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Vorrei dire subito che non ho ancora letto Infinite Jest e Il re pallido.
Di Infinite Jest ho sia l’edizione Fandango che quella Einaudi. Il re pallido sul mio scaffale è un Pale King, ma non giace intonso e sonnacchioso perchè ho paura di lottare con le tasse in inglese. La verità è che sono equipaggiatissima e che sarei anche pronta all’impresa, con tanto di bandana che garrisce al vento e cesti di frutta ammucchiati sul letto, ma non li voglio leggere, non subito. Finchè Infinite Jest sarà estraneo al mio cuore, finchè resterà lì ad aspettarmi con tutte le sue mille pagine – più note -, ecco, fino a quel momento potrò pensare che Wallace deve ancora raccontarmi delle storie. Il che mi autorizza anche a immaginarlo che festeggia il compleanno. E no, non credo di aver abbracciato un qualche tipo di culto dello scrittore-zombie… è solo davvero confortante sapere che una meraviglia sta facendo dei pisoli vicino a te. E che sarà paziente abbastanza da aspettare e tollerare un po’ di polvere che si ammucchia. Così, nonostante l’odio viscerale che nutro per ricorrenze, anniversari, celebrazioni più o meno postume e cerchietti sul calendario, farò gioiosamente gli auguri al genio che ha inseguito invano la cameriera Petra, che ha fatto crepare d’invidia Jonathan Franzen – con tutti gli occhiali – e che ha inventato, tra le altre cose, uno dei personaggi più strabilianti dell’universo tutto: Stonecipher LaVache Beadsman III, detto l’Anticristo.

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Sono molto fortunata perchè ho dei colleghi che si prodigano per ridurre la mia rotondissima ignoranza. Grazie al cielo, ad un certo punto mi hanno messo in mano La scopa del sistema. Come facessi a stare al mondo prima, per me è un mistero. In questo libro, che dovrei rileggere e tatuarmi addosso, si incontrano miracoli come il pappagallo Vlad l’Impalatore, si trovano favole, raganelle che si annidano tra le clavicole di ragazze timide e deserti di sabbia nera, costruiti assemblando il peggio della natura per temprare la volontà della popolazione dell’Ohio, gente piccia come la neve del pomeriggio. L’amico che non avete mai avuto, però, è LaVache.
Arriva così:

Che Stonecipher LaVache Beadsman avesse un aspetto luciferino era cosa innegabile. Aveva la pelle di un rosso cupo e lustro; e i capelli di un nero unto e ravviati all’indietro a liberare la fronte spaziosa su cui aggettava la V dell’attaccatura, e le sopracciglia di spessore brezneviano, che partivano alte quasi dalle tempie per poi piombare torvamente verso gli occhi, e la testa piccola e ovale e non proprio saldamente ancorata al collo e decisamente propensa a ciondolare di lato, come la testa di un calzascarpe snodabile. Felpa OBERLIN e bermuda a coste, e peli sul piede, quest’ultimo situato accanto a un paio di Converse nere modello alto. Aveva una lavagnetta attaccata alla gamba, e dalla lavagnetta pendeva una catenella con una penna, ed era seduto su una sedia a sdraio, e guardava la televisione, di profilo rispetto a Lenore ferma sulla soglia.

Vi servirà anche sapere che LaVache non possiede ufficialmente un telefono – ma un linfonodo – e che barcolla su un’astuta gamba di legno:

LaVache sollevò la lavagnetta, aprì un cassetto di plastica ricavato nella gamba artificiale, e ne cavò una canna già rollata, che lanciò a Heat.
– Un cassetto? – disse Lenore.
– Ce l’ho sin dai tempi del liceo,  – disse LaVache . – Solo che a casa metto quasi sempre i pantaloni lunghi. Dài, non dirmi che non sapevi del cassetto.

Il cassetto della gamba serve a raccogliere i tributi. LaVache è, infatti, un accorto benefattore e si prodiga affinchè schiere di studenti riescano a passare con dignità gli esami. Che si tratti di Hegel, Darwin o calcolo combinatorio, tutto quello che devono fare, per accedere alla sconfinata conoscenza di LaVache, è adagiare un obolo nel prezioso scomparto segreto. La magia del sapere è, nel suo caso, del tutto indipendente dalle lezioni:

– Io ho lezione, – disse LaVache. – Lo so per certo perchè così dice la mia agenda -. Si pulì un’unghia col fermaglio della lavagnetta.
– A me ha detto che in questo semestre seguirà almeno una lezione, – disse Heat a Lenore mentre si esibiva in una verticale sul pavimento, con la camicia che gli spioveva sulla faccia. – Ha deciso che almeno a una ci andrà.
– Bè, sono pur sempre un
disabile, – disse LaVache. – Non si può pretendere che un disabile arranchi fin lassù ogni santo giorno per seguire tutte le lezioni del semestre.

La magia del sapere è anche del tutto immune a Ciao Bob. Ciao Bob è un gioco di raffinatissimo sadismo, una cosa da Primo Testamento. LaVache e i suoi sventurati coinquilini guardano il “Bob Newhart Show” passandosi una bottiglia di vodka. Ogni volta che qualcuno dice “Ciao Bob”, chi ha la bottiglia in mano deve bere un sorso. Se “Ciao Bob” lo dice Bill Daley, chi ha la bottiglia deve berla tutta, in cinque minuti al massimo. Sopravvivere sembrerebbe impossibile, ma c’è una soluzione a qualsiasi disgrazia:

– Ormai non si vomita più, – disse LaVache. – Qui all’Amherst qualche anno fa c’è stato un tizio, un tizio veramente mitico, che ha introdotto l’usanza per cui invece di vomitare ci si mette a picchiare la testa contro il muro.
– A picchiare la testa?

– Molto forte.

Stupidaggini a parte, LaVache è un vero Beadsman, anche se gli piacerebbe dimenticarlo. Come chiunque nella sua famiglia, il linguaggio non serve solo a trovare un nome alle cose, ma esiste per trasformarle in quello che dovrebbero essere. Ecco perchè non sopporta di sentirsi chiamare Stoney.

– Stoney mi rammenta di aspettative irritanti. Stoney mi rammenta Papà. Come Stoney sono più o meno dedotto…
– Cosa?
– …mentre come l’Anticristo semplicemente
sono, – disse l’Anticristo, puntando enfaticamente la canna verso l’orizzonte rosso e nero. – Come l’Anticristo ho una cosa, ed è eroicamente chiaro dove finisca io e inizino gli altri, e nessuno si aspetta che io sia altro da ciò che sono, cioè una vita sprecata, uno che si fa in quattro per gli altri allo scopo di sostentare la propria gamba.

La gamba sarà anche la super-metafora di una mente brillante che si manda a far benedire da sola, ma serve anche a far giocare i bambini.

La bambina fissava un versante del lustro e scuro viso dell’Anticristo, notò Lenore. La bambina lo tirò per un lembo della felpa.
– Tu sei il diavolo? – gli chiese, a voce alta. I genitori parvero non sentire.
– Non in questo momento, – disse l’Anticristo alla bambina, affidandole del tutto la gamba, per un po’.

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Si potrebbe andare avanti per dei mesi, lunghissimi mesi d’insolita bellezza. E a leggervi/rileggervi La scopa del sistema ci mettereste di meno, quindi desisto, senza nemmeno dover ricorrere al pappagallo più vanitoso e blasfemo della letteratura. E visto che sono qua apposta, tanti begli auguri a David Foster Wallace, perchè oggi compie cinquant’anni. E andrà avanti a compierli, finchè non avrò letto Infinite Jest.

 

Io comunque sono una figura stupefacente, anche se non mi piace molto parlarne.

Daniil Charms
Disastri
marcos y marcos

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Poi ce l’ho fatta, a trovare qualcosa di Charms.
Questo libro l’avremo letto in quattro in Italia. Ci siamo io, la mia collega che ha sempre buongusto, Paolo Nori e il mio amico slavista, quello che ha i baffi belli e la sicura possibilità di stare bene vestito con l’uniforme. A dire la verità, il mio amico vale almeno per dieci, visto che con Charms ci si è laureato. Ritoccando la stima, quindi, ad aver letto questo libro saremo più o meno in tredici, più i baffi di Simone. Fa tredici e mezzo – visto che sono baffi serissimi – ma è comunque un po’ poco. Perchè in questo libro c’è confusione. Ci sono zuffe, percosse, sputi e ingiurie. Ci sono strani commerci col burro e pavimenti pieni di polvere. Arrivano personaggi armati di minestra da rovesciare addosso ai principi, ci s’imbatte in onesti cittadini che escono di casa per comprare la colla e finiscono per perdere la memoria – troppi mattoni che cadono – o per rincorrere indumenti smarriti – è sufficiente che sparisca l’orologio, poi è tutta un’inesorabile reazione a catena. C’è autentica passione per le donne rotonde, c’è furioso ribrezzo per i bambini – e per i pastori tedeschi. Ci si tramortisce con cetrioli giganti – perchè è l’articolo che va per la maggiore nei negozi – e si passeggia con una cornacchia sfortunata, zavorrata dal caffè e dal risentimento. S’incontrano i grandi della letteratura russa e si comincia a parlare di gente che non ha nulla di speciale… e giustamente si comincia e basta, perchè per finire un discorso ci vuole sempre qualcosa da dire.
Questo libro è pieno di scarpate in faccia, stivali che feriscono e tacchi che si conficcano nelle costole.
E non sembra, ma ogni scarpata è assestata con immenso giudizio.

 

C’è un saggio bellissimo di uno studioso russo che si chiama Bachtin, il saggio si intitola La parola del romanzo ed è pubblicato da Einaudi in un volume intitolato Estetica e romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il cinquanta percento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. Quel saggio è degli anni cinquanta, e adesso, secondo me, sessant’anni dopo, per me, perlomeno, quella percentuale lì è salita al novantotto percento, e i giorni che mi viene un pensiero mio che l’ho pensato io sono giorni da segnare sul calendario noi siamo veramente, mi sembra, tutti impastati di sonno, non sappiamo neanche distinguere dentro la testa quel che abbiamo pensato noi e quello che abbiamo sentito dire dagli altri e io non lo so, quanto si può andare avanti, così, forse all’infinito, ma forse anche no.

Paolo Nori
(Noi e i governi)
La meravigliosa utilità del filo a piombo
marcos y marcos

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Insomma, stravedo per Paolo Nori. È il tipo di persona che preferisco: l’intelligente che non te lo fa pesare, che ti racconta le cose un po’ perchè si diverte e un po’ perchè sa che hai bisogno di fare delle scoperte. E allora te ne butta lì un milione, di cose nuove. Ti spiega dove le ha prese, perchè ci tiene e anche un po’ che ci devi fare. Questo libro, più o meno, è un bel giro in un posto che non conosci con una di quelle guide che vanno a portare a spasso la gente nel tempo libero, senza lo stipendio. Succede anche che Nori ne sappia come te, dell’argomento che gli hanno chiesto di cacciare in un discorso. Cinquanta minuti sulla letteratura della DDR. E Nori deve studiarsi in quattro giorni che cosa si scriveva là e come la prendevano le persone. E sono discorsi meravigliosi, perchè si inizia insieme e si finisce insieme, e il processo somiglia un po’ al camminare per strada tranquilli, solo che ogni persona che si incrocia ti mette un sasso in tasca e ti ferma per dirti che cosa significa, per lei, quel sasso. Alla fine del viale – sempre che sia un viale e non un pascolo erboso, che va benissimo – sei così pieno di sassi che a stento riesci a muoverti, ma sei anche profondamente rincuorato.
Ecco. Uno dei sassi che Paolo Nori mi ha tirato – o adagiato in tasca – è lo stupefacente Daniil Charms, scrittore russo che morì di fame in un manicomio dopo essere stato ingiustamente internato. Charms racconta cosa si vende di più nei negozi inventando una zuffa tra gentiluomini che si colpiscono con dei cetrioli davvero grandi. Scrive ad un amico che stava diventando ricco, e solo per manifestargli tutta la sua costernazione. “Vecchie che si ribaltano”. È un titolo bellissimo. Cercavo Disastri, ma alla Feltrinelli di Torino Porta Nuova non avevano niente di suo. Credo sia perchè tutti quelli coi treni cancellati hanno avuto la mia idea, e sono entrati per comprare Daniil Charms.

Come il borametz, la mandragora confina col regno animale, perchè grida quando la svellono; questo grido può far impazzire chi lo sente (Romeo e Giulietta, IV, 3). Pitagora la chiamò antropomorfa; l’agronomo latino Lucio Columella, semiuomo; e Alberto Magno potè scrivere che le mandragore figurano l’umanità, con la distinzione dei sessi. Prima, Plinio aveva detto che la mandragora bianca è il maschio e la nera è la femmina. Quelli che la colgono, aveva anche detto, le tracciano intorno tre cerchi con la spada, e guardano a ponente; l’odore delle foglie è così forte da lasciare ammutoliti. Sradicarla, era mettersi a rischio di spaventose calamità; nell’ultimo libro delle sue Antichità Giudaiche, Flavio Giuseppe consiglia di ricorrere a un cane addestrato. Sdradicata la pianta, l’animale muore; ma le foglie servono a usi narcotici, magici ed emollienti.
La presunta forma umana delle mandragore ha suggerito alla superstizione l’idea che crescano al piede dei patiboli.

La mandragora

Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero
Manuale di zoologia fantastica
Einaudi – ET Scrittori

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Non so da dove cominciare, con questo libro, “un’opera, come altre di Borges – scrive Glauco Felici nella prefazione – difficile da collocare all’interno di un genere determinato e concluso: un compendio di nozioni mitologiche, paragonabile a uno scolastico Dizionario delle favole per uso de’ fanciulli; o il dotto divertissement d’un appassionato di creature (e scritture) fantastiche; o, semplicemente, l’ennesima occasione per praticare la letteratura”.
Ma in fondo, che ce ne importa.

Quel che importa davvero è scoprire che l’anfesibena “è serpente con due teste, una al suo luogo e l’altra sulla coda; e con le due può mordere, e corre via con leggerezza, e i suoi occhi brillano come candele”. Ma anche che sia Keplero che Giordano Bruno pensavano ai pianeti come a grandi animali tranquilli, animali sferici dal sangue caldo e dalle abitudini regolari, dotati di ragione. Scopriamo pure che le antilopi dell’alba dei tempi avevano sei zampe invece di quattro e che, grazie a tutte quelle estremità, erano quasi impossibili da raggiungere. Per ripristinare un po’ di giustizia, il dio Tunk-poj decise di mettercisi d’impegno e, dopo aver costruito dei super pattini col legno di un albero sacro che scricchiolava molto, ne catturò una e le mozzò un paio zampe, perchè “gli uomini diventano ogni giorno più piccoli e deboli. Come potrebbero cacciare le antilopi a sei zampe, se io stesso appena ci riesco?”. Impariamo che le arpie sono schifose e pallide di fame, che l’ambra in realtà è la cacca dell’asino a tre zampe e che il Baldanders è un mostro “successivo”, perchè si trasforma continuamente in qualcos’altro. Al nutrito sottoinsieme delle creaturone appartiene il Bahamut, immenso e splendente, che regge il mondo sul suo dorso di pesce. E con discreta fatica, se pensiamo che sopra al pesce c’è un toro, e sopra il toro una montagna di rubino, e sopra la montagna un angelo, e sopra l’angelo sei inferni, e sopra gl’inferni la terra e sopra la terra sette cieli. Il basilisco del Medioevo era un gallo dalle piume gialle, con le ali coperte di spine e la coda di serpente. Quel che rimane costante nei secoli è però lo sguardo che pietrifica – ogni serpente che si rispetti è nato dal sangue di Medusa – e la capacità di rendere deserto e sterile ogni luogo stupido abbastanza da ospitarlo. Il borametz è un ibrido tra il vegetale e l’animale, una pianta con quattro o cinque radici e le fronde ricoperte di lana, è un albero-agnello, che i lupi divorano con grande passione. Il Cerbero ipotizzato da Esiodo aveva cinquanta teste, ma il numero fu ridotto a tre “per maggiore comodità delle arti plastiche”. Una roba che non mi ricordavo è che l’ultima fatica di Ercole consisteva nel cavare il Cerbero dall’Inferno e portarlo in superficie, alla luce del sole. Lucrezio argomentò l’impossibilità dell’esistenza del centauro osservando che un cavallo di tre anni è un cavallo adulto, mentre un bambino di tre anni è solo un “fantolino balbettante”. A mettere insieme due creature con tale disparità di ritmi di sviluppo, il pezzo di sotto del centauro morirebbe circa cinquant’anni prima del pezzo di sopra.

E via così, creatura dopo creatura, ripescando tradizioni mitologiche occidentali e orientali, richiamando testi classici e strampalate testimonianze di viaggiatori.
Insomma, fate un favore alla vostra immaginazione e leggetele questo libro.

Oggi è il compleanno di Cormac McCarthy e io, per fortuna, sono ancora indietro. Devo leggere la Trilogia della frontiera, vedermi Sunset Limited recitato da Samuel L. Jackson e Tommy Lee Jones, sedermi su una bella duna, mentre il mondo si sbriciola e diventa di cenere, magari con i piedi dentro a un paio di stivali seri. Rossi, se ci sono.
Probabilmente, dovrei spicciarmi a fare tutte queste cose… nel frattempo, però, è il caso di attaccare eventuali cavalli stanchi a qualche albero scheletrico in mezzo a desertoni gialli e fare gli auguri. Non ce lo vedo tanto, a saltellare con un cappellino di carta e cantare le canzoncine. Mi sembra più plausibile una serata a base di brodo di tartaruga. In ogni caso, è comunque una festa.

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L’uomo si era portato dietro il libro del bambino, ma il bambino era troppo stanco per ascoltarlo leggere. Possiamo lasciare la lampada accesa finché non mi addormento?, disse. Sí. Certo che possiamo.

Prima di prendere sonno rimase sveglio a lungo. Dopo un po’ si girò a guardare l’uomo. Il suo volto rigato di nero dalla pioggia alla debole luce della lampada, come certi teatranti del vecchio mondo.
Ti posso chiedere una cosa?, disse.
Sí. Certo.
Noi moriremo?
Prima o poi sí. Ma non adesso.
E stiamo sempre andando a sud.
Sí.
Per stare piú caldi.
Sí.
Ok.
Ok cosa?
Niente. Cosí.
Adesso dormi.
Ok.
Ora spengo la lampada. Va bene?
Sí. Va bene.
E dopo un altro po’, nel buio: Ti posso chiedere una cosa?
Sí, certo che puoi.
Tu cosa faresti se io morissi?
Se tu morissi vorrei morire anch’io.
Per poter stare con me?
Sí. Per poter stare con te.
Ok.

Cormac McCarthy, La strada

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Il giudice sedeva da solo nella cantina. Guardava anche lui la pioggia, con gli occhi piccoli nella grande faccia nuda. Si era riempito le tasche di dolcetti a testa di morto e se ne stava vicino alla porta e li offriva ai bambini che passavano sul marciapiede sotto il portico, ma i piccoli si allontanavano scartando come puledrini.

Cormac McCarthy, Meridiano di sangue

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Suttree si alzò a sedere nella sua cuccetta e guardò fuori.
Vide una mano che sporgeva dal fiume ad aggrapparsi al ponte di casa sua. Rotolò giù dal letto e andò alla porta, girò l’angolo e rimase lì in mutande con gli occhi sul ratto di città.
Fico, eh?, disse Harrogate.
Sai nuotare?
Domani a quest’ora starai parlando con un uomo ricco.
O annegato. Dove diavolo hai trovato quell’affare?
L’ho costruito. Io e quel vecchio ubriacone di Harvey.
Cristo santo, disse Suttree.
Che te ne pare?
Mi pare che sei completamente fuori di testa.
Vuoi farti un giro?
No.
Eddài, ti porto io.
Gene, non salirei su quell’affare neanche sulla terraferma.

Cormac McCarthy, Suttree

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Anni prima, eravamo stati in una piscina.
Non c’era quasi nessuno, era il nostro regno. Mio padre, mia madre e io. Abbiamo giocato per ore. Ricordo che a un certo punto decisi di salire su un’altalena. Mia madre mi spingeva da dietro, assieme ridevamo. Io guardavo il cielo del tardo pomeriggio ed era immenso e mi sembrava di poterci cadere dentro.
Cadere nel cielo.
Nell’azzurro infinito.
La più bella paura del mondo.
Poi lentamente l’altalena si è fermata.
Con mio papà e mia mamma siamo andati a prendere un gelato, era buono.

E’ un libro dove chi non vuole morire muore e chi vuole morire non muore. C’è questa idea della morte come di un’entità cretina e vagamente beffarda, che non conosce il tempismo. Si inizia con una famiglia alle prese con il cancro della mamma. Tutti si aspettano che muoia da un momento all’altro, ma muore prima il papà… e tutti non possono che prenderla come un’offesa personale. Dopo un po’, muore anche la mamma. Le cose perdono di significato. Anzi, l’accumulare cose, perde di significato. Tutto rallenta, diventa molto silenzioso e immobile, fa un rumore di ossa che rimane nelle orecchie e che rende impossibile pensare e capire cosa faccia la gente normale, o ricordarsi cosa significasse essere normali. E così, ordini una bombola del gas nuova e fai esplodere la casa. Ma non di proposito, capita perchè nel frattempo stavi cercando di ucciderti in modo meno diretto… e ci stavi quasi riuscendo. Le pagine dell’infanzia sono bellissime e perfettamente azzoppate da un senso di minaccia costante. Per rendere l’idea, sono belle come può essere bello un coniglietto dal pelo lungo che sgranocchia una minuscola carotina seduto in mezzo all’autostrada. Insomma, uscito dalla clinica e curato dalle ustioni, il “narratore” si iscrive all’università. Va a lezione tre volte, spiega fantasticamente che cosa sia la poesia, beve, dorme per giorni e poi va ai giardinetti e compra una quantità pachidermica di cocaina e giornali porno e si chiude nella sua stanza al patronato. Vorrebbe di nuovo tentare di morire, ma viene spinto in avanti da un’energia irrefrenabile, da impulsi allucinati che eliminano ogni capacità di pensare al di sopra della cintura. Tarantolatissimo, esce solo per comprare altri giornali porno e per andare a scopare a pagamento ai quattro angoli della città. Qui c’è un aggrovigliarsi di cose, liquidi, protuberanze, penetrazioni e così via che è preferibile immaginare come un gigantesco polpo viscido che si avviluppa intorno al protagonista e cerca di trascinarlo più sotto del fondo limaccioso del mare. E non si crede davvero che ci sia una via d’uscita.
E’ un libro che ben ritrae l’abiezione umana, il bisogno continuo di consumare, di muoversi, di scacciare lo spazio vuoto. Certo, è spiacevole, quasi com’era spiacevole Superwoobinda, ma ogni frase è brillante come una poesia intera.
Magari non leggetelo mentre mangiate, .