anche per l’abisso etico che ha spalancato. Mai forse nella storia tante menti eccelse, tanti soldi e tanti sforzi produttivi si sono coagulati attorno a un unico obiettivo. Quel che ne è uscito è un terrore fuori scala e un atto inventivo che ha cambiato per sempre il nostro modo di intendere i conflitti, il potere, la civiltà, la responsabilità e il mondo intero.


Un altro paio di spunti?
La storia della bomba atomica in versione graphic-novel – con un approccio che non mi è parso troppo dissimile da quello di Kean: La bomba di Alcante, Bollée e Rodier, uscito per l’Ippocampo.
E un romanzo corale che racconta il progetto Manhattan dal punto di vista delle consorti degli scienziati impegnati nelle ricerche in New Mexico: Le mogli di Los Alamos di Tarashea Nesbit.

 

Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.

Quando mi sono trasferita a Torino per cominciare lo stage che avrebbe sancito il mio debutto ufficiale nel mondo del lavoro mi sono cercata una casa da affittare. Sapevo che sarei rimasta per 6 mesi, ma non avevo certezze sul potenziale rinnovo del contratto o sulla mia possibile permanenza ulteriore in quell’ufficio o in quella città. Non avevo mai visto un contratto d’affitto o visitato un appartamento, accompagnata da un agente immobiliare. Non sapevo che domande fare, non sapevo se era normale che mi chiedessero tre mesi di caparra e non sapevo chi doveva pagare l’idraulico nel caso fosse esploso un tubo. E la cosa divertente (e molto rivelatoria) è che non lo sapevano nemmeno i miei genitori. Mi ero fatta aiutare dal mio fidanzato dell’epoca, che a Torino abitava da qualche anno perché si era trasferito per studiare al Politecnico e che, al contrario di me che avevo frequentato i miei 5 anni d’università a Milano da pendolare, continuando ad abitare a casa mia a Piacenza, aveva un’esperienza un po’ più solida di cosa succedeva nel mondo “vero”. Che lo spaesamento dei miei genitori di fronte a quell’aspetto pratico e fondamentale della quotidianità di molti fosse così marcato mi era sembrato strambo anche ai tempi, ma ci è voluto del tempo per capire davvero il perché.

Il lavoro dei miei genitori – che era stato “certo” e “fisso” sin da subito e da un’età precoce, per gli standard attuali – occupava da sempre una fetta importante delle loro giornate, ma produceva anche dei benefici tangibili. Lavoravano, ma pareva ne valesse la pena. Lavoravano, ma esistevano delle certezze materiali di cui tutti quanti potevamo godere, ricompensandoli dell’indubbia fatica che per anni han fatto pure loro. Mia madre, dopo un paio di mesi dall’inizio del mio stage, giudicava con manifesto scandalo la mia scarsa propensione al risparmio. Nell’universo in cui era abituata a muoversi lei, infatti, c’erano di certo dei sacrifici e delle decisioni da prendere, ma non c’erano affitti da pagare, futuri più incerti della media e bilanci stabilmente in passivo. Se lavori riuscirai a mantenerti. Se lavori riceverai in cambio il necessario per fronteggiare i tuoi bisogni e gestire oculatamente anche il tuo futuro. Il fatto che non si rendesse conto che, con un rimborso spese di 500€ mensili – o, più tardi, con uno stipendio da neoassunta di 1.100€ -, il risparmio fosse un lusso è un altro tassello del problema. Ero di sicuro io che non sapevo farmi valere o che non lavoravo abbastanza, ero io che non sapevo convertire l’istruzione che avevano profumatamente pagato in un impiego degno del mio blasonato ateneo. E il fatto che la mia azienda avesse un nome importante – uno di quelli che funzionano all’interno di un “ah, sì… siamo molto contenti, mia figlia lavora da…” – tendeva un po’ ad accrescere le dimensioni del paradosso, almeno dal mio punto di vista.
Quel che ho scoperto io, specialmente da dipendente, è che non esiste più alcun premio per il delfino che salta meglio e più spesso nel cerchio. Anzi, la piscina sta diventando sempre più piccola, gli allenamenti sono sempre più estenuanti e, al massimo, se ce la fai ti tocca una sardina, anche se il valore che con le tue competenze stai contribuendo a creare per la tua azienda corrisponde a una carriola piena di bei salmoni grassi.
Per concludere questa confusa parentesi autobiografico-didascalica, direi che i miei genitori hanno conosciuto (per loro e mia fortuna, dato che anch’io ho avuto la possibilità di avvalermi delle risorse di famiglia da loro create e/o ereditate) l’era lavorativa del ne vale la pena. Noi, con ogni evidenza, stiamo gestendo maldestramente l’epoca del Ma chi me lo fa fare?, che non a caso è anche il titolo (azzeccatissimo) del saggio di Andrea Colamedici e Maura Gancitano.

Che fa questo libro? Cerca di dare struttura allo scoramento collettivo. Cerca di risalire alle cause di questa vasta sindrome di Stoccolma che, da un lato, configura il lavoro come dimensione assoluta delle nostre identità e, dall’altro, riconosce nel lavoro la radice di un malessere diventato tentacolare e profondamente invasivo.
Perché ci piace così tanto lasciare che sia il nostro lavoro a definirci?
Perché è diventato cool esibire agende fittissime?
Perché preferiamo dichiararci esausti piuttosto che rischiare di farci dare dei fannulloni?
Perché è così complicato (se non proprio disdicevole) abitare serenamente il tempo “improduttivo”?
Che cosa diamine dobbiamo dimostrare?
Perché è proprio nel lavoro che abbiamo riposto le nostre speranze di affermazione e prestigio?
Trova la tua vocazione… e lavorerai sempre?
Ho preso in mano questo libro con la certezza di arrabbiarmi e, devo dire, è in parte accaduto. Ma non tanto per l’inevitabile rispecchiamento in parecchie delle trappole mappate e identificate… il problema è sentirsi ancora inermi e molto piccoli. Al di là del valore moral-identitario che attribuiamo al lavoro, quello che davvero mi prosciuga di ogni fiducia è l’irraggiungibilità “media” di traguardi che dovrebbero essere (e che per qualche generazione sono stati) ovvi, scontati e basilari. Uno su mille magari ce la farà anche, ma siamo collettivamente cementati in una situazione di disparità strutturale che nessuno stipendio realistico può scalfire. L’inaccessibilità degli elementi indispensabili a garantire a una vita “normale” e dignitosa ai tanti – invece che ai pochissimi – è quello che mi fa davvero imbestialire, anche perché quel che ne riceviamo in cambio è un’ansia da prestazione esasperata, l’imputazione al singolo – e alle sue capacità mai sufficienti – di una deformazione diventata sistemica. Impegnati, anche tu potrai trasformarti nell’eccezione! Guarda qua, il salto al gradino successivo è possibile, basta volerlo davvero!
Che senso ha continuare a raccontarci il lavoro come leva di riscatto e progresso, come strumento aspirazionale che ci permetterà di realizzare i nostri sogni e di raggiungere benessere e sicurezze, quando ci confrontiamo invece con una realtà che del lavoro ci restituisce solo la sfiancante sensazione di essere ostaggi (più o meno consapevoli o consenzienti) di forze che non controlliamo e che rendono il “campo da gioco” così iniquo e impari? È la domanda che anche in Ma chi me lo fa fare? rimane comprensibilmente aperta. E credo sia la domanda fondamentale attorno alla quale dovremmo aggregarci, magari dopo aver chiarito meglio – come può aiutarci a fare questo saggio – il percorso che ci ha portati a formularla, trascinando i piedi mentre ci rimettiamo davanti al computer e, almeno nelle nostre più sovversive fantasie, erigiamo barricate impilando schiscette ancora piene… perché sai, la call s’è un po’ allungata, non ho fatto in tempo a pranzare. Progetto bellissimo, però. 

Ma noi, di preciso, che cosa ci facciamo qua [“qua” = uno qualsiasi dei tanti spazi digitali che frequentiamo]? Cosa cerchiamo? Come ci percepiamo – AKA ci sentiamo più “pubblico” o più “produttori” di contenuti? E ha ancora senso fare questa distinzione, segmentando magari anche i nostri consumi per cluster anagrafici? Il “nuovo” è in realtà solo roba vecchia che riappare in un posto diverso, teoricamente incontaminato? Ci siamo già inventati tutto l’inventabile? Quanto costa l’intrattenimento, sia in termini monetari che di libertà personale? Quali sono i nuovi cicli di vita della fama – ed è legittimo pensare che sia diventata molto più effimera e distruttiva? Cosa mai potrà saperne un algoritmo di quello che ci piace davvero? Perché dovrei guardare della gente che dorme? Perché dovrei investire i miei soldi per svegliare con violenza una persona che dorme? Da dove arriva questo assoluto timore del vuoto? “Io? Non lo farei mai. Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo, guarda!”… e se te lo offrissero, tutto l’oro del mondo?

Animato da un interesse antropologico che a tratti lascia trasparire un “vi prego, fatemi scendere”, in Sei vecchio – in libreria per Nottetempo – Vincenzo Marino mappa alcuni fenomeni salienti del nostro abitare i posti digitali che abitiamo (con crescente vena polemica, sconfinati divertimenti, varie sindromi di Stoccolma, fatica e tragicomica rassegnazione) concentrandosi in maniera prevalente sull’ultima generazione entrata nei radar del sentire globale – a me questa cosa delle generazioni solletica sempre molto, anche perché cominciamo a occuparci ossessivamente di un dato segmento quando raggiunge un valore economico (cioè quando ha dei soldi, magari anche pochissimi, da spendere).
Insomma, che fa online la Generazione Z? Noialtri più “grandi” siamo finalmente ascrivibili tra i vecchi e possiamo cedere alle nuove leve l’ambito ruolo di cavie da laboratorio da dissezionare? Siamo autorizzati a partecipare anche ai fenomeni che anagraficamente non dovrebbero competerci più o che non sono nati per soddisfare il nostro “target”?

Dagli streamer che passano in diretta giorni e giorni al pubblico che paga per aggiungere minutaggio a queste maratone, dal terrore dell’irrilevanza a un’onnipresenza svuotata di motivazione o messaggio, dai salumieri napoletani ai profili selfhelpistici che inneggiano al successo duramente conquistato con una gagliarda forza di volontà – o all’ossessione per l’esteriorità mascherata da cura maniacale per il proprio benessere interiore -, Marino ci offre una carrellata di istantanee significative delle tendenze emergenti dei mondi digitali, dissolvendo il confine tra utenti attivi e passivi e tra evento “biografico” e potenziale contenuto.
È una panoramica che credo assolva più efficacemente al compito di dirci quel che c’è, più che scavare nei perché o nel cercare di immaginare una traiettoria futura. Se ne esce frastornati, legittimamente instupiditi dal rumore di fondo generato dall’immane accumulazione di stimoli e disperata ricerca di un guizzo di stupore, che molto spesso si manifesta sconfinando nella narrazione iperbolica del banale o in una volontaria trasformazione dell’identità in un mosaico di momenti vendibili, “creativamente” spendibili, perennemente pubblici.

Nulla di quello che ho letto ha suscitato in me il minimo AH SIGNORA MIA I GIOVANI D’OGGI, anzi. Mi sto rendendo conto che ci sono storture e fatiche trasversali, cicli di vita “personaggeschi” e dinamiche di  assimilazione del nuovo che si reiterano con caparbia uniformità in ogni mondo digitale, confermandosi per frequenza e prevedibilità di svolgimento pezzi dello scheletro vero di questo gigantesco golem multipiattaforma verso cui gravitiamo e che tanto del nostro tempo assorbe e da cui ricaviamo soddisfazioni altalenanti. Forse è per quello che insistiamo e perseveriamo: abbiamo bisogno di una dimensione potenziale, vogliamo convincerci che esista qualcosa di incredibile, vogliamo smentire il medesimo “ho visto già tutto” che soffoca la meraviglia sul nascere. Vogliamo credere che, da qualche parte, l’irrilevanza quotidiana delle nostre azioni minime – l’unica variabile che ci accomuna davvero – nasconda un miracolo e che, là fuori, ci sia qualcuno che non solo l’ha scoperto ma l’ha anche monetizzato.

[Se il tema vi intriga, forse vi verrà voglia di fare quello che ho fatto anch’io: mi sono iscritta a zio, la newsletter di Marino che prosegue (anzi, precede) il lavoro su questo libro.]

Che di “storytelling” si cianci in ogni dove (prevalentemente a vanvera) è ormai assodato, penso, ma la cialtroneria in cui ci imbattiamo qua e là non fagocita la rilevanza che le storie e le narrazioni hanno sempre avuto per la nostra specie. Le “storie”, esordisce Jonathan Gottschall in Il lato oscuro delle storie – tradotto da Giuliana Olivero per Bollati Boringhieri –, hanno rappresentato per gli esseri umani di ogni epoca (dalle pitture rupestri alle piattaforme di streaming) un collante identitario, un veicolo di trasmissione valoriale, un mezzo per elaborare accadimenti complessi e un punto di riferimento culturale attorno a cui raccoglierci. Il fatto che la creazione e la diffusione di storie ci riesca così “naturale”, però, è una variabile necessariamente positiva?

Il nostro presente è narrativente lussureggiante. Come mai prima, forse, le storie ci circondano e, per certi versi, ci assediano. Ci sono fonti narrative a cui ci esponiamo per scelta e altre in cui incappiamo per ragioni “ambientali” e per l’accrescimento esponenziale delle opportunità di diffusione. È anche un momento storico in cui, accanto a possibilità senza precedenti di “esattezza” scientifica, convivono con rigoglio menzogne e distorsioni che sembrano sfidare il buonsenso e le evidenze fattuali. Le storie sono strumenti: possono fungere da collante culturale o da felice fonte di intrattenimento, ma possono anche incanalare la potenza con cui fisiologicamente fanno presa su di noi per perseguire scopi assai meno benevoli. Dalla diffamazione al complottismo, dalle fake news al marketing, la realtà si trasforma in un teatro perenne in cui ci ritroviamo – quasi sempre inconsciamente – a cercare buoni da contrapporre ai cattivi, eroi in viaggio, giustizia per i meritevoli e castighi per i non allineati. Che queste leve – capaci di fondere l’emotività a un’idea di morale comune – possano anche essere azionate per demolire un’idea scomoda o per destabilizzarci è un rischio che si è già concretizzato.

MA ALLORA È TUTTO ORRIBILE E BIECO! No, in realtà. Polarizzare ci aiuta a semplificare e a creare scorciatoie per governare questo “troppo” in cui dobbiamo muoverci, ma ci rende comparse spesso passive, altri pezzetti di una storia mastodontica che non ascoltiamo più per capirci vicendevolmente un po’ meglio ma solo per confermare quello che pensiamo già di sapere.
Da Platone alle elezioni USA, Gottschall tenta prima di tutto di farci prendere coscienza del ruolo fondamentale delle narrazioni e – con una certa inconcludenza, devo ammettere -, prepara il terreno per l’avvento di un’era narrativo-informativa dove gli archetipi del bene e del male non sono coltelli da lanciare ma bussole di nuovo “valide”.

Come si dormiva nel Medioevo? Nudi? Vestiti? Da soli? Con tutta la famiglia (ed eventuali viandanti)? E se ti ammalavi e finivi all’ospedale? Quanto si puzzava e come la si risolveva? Come si fronteggiava il gelo? Chi fabbricava i letti? Qual era il destino di una puerpera? Con che grado di libertà ci si poteva avvicinare alle stanze di una dama? Dove si riposava la servitù? Boccaccio ci ha raccontato – tutto sommato – delle grandi verità? Come si intreccia un pagliericcio?

Guidandoci tra cortine, cuscini e cassoni, Chiara Frugoni – nostro malgrado da poco scomparsa – ci invita a coricarci in una stanza da letto del Medioevo, unico posto in un’abitazione di quell’epoca che potrebbe essere considerato “comodo” per gli standard moderni.
Facendo il consueto e sapiente uso di fonti iconografico-letterarie, dalle miniature ai garbugli amorosi del Decameron, Frugoni ricostruisce la storia sociale, materiale e culturale di un arredo domestico che, nell’espletare la sua funzione all’apparenza essenziale e semplice, spalanca in realtà vaste implicazioni romantiche, organizzative e addirittura morali. A letto nel Medioevo– in libreria per Il Mulino, come molti altri splendidi saggi storici di Frugoni – è un piccolo gioiello, degno di una studiosa che ha saputo come pochi altri conciliare curiosità, rigore, bellezza e gusto divulgativo.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

Siamo collettivamente programmati per considerare la California un posto degno di essere sognato. Pochi altri luoghi hanno goduto di una fama altrettanto dorata e hanno saputo capitalizzarla, rendendo spesso possibili ascese sfolgoranti e grandi fortune, più o meno basate sull’innovazione tecnologica. Se ci mettiamo i paesaggioni e la costante influenza sulla cultura globale – dal cinema alla musica – dovremmo aver dipinto un quadro più che idilliaco. Chi non vorrebbe vivere in un posto dove c’è ricchezza, occupazione, fermento e inventiva? Università strabilianti, terreno fertile per far germogliare le proprie idee, la promessa continua del progresso e del benessere? Insomma, chi non vorrebbe vivere in California, sembra domandarci il fin qui incoraggiante curriculum dello stato? I californiani, a quanto pare.

Da che mondo è mondo, la gente si sposta per migliorare le proprie condizioni di vita. Le motivazioni possono essere innumerevoli, ma l’ambizione di base è grossolanamente riassumibile in questo modo. Perché mai, dunque, un posto che sembra avere ogni carta in regola per garantire radiosi futuri sta perdendo “popolazione”, invece di guadagnarne come regolarmente è sempre accaduto?
Francesco Costa prova a rispondere, un pezzettino alla volta, a questa domanda complicata in California – in libreria per Mondadori. Perché sì, per quanto controintuitivo possa risultare, qualcosa si è spezzato e i costi della vita californiana stanno cominciando a sovrastare le opportunità, superando anche la dicotomia tra città e centri più piccoli. Tutto tende all’impraticabile, allo sproporzionato, al dispendioso.

Dalle radici profonde di una crisi immobiliare che sta raggiungendo vette surreali all’emergenza umanitaria (mi pare la definizione più accurata) dei senzatetto, dal costo esorbitante della vita all’incubo del traffico, Costa assembla un puzzle pieno di linee di frattura e tesserine bruciacchiate dal fuoco dei frequentissimi incendi. Il paradosso più grande sta forse nella politica che, nel professarsi estremamente virtuosa, “woke” – come viene bollata con insofferenza – e iper vigile e accogliente in fatto di diritti civili, diversity ed equità, non sembra di fatto avere gli strumenti per affrontare una realtà conflittualissima, iniqua e impari. La California pare un posto dove il privilegio estremo viene riconosciuto a parole – sovente di autodenuncia, perché segnalare sempre la propria rettitudine è fondamentale – ma dove è difficile innescare un cambiamento che non sia soltanto cosmetico. Perché restare, si chiedono molti “nuovi” californiani, in un simile ginepraio di potenziali passi falsi e oggettive asperità pratiche? Perché rinunciare a un presente più “semplice” – anche se magari meno glorioso, per certi standard da SE VUOI PUOI – in nome di una promessa che pare sempre più remota o alla portata ci chi partiva già in vantaggio?
Vedremo come si mette? Vedremo come si mette. O al massimo raccoglieremo firme per l’ennesima petizione in difesa di uno status quo che non conviene quasi più a nessuno.