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La premessa è sempre la solita, ma ci vuole sempre. Spero che il listone 2023 possa aiutarvi a beccare il libro giusto per la persona giusta – facendovi anche fare bella figura. Le strenne funzionano così: sono volumi che per costituzione “fisica” dell’oggetto si prestano particolarmente a trasformarsi in doni o che per buona delimitazione tematica riescono egregiamente a rispondere a uno spiccato interesse. Sono un disco rotto, ma mi piace sempre ricordare che i libri non sono mai scelte “neutre”. Perché possano trasformarsi in veri tesori ci vuole un po’ d’occhio per le inclinazioni altrui, insomma. Di potenziali fermaporte è già pieno il mondo, non aggiungiamone di nuovi procedendo senza metterci un po’ di cuore, affetto e raziocinio.
I miei listoni natalizi sono sempre estremamente eterogenei, nella speranza di fornire spunti il più possibile versatili e flessibili. Mi diverto io e mi auguro che l’approccio possa risultare “ricco” anche per voi.

[Disclaimer: i link ai volumi vi portano su Amazon e sono quelli del programma di affiliazione. Nulla vi vieta di procurarvi i libri altrove e di organizzarvi come meglio credete, ci mancherebbe altro.]

Visto poi che i libri non scadono – ma al massimo diventano un po’ più difficili da trovare perché le tirature si assottigliano e le ristampe si diradano -, al termine del post troverete anche un agile recap delle liste natalizie precedenti. Visto che son sempre consultabili, si può allegramente pescare anche da lì.

Procedo?
Procedo.

Non guardate solo le figure e i grassetti, perché in mezzo ai testi ci ho ficcato degli altri suggerimenti che man mano mi sono venuti in mente e che sono degni di essere analizzati anche se non c’è l’immagine di copertina. 🙂


Michael McDowell | Blackwater (il cofanetto con i 6 volumi della saga)
Neri Pozza

Era quasi matematico che la famigerata saga della famiglia Caskey si sarebbe prima o poi tramutata in un cofanetto degno della cura estetica dei singoli volumi – le illustrazioni di copertina sono di Pedro Oyarbide – e trovare il prezioso SCRIGNO in libreria in vista del Natale è una mossa strategica degna di MaryLove. Per cultori del gotico “rurale”, delle epopee di famiglia, del sud degli Stati Uniti, delle noci pecan e dei colpi di scena più imprevedibili, Blackwater è un astuto e godibile connubio tra sovrannaturale e mondano, leggenda e affari.
Per approfondire, ne ho parlato qui con la straordinaria Giulia Paganelli.

Un’altra saga che approda in cofanettoI leoni di Sicilia di Stefania Auci.
Un romanzo molto letto (e molto discusso) che si guadagna un’edizione illustrata da Lorenzo Mattotti? I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni. E, visto che ci stiamo occupando di edizioni illustrate che ben si prestano a farsi donare, vi rammento anche dell’esistenza dell’Uomo che piantava gli alberi di Giono feat. Tullio Pericoli.
Per chiudere il cerchio, tra le 8053 edizioni di Harry Potter che potete acquistare, esistono anche quelle che fanno del campanilismo hogwartsiano la loro ragion d’essere. In parole povere: ci sono i cofanetti delle case.


Omero | Iliade
Blackie Edizioni

L’operazione “Classici liberati” di Blackie Edizioni è partita lo scorso anno con l’Odissea, volume gemello – per formato e intenzioni – di questa Iliade. Partendo dal presupposto che per far uscire un’Iliade o un’Odissea bisogna in primo luogo scegliere a quale “trascrizione” appoggiarsi (tra le tante possibili), da Blackie si son fatti dare una mano da Borges, che individua nella versione di Samuel Butler (scomparso nel 1902) quella più fedele, scorrevole, fruibile. Daniel Russo si è occupato della traduzione e l’opera è arricchita dalle illustrazioni di Calpurnio e da materiali aggiuntivi: un saggio di Andrea Marcolongo e Le Troiane di Euripide a cura di Alberto Conejero.


Caterina Zanzi | Conosco un posto anch’io
Magazzini Salani

Per chi abita a Milano o bazzica la città con una certa frequenza, Conoscounposto è un solido punto di riferimento per scovare luoghi dove mangiare bene, bere bene e sostentare numerose altre necessità dell’anima – dall’arte alla musica, dagli eventi allo shopping. Caterina e la redazione hanno già curato una guida alla città – che resta assai regalabile e ricca di suggerimenti – e, a questo giro, hanno deciso di produrre uno strumento utile e molto tenero a vedersi: un taccuino con schede da compilare per ricordare i “posti” e per tenere traccia di quelli ancora da visitare (tra le altre cose). Sì, la struttura è flessibile e non serve risiedere a Milano per poterlo usare con allegria. Sì, è perfetto per cartopazze/cartopazzi e per chi sente di poter competere con Alessandro Borghese.


Richard Thompson Ford | Dress code
Il Saggiatore

Dichiaro subito di essere in possesso della versione con fascetta tartan – sì, sono fascette, non sono pezzi “stampati” di copertina. In questo bel volumone, Ford affronta con estrema gradevolezza e notevolissimo sapere i risvolti politici, sociali, economici e comunicativi dell’abbigliamento. È una storia della moda raccontata per punti di svolta e capi emblematici, una mappa culturale per affermare con veemenza che IL CERULEO CONTA CARA LA MIA ANDY.

Bonus track in ambito moda? La collana Sfilate dell’Ippocampo vive e lotta con noi, espandendosi gradualmente e con implacabile efficienza. La novità più recente è il volume dedicato a Givenchy.

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Gabriella Gilberti | Love song for a vampire – Etologia del vampiro
Bakemono Lab

Una cosa che ho scoperto solo di recente e che mi ha mandato in visibilio è la matrice più antica – anche se non remotissima – di What We Do In The Shadows, serie TV divertentissima e assurda che utilizza la struttura del mockumentary per raccontare il tran tran domestico di un gruppo di vampiri che si smazzano la quotidianità ai giorni nostri. Ebbene, parte tutto da un film di una decina d’anni fa di Taika Waititi. Così, ci tenevo a dirlo perché in questo saggio si arriva pure lì e penso sia un tomo estremamente regalabile a chi coltiva un’ossessione per la progenie di Dracula ma magari fatica a trovare saggi aggiornati o capaci di abbracciare diverse “arti”, senza tralasciare le sconfinate praterie del pop.


Steve Brusatte | Ascesa e trionfo dei mammiferi
UTET

Brusatte – che è IL giovane paleontologo di riferimento nel battagliero comparto della divulgazione planetaria – prosegue l’opera cominciata con Ascesa e caduta dei dinosauri dedicandosi a quello che è accaduto in seguito alla loro estinzione. Come siamo arrivati fin qui? Possiamo piantarla, una buona volta, di immalinconirci per la dipartita del brachiosauro? La risposta è no, ma Brusatte dedica ai mammiferi il rigore che meritano e ricostruisce qui il loro onorevole cammino evolutivo.

Paleontologi e paleontologhe da accontentare? Ecco Fossili fantastici e chi li ha trovati di Donald R. Prothero– una storia dei dinosauri in 25 scoperte campali – e I cercatori di ossa di Michael Crichton – un romanzo tratto dalla vera “corsa ai fossili” di fine Ottocento.


Irene Canino | Il grande libro degli yōkai – Storie e leggende del folklore giapponese
Mondadori

La fascinazione per il Giappone ci abbandonerà mai? Ne dubito. Ma quanto sappiamo risalire alla radice di molte immagini diventate mainstream? Forse poco. Irene Canino s’incarica di sistematizzare, in questo bel volumone, la longeva parabola degli yōkai, spiriti ambivalenti e potentissimi che vivono al nostro fianco, non visti (tendenzialmente) ma capaci di esercitare enormi influenze e far deragliare destini. Il libro non è solo una raccolta di storie e leggende particolarmente emblematiche o avvincenti, ma offre un ricco apparato storico-teorico per aiutarci a comprendere più a fondo le basi culturali del mito.

Sempre sul tema, un approccio decisamente più “figurativo” firmato da Benjamin Lacombe.
Per rimanere in territorio giapponese e lasciarsi irretire da una penna delicata e poetica, segnalerei con gioia e ammirazione anche Il Giappone a colori di Laura Imai Messina, un viaggio che attraversa l’arte, la storia, le leggende e la letteratura del paese rileggendole attraverso la lente dei colori. Perché anche quelli – e come li usiamo – sono il prodotto di un processo culturale.


A cura di Carlotta Sanzogni – Dove si scrive, come si scrive 
Foto di Pietro Baroni

Rizzoli

Una domanda che faccio sempre quando mi capita di presentare il libro di qualcuno è “Ma tu, dov’è che scrivi? Quanto ci hai messo? Come lavori, di solito?”. Perché sì, a noi un libro arriva come oggetto compiuto, ma tutto quello che è servito per metterlo insieme resta sommerso e misterioso. E anche quelle sono storie degnissime di essere raccontate. Dove si scrive, come si scrive punta a soddisfare queste curiosità “di metodo”. Carlotta Sanzogni è riuscita a convincere 28 autori e autrici a spiegarci “come fanno” a scrivere e anche dove lo fanno – il dove è corroborato dai ritratti di Pietro Baroni. Da Chiara Valerio a Michele Masneri, da Licia Troisi a Jonathan Bazzi, da Walter Siti a Giacomo Papi, un’occasione ghiottissima per impicciarvi dei fatti lavorativi di tante penne amatissime del nostro presente.


Veronica Hinke | Titanic. Il libro di cucina ufficiale
Magazzini Salani

Non sono una gran patita di ricettari – o di cucina, a dirla tutta – ma negli anni ho sviluppato una discreta fissazione per i libri che trasportano prodotti filmico-televisivi in una dimensione d’applicazione quotidiana. Ho il libro di ricette di Hogwarts e ne ho ben TRE di Downton Abbey – quello ad ampio spettro, quello dei cocktail e quello col menu di Natale. Lo so, è inspiegabile, ma eccoci qua. Che caratteristiche hanno, questi assurdi volumi? Ci sono i piatti ben fotografati con tutto il loro bel procedimento di preparazione, ma ci sono anche un sacco di foto di scena e un pochino di ricostruzione “di contesto”. Questo ricettario del Titanic ci farà sentire come dei veri cagoni di Prima Classe anche se probabilmente avremmo tutti quanti diviso una cabina senza manco l’oblò in Terza.

Altri spunti culinari? Cucinava sempre di Sofia Fabiani per Mondadori – ciao Sofia, ti voglio bene – e Pranzi d’autore di Oretta Bongarzoni per Minimum Fax – una raccolta di ricette pescate da un sorprendente ventaglio di opere letterarie.
Volete specializzarvi in ? Non c’è problema, Francesco Rossi è qui per assisterci.
Cucina milanese per gente che vuole sinceramente imparare a gestire il risotto con l’osso buco e/o per quelli che ci tengono tantissimo a dirvi che a Milano si vive meglio che a casa vostra? Eccovi La cucina milanese di Fabiano Guatteri, con le illustrazioni di Andrea Antinori.


Giuseppe Morici | Non solo soldi! – Parole e storie per capire l’economia
Feltrinelli

Un libro che tenta di spiegare le parole fondamentali dell’economia. Servendosi di esempi tratti da situazioni quotidiane e di un linguaggio rigoroso ma accessibile, Giuseppe Morici si rivolge a ragazzi e ragazze per provare a rendere meno “astratti” e impenetrabili i numerosi concetti che ruotano attorno ai soldi, dalla gestione aziendale alla finanza personale, dal commercio fino alle grandi questioni di Stato.

Qualche altra “guida” rivolta alla gioventù? Proviamo con due proposte di Quinto Quarto.
Ciclo di Natalie Byrne – AKA il libro che avrei voluto avere a disposizione quando mi sono venute le mestruazioni. E La camera buissima di Elisa Lauzana – una storia “interattiva” della fotografia. Già, oggi eclettica. Dalle ovaie al dagherrotipo.


Maria Giuseppina Muzzarelli – Luca Molà – Giorgio Riello 
Tutte le perle del mondo – Storie di viaggi, scambi e magnifici ornamenti
Il Mulino

Vi vedo, gazze ladre. So che ci siete. Questo volume MAGNIFICO – e riccamente illustrato, come è d’obbligo dire in questi casi – è una storia cultural-commerciale delle perle, dalla simbologia artistica ai linguaggi del potere, dalle rotte di approvvigionamento alle botteghe orafe che le lavoravano.


Her Majesty – A photographic history (1926-2022)
Taschen

Devo ammettere di aver smesso di seguire The Crown quando i fatti narrati hanno iniziato a sovrapporsi a un periodo che ho vissuto da “spettatrice” delle vicende della famiglia reale. Insomma, per quanto mi riguarda, la coppia reale è ancora formata da Matt Smith e Claire Foy e, in generale, devo dire di non nutrire una particolare simpatia per la monarchia britannica. Là fuori, però, può esserci qualcuno a cui garberebbe un libro fotografico che ripercorre i momenti più ICONICI della sovrana recentemente scomparsa. E chi sono io per obiettare.

Vogliamo rendere onore al catalogo Taschen con temi che sento più affini al mio cuore? Perfetto. Ecco Stregoneria e gatti BELLISSIMI. E le biblioteche incredibili di Massimo Listri.


Sabina Minardi | Il grande libro del vintage
Il Saggiatore

No, non è una guida ai dieci negozi più TOP di Milano per comprare capi PRELOVED, ma una poliedrica riflessione sul nostro rapporto con la nostalgia. Mentre l’universo intero si proietta verso il futuro – o del futuro dipinge scenari foschissimi che in qualche modo dovremo capire come disinnescare -, un passato nemmeno troppo remoto continua a riaffiorare. Dai feticci degli anni Novanta ai miti della TV, dai brand che non soccombono al tempo al perpetuo cosplay delle nostre lontane gioventù, una raccolta ragionata di tutto quello che non riusciamo a lasciar andare – e sul perché ci rifiutiamo strenuamente di farlo.

Visto che ci troviamo nel territorio del Saggiatore e che tutta la nostalgia che accumuliamo ci rende esseri zoppi, sbilenchi e disorientati, non posso non citare Teoria del disagio contemporaneo di Andrea Antoni – patron di Cose Brutte Impaginate Belle… e genio multiforme.


Zerocalcare | Enciclopaedia calcarea
Bao Publishing

Lo dice la copertina: guida ragionata all’universo di Zerocalcare. Con una storia inedita. DAJE MICHELE.

Se v’intriga il genere “backstage” e avete amato le due serie Netflix di Zerocalcare, vi rammento anche l’Animation art-book, che ripercorre proprio il processo di lavorazione di Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo.


Marin Montagut | Collezioni straordinarie
L’Ippocampo

Quanto mi fa rosicare la gente che nel corso di una vita intera è effettivamente riuscita ad allestire una wunderkammer o a dar seguito con eccelsi risultati estetici a un’ossessione estremamente specifica? MOLTO. Ma nonostante io m’incarognisca, dobbiamo rendere merito a Montagut per questa ricognizione fotografica fra le più sublimi collezioni di Francia. C’è di tutto, compresa un’ipnotica commistione tra illustrazione e ossessioni di catalogazione.

Sempre di Montagut – e per piantare la bandierina nel territorio delle guide, pure -, esiste anche Ricordi di Parigi. Sì, sono botteghe in cui si può andare davvero.


William Goldman | La principessa sposa
Marcos y Marcos

Non capita tutti gli anni che un romanzo così divertente, giocoso e folle festeggi il mezzo secolo dalla prima pubblicazione e mi pare estremamente opportuno che chi ancora non teme i veleni di Vizzini o non conosce la perseveranza che ogni vendetta richiede si avvicini a questo libro per rimediare senza indugi. Amori! Roditori aggressivi! Pirati! L’idea stessa di avventura! Un narratore invadente che leva le parti noiose e ci lascia solo il meglio e ce lo spiega senza problemi! Un capolavoro, in ogni tempo. Quest’edizione contiene diversi materiali “extra” che raccontano – tra le altre cose – la trasposizione cinematografica e indagano più a fondo la magia meta-narrativa che rende così speciale questo libro.

Bonus track: un busto parlante di Inigo Montoya. Se non avete ucciso suo padre, potete anche non prepararvi a morire. Altrimenti OCCHIO.


Matteo Bordone | L’invenzione del boomer
UTET

Userò quel filibustiere di Bordone come apripista della sezione “gente che cerca di riflettere sulle umane relazioni nel doloroso punto d’intersezione tra società e luoghi preposti alla comunicazione e/o alla grottesca rappresentazione di noi stessi medesimi”. Insomma: chi siamo insieme agli altri e chi diventiamo online, all’incirca. Bordone indaga il tentacolare simulacro del boomer, cercando di risalire alla fortuna vastissima di questo costrutto.

Altre idee? Pietro Minto con Come annoiarsi meglio – ora in un’edizione aggiornata che esplora il flop del metaverso -, Problemi di Jonathan Zenti, Sei vecchio di Vincenzo Marino e La correzione del mondo di Davide Piacenza,


Storie sotto l’albero
Panini Comics

Non sono una grande estimatrice della corrente “c’è questa festa, eccoti un libro che parla proprio di quella festa”, ma riconosco l’importanza capitale degli abitanti di Topolinia e di Paperopoli. Questo volume di generoso formato è una raccolta di storie di Natale dall’universo di Topolino – c’è scritto DISNEY da tutte le parti, ma se dico TOPOLINO capiamo meglio – e ben si adatta sia a lettori e lettrici di vecchia data che alle nuove generazioni da irretire (come è giusto che sia).

Vi piace la roba di Natale a Natale? Non c’è problema. L’ultimo numero di Cose spiegate bene del Post potrebbe farvi comodo. Un’antologia di Dickens nelle consuete edizioni arrogantissime di Oscar Vault? Ma pure La malizia del vischio di Kathleen Farrell, un astuto ripescaggio di Fazi pieno di PARENTISERPENTI che si ritrovano a Natale per detestarsi fortissimo.


MP5 | Corpus
Rizzoli Lizard

MP5 ha sconfinato spesso e volentieri nella grafica editoriale – oltre ad aver firmato illustri copertine di podcast e la “visual identity” di molte cause estremamente pressanti e valenti. Questo art-book cataloga il “corpus” artistico di MP5 parlando proprio dei tanti corpi essenziali ma eloquentissimi che troviamo nel suo lavoro.


Leo Ortolani | Tarocchi
Feltrinelli Comics

C’è qualcosa che Leo Ortolani non sa fare? Chissà. In questo volume – che è più grande del tavolino da caffè che nell’immaginario collettivo dovrebbe servire a reggere proprio questo genere di libri – troviamo la sua rielaborazione artistica degli arcani. Ogni figura è accompagnata da un paragrafo esplicativo che fa immancabilmente ridere – ma anche riflettere sul destino. O forse anche solo ridere.

Se volete restare in territorio ortolanesco, non posso non rammentarvi le sue raccolte di recensioni cinematografiche a fumetti – Il buio in salaIl buio colpisce ancora – e Dinosauri che ce l’hanno fattaVi va di esplorare lo spazio insieme a lui? Ecco qua.
Ancora tarocchi? Ci sono quelli di Dalì. Com’era Dalì? Ve lo racconta Amanda Lear.


Joshua Piven – David Borgenicht | Worst Case Scenario
Blackie Edizioni

Se sentite l’impellente necessità di produrvi in regali UTILI, cosa può esserci di più utile di un manuale di sopravvivenza multidisciplinare con tanto di disegnini esplicativi e istruzioni chiare e lineari? Ecco. Da come saltare da un’auto in corsa e come difendersi da uno squalo, passando per tracheotomie, paracaduti che non si aprono e fallout nucleari, Worst Case Scenario è il tomo che fa per noi. Non ci salverà, ma DIAMINE LASCIATECI ALMENO PROVARE.


Volete donare un abbonamento? Fate bene. Qualche spunto:
il progetto Apri: racconti che giungono per corrispondenza e hanno proprio la forma di un plico di lettere/cartoline/biglietti scritti a mano. Poetico, magnifico, matto.
la versione “di carta” di Rivista Studio (sono 4 numeri all’anno e ognuno sviluppa un tema specifico).
L’Integrale: una rivista di cultura gastronomica che utilizza quel che mangiamo come meraviglioso pretesto per esplorare chi siamo.
Brillo: un trimestrale interamente dedicato al mondo dell’illustrazione e della grafica.
La Revue Dessinée: giornalismo a fumetti bellicosissimo.
audiolibri in quantità su Storytel, come da tradizione.

Volete donare qualcosa di libresco che non è precisamente un libro?
Date un occhio alle tre box tematiche nate dall’immaginazione di Maddalena Notardonato. La costante è che contengano un quaderno rilegato artigianalmente (e illustrato da lei), più altre meraviglie fatte a mano, dalle candele alla ceramica. Ce ne sono tre: Poesia, Romanzo, Saggio.
O “il nécessaire libroso” di Elinor Marianne.

Ma ci sono altre liste come questa qua? Certo.
il listone 2022
il listone 2021
il listone 2020
il listone 2019
libri per piccoli (con galassia di link ulteriori)

Ho finito.
Che Bublé v’accompagni anche se in copertina ho messo Mariah.

Gli studi che tentano di mappare il funzionamento dei nostri cervelli o anche solo di descrivere la “mente” o la nostra capacità di reagire al mondo e di muoverci su piani che aggiungono creatività, immaginazione e sentimento alla mera dimensione del reale sono numerosissimi, multidisciplinari, intricati. La carne al fuoco è tanta, ma su un assioma si tende a concordare: abbiamo capito parecchie cose, ma il cervello è ancora un mistero. Abbiamo scalfito la punta dell’iceberg, ma l’ignoto resta inconcepibilmente vasto.

Di cosa siamo davvero capaci? La mente “sa” qualcosa che sfugge alla nostra stessa consapevolezza? È possibile che alcune persone siano in contatto più diretto con queste ipotetiche “sacche” cognitive misteriose che ci permetterebbero di sbloccare chissà quale forma di conoscenza? Le coincidenze esistono e basta o ci sono cervelli portentosi che sanno unire i puntini e vedere quel che ancora non c’è? Non ci è dato saperlo e non lo sa nemmeno Sam Knight, che con Ufficio premonizioni – in libreria per Mondadori Strade Blu con la traduzione di Doriana Comerlatiricostruisce la parabola professionale di un giovane psichiatra britannico e delle sue ricerche (insolite per gli anni Sessanta/Settanta come potrebbero risultarlo anche ai giorni nostri) al confine tra scienza, ragione e paranormale. Ambizioso e desideroso di affrancarsi dalla casa di cura – anche se sarebbe qua davvero più corretto usare il termine “manicomio”, con tutte le tetre accezioni che si tira dietro – in cui prestava servizio, John Barker comincia a interessarsi al tema della precognizione dopo il terrificante disastro di Aberfan – un cumulo di detriti minerari collassa e seppellisce una cittadina del Galles. La tragedia aveva delle cause spiegabili, ma meno spiegabili parevano essere i tanti presagi di sventura che qua e là per il paese erano stati “registrati”, con riferimenti precisi e circostanziati. CHE QUESTA GENTE ABBIA VISTO IL FUTURO? Riflettiamoci meglio, pensa Barker, strutturiamoci per mappare l’operato di questi presunti veggenti e per capire quanto spesso i fatti daranno loro ragione.

Insieme a un giornalista scientifico – che poi diventerà una voce celebre nel documentare il programma spaziale – Barker “apre” una casella postale per raccogliere premonizioni e si appoggia a una redattrice per catalogare e verificare quel che arriva. L’Ufficio Premonizioni abita una zona grigissima, a cavallo tra sensazionalismo, curiosità morbosa, mitomania e autentico interesse scientifico e, nella sua stramba ambiguità attira innumerevoli ciarlatani ma anche una manciata di “veggenti” che sembrano sapere il fatto loro con inquietante accuratezza.

E quindi? E quindi niente, mi vien da dire, perché Knight è un eccezionale catalogatore di informazioni ed è molto bravo a mappare fatti e a mettere in fila con dovizia di particolari una storia vera (e corale) fatta di numerosi stimoli e anime… ma finisce lì. Proprio quando l’abisso dell’inconoscibile potrebbe irretirci davvero finiamo un po’ in una palude compilatoria e smettiamo di farci domande. Non si tratta di prendere le parti – scienza o chiaroveggenza? FIGHT! – ma forse di metterla solo giù con un piglio più vispo, curioso, “vivo”. Forse esiste una via di mezzo tra una puntata di Mistero e il rigore implacabile della mia commercialista e sarebbe stato avvincentissimo percorrerla… ma forse è presto. Si sa, non usiamo ancora il nostro cervello al 100%.

Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Allora, il libro “fonte” che Christopher Nolan ha usato per Oppenheimer è quello di Kai Bird e Martin J. Sherwin – in italiano è uscito per Garzanti. Io non l’ho letto e questo vuole essere un cenno puramente informativo. Se il tema vi intriga, però, La brigata dei bastardi è un suggerimento collaudatissimo e di sorprendente godibilità. E no, non parla solo di Oppenheimer.

Sam Kean scrive di scienza e di contese scientifiche col piglio di un avventuriero e con il godimento palpabile di chi adora un argomento e vuol renderlo fruibile anche a me che non ho mai preso più di 3 in una verifica di fisica.
La brigata dei bastardi – pubblicato da Adelphi con la traduzione di Luigi Civalleri è un librone molto ambizioso e intricato – sia per complessità del tema che per sterminata ricchezza delle fonti – che spazza via col piglio deciso ogni sospetto di noia o pedanteria. Di che parla? Della corsa alla bomba atomica e del perché gli Alleati ci siano “arrivati” prima, nonostante la Germania avesse inaugurato il suo programma con un paio d’anni buoni di vantaggio. Partendo dalla ricerca sull’atomo e dalla sequenza di scoperte strabilianti dell’era pre-bellica, Kean posiziona sulla scacchiera premi Nobel, generali, spie e guastatori per raccontarci un tassello decisivo della Seconda Guerra Mondiale e, nemmeno troppo incidentalmente, la perdita dell’innocenza della scienza.

Non vi tedierò con del name-dropping che risulterebbe molto più prolisso e meno interessante di come se la cava Kean nella descrizione dei personaggi chiave – fenomenali, anche i più biechi – e non vi tedierò neanche col bigino del testa a testa tra Club dell’Uranio e Progetto Manhattan, ma spero vi basterà sapere che qua dentro troverete la degna cronaca di un’impresa umana di rara complessità, sia per l’estrema difficoltà “concettuale” ma anche per l’abisso etico che ha spalancato. Mai forse nella storia tante menti eccelse, tanti soldi e tanti sforzi produttivi si sono coagulati attorno a un unico obiettivo. Quel che ne è uscito è un terrore fuori scala e un atto inventivo che ha cambiato per sempre il nostro modo di intendere i conflitti, il potere, la civiltà, la responsabilità e il mondo intero.


Un altro paio di spunti?
La storia della bomba atomica in versione graphic-novel – con un approccio che non mi è parso troppo dissimile da quello di Kean: La bomba di Alcante, Bollée e Rodier, uscito per l’Ippocampo.
E un romanzo corale che racconta il progetto Manhattan dal punto di vista delle consorti degli scienziati impegnati nelle ricerche in New Mexico: Le mogli di Los Alamos di Tarashea Nesbit.

 

Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che, in generale, non sapremmo mai riassemblare per conto nostro. Noi badiamo all’effetto tangibile e al servizio che queste “cose” ci rendono, al problema che ci risolvono o a quello che ci permettono di fare, ma non abbiamo una reale presa sulle architetture che sorreggono le molte tecnologie del nostro quotidiano, tanto per circoscrivere la questione al più immediato degli ambiti. La luce si accende anche se non abbiamo partecipato al processo scientifico di infinite ipotesi, prove sperimentali, errori e accumulo di conoscenze incrementali che è servito a farci pigiare l’interruttore attendendoci un effetto preciso. Quel che conta è appropriarci di un risultato, ma quel che lega cause ed effetti diventa terra incognita e misteriosa, parentesi di prodigio invisibile. Il “come” non ci riguarda più, se affidandoci a un determinato strumento otteniamo quel che ci occorre – e per affidarsi bisogna credere.

Quando leggo Chiara Valerio mi sento quasi sempre una cretina, ma è un esercizio che mi giova immensamente. Con La tecnologia è religione, come aveva già fatto nella sua Vela precedente – La matematica è politica -, Valerio mette in relazione due vastità concettuali all’apparenza disgiunte per farle collimare nello spazio d’azione del nostro presente. Non solo finisce per raccontarci cosa c’è in quelle vastità concettuali lì, ma parla di noi e di cosa siamo collettivamente diventati, di come pensiamo e di come ogni forma di sapere – quelli “scientifici” in primis, sempre che abbia senso compartimentarli – esprima una posizione etica e sociale, la bussola del chi siamo.

Qua si parla di Spiderman, di pupazzi che riteniamo dotati di anima, di programmazione, di percorsi scolastici svuotati di senso, di metodo scientifico, curiosità, telecomandi, nonne, miracoli e danze della pioggia. Se ne parla perché quel che sappiamo è spesso un “sappiamo usare” e perché abbiamo bisogno di produrre fede, cambiandone man mano la destinazione. Si tratta, forse e soprattutto, di domandarci che cos’è che abbiamo capito… e di venire a patti coi nostri inevitabili limiti strutturali. Ed ecco perché è splendido e utile che Chiara Valerio mi faccia sentire scema, senza però mai togliermi fiducia nel futuro.

Quando mi sono trasferita a Torino per cominciare lo stage che avrebbe sancito il mio debutto ufficiale nel mondo del lavoro mi sono cercata una casa da affittare. Sapevo che sarei rimasta per 6 mesi, ma non avevo certezze sul potenziale rinnovo del contratto o sulla mia possibile permanenza ulteriore in quell’ufficio o in quella città. Non avevo mai visto un contratto d’affitto o visitato un appartamento, accompagnata da un agente immobiliare. Non sapevo che domande fare, non sapevo se era normale che mi chiedessero tre mesi di caparra e non sapevo chi doveva pagare l’idraulico nel caso fosse esploso un tubo. E la cosa divertente (e molto rivelatoria) è che non lo sapevano nemmeno i miei genitori. Mi ero fatta aiutare dal mio fidanzato dell’epoca, che a Torino abitava da qualche anno perché si era trasferito per studiare al Politecnico e che, al contrario di me che avevo frequentato i miei 5 anni d’università a Milano da pendolare, continuando ad abitare a casa mia a Piacenza, aveva un’esperienza un po’ più solida di cosa succedeva nel mondo “vero”. Che lo spaesamento dei miei genitori di fronte a quell’aspetto pratico e fondamentale della quotidianità di molti fosse così marcato mi era sembrato strambo anche ai tempi, ma ci è voluto del tempo per capire davvero il perché.

Il lavoro dei miei genitori – che era stato “certo” e “fisso” sin da subito e da un’età precoce, per gli standard attuali – occupava da sempre una fetta importante delle loro giornate, ma produceva anche dei benefici tangibili. Lavoravano, ma pareva ne valesse la pena. Lavoravano, ma esistevano delle certezze materiali di cui tutti quanti potevamo godere, ricompensandoli dell’indubbia fatica che per anni han fatto pure loro. Mia madre, dopo un paio di mesi dall’inizio del mio stage, giudicava con manifesto scandalo la mia scarsa propensione al risparmio. Nell’universo in cui era abituata a muoversi lei, infatti, c’erano di certo dei sacrifici e delle decisioni da prendere, ma non c’erano affitti da pagare, futuri più incerti della media e bilanci stabilmente in passivo. Se lavori riuscirai a mantenerti. Se lavori riceverai in cambio il necessario per fronteggiare i tuoi bisogni e gestire oculatamente anche il tuo futuro. Il fatto che non si rendesse conto che, con un rimborso spese di 500€ mensili – o, più tardi, con uno stipendio da neoassunta di 1.100€ -, il risparmio fosse un lusso è un altro tassello del problema. Ero di sicuro io che non sapevo farmi valere o che non lavoravo abbastanza, ero io che non sapevo convertire l’istruzione che avevano profumatamente pagato in un impiego degno del mio blasonato ateneo. E il fatto che la mia azienda avesse un nome importante – uno di quelli che funzionano all’interno di un “ah, sì… siamo molto contenti, mia figlia lavora da…” – tendeva un po’ ad accrescere le dimensioni del paradosso, almeno dal mio punto di vista.
Quel che ho scoperto io, specialmente da dipendente, è che non esiste più alcun premio per il delfino che salta meglio e più spesso nel cerchio. Anzi, la piscina sta diventando sempre più piccola, gli allenamenti sono sempre più estenuanti e, al massimo, se ce la fai ti tocca una sardina, anche se il valore che con le tue competenze stai contribuendo a creare per la tua azienda corrisponde a una carriola piena di bei salmoni grassi.
Per concludere questa confusa parentesi autobiografico-didascalica, direi che i miei genitori hanno conosciuto (per loro e mia fortuna, dato che anch’io ho avuto la possibilità di avvalermi delle risorse di famiglia da loro create e/o ereditate) l’era lavorativa del ne vale la pena. Noi, con ogni evidenza, stiamo gestendo maldestramente l’epoca del Ma chi me lo fa fare?, che non a caso è anche il titolo (azzeccatissimo) del saggio di Andrea Colamedici e Maura Gancitano.

Che fa questo libro? Cerca di dare struttura allo scoramento collettivo. Cerca di risalire alle cause di questa vasta sindrome di Stoccolma che, da un lato, configura il lavoro come dimensione assoluta delle nostre identità e, dall’altro, riconosce nel lavoro la radice di un malessere diventato tentacolare e profondamente invasivo.
Perché ci piace così tanto lasciare che sia il nostro lavoro a definirci?
Perché è diventato cool esibire agende fittissime?
Perché preferiamo dichiararci esausti piuttosto che rischiare di farci dare dei fannulloni?
Perché è così complicato (se non proprio disdicevole) abitare serenamente il tempo “improduttivo”?
Che cosa diamine dobbiamo dimostrare?
Perché è proprio nel lavoro che abbiamo riposto le nostre speranze di affermazione e prestigio?
Trova la tua vocazione… e lavorerai sempre?
Ho preso in mano questo libro con la certezza di arrabbiarmi e, devo dire, è in parte accaduto. Ma non tanto per l’inevitabile rispecchiamento in parecchie delle trappole mappate e identificate… il problema è sentirsi ancora inermi e molto piccoli. Al di là del valore moral-identitario che attribuiamo al lavoro, quello che davvero mi prosciuga di ogni fiducia è l’irraggiungibilità “media” di traguardi che dovrebbero essere (e che per qualche generazione sono stati) ovvi, scontati e basilari. Uno su mille magari ce la farà anche, ma siamo collettivamente cementati in una situazione di disparità strutturale che nessuno stipendio realistico può scalfire. L’inaccessibilità degli elementi indispensabili a garantire a una vita “normale” e dignitosa ai tanti – invece che ai pochissimi – è quello che mi fa davvero imbestialire, anche perché quel che ne riceviamo in cambio è un’ansia da prestazione esasperata, l’imputazione al singolo – e alle sue capacità mai sufficienti – di una deformazione diventata sistemica. Impegnati, anche tu potrai trasformarti nell’eccezione! Guarda qua, il salto al gradino successivo è possibile, basta volerlo davvero!
Che senso ha continuare a raccontarci il lavoro come leva di riscatto e progresso, come strumento aspirazionale che ci permetterà di realizzare i nostri sogni e di raggiungere benessere e sicurezze, quando ci confrontiamo invece con una realtà che del lavoro ci restituisce solo la sfiancante sensazione di essere ostaggi (più o meno consapevoli o consenzienti) di forze che non controlliamo e che rendono il “campo da gioco” così iniquo e impari? È la domanda che anche in Ma chi me lo fa fare? rimane comprensibilmente aperta. E credo sia la domanda fondamentale attorno alla quale dovremmo aggregarci, magari dopo aver chiarito meglio – come può aiutarci a fare questo saggio – il percorso che ci ha portati a formularla, trascinando i piedi mentre ci rimettiamo davanti al computer e, almeno nelle nostre più sovversive fantasie, erigiamo barricate impilando schiscette ancora piene… perché sai, la call s’è un po’ allungata, non ho fatto in tempo a pranzare. Progetto bellissimo, però. 

Ma noi, di preciso, che cosa ci facciamo qua [“qua” = uno qualsiasi dei tanti spazi digitali che frequentiamo]? Cosa cerchiamo? Come ci percepiamo – AKA ci sentiamo più “pubblico” o più “produttori” di contenuti? E ha ancora senso fare questa distinzione, segmentando magari anche i nostri consumi per cluster anagrafici? Il “nuovo” è in realtà solo roba vecchia che riappare in un posto diverso, teoricamente incontaminato? Ci siamo già inventati tutto l’inventabile? Quanto costa l’intrattenimento, sia in termini monetari che di libertà personale? Quali sono i nuovi cicli di vita della fama – ed è legittimo pensare che sia diventata molto più effimera e distruttiva? Cosa mai potrà saperne un algoritmo di quello che ci piace davvero? Perché dovrei guardare della gente che dorme? Perché dovrei investire i miei soldi per svegliare con violenza una persona che dorme? Da dove arriva questo assoluto timore del vuoto? “Io? Non lo farei mai. Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo, guarda!”… e se te lo offrissero, tutto l’oro del mondo?

Animato da un interesse antropologico che a tratti lascia trasparire un “vi prego, fatemi scendere”, in Sei vecchio – in libreria per Nottetempo – Vincenzo Marino mappa alcuni fenomeni salienti del nostro abitare i posti digitali che abitiamo (con crescente vena polemica, sconfinati divertimenti, varie sindromi di Stoccolma, fatica e tragicomica rassegnazione) concentrandosi in maniera prevalente sull’ultima generazione entrata nei radar del sentire globale – a me questa cosa delle generazioni solletica sempre molto, anche perché cominciamo a occuparci ossessivamente di un dato segmento quando raggiunge un valore economico (cioè quando ha dei soldi, magari anche pochissimi, da spendere).
Insomma, che fa online la Generazione Z? Noialtri più “grandi” siamo finalmente ascrivibili tra i vecchi e possiamo cedere alle nuove leve l’ambito ruolo di cavie da laboratorio da dissezionare? Siamo autorizzati a partecipare anche ai fenomeni che anagraficamente non dovrebbero competerci più o che non sono nati per soddisfare il nostro “target”?

Dagli streamer che passano in diretta giorni e giorni al pubblico che paga per aggiungere minutaggio a queste maratone, dal terrore dell’irrilevanza a un’onnipresenza svuotata di motivazione o messaggio, dai salumieri napoletani ai profili selfhelpistici che inneggiano al successo duramente conquistato con una gagliarda forza di volontà – o all’ossessione per l’esteriorità mascherata da cura maniacale per il proprio benessere interiore -, Marino ci offre una carrellata di istantanee significative delle tendenze emergenti dei mondi digitali, dissolvendo il confine tra utenti attivi e passivi e tra evento “biografico” e potenziale contenuto.
È una panoramica che credo assolva più efficacemente al compito di dirci quel che c’è, più che scavare nei perché o nel cercare di immaginare una traiettoria futura. Se ne esce frastornati, legittimamente instupiditi dal rumore di fondo generato dall’immane accumulazione di stimoli e disperata ricerca di un guizzo di stupore, che molto spesso si manifesta sconfinando nella narrazione iperbolica del banale o in una volontaria trasformazione dell’identità in un mosaico di momenti vendibili, “creativamente” spendibili, perennemente pubblici.

Nulla di quello che ho letto ha suscitato in me il minimo AH SIGNORA MIA I GIOVANI D’OGGI, anzi. Mi sto rendendo conto che ci sono storture e fatiche trasversali, cicli di vita “personaggeschi” e dinamiche di  assimilazione del nuovo che si reiterano con caparbia uniformità in ogni mondo digitale, confermandosi per frequenza e prevedibilità di svolgimento pezzi dello scheletro vero di questo gigantesco golem multipiattaforma verso cui gravitiamo e che tanto del nostro tempo assorbe e da cui ricaviamo soddisfazioni altalenanti. Forse è per quello che insistiamo e perseveriamo: abbiamo bisogno di una dimensione potenziale, vogliamo convincerci che esista qualcosa di incredibile, vogliamo smentire il medesimo “ho visto già tutto” che soffoca la meraviglia sul nascere. Vogliamo credere che, da qualche parte, l’irrilevanza quotidiana delle nostre azioni minime – l’unica variabile che ci accomuna davvero – nasconda un miracolo e che, là fuori, ci sia qualcuno che non solo l’ha scoperto ma l’ha anche monetizzato.

[Se il tema vi intriga, forse vi verrà voglia di fare quello che ho fatto anch’io: mi sono iscritta a zio, la newsletter di Marino che prosegue (anzi, precede) il lavoro su questo libro.]

Che di “storytelling” si cianci in ogni dove (prevalentemente a vanvera) è ormai assodato, penso, ma la cialtroneria in cui ci imbattiamo qua e là non fagocita la rilevanza che le storie e le narrazioni hanno sempre avuto per la nostra specie. Le “storie”, esordisce Jonathan Gottschall in Il lato oscuro delle storie – tradotto da Giuliana Olivero per Bollati Boringhieri –, hanno rappresentato per gli esseri umani di ogni epoca (dalle pitture rupestri alle piattaforme di streaming) un collante identitario, un veicolo di trasmissione valoriale, un mezzo per elaborare accadimenti complessi e un punto di riferimento culturale attorno a cui raccoglierci. Il fatto che la creazione e la diffusione di storie ci riesca così “naturale”, però, è una variabile necessariamente positiva?

Il nostro presente è narrativente lussureggiante. Come mai prima, forse, le storie ci circondano e, per certi versi, ci assediano. Ci sono fonti narrative a cui ci esponiamo per scelta e altre in cui incappiamo per ragioni “ambientali” e per l’accrescimento esponenziale delle opportunità di diffusione. È anche un momento storico in cui, accanto a possibilità senza precedenti di “esattezza” scientifica, convivono con rigoglio menzogne e distorsioni che sembrano sfidare il buonsenso e le evidenze fattuali. Le storie sono strumenti: possono fungere da collante culturale o da felice fonte di intrattenimento, ma possono anche incanalare la potenza con cui fisiologicamente fanno presa su di noi per perseguire scopi assai meno benevoli. Dalla diffamazione al complottismo, dalle fake news al marketing, la realtà si trasforma in un teatro perenne in cui ci ritroviamo – quasi sempre inconsciamente – a cercare buoni da contrapporre ai cattivi, eroi in viaggio, giustizia per i meritevoli e castighi per i non allineati. Che queste leve – capaci di fondere l’emotività a un’idea di morale comune – possano anche essere azionate per demolire un’idea scomoda o per destabilizzarci è un rischio che si è già concretizzato.

MA ALLORA È TUTTO ORRIBILE E BIECO! No, in realtà. Polarizzare ci aiuta a semplificare e a creare scorciatoie per governare questo “troppo” in cui dobbiamo muoverci, ma ci rende comparse spesso passive, altri pezzetti di una storia mastodontica che non ascoltiamo più per capirci vicendevolmente un po’ meglio ma solo per confermare quello che pensiamo già di sapere.
Da Platone alle elezioni USA, Gottschall tenta prima di tutto di farci prendere coscienza del ruolo fondamentale delle narrazioni e – con una certa inconcludenza, devo ammettere -, prepara il terreno per l’avvento di un’era narrativo-informativa dove gli archetipi del bene e del male non sono coltelli da lanciare ma bussole di nuovo “valide”.

Come si dormiva nel Medioevo? Nudi? Vestiti? Da soli? Con tutta la famiglia (ed eventuali viandanti)? E se ti ammalavi e finivi all’ospedale? Quanto si puzzava e come la si risolveva? Come si fronteggiava il gelo? Chi fabbricava i letti? Qual era il destino di una puerpera? Con che grado di libertà ci si poteva avvicinare alle stanze di una dama? Dove si riposava la servitù? Boccaccio ci ha raccontato – tutto sommato – delle grandi verità? Come si intreccia un pagliericcio?

Guidandoci tra cortine, cuscini e cassoni, Chiara Frugoni – nostro malgrado da poco scomparsa – ci invita a coricarci in una stanza da letto del Medioevo, unico posto in un’abitazione di quell’epoca che potrebbe essere considerato “comodo” per gli standard moderni.
Facendo il consueto e sapiente uso di fonti iconografico-letterarie, dalle miniature ai garbugli amorosi del Decameron, Frugoni ricostruisce la storia sociale, materiale e culturale di un arredo domestico che, nell’espletare la sua funzione all’apparenza essenziale e semplice, spalanca in realtà vaste implicazioni romantiche, organizzative e addirittura morali. A letto nel Medioevo– in libreria per Il Mulino, come molti altri splendidi saggi storici di Frugoni – è un piccolo gioiello, degno di una studiosa che ha saputo come pochi altri conciliare curiosità, rigore, bellezza e gusto divulgativo.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi