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– Michele?
– Dimmi.
– Ti chiami Michele, giusto?
– Sì. Scusa. Otto anni.
– Sono otto anni che lavori qui?
– Otto anni e sette mesi.
– E ti trovi bene?
– Abbastanza.
– A me qui piace tantissimo.
Gervasini grattò con la punta della forchetta la base della collina giallognola. Niente da fare. Persino il purè era più forte di lui.
– Senti Adele, io non ti conosco. Ma…
– Facciamo finta che ci conosciamo. Così è più semplice.
– Ok. Allora, posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Sicura?
– Sicura.
– Come fa a piacerti tantissimo un posto dove la gente si ammazza?

Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile
Einaudi (i Coralli)

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Non si lavora. Si lavora troppo. Si lavora bene ma nessuno se ne accorge. Si fa finta di lavorare, tanto c’è sempre un pirla che si prende la colpa. Si timbra il cartellino quattro volte al giorno. Non si timbra perchè col progetto non c’è da timbrare. Ad agosto non si può accendere l’aria perchè la tua collega ha i bronchi di cristallo. Ad agosto devi stare a meno sei perchè la tua collega in menopausa deve tenere a bada le scalmane. Ci sono quelli che hanno la firma in fondo alla mail, quelli che scrivono mail come se fossero verbali dei carabinieri, quelli che si personalizzano il carattere perchè l’Arial 10 è da impiegato senz’anima. Scrivanie con foto di cani. Scrivanie con foto di bambini. Tutti hanno una tazza, te hai un portamatite di plastica. Il temperino non ce l’ha mai nessuno. Tutti attaccano qualcosa di straordinariamente originale alla chiavetta del caffè. La macchina del caffè non caccia latte neanche a pedate. Se c’è il latte, non vengono giù le palettine per mescolare la roba. La chiavetta del caffè le distribuisce sempre una persona importante, che non è mai quella che custodisce i buoni pasto. I buoni pasto li hanno gli stagisti e quelli col contratto. In ogni caso, sono sempre di almeno un euro sotto a quanto mangi effettivamente. Si scorgono tupperware pieni di pasta vecchia, i salamini Beretta nella pratica confezione con lo scompartino per i taralli, le piade del bar che ti fanno venire sonno, i cous-cous organico che non si capisce se vada mangiato caldo o freddo. La mensa c’è se lavori in uno di quei posti scomodissimi fuori città. Se lavori al confine tra la città e la non-città sei fregato, non c’è la mensa e l’unico bar dei dintorni è in mezzo a un deserto nucleare, punteggiato dalle ossa dei grandi rettili del passato. E la benzina costa. E i mezzi non funzionano. La metro è comoda, ma poi arrivi in ritardo perchè ci sono quelli che si gettano sulle rotaie. Leggi il Leggo. E in Metro leggi Metro. Alle fermate all’aperto leggi City. L’unica differenza è l’oroscopo. Passano sempre dei piccioni, poi volano via e te devi andare in ufficio e allora li guardi e ti ritrovi su un marciapiede a domandarti come sei riuscito a produrre un sentimento d’invidia per dei piccioni. E allora entri e passi il resto della giornata a cercare di capire perchè sei lì.

Non credevo che venisse così lungo, il benedetto preambolo. Sarà perchè l’ufficio confonde. E debilita anche un po’. Il fatto è che l’ufficio produce anche una girandola di emozioni e sentimenti assolutamente non richiesti. Sarà che ci si passa troppo tempo per far finta che non stia davvero capitando a te, alle tue variopinte occhiaie e alle tue lauree. Allora ti adatti, ti arrabbi, ti stanchi, qualche volta ti diverti e immancabilmente inveisci come un vichingo contro le trattenute. Ma poi capisci che ti è andata bene, perchè alla Montefoschi, nobile azienda a ex-conduzione familiare per la produzione di latte e derivati, c’è chi decide di darsi fuoco nell’armadio delle scope.

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Raggiunse lo schedario di alluminio verde alle spalle di Gervasini, infilò il faldone nel cassetto della lettera C. Tornò a sedersi, e concluse: – La paura, Gervasini. La nostra cara, umana, preziosa paura. L’unica forma di democrazia che resiste al tempo. Altrimenti perchè crede che la gente si uccida?
– Lucia Frangipani non aveva paura di niente.
– E lei cosa ne sa? I colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane.

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Nessuno è indispensabile è un libro pieno zeppo d’intelligentissimo e malvagio divertimento. Imperscrutabili mucche in vetroresina, gente che s’ammazza in ufficio, agghiaccianti siti per cuori solitari, stagiste col nasone che però se le guardi bene non sono poi così degli scaldabagni, integratori alimentari che spazzano via i risparmi di una vita, code sul raccordo, silos pieni di latte che luccica al chiaro di luna, case con dentro solo un’iguana, grezzoni col gessato che fanno i brillanti alla macchinetta del caffè e amministratori del personale con la katana appesa in ufficio… personaggi inespressivi e insensibili, che mandano mail direttamente dal cimitero dei tuoi sogni.

from: segreteria.hr@montefoschicorporate.it
to: m.gervasini@montefoschicorporate.it
subject: CONVOCAZIONE

Alla c.a. del sig. Michele Gervasini
La SV è invitata a presentarsi il giorno lunedì sg. corrente mese alle ore 17.00 presso l’Ufficio del personale, piano V, stanza 127 all’attenzione del dott. Stefano Bigazzi.

Si prega cortesemente di dare conferma di avvenuta ricezione della presente.

Cordiali saluti,

La Segreteria Direzione Human Resources

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E l’eroe? C’è, l’eroe?
Peppe Fiore ha deciso di scrivere un libro sul più sfortunato e goffo dei vostri colleghi. Quello che se anche si cambia vi sembra sempre vestito allo stesso modo e che la gente si tira dietro sul balcone perchè non c’è neanche un ficus su cui indirizzare il fumo della sigaretta. Una faccia che mai riuscirete ad associare a un nome… e non perchè siete rincoglioniti, ma perchè proprio non v’interessa.
E Michele Gervasini è lì, che fa il suo, sperando fortissimo che non gli capiti più niente di male.
Lo devono promuovere da quattro anni, ma non è mai il momento giusto. E quella totale assenza di eventi che contraddistingue la sua giornata lavorativa finisce pian piano per invadere anche il resto del tempo. Fa il contabile per mozzarelle e yogurt e, non pago, campa a mozzarelle e yogurt. Tollera orribili spostamenti mattutini nell’incubo del traffico di Roma, ma solo per andare in ufficio, che se lo invitano da qualche parte a farsi due risate non ci va perchè pigliare la macchina è troppo faticoso. Gervasini viene rimbalzato, ignorato, maltrattato e lasciato a marcire come un delfino disorientato sul bagnasciuga dell’ufficio contabilità. Zero carriera, mai una gioia… e i suoi conti sono un casino perchè l’unico che doveva dargli una risposta urgente s’è buttato dalla finestra. Gervasini un po’ ti fa tenerezza e un po’ lo prenderesti a sganassoni. E gli sganassoni sono per quelle innumerevoli piccole cose della sua personalità che ti fanno venire in mente anche la tua, di giornata lavorativa.

Insomma, panico, scrivanie, contabilità, cattiverie burocratiche ed estrema disperazione impiegatizia… sembrerebbe una roba che non potrebbe mai e poi mai far ridere (sia forte e allegramente che con amara pensosità), ma probabilmente Peppe Fiore è cascato in un ruscello magico da piccolo.

Insomma, è con passione e scompigliatissimo trasporto che vi consiglio questo libro. Ci sono pure dei piccoli lavoratori che si gettano ordinatamente nel vuoto dal codice a barre. Parliamone!

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Ai piedi delle due immagini c’era scritto cubitale LAVORARE UCCIDE! e più sotto ancora la convocazione di un’assemblea sindacale straordinaria per il martedì successivo. Gervasini, come tutti gli altri, si appallottolò il volantino in tasca, e si avviò a passo deciso verso l’ingresso degli uffici. Doveva lavorare, lui.
Anche il sindacalista, ovvio, doveva lavorare. Ma questo non gli impedì di presidiare il piazzale finchè non fu sicuro che il grosso dei dipendenti avesse avuto almeno un volantino. Avrebbe timbrato il cartellino in ritardo, ma amen: la rivoluzione non ha orari d’ufficio.

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E ricordate. Chi non legge Nessuno è indispensabile è un Michele Gervasini!

C’era una volta un ragazzo che era troppo curioso. Se ne andò dalla fattoria di famiglia in cerca di fortuna. Prima ancora di dire addio al cane, proprio fuori dal cancello di casa, incontrò un serpente gigante. Aveva le squame color rubino, e gli disse: “Devi tornare dalla tua famiglia”. Il ragazzo rispose: “Ma io voglio vedere il mondo”. Il serpente disse: “Loro sono il sangue del tuo sangue. Loro sono tuoi, tu sei loro, per sempre”.

Steven Amsterdam
Ritratto di famiglia con superpoteri
Isbn edizioni (Special Books)

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Il titolo originale di questo libro è What the Family Needed. E anche se è un titolo allegro come un secchio pieno di alghe, c’informa esattamente di quel che succederà. Gli adorabili di Isbn, invece, hanno deciso di farci sapere che nelle innumerevoli possibilità concesse alle famiglie infelici di essere infelici a modo loro, c’è pure una modalità che prevede l’utilizzo di superpoteri. C’è Giordana che diventa invisibile, Ben che vola, Natalie che nuota velocissimo, Ruth che legge nel pensiero, Sasha che fa innamorare le persone, Peter che può far materializzare tutto quello che desidera. E poi c’è Alek, che si accolla tutta la tristezza e la confusione, che scompare, ritorna e cerca di non farsi mettere in gabbia, anche se è l’unico che non ha mai davvero abbandonato nessuno.
I superpoteri, in questa storia, non sono niente di strano. I personaggi li ricevono all’improvviso, in giornate che spesso non hanno niente di speciale, e diventano subito parte di loro, come il colore degli occhi o il temperamento. Sono superpoteri distribuiti con saggezza, doni che dovrebbero riuscire a risollevare da un momento buio, per infondere la determinazione necessaria a vedere che cosa riserverà la giornata successiva. Spesso appaiono col giusto tempismo, a volte peggiorano le cose o attirano una catastrofe peggiore di quella schivata nel presente, tutti innescano conseguenze difficili da governare. A tirare le fila, a scegliere quale sia il sentiero giusto per avvicinarsi alla felicità, c’è l’unico della famiglia ad avere davvero qualcosa di speciale. Non sapremo mai da dove arrivi il suo dono, ma credo ci si possa accontentare di osservarlo mentre mette insieme un puzzle molto complicato con le storie e il tempo di chi ama.

Che vi devo dire, evviva. E’ un degno Special Book, è una raccolta di scatole piene di quello che non ci piace dire ad alta voce. E’ una storia di famiglia e un interessante giocattolo di incastri. E se mentre lo leggete camminerete in un muro, credo riuscirete ad attraversarlo, senza impegnarvi.

Appena l’aveva vista, Robbie si era sentito martellare il cuore in petto come la prima volta in cui aveva azzoppato una volpe.

Stefania Bertola
Romanzo rosa
Super ET – Einaudi

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Dunque, in questa difficile estate, Christian Grey ha sculacciato così forte la sua derelitta partner da farci diventare tutti quanti sordi.
Personalmente, non ho avuto il piacere di ammirare nessuna delle cinquanta sfumature che sembrano comporre la complessissima e sfaccettata psiche del sadico – ma irresistibile, misterioso, affascinante, instancabile, superdotato, indomito e bello bello in modo assurdo – milionario di E.L. James, che il cielo la perdoni, nè ho tentato di documentarmi più del necessario. Quel che ho capito è che c’è una semprevergine ventenne che va a intervistare il Grey per il giornaletto dell’università e, senza manco accorgersene, dopo tredici pagine si ritrova incatenata alla zampa di un leopardo imbalsamato, nelle segrete di una qualche lussuosa dimora. Mentre è lì attaccata al leopardo – nuda, bendata e con le articolazioni sbriciolate – il Grey le gira intorno tirandole addosso secchiate di cera bollente, puntine e ghiaietta. Tra un’ustione e l’altra, Anastasia viene trombicchiata, malmenata, presa a parolacce e buttata in una cassapanca piena zeppa di furetti deformi. Perchè quel che non ti ammazza t’ispira durante l’accoppiamento.
Comunque, pare che i due si amino di un sentimento cristallino e sfavillante e che ora vivano felici in una mirabile villa nelle immediate adiacenze del pronto soccorso… e a me non potrebbe che far piacere. Insomma, alla fin fine gli sganassoni se li prende lei, chi siamo noi per polemizzare.
Nel rispettare con cortesia e benevolenza l’edificante storia d’amore e pedate nelle costole di Christian e Anastasia, però, non riesco bene a comprendere come si possa affrontare con serietà e autentica partecipazione emotiva una faccenda del genere.
Perchè io la vedo esattamente come Stefania Bertola, e non saprei fare altrimenti.

Giovanna ha problemi con il suo Hot Fire. Vorrebbe iniziare subito con una scena hard, ma Leonora Forneris le ha bocciato un semplice atto di sesso orale praticato dalla protagonista, Olean, nei confronti del protagonista, Kosak. Leonora obietta che al sesso orale ci arriveranno non prima del terzo o quarto capitolo, e che nel frattempo al massimo possono avere un rapporto solo apparentemente casuale nel deposito bagagli della nave da crociera su cui entrambi viaggiano. Solo apparentemente casuale perchè in seguito nessuno dei due potrà dimenticare quel momento, e questo impedirà a lui di sedurre, come programmato, la presidentessa della Indusrials Union del Canada.
– Che faccio? Lui la rovescia su una Samsonite?
– Troppo dura. Fai uno zaino.

Romanzo rosa è un piccolo libro immensamente spassoso. C’è questa bibliotecaria di quasi sessant’anni che decide di frequentare un corso del Circolo dei Lettori per imparare a scrivere un Melody. Ed è una poco abituata ad essere travolta dall’impeto della passione… quando proprio si emoziona è perchè va a mangiare al Flunch con la sua vicina di casa, che la sconfigge sempre a canasta. Insomma, va a questo corso. L’insegnante è la celeberrima Leonora Forneris, maestra del Melody e gran signora, una che si veste con colori mai sentiti, tipo l’ardesia. Nel libro ci sono la storia del corso, le dispense della Forneris (con dettagliate istruzioni su come strutturare un glorioso Melody capitolo per capitolo) e il romanzo della signora Olimpia.
Bene. In due diversi punti ho distintamente pianto dalle risate. E la sera che l’ho letto ho scordato che dovevo lavarmi i capelli ed è finita che ho dovuto rimediare alle tre di notte, in uno sconvolgimento totale di bioritmi. Insomma, sarebbe importantissimo prendere la signora Bertola, vestirla tutta di rosa confetto e mandarla a soccorrere le vittime di Christian Grey, che farsi una sonora e intelligente sghignazzata sui luoghi comuni è decisamente più salutare che farsi sfigurare a sberloni – anche se pieni di romanticismo – da giovani uomini con insondabili disordini della personalità.
E poi l’ardesia è la più nobile delle sfumatura di grigio.
Leggetevelo, valà, vi allungherete l’estate… e capirete che forse avete sbagliato il libro da spiaggia.

 

Le renne non sono originarie dell’Islanda, ma vi furono importate tra il 1770 e il 1778. Il mostro più famoso dell’Islanda è il serpente di fiume Lagarflijòt dell’Egilsstadir. Il primo tentativo del mondo di frenare una colata lavica con l’acqua fu portato felicemente a termine nel 1974, durante l’eruzione delle isole Vastmannaeyjar. In Islanda non ci sono nè ferrovie nè treni. Il campionato del mondo di bridge fu vinto nel 1961 dalla nazionale islandese. Il nuoto è meteria obbligatoria per tutti nelle scuole elementari. Il merluzzo più grande mai pescato in acque islandesi pesava 50 chili, mentre il più grosso salmone mai catturato con la lenza era lungo 130 centimetri – fu pescato nel 1992 nel Bakkaà, aveva undici anni ed era immangiabile.
Oltre al mitologico serpente di fiume, alle renne d’importazione e ai merluzzi affetti da gigantismo, in Islanda c’è anche Auður Ava Ólafsdóttir, autrice di Rosa candida, un romanzo di rara e piacevolissima morbidosità.

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– Le verdure non sono mai state la mia passione, mio caro Lobbi. Piuttosto erano il pallino della mamma. Io riuscirei a mangiare al massimo un pomodoro alla settimana. Quanti pomodori hai detto che può dare ogni pianta?
– Almeno prova a regalarli.
– Non è che posso bussare di continuo alla porta dei vicini con i miei pomodori in mano.
– E se li dài a Bogga?
Glielo domando anche se ho il sospetto che la vecchia amica della mamma abbia gli stessi gusti di papà.
– Non ti aspetterai mica che vada a trovarla tutte le settimane con tre chili di pomodori. Insisterebbe per farmi rimanere a cena.

Dunque. Lobbi ha ventudue anni, un padre affettuoso e goffo che si ostina a cucinare anche se non è troppo capace, un fratello gemello autistico che non dimentica mai di indossare la cravatta e un talento autentico e pacifico per il giardinaggio, ereditato dalla mamma. Questa mamma, morta da poco in un incidente stradale, riusciva a far crescere gli alberi anche nello stravento ed era il tipo di donna straordinaria che esce di notte per andare a lavorare in pace nella sua serra super lussureggiante. Lobbi, alto, secco, coi capelli rossi e una sbilenchissima prospettiva sul mondo e gli altri esseri umani, passa parecchio tempo nella serra… ci va a leggere, a studiare le piante, a pensare e a fare l’amore con amiche di amici. Quando ci finisce con Anna, però, l’effetto imprevedibile di quelle poche ore trascorse insieme sarà una bambina bionda, curiosa e tranquilla. Lobbi non sa bene che cosa pensare. All’inizio la risolve imbarcandosi per qualche mese su un peschereccio – vomitando l’anima – e decidendo, una volta tornato in Islanda, di accettare un lavoro da giardiniere in un paese del Nord Europa dove non c’è lava congelata da tutte le parti e le rose possono crescere senza sbriciolarsi. E visto che con Anna non è che si stia proprio insieme, anzi, Lobbi compra un po’ di pigiamini per Flòra Sòl, saluta tutti quanti e inizia il suo viaggio verso il lontano giardino. L’avventura inizia con un attacco di appendicite, prosegue con un istruttivo tragitto in macchina e s’ingarbuglia in difficoltà linguistiche – che Lobbi risolve parlando a tutti di piante, possibilmente in latino -, fino all’approdo al monastero e al suo leggendario roseto, ormai invaso dai rovi e reso opaco dal decennale menefreghismo degli anziani frati. Tra un’aiuola, un bicchierino con padre Tommaso – appassionato di cinema d’autore – e il costante tentativo di far capire a chi vede la foto che Flòra Sòl ha tutti i capelli che dovrebbe avere una bambina di nove mesi, Lobbi cerca di fare a patti con la nostalgia e di ricordare che cosa mai l’abbia spinto a finire laggiù. A chiarirgli le idee, o forse ad aggrovigliarle ancora di più, arriva una telefonata improvvisa di Anna, che vorrebbe lasciargli Flora Sòl per qualche settimana, il tempo necessario a portare a termine la sua tesi di genetica…

– Come si capisce se una donna ti ama?
– In amore è difficile essere sicuri di qualcosa, – ribatte l’abate spostando la bambola verso Flóra Sól.
– E se una donna dice di avere paura che il suo uomo non torni piú, ma lui è uscito soltanto a fare la spesa?
– Allora può voler dire che chi ha voglia di andarsene via è lei.
Mentre si rivolge a me, osserva la bambina intenta a giocare.
– E quando una donna sembra assente? Significa che non è innamorata?
– O che è innamorata. Entrambe le cose.
– E se una donna dice a un uomo che è meglio che lui non s’innamori di lei?
– Allora può voler dire che è lei ad amare. Mi viene in mente un vecchio film italiano che magari t’interessa, affronta proprio queste problematiche. Il regista, in realtà, non utilizza quasi per niente i dialoghi: è per mettere in risalto i sentimenti.
– E se lei dice che non si sente pronta per una relazione?
Mia figlia mi passa la bambola pretendendo che le tolga l’abitino di filo.
– Allora può voler dire che lei è pronta, ma dubita che lo sia tu. Quindi teme di essere rifiutata.
– E se lei dice che ha intenzione di partire per starsene da sola?
– Allora può voler dire che desidera che tu la accompagni.
L’abate si alza e inizia a frugare tra le mensole.
– Esiste una carità ragionevole, recitano certi versi, – continua dall’altro lato della stanza, – ma non un amore ragionevole. Se si vivesse con la testa e basta, sarebbe impossibile incontrare l’amore, come sta scritto qui, da qualche parte… – conclude, e so che non si riferisce alla Bibbia.

Allora, il giardinaggio e i neonati sono esattamente i due temi che mai mi andrei a cercare di proposito. Non è il mio genere, non entro in libreria con la smania di leggere un bel romanzo pieno di concimi floreali e concimi prodotti da piccoli esseri umani, non è cosa. E cucinano anche un sacco… in Islanda è un continuo impanare rombi, mentre nel paesino del roseto c’è un gran spadellare tra fettine di vitello e grosse lepri selvatiche. E le confetture, e i budini. Insomma, anche chi se ne importa della salsa al vino rosso. È quindi con grandissima sorpresa nel cuore che v’informo che Rosa candida mi è piaciuto. È un libro che fa le coccole e ti porta a spasso per posti pensosi attaccato a dei palloncini. È una storia fatta di immagini semplici e rassicuranti, spezzetta le difficoltà in mattoncini che si possono controllare… e non ti cambierà la vita, ma di tanto in tanto fa bene farsi raccontare una cosa del genere. Non so poi che rapporto abbiate voi col romanzo islandese, ma a me non era mai capitato di farmi coccolare da un’islandese. Siamo abituati a storie di persone, famiglie, ricordi e compagnia tenute insieme da interminabili dialoghi, arguzie e macro-espedienti narrativi, qua uno si spoglia nudo all’improvviso e per uscire dall’imbarazzo propone di fare il tè. E basta, va bene così.

Insomma, se volete provare al mondo che anche il vostro cuore di ghiaccio è, in realtà, ripieno di morbida lava o se avete bisogno di leggere qualcosa di soffice e felice – per una volta -, Rosa candida vi farà contenti, anche se ammazzate puntualmente pure le piante grasse.

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Linkarama:

Lo speciale sul sito Einaudi

Il board su Pinterest

Per le straordinarie curiosità sull’Islanda si ringrazia il Consolato Generale

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Fare conversazione a tavola per me è difficile. Credo sia perchè mangio molto lentamente, mastico con grande concentrazione e non ho voglia di far perdere tempo agli altri, che spazzolano tutto con efficienza e poche cerimonie. Insomma, se mangio non parlo e, anche se parlo, finisce che non m’impegno e mi escono robe da nobildonna che va alla bettola di Gassman e Tognazzi per assaggiare l’orrendo zuppone alla porcara, mentre in cucina volano polipi e parrucchini.
Per tutte queste ragioni, mangiare da sola non mi dispiace. Mi porto un libro, sto in pace e ciao. Anzi, leggere mentre mangio mi piace tantissimo, soprattutto a pranzo.
Ultimamente, però, il mio felice isolamento biblioalimentare del mezzogiorno è disturbato da Niccolò Ammaniti.
Sono lì, incagnata nell’angolo vicino alla finestra col mio libro e il couscous pollo grigliato-nocciole. Tranquilla e contenta come una torta di mele, ma rido così forte che la gente viene a rompermi i coglioni per sapere che cosa sto leggendo.
Sto leggendo Il momento è delicato, accidenti a voi.

Che sensazione singolare, continuava a sentire il braccio al solito posto, addirittura gli pareva di poter stringere le dita eppure il gigante lo brandiva come una clava.
Che ci vuole fare?
La risposta gli arrivò subito quando venne colpito in faccia dal suo stesso bicipite per tre volte di seguito.

E no, non sono affatto disturbata da fratture, colonne vertebrali strappate dal tronco, cartilagini frantumate, guardoni obesi, seghe, Alba Parietti, piscio di santoni indiani e mostri mutaforma ghiotti di carne umana. La torta salata ricotta e spinaci non mi va di traverso, faccio solo delle gran brutte figure. C’è la gente lì, col completo da consulente, le ballerine pratiche ma eleganti e la vaschetta di verdure grigliate. Gente gioviale che si nutre coi colleghi. E a due metri ci sono io che m’imbatto in cose così:

Il vero problema era il letto. Che fare con le lenzuola? L’unica era coprire quel profumo con un odore più forte. E se accidentalmente gli fosse caduto sul letto qualcosa? Ecco! Tirò fuori dal congelatore dei sofficini al pomodoro e li gettò in padella ripetendosi: “Avevo fame e mi sono fatto dei sofficini e per sbaglio mi sono caduti sulle lenzuola”. Quando furono cotti, li versò sul letto con tutto l’olio che si fuse con il rivestimento del materasso di lattice generando un mezzo incendio e una nuvola di fumo nero e tossico, ma eliminando per sempre l’odore di Angela. Mara avrebbe pensato che era un coglione totale, non un fedifrago. Eccellente, si disse compiaciuto.

O in robe abominevoli, che non sai nemmeno tu perchè ti divertono così, tipo tutto quanto Fa un po’ male, racconto che mi ha fatto battere ogni record di rallentamenti per curiosi vicino al tavolo. E per un racconto che ha i pompini come snodo narrativo centrale, son belle soddisfazioni.
Produco i doverosi esempi:

Se Angela Milano, studentessa al terzo anno in odontoiatria, avesse fatto un pompino a Robbi Cafagna tutti questa triste vicenda non sarebbe mai avvenuta e io non starei qui a raccontarvela.
Ma una sorte amara volle che proprio quel pomeriggio Angela, dopo una lunga discussione con l’amica del cuore Verdiana Ceccherini, decise di cessare, almeno per un po’, quest’antica pratica orale che, a suo giudizio, rischiava di definirla solo per una delle sue innumerevoli qualità.

Robbi Cafagna è uno tra i più sventurati dell’intero libro. E se lo merita.
I suoi guai nascono, per la sacrosanta legge del contrappasso, da un’affermazione molto decisa ma poco lungimirante.

– Allora, che hai contro gli omosessuali, si può sapere?
Non mollava.
–  Niente. Assolutamente niente -. Quanto avrebbe voluto invece dirle: “I froci mi fanno schifo. E’ gente malata che si sente pure ‘sto cazzo e si credono artisti solo perchè lo prendono in culo”.

E dopo una roba del genere, ti siedi lì e ti godi tutto il disastro che si abbatterà sul Cafagna. Io ero solo dispiaciuta di non potermi togliere le scarpe al ristorante per stare più comoda, ma ero però ben contenta di vedere che il Tenaglia non faceva un bel niente per aiutare Robbi (che è pure spilorcio e genericamente razzista), scegliendo di rimanere sul divano ad ammirare la Cuccarini al Telethon.

All’inizio si era fatto delle seghe a caso, dissipando energie a cazzo, osservando il suo “amore” mentre introduceva gli ospiti, scherzava, guardava il tabellone e incitava la gente a casa a mandare soldi. Poi si era reso conto che aveva davanti a sè ancora tante ore di trasmissione e quindi aveva deciso di ottimizzare le seghe per arrivare a fine maratona vivo.
Se ne sarebbe fatta una per ogni miliardo che totalizzavano.

Qua m’è cascato in terra un panino. L’abbigliamento. L’abbigliamento male assortito con altro abbigliamento e ancor peggio con la situazione generale mi fa ridere da sempre:

Aprì il cofano. Dentro c’era il motore. Nero, sporco, pieno di fili, incomprensibile come un manufatto alieno.
Lo guardò.
– Se lo guardi non si aggiusta mica.
Robbi girò la testa.
C’era un travestito, abbronzatissimo, che assomigliava a Mara Venier, solo più femminile. Addosso aveva la maglia di Totti, Aveva le gambe lunghe e due scarpe argentate con delle zeppe alte venti centimetri. – E’ un problema elettrico. Controlla lo spinterogeno. A volte si stacca e non fa più contatto.

Facevo prima a fare le fotocopie del racconto, ma pazienza. Facciamo che vi risparmio la sinossi del film porno anelato da Robbi, anche se era molto bellina, con questa tribù di amazzoni che per una strana mutazione genetica sono costrette a nutrirsi solo di sperma. Povere creature. Dicevo, vi risparmio le voraci amazzoni, ma questa no. E poi basta, così vi andate a comprare il libro e mi lasciate mangiare in pace, col mio imbarazzo da giovane donna che ride da sola.

Robbi provò a scappare, a scavalcare la recinzione ma dietro aveva un piccoletto calvo con un cacciavite in mano. Glielo infilò nelle reni. Robbi urlò di dolore come un babbuino ferito. Una vecchia gli tirò una bottiglietta di Oransoda in testa.
Poi si sciolsero le corse e lo spinsero verso il centro dell’arena.
Provò di nuovo a uscire fuori ma il piccoletto lo colpì ancora col il cacciavite. Tutto intorno era un muro umano. Lo incitavano a combattere. Da dietro le fiamme apparve Django. Ruotava sopra la testa una corda a cui era legata una batteria Magneti Marelli.

Un’altra, dai. Ma giuro che è l’ultima. Così capite che non c’è niente di disdicevole a leggere una raccolta di racconti e potete inveire anche voi contro l’autore, se finisce che vi fermano mentre fumate una sigaretta prima di salire in ufficio e vi si accucciano sotto al libro per vedere il titolo. E’ imbarazzante anche la gente che non conosci e che all’improvviso ti si rannicchia vicino alle ginocchia, ve lo assicuro.

Sprofondò in un cumulo di immondizia senza farsi niente. Era finito tra buste, frutta marcia, poltrone di automobili, scatole di cartone. C’era una puzza da vomitare.
Doveva fare come Rambo quando era inseguito dall’esercito degli Stati Uniti.
Cominciò a coprirsi con bucce di banana, lische di pesce marcio, la carcassa di un pastore tedesco, giornali.

Ecco, io ho finito. Ma c’è tutto quanto il resto del libro. Ha una copertina nera con delle case e ci sono anche delle storie non trucide, se vi prendete male con gli orchi, le viscere che si srotolano e i denti aguzzi. Ci sono anche i racconti belli coi bambini. Coi cani da salvare sul raccordo anulare. Insomma, prendetevela con Ammaniti e fatemi masticare senza dovervi rispondere ficcando tutto nelle guance, come un cricetone.

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Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa. Di alcune caratteristiche fondamentali di questa casa si dirà più avanti. Il male dev’essere intollerabile, porti o non porti al suicidio; dove l’intollerabilità, si badi, dev’essere destinata a non scemare per scorrer di tempo ma, al contrario, a vieppiù incrudelire: e prima, e dopo il decesso.

Michele Mari
Fantasmagonia
Einaudi (Supercoralli)

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Un fantasma non succede per caso. Per fare un fantasma devono incastrarsi diciannove circostanze sciagurate, faccende che hanno a che fare con un posto – molto piccolo e spesso percorso dagli avanti e indietro di qualcuno che sia profondamente intento a rimuginare l’odio antico di un torto intollerabile – e con un “irrimarginabile squarcio” del cuore. Tra i due opposti estremi – l’essere vivo e l’essere uno spettro che infesta una casa – c’è tutta una storia di respiro, molecole che si fondono, polvere che si accumula e rancore che non si dimentica. Si chiama fantasmasi, o fantasmagonia… a Mari piacciono tutti e due i termini, ma io preferisco fantasmagonia, fa più teatro, con le botole che si spalancano in mezzo al palcoscenico. In questo libro bellissimo si aggira di tutto: c’è il mostro dei fratelli Grimm – che abita nel sotterraneo e racconta favole per loro -, ci sono dinamiche familiari distrutte dai tortelli, c’è Lord Shelley – pieno di bulloni e cuciture – e ci sono principesse impazzite a causa di rape che si rifiutano di vivere e sanguinare. C’è una creatura strana e sinistra per ogni ossessione creativa, c’è una storia per ogni angolo buio in cui ci siamo mai seduti. Perchè c’è chi si rannicchia in angolini morbidi e riparati e chi, invece, trova il suo angolino già occupato da qualcosa di vecchio e paziente, con molti occhi e molti artigli.

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Per ulteriori e avvincenti carinerie, c’è il Fantasmagonia-board che sto aggeggiando su Pinterest

 

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Non ho fatto un beatissimo niente per meritarmelo, ma ho ricevuto un regalo bello. Ma che dico, bello E istruttivo, utile e vorticosamente interessante. Perchè ci sono persone che si invasano con la collezione dei Carletto dei Sofficini e ci sono persone che sono felici da matti quando scoprono che, nell’arte, la lucertola è simbolo di resurrezione e rinascita, ma solo quando è da sola. Perchè se si dipinge una lucertola insieme ad altre bestie, tipo insetti, mosche e libellule, allora assume un’accezione negativa e maligna. E’ anche molto bello sapere che la bacca di ginepro, protetta com’è dalle sue foglie spinose, simboleggia la castità… ma è importante ricordare che i rami del ginepro riescono anche a far stramazzare di sonno un drago, così come fece Medea con il temibile mostro che custodiva il vello d’oro.
Che diamine, e ho solo aperto tre pagine a caso.
Ne giro un’altra, che sicuramente trovo qualche cosa d’inaudito.
Eccola: “Il centauro Folo era il custode del vaso misterico (l’otre di vino), simbolo di Dioniso”.
D’ora in avanti non voglio più sentir dire che una bottiglia di vino è una bottiglia di vino, perchè non è vero. La bottiglia di vino è un vaso misterico.
Bellissimo. Sono più contenta che a Natale.
Il libro dei simboli, ricevuto da Electa – che ricopro di doveroso e meritato affetto – è pieno zeppo di meraviglie, opere d’arte di ogni tempo e freccine avvincenti. Le freccine ti raccontano perchè sullo sfondo di un quadro c’è un gatto nero che scappa, perchè mai dovremmo capire che lo zibetto è da associare al senso dell’olfatto o sentirci poco stabili alla vista di un braciere. Mai bello, il braciere in primo piano: ci finisce dentro il tempo che brucia in fretta. E non capirci niente è consolante, se ci pensiamo, perchè a scuola ci hanno più o meno sempre raccontato che qualsiasi cosa ci sia sulla tela – che siano pane, pellicani, conchiglie, agnelli, pesci, gigantesche testuggini pluricefale o nacchere – ha a che vedere con Gesù… e francamente, dopo un po’, non riesci più a sorprenderti molto.
Un koala!
Cristo risorto.
Una pesca-noce!
Gesù Bambino.
Un clavicembalo!
Gesù che entra a Gerusalemme in groppa a un’asino.
Insomma, Gesù non mi ha fatto niente di male, ma c’è tutto un mondo là fuori. Ci sono complicatissime relazioni tra bestie, piante, frutta e flora, niente sta in mano a qualcuno per caso e pure i sandali dei personaggi secondari, quelli che ti sembrano messi in un angolo per riempire lo spazio, ecco, anche i sandali dell’ultima figura un po’ in ombra nascondono un’allegoria. E se non si capiscono è come mettersi a letto e farsi leggere una favola in islandese… con molta fantasia si potrebbe magari dire che ci garba il suono armonioso dell’islandese – forse ho scelto un brutto paragone -, ma mai al mondo sapremo che sta succedendo nella storia. Ed è un peccato, che le favole islandesi sono universalmente apprezzate per la loro arguzia e varietà di situazioni. Quello che volevo dire è che sto provando una felicità saltellina e curiosa, e che leggerò ben bene questo libro con tutte le sue freccine… finalmente capirò che cosa ci fa un re con la testa piena di ginestre e che problema ha la cristianità con le arance. E quando avrò imparato tutto, verrò qui a farvelo pesare.

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Matilde Battistini, Lucia Impelluso
Il libro dei simboli
Scoprire il significato delle opere d’arte
I dizionari dell’arte – Electa

Vorrei dire subito che non ho ancora letto Infinite Jest e Il re pallido.
Di Infinite Jest ho sia l’edizione Fandango che quella Einaudi. Il re pallido sul mio scaffale è un Pale King, ma non giace intonso e sonnacchioso perchè ho paura di lottare con le tasse in inglese. La verità è che sono equipaggiatissima e che sarei anche pronta all’impresa, con tanto di bandana che garrisce al vento e cesti di frutta ammucchiati sul letto, ma non li voglio leggere, non subito. Finchè Infinite Jest sarà estraneo al mio cuore, finchè resterà lì ad aspettarmi con tutte le sue mille pagine – più note -, ecco, fino a quel momento potrò pensare che Wallace deve ancora raccontarmi delle storie. Il che mi autorizza anche a immaginarlo che festeggia il compleanno. E no, non credo di aver abbracciato un qualche tipo di culto dello scrittore-zombie… è solo davvero confortante sapere che una meraviglia sta facendo dei pisoli vicino a te. E che sarà paziente abbastanza da aspettare e tollerare un po’ di polvere che si ammucchia. Così, nonostante l’odio viscerale che nutro per ricorrenze, anniversari, celebrazioni più o meno postume e cerchietti sul calendario, farò gioiosamente gli auguri al genio che ha inseguito invano la cameriera Petra, che ha fatto crepare d’invidia Jonathan Franzen – con tutti gli occhiali – e che ha inventato, tra le altre cose, uno dei personaggi più strabilianti dell’universo tutto: Stonecipher LaVache Beadsman III, detto l’Anticristo.

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Sono molto fortunata perchè ho dei colleghi che si prodigano per ridurre la mia rotondissima ignoranza. Grazie al cielo, ad un certo punto mi hanno messo in mano La scopa del sistema. Come facessi a stare al mondo prima, per me è un mistero. In questo libro, che dovrei rileggere e tatuarmi addosso, si incontrano miracoli come il pappagallo Vlad l’Impalatore, si trovano favole, raganelle che si annidano tra le clavicole di ragazze timide e deserti di sabbia nera, costruiti assemblando il peggio della natura per temprare la volontà della popolazione dell’Ohio, gente piccia come la neve del pomeriggio. L’amico che non avete mai avuto, però, è LaVache.
Arriva così:

Che Stonecipher LaVache Beadsman avesse un aspetto luciferino era cosa innegabile. Aveva la pelle di un rosso cupo e lustro; e i capelli di un nero unto e ravviati all’indietro a liberare la fronte spaziosa su cui aggettava la V dell’attaccatura, e le sopracciglia di spessore brezneviano, che partivano alte quasi dalle tempie per poi piombare torvamente verso gli occhi, e la testa piccola e ovale e non proprio saldamente ancorata al collo e decisamente propensa a ciondolare di lato, come la testa di un calzascarpe snodabile. Felpa OBERLIN e bermuda a coste, e peli sul piede, quest’ultimo situato accanto a un paio di Converse nere modello alto. Aveva una lavagnetta attaccata alla gamba, e dalla lavagnetta pendeva una catenella con una penna, ed era seduto su una sedia a sdraio, e guardava la televisione, di profilo rispetto a Lenore ferma sulla soglia.

Vi servirà anche sapere che LaVache non possiede ufficialmente un telefono – ma un linfonodo – e che barcolla su un’astuta gamba di legno:

LaVache sollevò la lavagnetta, aprì un cassetto di plastica ricavato nella gamba artificiale, e ne cavò una canna già rollata, che lanciò a Heat.
– Un cassetto? – disse Lenore.
– Ce l’ho sin dai tempi del liceo,  – disse LaVache . – Solo che a casa metto quasi sempre i pantaloni lunghi. Dài, non dirmi che non sapevi del cassetto.

Il cassetto della gamba serve a raccogliere i tributi. LaVache è, infatti, un accorto benefattore e si prodiga affinchè schiere di studenti riescano a passare con dignità gli esami. Che si tratti di Hegel, Darwin o calcolo combinatorio, tutto quello che devono fare, per accedere alla sconfinata conoscenza di LaVache, è adagiare un obolo nel prezioso scomparto segreto. La magia del sapere è, nel suo caso, del tutto indipendente dalle lezioni:

– Io ho lezione, – disse LaVache. – Lo so per certo perchè così dice la mia agenda -. Si pulì un’unghia col fermaglio della lavagnetta.
– A me ha detto che in questo semestre seguirà almeno una lezione, – disse Heat a Lenore mentre si esibiva in una verticale sul pavimento, con la camicia che gli spioveva sulla faccia. – Ha deciso che almeno a una ci andrà.
– Bè, sono pur sempre un
disabile, – disse LaVache. – Non si può pretendere che un disabile arranchi fin lassù ogni santo giorno per seguire tutte le lezioni del semestre.

La magia del sapere è anche del tutto immune a Ciao Bob. Ciao Bob è un gioco di raffinatissimo sadismo, una cosa da Primo Testamento. LaVache e i suoi sventurati coinquilini guardano il “Bob Newhart Show” passandosi una bottiglia di vodka. Ogni volta che qualcuno dice “Ciao Bob”, chi ha la bottiglia in mano deve bere un sorso. Se “Ciao Bob” lo dice Bill Daley, chi ha la bottiglia deve berla tutta, in cinque minuti al massimo. Sopravvivere sembrerebbe impossibile, ma c’è una soluzione a qualsiasi disgrazia:

– Ormai non si vomita più, – disse LaVache. – Qui all’Amherst qualche anno fa c’è stato un tizio, un tizio veramente mitico, che ha introdotto l’usanza per cui invece di vomitare ci si mette a picchiare la testa contro il muro.
– A picchiare la testa?

– Molto forte.

Stupidaggini a parte, LaVache è un vero Beadsman, anche se gli piacerebbe dimenticarlo. Come chiunque nella sua famiglia, il linguaggio non serve solo a trovare un nome alle cose, ma esiste per trasformarle in quello che dovrebbero essere. Ecco perchè non sopporta di sentirsi chiamare Stoney.

– Stoney mi rammenta di aspettative irritanti. Stoney mi rammenta Papà. Come Stoney sono più o meno dedotto…
– Cosa?
– …mentre come l’Anticristo semplicemente
sono, – disse l’Anticristo, puntando enfaticamente la canna verso l’orizzonte rosso e nero. – Come l’Anticristo ho una cosa, ed è eroicamente chiaro dove finisca io e inizino gli altri, e nessuno si aspetta che io sia altro da ciò che sono, cioè una vita sprecata, uno che si fa in quattro per gli altri allo scopo di sostentare la propria gamba.

La gamba sarà anche la super-metafora di una mente brillante che si manda a far benedire da sola, ma serve anche a far giocare i bambini.

La bambina fissava un versante del lustro e scuro viso dell’Anticristo, notò Lenore. La bambina lo tirò per un lembo della felpa.
– Tu sei il diavolo? – gli chiese, a voce alta. I genitori parvero non sentire.
– Non in questo momento, – disse l’Anticristo alla bambina, affidandole del tutto la gamba, per un po’.

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Si potrebbe andare avanti per dei mesi, lunghissimi mesi d’insolita bellezza. E a leggervi/rileggervi La scopa del sistema ci mettereste di meno, quindi desisto, senza nemmeno dover ricorrere al pappagallo più vanitoso e blasfemo della letteratura. E visto che sono qua apposta, tanti begli auguri a David Foster Wallace, perchè oggi compie cinquant’anni. E andrà avanti a compierli, finchè non avrò letto Infinite Jest.

 

Io comunque sono una figura stupefacente, anche se non mi piace molto parlarne.

Daniil Charms
Disastri
marcos y marcos

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Poi ce l’ho fatta, a trovare qualcosa di Charms.
Questo libro l’avremo letto in quattro in Italia. Ci siamo io, la mia collega che ha sempre buongusto, Paolo Nori e il mio amico slavista, quello che ha i baffi belli e la sicura possibilità di stare bene vestito con l’uniforme. A dire la verità, il mio amico vale almeno per dieci, visto che con Charms ci si è laureato. Ritoccando la stima, quindi, ad aver letto questo libro saremo più o meno in tredici, più i baffi di Simone. Fa tredici e mezzo – visto che sono baffi serissimi – ma è comunque un po’ poco. Perchè in questo libro c’è confusione. Ci sono zuffe, percosse, sputi e ingiurie. Ci sono strani commerci col burro e pavimenti pieni di polvere. Arrivano personaggi armati di minestra da rovesciare addosso ai principi, ci s’imbatte in onesti cittadini che escono di casa per comprare la colla e finiscono per perdere la memoria – troppi mattoni che cadono – o per rincorrere indumenti smarriti – è sufficiente che sparisca l’orologio, poi è tutta un’inesorabile reazione a catena. C’è autentica passione per le donne rotonde, c’è furioso ribrezzo per i bambini – e per i pastori tedeschi. Ci si tramortisce con cetrioli giganti – perchè è l’articolo che va per la maggiore nei negozi – e si passeggia con una cornacchia sfortunata, zavorrata dal caffè e dal risentimento. S’incontrano i grandi della letteratura russa e si comincia a parlare di gente che non ha nulla di speciale… e giustamente si comincia e basta, perchè per finire un discorso ci vuole sempre qualcosa da dire.
Questo libro è pieno di scarpate in faccia, stivali che feriscono e tacchi che si conficcano nelle costole.
E non sembra, ma ogni scarpata è assestata con immenso giudizio.

 

C’è un saggio bellissimo di uno studioso russo che si chiama Bachtin, il saggio si intitola La parola del romanzo ed è pubblicato da Einaudi in un volume intitolato Estetica e romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il cinquanta percento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. Quel saggio è degli anni cinquanta, e adesso, secondo me, sessant’anni dopo, per me, perlomeno, quella percentuale lì è salita al novantotto percento, e i giorni che mi viene un pensiero mio che l’ho pensato io sono giorni da segnare sul calendario noi siamo veramente, mi sembra, tutti impastati di sonno, non sappiamo neanche distinguere dentro la testa quel che abbiamo pensato noi e quello che abbiamo sentito dire dagli altri e io non lo so, quanto si può andare avanti, così, forse all’infinito, ma forse anche no.

Paolo Nori
(Noi e i governi)
La meravigliosa utilità del filo a piombo
marcos y marcos

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Insomma, stravedo per Paolo Nori. È il tipo di persona che preferisco: l’intelligente che non te lo fa pesare, che ti racconta le cose un po’ perchè si diverte e un po’ perchè sa che hai bisogno di fare delle scoperte. E allora te ne butta lì un milione, di cose nuove. Ti spiega dove le ha prese, perchè ci tiene e anche un po’ che ci devi fare. Questo libro, più o meno, è un bel giro in un posto che non conosci con una di quelle guide che vanno a portare a spasso la gente nel tempo libero, senza lo stipendio. Succede anche che Nori ne sappia come te, dell’argomento che gli hanno chiesto di cacciare in un discorso. Cinquanta minuti sulla letteratura della DDR. E Nori deve studiarsi in quattro giorni che cosa si scriveva là e come la prendevano le persone. E sono discorsi meravigliosi, perchè si inizia insieme e si finisce insieme, e il processo somiglia un po’ al camminare per strada tranquilli, solo che ogni persona che si incrocia ti mette un sasso in tasca e ti ferma per dirti che cosa significa, per lei, quel sasso. Alla fine del viale – sempre che sia un viale e non un pascolo erboso, che va benissimo – sei così pieno di sassi che a stento riesci a muoverti, ma sei anche profondamente rincuorato.
Ecco. Uno dei sassi che Paolo Nori mi ha tirato – o adagiato in tasca – è lo stupefacente Daniil Charms, scrittore russo che morì di fame in un manicomio dopo essere stato ingiustamente internato. Charms racconta cosa si vende di più nei negozi inventando una zuffa tra gentiluomini che si colpiscono con dei cetrioli davvero grandi. Scrive ad un amico che stava diventando ricco, e solo per manifestargli tutta la sua costernazione. “Vecchie che si ribaltano”. È un titolo bellissimo. Cercavo Disastri, ma alla Feltrinelli di Torino Porta Nuova non avevano niente di suo. Credo sia perchè tutti quelli coi treni cancellati hanno avuto la mia idea, e sono entrati per comprare Daniil Charms.