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Assegnato ogni anno a Capri a una personalità notevolissima del mondo letterario internazionale, il Premio Malaparte è stato conquistato nel 2024 da Rachel Cusk, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero e particolarmente amata e nota per la trilogia di Resoconto – titolo a cui sono poi seguiti TransitiOnori

A Cusk piacerebbe molto trasformarsi in purissima immagine astratta ma, per il momento, possiamo ancora chiacchierare con lei. Da Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura – raccolta di saggi e riflessioni autobiografiche di fresca uscita – al suo discusso memoir sulla maternità – Il lavoro di una vita, di cui ho già riflettuto qui – fino alle tante superfici parlanti a disposizione della narratrice quasi invisibile della trilogia, ecco un angolino di tempo che abbiamo trascorso insieme, durante le due giornate fittissime del Malaparte. Conversare con Cusk è come vederla scrivere… e spero che un po’ di quell’esattezza limpidissima mi rimanga appiccicata addosso.

[Al fondo o qui trovate una versione video dell’intervista. Vi va di leggerla? Proseguite in serenità qua di seguito.]


Leggendo e ripensando complessivamente al suo lavoro, ho trovato molto calzante la presenza di Natalia Ginzburg in uno dei saggi raccolti in Coventry. Credo che ci sia qualcosa che vi accomuna, quello sforzo di estrarre dai dettagli più minuti della realtà e dei fatti della quotidianità un collegamento più vasto a quel che può significare vivere ed esistere nel mondo. Ma anche negli aspetti legati alla posizione che vogliamo assumere, a cosa significa creare e scrivere per spiegarci meglio quello che non è immediatamente comprensibile o semplice da afferrare. Si sente vicina all’approccio di Ginzburg? E quanto spesso si convince di non essere abbastanza “brava”, come spesso capitava a lei? 

Vero, lo diceva sempre! [sorride]

A me è sempre sembrato molto bizzarro, perché per quanto lo ripeta – e se lo ripeta di continuo – l’ho sempre trovata saggissima e mai presuntuosa o pretenziosa…

Credo che la mancanza di presunzione sia probabilmente la chiave dell’unicità della sua voce. Perché penso che, spesso, il sé intralci le sue stesse percezioni. E questa è davvero – e posso dirlo in base alla quantità notevole di libri che ho scritto – una presa di coscienza crescente: si vorrebbe assolutamente ridurre al minimo la presenza del sé, in un libro. Ad alcune persone – e lei era sicuramente una di queste – riusciva in maniera piuttosto naturale. L’umiltà è davvero una qualità artistica fondamentale, ed è un altro degli aspetti che si percepisce di lei. Perché ti consente di osservare ogni cosa e ogni luogo con un’obiettività straordinaria. Non cerchi di inserire te stessa e nemmeno di ritrovare necessariamente dei riflessi di te stessa, o di affermare la tua rilevanza. C’è qualcosa di davvero naturale nella sua presenza in un testo che nasce da questa posizione di umiltà.

Penso dipenda anche dal tono. Non “suona” mai minacciosa e sembra sempre fare uno sforzo sincero per mettere a proprio agio chi legge, ma senza scadere nella condiscendenza. Da dove può arrivare una scelta di modulazione così equilibrata dell’ego nella scrittura? 

Mi chiedo se si sia trattato di una questione di semplice sopravvivenza. Sopravvivere a determinate esperienze può smorzare gli eccessi, immagino, eliminando ogni traccia di esagerazione dalla tua voce e da quello che stai creando. Suppongo che il fatto che sia sopravvissuta abbia generato una sorta di senso del dovere, immagino, per continuare a farsi testimone delle cose.

A proposito di ego… la leggenda vuole che la scrittura sia una mastodontica questione d’ego. L’autore arriva per mostrarti quello che non vedi! Ecco una pagina che illuminerà la tua anima! Ringraziami, lettrice, per la verità assoluta che ti sto rivelando! Scrittori e scrittrici ne sono ben consapevoli e penso che di tanto in tanto si approfittino con disinvoltura di questa leggenda. Specialmente nella trilogia di Resoconto, però, la sua scrittrice si trasforma in una sorta di contenitore per una molteplicità di opinioni, eventi e punti di vista che ci vengono presentati senza giudizi o senza la necessità di proporre risposte “guidate” o di far necessariamente “vincere” le sue convinzioni. La protagonista della trilogia è e rimane un’osservatrice, che ascolta senza il minimo desiderio di prevalere. Che fine fa, allora, tutto quel famigerato ego? È diventato finalmente superfluo?

[Ride.]
Ciascuno di noi può individuare delle esperienze nella propria vita che hanno radicalmente minacciato o messo in discussione o ridotto il proprio ego. Quindi, forse, è qualcosa con cui si nasce e che ci viene dato, o riguarda il processo di formazione del carattere, qualcosa che la vita a un certo punto ti comunica.
Per certi versi, fa anche un po’ paura pensare che gli scrittori – e anche gli artisti, ovviamente – siano in realtà protetti da quel processo, in qualche modo. E che il loro ego resti intatto ben oltre il momento in cui dovrebbe essere stato eroso almeno in parte dalla vita. [ride]
Ora credo di essermi del tutto staccata da quello scenario. E lo descriverei, immagino, come un processo di perdita di fede nella realtà – intendendo la realtà come qualcosa che il sé struttura deliberatamente e in cui crede. E quando si spegne davvero questo motore di fede che cosa ti rimane? Ti rimangono delle superfici che puoi interpretare, che non sono affatto al servizio della trama della tua vita e che magari restituiscono il tuo riflesso e il riflesso della storia della tua vita in maniera indipendente.

Dove scrive, ora? In Coventry si discute della famosa “stanza tutta per sé” e degli spazi in cui si esercita la creatività o ci si cala in diversi ruoli – dal lavoro alla maternità. Tradizionalmente siamo abituate ad attribuire un luogo specifico a ogni diverso ruolo che siamo chiamate ad assumere. Per lei esiste uno spazio creativo dedicato? Ce l’ha, questa “stanza”?

Ce l’ho, ho finalmente una stanza tutta per me. E lì dentro lavoro davvero. [sorride]
Uno dei temi che affronto in Coventry è quest’immagine che mi ha tormentata parecchio. La si trovava in quarta di copertina nei romanzi pubblicati nella seconda metà del XX Secolo e ci sono sempre degli uomini in poltrona, con le loro scrivanie rivestite in pelle e lo sguardo puntato verso l’alto…
Il problema delle stanze tutte per sé è che devi essere tu a metterti al servizio di quelle stanze, devi fare in modo che abbiano quell’aspetto e devi sederti in poltrona e presentarti anche come la persona che scrive.
C’è un racconto meraviglioso di Doris Lessing… parla essenzialmente di una donna che sta provando a creare qualcosa e si sposta per casa da una stanza all’altra cercando un posto che non sia pieno di faccende che deve sbrigare, di gente che la insegue per chiederle di fare delle cose e, appena trova un cantuccio adatto, tutti quanti decidono che anche a loro piacerebbe molto stare lì e usare quello spazio.
Nel mio nuovo libro si parla parecchio non solo di scrittrici donne ma anche di artiste donne e di come ci siano esigenze di spazio estremamente diverse – perché lo spazio in cui si crea un oggetto è ben diverso. Nel libro parlo di un’artista americana che aveva cinque figli e li teneva sempre nel suo studio. C’erano sempre dei bambini piccoli in giro e ogni tanto creavano qualcosa per conto loro, altre volte aiutavano lei e, in un certo senso, la soluzione al problema era diventata quella: incorporare i bambini nell’atto creativo. Capirai bene che con la scrittura non funziona e, nel libro, la persona che racconta questo aneddoto afferma che, per quanto adori quella storia, resta solo un’immagine… e che non si possa realmente fare così.

Volevo concludere con un ringraziamento per Il lavoro di una vita. Mi ha aiutata a venire a patti con quel tipo molto specifico di solitudine che può toccare le neo-madri. La riassumerei come una forma di scollamento dai ritmi e dalle esperienze del resto del “mondo” accompagnata da una metamorfosi identitaria molto onerosa da elaborare. Nel libro ho trovato una voce che parlava a me – … e non solo del bambino o di cosa dovevo fare per il bambino – e restituiva dignità alle mie domande meno “pratiche”, meno legate agli aspetti funzionali del mio nuovo ruolo. Con quel libro mi è stata amica, insomma, anche se nemmeno io sapevo troppo bene di averne bisogno. 

Il lavoro di una vita è un libro interessante, per me. Mi ha insegnato che, nonostante tutti i discorsi che facciamo su come possiamo far leggere le persone, all’improvviso un libro riscuote grande successo e lo troviamo meraviglioso e tutti quanti si mettono a leggere questo libro… ma in fin dei conti continuo a credere che esista un libro in particolare per una persona specifica che si trova nella situazione in cui il libro che ha bisogno di leggere è proprio quello – e non l’ultima novità che stanno leggendo tutti gli altri. Il lavoro di una vita troverà sempre una donna che se la sta cavando da sola perché, in quell’esperienza, si è davvero da sole… e mi ricorda sempre di continuare ad avere fede, in un certo senso, in quell’idea. Non si tratta di inseguire la popolarità, ma di centrare il bersaglio a livello individuale.

 


Vi va di ascoltare tutto quanto dalla viva voce di Cusk? Ecco una versione video della nostra conversazione:

 

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Vi va di scoprire qualcosa in più sull’atmosfera del Premio Malaparte e su quello che è accaduto quest’anno in compagnia di Cusk? Ecco qua un “diario” basato su un ottimo esercizio d’osservazione che arriva per direttissima da Resoconto. 🙂

 

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Vi va di ascoltare ancora un po’ di Cusk? Ecco la puntata speciale di Comodinoil podcast del Post curato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti – dedicata all’autrice e registrata sempre a Capri per il Malaparte. Ho avuto il privilegio di godermi la chiacchierata in diretta, come potrei non linkarla? 🙂

Nella Città Chimica Numero 4 dello Stato Mondiale, Leo Kall conduce un’esistenza irreprensibile. Si affaccenda nel suo laboratorio, portando avanti ricerche a beneficio del progresso collettivo e torna a casa dalla sua famiglia nell’alloggio che è stato loro assegnato. Casa sua non ha nulla di speciale e, come si conviene, è identica a quella degli altri compagni dello Stato. Copre i suoi turni serali di servizio militare, partecipa con il fervore richiesto alle attività di aggregazione sociale, scandaglia i comportamenti degli altri in cerca di segnali di sedizione – come ogni buon cittadino è tenuto a fare. Collaborativo, solerte e ligio, Kall non ha nessun tratto degno di nota: spiccare non è richiesto e non è di certo incoraggiato. Sono, come sempre, tempi grami. Altre potenze sembrano sempre pronte a minacciare l’armonioso e tentacolare ordine costituito e tutti devono fare la loro parte affinché lo Stato perduri, immutato nella sua perfetta omogeneità ideologica, puro e incorrotto. Quel che c’è “fuori” è talmente empio e pericoloso che l’orrore al di là dei confini sembra aver reso temibile anche l’aria stessa dello Stato Mondiale: all’aperto non si può stare e le città si snodano sotterranee, come un formicaio efficiente ed ermeticamente chiuso. Kall non ha lì per lì niente di eccezionale, è vero, ma gli toccherà a un certo punto l’estrema scalogna (o l’inaspettata fortuna) di inventare qualcosa di difficile da maneggiare: il siero della verità.

Come funziona? Basta una puntura di Kallocaina per spingere chiunque a spiattellare ogni segreto con il massimo candore: quel che si pensa ma non si dice può diventare all’improvviso informazione di pubblico dominio, come già capita per ogni altro aspetto della vita collettiva e privata – per quanto possa definirsi tale – dei cittadini-lavoratori. Chi finge fedeltà ma nasconde un cuore sovversivo? Chi si abbandona – nei pochi coni d’ombra disponibili – a comportamenti antisociali? Chi trama? Chi non denuncerebbe alla polizia un tradimento? Chi osa pensare con la propria testa? Chi dubita dello Stato? Con il siero di Kall è ora possibile scoprirlo… e una sostanza così potente non può di certo passare inosservata. Cosa ne farà il regime? Quale futuro può prospettarsi, se nemmeno le intenzioni e le ipotesi possono più dirsi al riparo dal controllo totale?

Kall comincia il suo racconto da prigioniero e, per capire come sia finito lì, dobbiamo immergerci in un resoconto che ci restituirà le tappe della funesta invenzione del siero e del suo potere destabilizzante. Che un preparato simile – reso disponibile a un regime totalitario – possa tramutarsi in un ulteriore giogo è piuttosto intuibile, ma cosa può scatenare sul “singolo”? Kall si professa fedele pedina, volenterosa componente del grande ingranaggio. Vive sapendo di non dover essere rilevante perché solo l’obbedienza è un valore. E vive, soprattutto, reprimendo ogni manifestazione di scontento e rifiutando in maniera strutturale la possibilità di una realtà alternativa: qua va tutto a meraviglia, non ci manca proprio niente, lo Stato bada a noi e ci mette a disposizione tutto il necessario, di che mai dovremmo lagnarci? Là fuori è peggio, là fuori non sopravviveremmo. Questo assunto, che solleva i cittadini-lavoratori dall’onere di obiettare, di pensare, di mettere in discussione un ordine repressivo ma benintenzionatissimo nel suo provvidenziale paternalismo – ci siamo dentro tutti, siamo tutti uguali e collaboriamo per ripararci dal caos esterno, vale la pena aderire alle regole, se ognuno fa il suo ci salveremo – è la maschera definitiva del potere. Dona un’illusione di protezione e di partecipazione, dovrebbe compensare l’assenza di ambizione – valore nefastissimo – e soffocare moti di emersione individuale, dovrebbe rafforzare la sacra uguaglianza ed eliminare l’idea stessa di personalità. Non pensare, lo Stato Universale pensa per te. Obbedisci, che ti conviene. Kall scopre gradualmente di non riuscirci più. Quanto si sente “automaticamente” in dovere di consegnare allo Stato la sua scoperta è già contaminato dal germe pericoloso dell’agire autonomo e cerca di nascondersi dietro a un’intransigenza ancora più ferrea, sapendo di essere l’ultima persona su cui si augurerebbe di collaudare la sua stessa invenzione. Azione e intenzione si avvicinano pericolosamente e la Kallocaina spazza via anche l’ultimo rifugio d’indipendenza: la sfera dell’identità, dell’anima, del sentimento. Perché una coscienza collettiva compatta può funzionare solo se nessuno ha segreti e aderisce completamente ai medesimi dogmi. Il nemico può essere ovunque, ma il primo posto dove cercarlo è dentro di noi. Kall lo scoprirà a sue spese e si ritroverà sguarnito, non più protetto dal conformismo così necessario al buon funzionamento della macchina.

Kallocaina è stato originariamente pubblicato nel 1940 da Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese a suo modo disallineatissima. Uscito qualche anno prima rispetto alle più “diffuse” distopie di Huxley e Orwell, Kallocaina – qui riproposto da Iperborea nella traduzione di Barbara Alinei dopo una lunga assenza dal catalogo – continua a spiccare per minuzia di dettagli e architettura del sistema, oltre che per abilissima gestione del confine tra “dentro” e “fuori”. Lo ritroviamo nella contrapposizione tra mondo chiuso del regime – anche negli spazi stessi di vita e di lavoro, oltre che nell’assenza di cultura, svaghi e di una storia studiabile non manipolata – e mondo “naturale”, selvaggio e pericoloso che preme ai confini, ma anche nella pretesa di riuscire a controllare anche i recessi più invisibili e profondi di quello che ci rende umani. Il cittadino-lavoratore dello Stato Mondiale non dovrebbe avere pelle o corazze, dovrebbe offrirsi al sistema come un calzino a rovescio, totalmente leggibile e privo di superfici in grado di schermarlo. Quel che la propaganda, le illusioni di protezione e la paura dell’umiliazione e della repressione violenta non hanno saputo ottenere si dovrebbe poter finalmente conquistare con un grimaldello nuovo. Ma fin dove si può tollerare? Chi può ragionevolmente dirsi privo di ombre? Perché pretendiamo dagli altri quello che mai ci augureremmo di dover offrire? Potrà mai esserci perdono o pace per Leo Kall?

[Il libro si può trovare chez Iperborea o ascoltare su Storytel, come ho fatto io anche in questo frangente. La consueta prova gratuita di 30 giorni abita qui.]

Non avevo mai letto Sophie Kinsella e cominciare da Cosa si prova – tradotto per Mondadori dall’illustre penna di Stefania Bertola – è forse un po’ bizzarro. Vorrei potermi augurare un futuro di romanzi “nuovi” da scoprire, utilizzando questo come un felice momento di conoscenza reciproca, ma so fin troppo bene quanto sia improbabile. Alla fine del 2022, Kinsella ha reso noto di essere stata colpita da un glioblastoma – un tumore al cervello di natura particolarmente aggressiva. Il glioblastoma non si cura e, per quanto sia possibile asportare chirurgicamente la massa e sottoporsi successivamente a radioterapie mirate e cicli di chemio, resta una condanna a cui non abbiamo ancora trovato il modo di sfuggire. Si può aspirare a un’aspettativa di vita un po’ più lunga delle inclementi medie statistiche ed esistono casi più che sporadici di resistenza fuori scala, certo, ma in poco altro si può confidare.
Ho provato un dispiacere sincero per Kinsella, perché il medesimo tumore ha ucciso mia madre, nel maggio del 2023, perfettamente in media rispetto alle grame statistiche di (non) sopravvivenza. Quando mia madre ha scoperto di essere malata io ero al terzo mese di una gravidanza delicata ed è apparso subito chiaro che non avrebbe visto crescere o anche solo esordire al nido il suo secondo nipotino. Il medico di base l’aveva spedita per direttissima dal neurologo, perché faticava a leggere e a scrivere. Prima ancora di approdare agli esami più approfonditi che le erano stati prescritti – con una celerità stupefacente che solo un “paghiamo” può produrre – mio padre si era deciso a portarla di corsa al pronto soccorso perché all’improvviso non riusciva a coordinarsi, non muoveva più un lato del corpo e vedeva roba che non c’era. Non era passata neanche una settimana dalle avvisaglie iniziali.

Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.

Non ho la minima idea di come Kinsella sia riuscita a mettere insieme questo libro. Da un lato, ho provato una vasta stima per la sua tenacia e ho partecipato con immensa gioia al suo decorso relativamente buono, in strettissimo senso clinico. Dall’altro, però, mi sono arrabbiata da capo. E per motivi nuovi, forse. È un libro animato da un ottimismo che ho dimenticato, o forse non sono mai riuscita a coltivare. Kinsella spera e fa sperare la sua protagonista-specchio, ma cosa me ne faccio io – ormai – di un orizzonte di speranza? Sospetto, però, che sia anche l’unico libro che si poteva scrivere in queste circostanze. E lo comprendo profondamente, ne percepisco sia l’istinto di reazione che il preciso intento di plasmare come vorremmo che ci ricordassero. Un’autrice che ha inventato finali felici per una vita intera che cosa mai potrebbe augurarsi per questa sua emanazione definitiva? L’idea stessa del lieto fine è una specie di morte dell’azione narrativa, se ci pensiamo: è andato tutto bene, non c’è più disordine, l’armonia e tornata e la giustizia ha trionfato… che altro vi serve sapere? Via, circolare. Quello che ci resta è un idillio cristallizzato, la soddisfazione di un cerchio che si chiude e la promessa di un futuro così radioso da non generare più nulla che valga la pena raccontare. Facciamoci bastare questa gioia, non ci serve altro. Immaginiamoci un futuro infinito in cui questo stato di benessere e compiutezza si srotola per sempre. Muore la storia ma non muore la speranza, insomma. Può morire chi scrive ma un personaggio che continua a sperare non morirà mai.

Mia madre non ha sofferto di lunghe amnesie e non ha dovuto sostenere fisioterapie troppo onerose. Era un’atleta, dopotutto. È stata operata, ha fatto la radioterapia, ha fatto la chemioterapia. Si è gonfiata, ha perso i capelli. La prima risonanza magnetica dopo le cure era pulita. Un piede non ha mai riacquistato piena sensibilità, l’equilibrio è peggiorato perché, tra le altre cose, faticava a valutare visivamente la profondità e non è stata più capace di usare le mani con quel grado di precisione che ci consente di lavarci i denti, di gestire le posate, di allacciarci le scarpe – che non le andavano più bene -, di rompere un uovo per farci la frittata. Non ha mai più potuto disegnare o lavorare a maglia. Ha avuto periodi buoni, di relativa “normalità”, e periodi pessimi. Non ha ricominciato a leggere o a scrivere, cercava di fare quello che ha sempre fatto in casa ma le risultava difficilissimo arrivare in fondo a una sequenza di azioni anche molto semplici. Le allucinazioni l’hanno abbandonata praticamente subito, ma parlava a fatica, mescolando le sillabe e perdendo per strada i termini esatti che cercava. Potrei elencare un migliaio di mutamenti fisici che l’hanno investita, modificandola radicalmente. Ma quel che cambia, insieme al corpo che gradualmente si deteriora e si scorda come si fa a funzionare, è anche il tempo che si abita insieme e come si sceglie di impiegarlo. L’unica forma di coraggio può esistere in quella parentesi lì, ma bisogna trovare il modo di fare spazio. Perché non ci si confronta più con una persona che è in grado di pensare come ha sempre pensato, con una persona “intatta”, che si riconosce e resta padrona di sé stessa.
Non sono ancora capace di descrivere l’orrore e lo smarrimento di chi assiste al disfacimento irrimediabile di qualcuno e quello che mi ha meravigliata di questo libro, credo, è il comando di sé che ho intravisto in Kinsella. La volontà precisa di esistere insieme agli altri, di lasciare una traccia sentimentale. Di predisporsi al futuro sapendo che quel futuro passerà di mano. Che un’altra persona sia riuscita a costruire un romanzo riordinando fatti e sentimenti, raccontando una malattia che distrugge la mente e la presa che abbiamo sulla realtà mi pare un miracolo, anche se a costruire quella storia è stata una persona abituata a vendere milioni di copie dei suoi romanzi felici nel mondo intero. E no, non è strano o sciocco immaginare un’insegnante di educazione fisica accanto a un’autrice di fama internazionale, perché una sciagura simile livella i talenti e se ne infischia delle predisposizioni e delle identità di partenza. Per me l’ottimismo è finito e nemmeno il senso dell’umorismo ha aiutato granché. Ma forse ha ragione Kinsella… e ha fatto bene a scriversi speranzosa. A immaginarsi ancora, anche quando non ci sarà più niente da raccontare. 

 

C’è un’app che vi ordina di respirare e inspirare, di prendervi un momento per meditare e visualizzare nuvole veloci e verdi prati. L’app monitora il ritmo del vostro cuore, si sveglia con voi, conta le calorie di ogni gheriglio di noce che masticate, vi informa sulla quantità di CO2 che avete risparmiato all’ambiente pedalando in ufficio invece di optare per la macchina e sa quando è ora di mandarvi a letto. Offre incoraggianti mantra motivazionali, chiarisce dubbi sulla raccolta differenziata, vi offre un rifugio sicuro e rilassante nel punto magico d’intersezione tra gli universi GREEN, FIT, ECO e MINDFUL. Credo che sull’app possiate comprare anche tutine in bambù rigenerato, tappetini da yoga, candele ai semi di lavanda e gambi di segale, oltre a piani nutrizionali personalizzati e contenuti esclusivi dei vostri WELLNESS influencer preferiti. L’app l’hanno inventata Elsa e Nico per pANGEA… e un gran bene ha fatto alla loro carriera e al loro sodalizio sentimental/lavorativo. Le community CONSCIOUS crescono ad ogni nuovo aggiornamento, così come il valore dell’azienda che con così tanta sollecitudine intende renderci più sensibili alla causa ambientale, creando prodotti e campagne rivoluzionarie. L’essere umano è il motore finale del miglioramento planetario, l’unica via di scampo dalla devastazione incipiente. Ma i dipendenti di pANGEA possono essere considerati degli esseri umani, in fin dei conti?

In un paradigma generale in cui le risorse sono risorse (senza bisogno di aggiungerci “umane”), Gli straordinari di Edoardo Vitale – in libreria per Mondadori – ci intrappola nella routine aziendal-domestica di due persone che non avrebbero il diritto di lamentarsi di niente ma che ci appaiono profondamente sconfitte.
Mentre il rigore del ritmo lavorativo straborda fino a inghiottire la sfera privata – che risponde ai medesimi imperativi di efficienza, minuziosa pianificazione e necessità assoluta di controllo – i sogni gloriosi di poter cambiare radicalmente le cose facendosi assumere da una Grande Famiglia animata da una solida VISION condivisa si sbriciolano pian piano sotto al peso di imperativi produttivi che replicano, pur in uno scenario all’apparenza illuminatissimo e benevolo, quelli della più asfittica catena di montaggio. Cambia il contesto, ma non cambia la vera ambizione di fondo: pretendere dalle persone quello che andrebbe chiesto a una macchina. La grande differenza, forse, è che la macchina non ha bisogno di sentirsi dire che è speciale, più virtuosa della media. Al contrario di Elsa e Nico, la macchina non si lascia ingannare, non le serve credere di essere straordinaria.

In una Roma parallela in cui il caldo strutturalmente insostenibile scatena incendi a ripetizione, il nobile conglomerato pANGEA si appresta a festeggiare il p-DAY, l’occasione comunicativo-commerciale più importante dell’anno. Tra proclami filosofici di posizionamento, promesse di consulenza strategica per rendere anche le entità più impresentabili degne delle sensibilità di consumatori sempre più accorti e informati, Elsa e Nico cercano di non perdere il senno mentre governano il lancio della nuova versione della loro app, ancora convinti – o forse rassegnati – a salvare quel che rimane del mondo e dei loro ideali. La polizia, fuori dal loro BUILDING a impatto zero e dotato di molteplici pareti per l’arrampicata sportiva, sgombera a intervalli regolari tendopoli e bivacchi di attivisti climatici assai meno pettinati e decorosi dei dipendenti di pANGEA. La causa è giusta? Chiaro. Ma l’unica rivoluzione accettabile sembra essere quella corporate, quella che presuppone comunque che si compri e si venda qualcosa. Protestate pure, ma che la protesta sia monetizzabile e ordinata, insomma. O, se proprio non si fattura, che almeno ci sia modo di fare bella figura, di conquistare qualche punto sul tabellone dei Giusti.

Elsa e Nico sono due personaggi volutamente inchiodati sul posto. La loro paralisi è la nostra, così come molti dei loro tentativi di soffocare il dubbio sotto a tonnellate di sovrastrutture fatte di azioni minime e di rituali che ci illudono di governare quello che stiamo facendo. Ci si tiene impegnati dando retta a un’app che ci ordina di respirare, perché per cinque minuti è confortante pensare che quello sia davvero un gesto di cura verso noi stessi – e verso una collettività che ci preferisce docili, pacificati, inoffensivi. Troppo piccoli per tirare i sassi, troppo oberati per alzare la testa.
C’è soluzione? Ai fini del romanzo sì, tecnicamente. Vitale immagina un momento catartico e fa il possibile per portarci da qualche parte, anche se ho ricavato maggior soddisfazione – per quanto paradossale possa essere – dalla ricostruzione del contesto, dall’analisi accurata di quel tipo di struttura aziendale/umana. C’è soluzione per noi? Forse è troppo presto. Forse è troppo tardi. Forse ci pensiamo domani, che adesso ci sono ancora 472 e-mail da leggere. Fa niente se sono le undici di sera, un occhio ce lo buttiamo lo stesso. Mettersi avanti non ha mai ucciso nessuno, no?

Allora, qua devono proprio piacervi molto le piante… ma se vi garbano e vi interessano vi troverete a meraviglia. Non vi prometto che vi ricoprirete di possenti boccioli, ma qualche germoglio di curiosità di certo spunterà.

Con La confraternita dei giardinieri – tradotto da Federica Oddera per Ponte alle Grazie – Andrea Wulf esplora, sviscerando le gesta di una manciata di personaggi indubbiamente attratti dal verdeggiare delle frasche, un momento rivoluzionario per la botanica globale, localizzando nell’Inghilterra del Settecento  il crocevia decisivo del cambiamento.
Nonostante la collettiva mitizazzione del “giardino all’inglese”, infatti, prima del  Settecento non è che la piovosa Albione potesse vantare delle gran punte d’eccellenza. Prati stupendi e curati con scrupolo estremo, certo, ma la varietà botanica era relativamente scarsa, le fioriture “poche” e concentrate in periodi specifici e a guidare davvero i trend paesaggistici per le grandi dimore erano Francia e Italia.
Un bel giorno, però, un vivaista intraprendente sfidò la collera di Dio e osò modificare la creazione dell’Onnipotente, producendo il primo ibrido floreale “intenzionale”… e da lì tutto cambiò, inaugurando anche la mania per il giardinaggio che non smette di contraddistinguere la Gran Bretagna moderna. Wulf parte da Thomas Fairchild e arriva fino a Linneo – che tra molte resistenze riuscì con gradualità a introdurre un sistema di classificazione delle piante universalmente utilizzabile e finalmente “razionale” -, intrecciando la storia della botanica come nascente e rigorosa disciplina scientifica alla storia commerciale e culturale dell’Impero (e del mondo).
Tra gentiluomini dilettanti, viaggi d’esplorazione, collezionisti, allievi ingrati (ma favolosi), semi e talee trasportati da una sponda all’altra dell’Atlantico, specie scoperte e specie importate, Wulf costruisce un’avventura del pensiero – nella nascente epoca dei Lumi – splendidamente documentata e rigogliosissima, mi viene da dire.

Indicazioni di potenziale fruizione? Eccoci. Ho ascoltato Wulf su Storytel con la splendida lettura di Ginestra Paladino – se serve è sempre attivabile il nostro tradizionale periodo di prova gratuito del servizio di 30 giorni -, ma nulla vi vieta di optare per il libro-libro.

Inizi a tradurre e, come romanzo d’esordio, ti assegnano Le correzioni di Jonathan Franzen. Anzi, non proprio. Silvia Pareschi aveva firmato un contratto per Il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy – un altro signore di scarsa rilevanza, insomma – e si era messa di gran lena a lavorarci, ma poi era spuntato Franzen e Marisa Caramella – l’editor Einaudi che aveva preso Pareschi sotto la sua ala durante il “praticantato” – le aveva intimato di piantare tutto lì e di cominciare subito a occuparsi delle splendide rogne della famiglia Lambert. Dev’essere andata più che bene, perché sono passati venticinque anni e Pareschi può fregiarsi di aver tradotto alcuni dei nomi più illustri della narrativa angloamericana contemporanea, mostri sacri e classici compresi. Visto che è dalle più brave che conviene industriarsi per imparare qualcosa, mi sono immediatamente procurata Fra le righe – in libreria per Laterza – e ci ho trovato dentro del confortante pragmatismo, insieme a un vivacissimo amore per una professione resa spesso ingrata da condizioni “ambientali” non proprio auspicabilissime ma sempre strabiliante per inventiva, rigore, sensibilità e cocciutaggine.

Tra autobiografia professionale e collezione di dilemmi (risoltissimi), Pareschi condensa in questo saggio parecchio di quello che succede quando si traduce un’opera letteraria nel “mondo reale” – dai giochi di parole agli ibridi linguistici, dall’addomesticamento ai dialetti, dall’approfondimento delle più minute circostanze fattuali all’importanza della revisione e, quando si può, del dialogo con autrici e autori. Non c’è scelta che non affiori sulla pagina come la minuscola puntina di un vasto iceberg sommerso, che resta invisibile ma deve esistere per consentire a ogni decisione “strategica” di non colare tragicamente a picco, trascinandosi dietro il resto del libro. La traduzione è una pratica guizzante, fatta di innumerevoli micro-decisioni a loro modo SEMPRE campali. Si fa il possibile per restituire quello che c’è scritto – la componente letterale del testo – ma anche come suona quello che c’è scritto, sia a livello stilistico che di contesto culturale, spostandosi lungo un continuum di senso molto più ingarbugliato, ricco e fascinoso della tritissima dicotomia che contrappone graniticamente una traduzione “bella” ma infedele o una “brutta” e fedele. E come si fa? L’unica risposta può essere un bel DIPENDE. Pareschi, qui, si fa le pulci da sola e ci dona una carrellata di gustose gatte da pelare incontrate nel corso della sua carriera, dalle freddure lapidarie all’arduo compito di ritradurre un classico – Il vecchio e il mare, in origine curato da Fernanda Pivano… una passeggiata di salute, ancora una volta.

Se il tema v’incuriosisce e se siete in cerca di riferimenti che ben bilanciano la teoria a un approccio “pratico”, il laboratorio di Pareschi potrà rivelarsi un ottimo punto di partenza. Magari continuerete a lamentarvi a caratteri cubitali delle traduzioni che “fanno schifo!111!!11”, ma prima di esprimere indignazioni così perentorie vi verrà voglia di ripensare al processo… e ci guadagnerete qualche riferimento critico in più, oltre a utili red flag per distinguere una traduzione “umana” da quella prodotta da una macchina. Perché sì, come ci racconta anche Pareschi nella sezione conclusiva del libro, le macchine sono abbondantemente qui. Spesso con risultati comici e maldestri… ma per quanto ancora? Ci raccontiamo storie per spiegarci il mondo e, per trasportarle lontano con amore, buonsenso e rispetto, potrebbe ancora aver senso sedersi qui e procedere con la calma che si deve alle cose preziose e importanti… una parola alla volta.

Parenti serpenti? Parenti serpenti. E anche particolarmente velenosi. Serpenti a sonagli. Crotali. Vipere cornute.
Evitate Pioggia sottile di Luis Landero – in libreria per Fazi con la traduzione di Giulia Zavagna –, se mal tollerate la gente che litiga o se somigliate un po’ ad Aurora… lei ascolta tutti con infinita mitezza, è paziente e ragionevole. Un po’ remissiva, certo, forse eccessivamente mansueta e fiduciosa, ma disponibile. Tollerantissima. Così brava ad ascoltare e ad offrire sempre una spalla su cui piangere che prima o poi ogni lagnanza finisce per esserle sottoposta. Solo tu mi capisci, Aurora. Solo tu mi dai retta. E Aurora capisce e ascolta… ma per quanto, ancora?

La famiglia in cui approda non è originariamente la sua. Sposa Gabriel e vince anche gli altri. Anzi, le altre. Gabriel è il figlio più piccolo di una stirpe in origine felice, fantasiosa e allegra. Le sorelle, Sonia e Andrea, non hanno mai smesso di rimpiangere il solarissimo padre, scomparso troppo presto per lasciare campo libero a una madre gelida, malmostosa e arcigna. Dedita al lavoro e perennemente terrorizzata dall’indigenza, ha allevato il trio con severità marziale, poche smancerie e lugubre efficienza. Le sorelle le attribuiscono l’origine di ogni infelicità e scelta sbagliata delle loro vite e Gabriel, che ha deciso di votarsi alla filosofia, non si sa bene chi sia diventato e si sospetta sia ancora il figlio prediletto. Sarà lui, innescando una catena di eventi (e conversazioni) irreparabili, a imbarcarsi in un tentativo di riconciliazione: cosa dite se ci rivediamo per festeggiare gli ottant’anni della mamma? GRANDE IDEA GABRIEL LASCIATELO DIRE.

Il romanzo “copre” le giornate campali dell’organizzazione di questo benedetto pranzo di famiglia. A raccontarcelo sarà Aurora che, in qualità di confidente e sfogatoio di Sonia, Andrea e pure dell’anziana madre, si trasformerà suo malgrado nel crocevia definitivo di ogni rissa. Mentre osserva con crescente perplessità lo scorrere della sua vita – a fianco di un uomo che ha saputo deluderla, nonostante lei fosse di ben poche pretese -, le sorelle la subissano di telefonate, messaggi e resoconti che partono dai torti dell’infanzia per approdare alle fratture scomposte – e guarite storte – dell’età adulta. Il risultato è una storia corale piena di miti fondativi “di casa”, testimoni inattendibili, punti di vista discrepanti, rancori grevi ed eterne ruminazioni per stabilire chi merita maggior compassione, chi ha sofferto di più, chi ha sacrificato di più.

Al di là delle specifiche beghe – che si propagano come un’infezione e si fanno via via sempre più grottesche, paradossali, turpi e inquietanti -, Pioggia sottile ci offre anche la prova del potere devastante delle narrazioni. Che siano racconti collettivi – che plasmano identità, intenti e orientamenti di masse altrimenti informi – o mitologie domestiche, le storie non sono mai neutre, innocue, prive di conseguenze. Landero consegna ad Aurora la terribile responsabilità di custodire quelle di tutti i suoi congiunti, in ogni tempo, in ogni versione. Quello che osserviamo è il progressivo sfaldamento del concetto stesso di realtà, perché ciascun componente dello scalognato clan non può che rivomitarle addosso il proprio pezzettino del puzzle, una soggettività che mescola i fatti all’emotività, ricordo nitido a invenzione. Il contesto comune scompare e sparisce anche ogni ricerca del dato di fatto, perché la memoria sopravvive solo nel racconto e il racconto è terreno instabile, influenzato da quello che vogliamo ficcarci dentro per prevalere, per magnificarci, per chiedere vendetta, per far riemergere quello che abbiamo provato e che anche a distanza di anni non smettiamo di provare – aggiungendoci pure qualche sensazione o conclusione inedita, maturata gradualmente o deflagrata all’improvviso. Quello che per una sorella può essere un episodio indelebile e campale per l’altra si riduce a una stupidaggine mai successa e ognuno di questi innumerevoli frammenti produce nuovo materiale da commentare, nuove opportunità di edificazione narrativa, nuove armi, nuovi segreti da sfoderare al momento giusto e da brandire come oggetti contundenti. Aurora, nel mezzo, è l’unica che tace. È un recipiente che capta e contiene. Ma ben sappiamo che anche il recipiente più volenteroso ha pur sempre una capienza limitata…

Pioggia sottile è un libro crudele e incalzante, un piccolo gioiello dell’esasperazione e del conflitto. Ne esco rasserenata? Direi di no, ma il punto è proprio quello: le storie non sono mai innocenti. E nemmeno noi che le ascoltiamo. 

Dunque, Keanu Reeves aveva già gettato le fondamenta di questo mondo qua con una serie a fumettiBRZKR. Vorrei potervene parlare ma non l’ho letta e quello che sono in grado di dire è che Unute – il berserker del titolo – è disegnato per evocare una certa somiglianza con Keanu Reeves, anche se non abbiamo la corrispondenza perfetta che si è manifestata con Cyberpunk. Se ci mettiamo dentro pure John Wick – celebre per la sua allergia alla morte e il suo vasto talento per lo sterminio di nemici, amici e semplici passanti – mi viene da pensare che Keanu Reeves gestisca la sua produzione creativa all’interno di un vasto trope a metà tra il funereo e il metafisico. Ne siamo felici? Personalmente sì. Per The Book of Elsewhere si è fatto prestare tutte e due le mani da China Miéville, che del fantastico “letterario” è un nobile esponente e che in libreria mancava ormai da un decennio. Il risultato finale di questo incontro di mortifere ambizioni meditabonde somiglia più a Evangelion che a Kentarō Miura e, pur avendo un respiro piuttosto cinematografico e una base zarra indiscutibile, resta un esperimento cervellotico e misterioso, direi degno della curiosità che ha inevitabilmente suscitato.

Una dadolata di elementi di contesto: c’è questo tizio che non può morire e che è al mondo da circa 80.000 anni. Nato in circostanze quantomeno leggendarie – sei figlio del fulmine! -, vaga ramingo e invulnerabile per il pianeta cercando risposte e seminando occasionalmente distruzione. Legami? Pochi, se escludiamo un maiale particolarmente aggressivo – anzi, un babirussa. Unute accetta di farsi “studiare” e di collaborare con un’unità militare segretissima nella speranza che qualcuno trovi il modo di garantirgli la mortalità. Unute non vuole morire, vuole avere la POSSIBILITÀ di morire. Può sembrare una strana ambizione, ma io non sono una specie di semidio che campa dai tempi del Neolitico, quindi cosa ne posso sapere. E cosa ne sanno Reeves e Miéville? Il giusto, direi.

I libri con personaggi che gestiscono l’eternità o l’immortalità sono quasi sempre ridicoli o, ben che vada, poco appaganti. Ogni volta che il personaggione eterno apre bocca ci aspetteremmo chissà quale rivelazione, ma finiscono spesso per donarci delle cretinate conclamate. O li si ammutolisce – TROPPO INSONDABILE È IL MISTERO CHE MI AMMANTA, ECCOVI UN SILENZIO CHE DOVREBBE FARMI PASSARE PER SAGGIO MA È SOLO UN MALDESTRO ESPEDIENTE! – o li si rende oracolari fino all’ingestibilità – insomma, non si capisce niente – o la si butta dichiaratamente in caciara, trasformando tutti quanti in macchiette e buonanotte. Con Unute, qua, c’è una dignitosa via di mezzo. Aiuta il contesto, che funziona su molti registri diversi, e aiutano i flashback che esplorano diverse epoche e fasi della lungherrima vita di Unute – e aiuta quello che lui sostiene di sapere sul funzionamento della memoria. C’è una trama con indagini, cospirazioni, doppiogiochismi e spazi decenti dedicati alla relazione “umana”. Unute crea frizioni, paura e discordie, perché non controlla quello che fa durante la “trance” e non ricorda cos’ha fatto.
È un mostro?
È una divinità?
È uno scherzo del cosmo?
È unico nel suo genere?
È l’araldo dell’apocalisse o una “semplice” forza della natura?
Va distrutto o va aiutato?
Là fuori potrebbe esserci di peggio?
Chissà! Ma mi farebbe piacere se Reeves e Miéville continuassero a domandarselo – supercazzolandoci magari un po’ meno sul finale.

[Una nota pratica: com’è in inglese? Non proprio una passeggiata di salute – Miéville non può non oracoleggiare e il nucleo complessivo è leggenda o speculazione filosofica. Se non volete affannarvi eccessivamente, forse conviene attendere la traduzione.]

Dunque, fughiamo subito un dubbio: se volete leggerlo perché amate Roger Federer (o il tennis) in maniera viscerale non credo vi convenga. Qui il tennis e il blasonato torneo di Wimbledon sono elementi utili a produrre un effettone di romantica abnegazione, ma non è un romanzo SUL tennis.
Henry Evans, il giardiniere del titolo, ha effettivamente curato per mezzo secolo i prati di Wimbledon, ma manco a lui frega niente del tennis –  o del verde, direi. La ragazza che amava era una giocatrice accanita e, nella speranza di ritrovarla, Henry ha accettato un posto di giardiniere al circolo perché giocare a Wimbledon da professionista era il grande sogno della sua Rose. Com’è andata? Non benissimo.

Il padre di Henry, rimasto vedovo, si trasferisce col figlio a Blake Hall per prendere servizio come giardiniere. Blake Hall è Downton Abbey, tanto per produrre un’immagine immediatamente comprensibile. Henry conosce Rose – terzogenita dell’altolocata famiglia – mentre gironzola in bici per la tenuta. Sono coetanei e l’indole dimessa e arrendevole di Henry pare garbare alla determinatissima Rose. Dato che sono poco più che bambini, il loro legame non desta scandali o tragiche preoccupazioni, ma l’amicizia è destinata a crescere e il tempo a passare. Sullo sfondo – ma mica poi tanto – i prodromi della Seconda Guerra Mondiale sono in pieno svolgimento. Che ne sarà di Blake Hall e dei suoi occupanti?

Il giardiniere di Wimbledon – in libreria per Feltrinelli con la traduzione di Chiara Mancini – è costruito a partire da una testimonianza diretta di Henry, resa a una giornalista specializzata in questioni di cuore un po’ smancerose. Quest’intervista fittizia a Harry “anziano” diventa un grande flashback che ci presenta la sua versione della storia – con la “s” piccola e con quella grande – e della relazione con Rose. Ora, io ho faticato enormemente a trovare verosimile i cinquant’anni passati ad aspettare a Wimbledon la fidanzatina di gioventù e credo dipenda anche un po’ dall’esecuzione. L’idea è struggentissima, ma per reggere uno struggimento simile credo serva un peso specifico diverso… e Crilly m’è parsa poco sostanziosa. È un amore raccontato per schemi ricorrenti – resi necessari dalle circostanze di clandestinità della relazione, certo, ma anche molto poco avvincenti da seguire – e azioni “pure”, senza chissà quali indagini interiori.

Quello che spicca e che ho trovato molto più “forte” è l’abbozzo di indagine sociale. Henry e Rose sono condannati dalle diverse posizioni che ricoprono nella catena alimentare e quello è l’unico conflitto davvero rilevante del romanzo.
Henry sa che i figli dei giardinieri non sposano le figlie del proprietario della tenuta e Crilly è brava a creare un’atmosfera corale che accentua la dicotomia tra i piani alti della casa e quelli bassi del personale. La condiscendenza dei “ricchi” verso i loro dipendenti – che regge solo se tutti restano al loro posto -, l’incapacità di percepirsi in una posizione di privilegio, la deferenza obbligata – che tramuta un lavoro onesto e dignitoso in servitù “vera” – e un intero sistema sociale che vuol farti credere che svuotare il pitale del signor Blake sia un grandissimo onore si può riassumere un po’ così: vi concederò la possibilità di lustrarmi le scarpe se mi dimostrerete gratitudine eterna e se potrò rammentarvi di continuo che pure voi mi appartenete. Ecco, l’andazzo è quello… e Rose è figlia di quel mondo, oltre che del suo tempo. Dopo aver visto in azione Lady Sybil, qua ti piglia lo scoramento.
E il tennis? Rose usa Henry come sparring partner, punto. Il tennis è il suo unico afflato di sincera rottura con un contesto di partenza che dice di schifare ma che in realtà le fa comodo – perché non ha idea di cosa ci sia davvero oltre i cancelli della sua splendida dimora.

Insomma, per me è stata una lettura tiepidina “da viaggio”. O forse ho un cuore di pietra e rosico ancora per Sinner-Berrettini al secondo turno di Wimbledon.

Con i soldi – quando ci sono – si possono comprare le cose più disparate e di certo anche i libri. Ecco, un po’ dei miei soldi li avevo usati per comprarmi la versione di carta di Storia dei miei soldi – uscito per Bompiani e arrivato a più che buon punto nel percorso accidentato del Premio Strega 2024 –, ma poi mi sono accorta che il medesimo libro lo leggeva l’autrice su Storytel e ho deciso di ascoltarlo, perché ho un debole per chi scrive e poi ci legge la roba sua.
I miei trascorsi con Melissa Panarello risalgono a quando il cognome era ridotto a una P puntata, ma poi l’ho persa. Gli enormi casi letterari – categoria in cui il suo esordio rientrava con veemenza – producono eredità quasi sempre ingestibili e su quelli è raro che ci si possa basare per capire come andranno gli eventuali libri successivi.
Mi è piaciuto molto ritrovare Melissa Panarello qui e, di fatto, conoscerla da capo, con questa pelle nuova pronta a contenere un esperimento che riesce a essere “meta” e profondamente disarmante insieme. Che c’è al centro? I soldi. E quello che ci fanno.

Cosa succede? Una scrittrice incontra per caso per strada l’attrice che una quindicina d’anni prima aveva interpretato il personaggio “scandaloso” del suo libro d’esordio, bestseller lettissimo e chiacchieratissimo. Sia la carriera di Clara T. che della nostra autrice sembrano aver seguito parabole di “contrazione” della fama ipertrofica degli inizi ma, se la scrittrice ha continuato a lavorare e si è costruita una famiglia felice e “regolare”, di Clara T. si sono completamente perse le tracce.
Dopo essere state a lungo la stessa persona – almeno nella percezione del pubblico, all’interno dei meccanismi della finzione letterario/cinematografica -, Clara T. e l’autrice navigano in acque completamente diverse: lo specchio, da qualche parte nel passato, è andato in pezzi e a pagarne il prezzo più salato pare essere stata Clara T. Non avendola mai davvero conosciuta, la scrittrice decide di avvicinarsi e di raccogliere le sue confidenze, compilando una cronaca di prima mano della disgregazione di quella donna a cui sente di essere legata ma dal cui evidente caos si sente anche un po’ respinta.

Quello che risulta immediatamente spiazzante è che Clara T. chieda 10€ alla scrittrice, subito e senza convenevoli o senza vergogne. Una che ha fatto qualche film importante e ha preso fior di milioni per diventare il volto di cosmetici, vestiti, agende e prodotti di largo consumo assortiti non può venirmi a chiedere 10€ o, ancor peggio, farmi capire con questo candore spudorato e naturalissimo, di aver finito i soldi.
I tempi in cui la povertá poteva beneficiare di un qualche tipo di romantica indulgenza sono più che terminati e poche altre circostanze umane ci disarmano, ci fanno paura, ci tirano fuori orrori e demoliscono i teatrini della buona creanza. Cosa è successo a Clara T.? Che fine hanno fatto i suoi soldi? Che persona era prima e chi è adesso? Perché ha così voglia di mettere in mano a una scrittrice – che le ha tecnicamente spalancato le porte del benessere ma che non può certo dire di conoscere – i suoi pietosi estratti conto? Cosa c’è da vergognarsi nell’”aver bisogno”? Parlare di soldi è più sconveniente che scrivere un libro sulle avventure erotiche di una ragazzina? E come è possibile che quella ragazzina si sia trasformata in Clara T. che ti chiede 10€?

Intrecciando il presente di quest’incontro fatidico al passato di Clara – che si srotola come uno di quegli “scontrinoni” eterni che uscivano dalle calcolatrici -, Panarello gioca con i fondamentali dell’identità e gestisce abilmente tutte le sue maschere. Racconta, soprattutto, una storia che sorpassa con intelligenza le circostanze particolari di fama/ricchezza per parlare di come quello che abbiamo in tasca (poco o tanto che sia) tende a modificarci e a deformare il nostro rapporto con gli altri, anche quando sembrano esserci in ballo sentimenti profondi, vasta fiducia, futuri promettenti. Se ne esce a passi incerti, perché il mondo che Clara T. ci mostra non ha niente di solido o rassicurante… e forse non vogliamo nemmeno vederlo, come non vogliamo vedere la povertà “vera” e preferiamo tendenzialmente trasformarla in colpa: da qua sei venuta, Clara T., e da qua (forse) non ti abbiamo mai permesso di allontanarti. Ben ti sta, non ci dovevi sperare. Ben ti sta, per non aver mai davvero considerato i soldi l’unico fine, l’unico motore del mondo. Ben ti sta, perché ti sei rifiutata di diventare come noi.

[Come da tradizione quando tiro in ballo Storytel, ecco il link per la prova gratuita “prolungata” di un mese.]