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Ebbene, l’eterno ritorno della settimana del Salone sta per investirci con tutta la sua dirompente potenza. Il sindaco ha profetizzato ingorghi e traffico, ma ce la caveremo egregiamente: a Rho Fiera ci si arriva meglio prendendo la metropolitana. E dov’è che vogliamo andare (anche)? Proprio lì. Che cosa succederà di bello quest’anno? Ci sono novità? Appuntamenti peculiari da segnalare? Imprese creative spigliatissime? Mobilio francamente incredibile da ammirare? Temi? Correnti? Idee? La risposta generale è SÌ MOLTO. La risposta precisa è ecco qua una guida sintetica e funzionale all’edizione 2024 del Salone del Mobile. Spero vi tornerà utile per razionalizzare visite, scovare tesori inattesi e orientarvi meglio nella miriade di proposte a disposizione.
Procedo?
Procedo.

LOGISTICA DI BASE

Dal 16 al 21 aprile il Salone del Mobile vi attende a Rho Fiera con i suoi 1900 e passa espositori internazionali.
Qui trovate le informazioni principali per spostamenti, biglietti e orientamento.
Qui si può scaricare l’app ufficiale che vi aiuterà a pianificare i giretti e a navigare i padiglioni grazie a una mappa interattiva. Potrete anche contrassegnare gli stand da visitare – e l’app vi consiglierà il percorso più efficace per arrivarci – e creare un archivio/promemoria dei pezzi che più hanno catturato il vostro interesse, fra i numerosi che troverete dotati di QR code d’approfondimento. Inoltre, mostrando il vostro biglietto (disponibile in app) agli ingressi dei vari stand, a fine fiera riceverete un video showreel che ricapitolerà tutti gli espositori a cui avete fatto visita.

 

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La novità grande di quest’edizione? Gli spazi sono stati completamente riprogettati, razionalizzati e “umanizzati” – è il caso di dirlo. Gli espositori saranno raggruppati per aree tematiche ben discernibili, i percorsi sono stati allargati e troverete qua e là anche oasi di quiete e installazioni che vi aiuteranno a “decomprimere”.
Per iniziare a discernere i raggruppamenti tematici, ecco qua un ricapitolone concettuale dei padiglioni.


LE INSTALLAZIONI

Il Salone può diventare in maniera ancora più incisiva un punto d’incontro tra design, cultura e arte? Altroché. Ecco qua le tre grandi installazioni che troverete nell’edizione di quest’anno.

“Interiors by David Lynch. A Thinking Room”
[Padiglioni 5-7]

David Lynch ha saputo immaginare stanze al confine tra realtà e simbolo, dentro e fuori, sogno e materia. Le due stanze “del pensiero” che ha progettato per il Salone – e che sono state materialmente realizzate dal Piccolo Teatro – continueranno ad abitare questo confine affascinante. Cosa ci troveremo, a parte quiete e vuoto? Una poltrona di legno, degli strumenti per scrivere o disegnare, delle nicchie che ospitano immagini enigmatiche, uno specchio, un orologio, dei cilindri di ottone e del doveroso velluto blu. Che ci combineremo? È il mistero che Lynch ci affida.
Vi va di approfondire? Ecco un’intervista ad Antonio Monda, che ha curato l’installazione e può giurarci che Lynch si diverte a piallare il legno.

“Under the surface” – Emiliano Ponzi
[Padiglione 10]

Date un occhio alla vostra libreria e troverete di sicuro qualche copertina disegnata da Emiliano Ponzi. Artista della sintesi e mago dei microcosmi, Ponzi ci invita a visitare un paesaggio sommerso – realizzato con Accurat e Design Group Italia – e a riflettere sull’importanza dell’acqua come risorsa vitale. Stupore scenico ma anche dati sul consumo idrico da lasciar filtrare lungo il percorso, perché unendo meraviglia “immersiva” e data visualization diventa più semplice affrontare anche grandi questioni del nostro tempo.
Per sviscerare meglio l’approccio, ecco qua un’intervista alla squadra creativa.

“All You Have Ever Wanted to Know About Food Design in Six Performances”
[Spazio centrale EuroCucina – Padiglioni 2-4]
Come si fa a riflettere sul cibo? Bisogna disporre di uno spazio per maneggiarlo/prepararlo ma anche di un posto in cui rifletterci su, ascoltando o leggendo chi sta indagando quel che mangiamo in senso storico, economico, spirituale, filosofico, emotivo, materiale. Questa, insomma, più che un’installazione visitabile è una sorta di festival fatto di una “grande” performance giornaliera (dalle 9.30 alle 17.30) e di un palinsesto di talk e interventi collegati che animeranno la Food Design Arena (ogni giorno alle 14.30). L’intero “impianto” è affidato a sei magazine internazionali indipendenti che hanno fatto della cucina e del cibo il loro punto focale. Ve li elenco agilmente qui, lasciandovi anche il link per esplorare la proposta di ogni magazine per questo spazio: Family Style (USA), Linseed Journal (UK), The Preserve Journal (Austria), Magazine F (Sud Corea), Farta (Portogallo), L’Integrale (Italia).

I tre “pilastri” della proposta culturale allargata del Salone, insieme al calendario completo delle tavole rotonde e degli eventi è consultabile qui.


CORRAINI (in fiera e in centro)

Dopo l’ottimo debutto del 2023, il bookshop del Salone sarà affidato nuovamente alle edizioni Corraini (padiglione 14). E sì, un bookshop così io lo considero una meta, un’esperienza suggestiva, un ANDATECI. Lo spirito eclettico, autorevole e giocoso è quello delle librerie che Corraini ha presidiato per anni felicissimi qui in città: in vendita troverete volumi di ogni genere e provenienza dedicati a illustrazione, arte e design – sia per “grandi” che per piccoli -, ma anche riviste, oggettistica, pezzi unici, curiosità, rari reperti, cartoleria e grafiche.

C’è altro? Chiaro. In Piazza della Scala troverete il Design Kiosk, uno spazio-libreria (con assortimento sempre a cura di Corraini) che fungerà anche da campo base del Salone in centro città. Oltre agli stupefacenti prodotti editoriali, infatti, il Design Kiosk ospiterà anche un palinsesto di incontri e conversazioni – gli appuntamenti si possono consultare qui.

Ho finito? Inevitabilmente no. Ma il tantissimo che vi lascio da scoprire ci aspetta allegramente in fiera. Un cuore e felice Salone a noi!

Con gli audiolibri sono più propensa a fare esperimenti? Forse sì. Ho visto OVUNQUE Divini rivali di Rebecca Ross – tradotto da Stefano Andrea Cresti per Fazi – ma mi son poi decisa ad affrontare la faccenda quando è spuntato in catalogo su Storytel – e il fatto che leggano Martina Levato e Dario Sansalone ha aiutato, credo.
Vi infarino un attimo: Iris Winnow e Roman Kitt stanno facendo l’equivalente di uno stage malpagato nella redazione di un importante giornale. Il direttore ha un solo posto “fisso” da editorialista e se lo aggiudicherà chi tra i due ambiziosi virgulti produrrà i pezzi più strabilianti. Rivalità! Furiosi ticchettii di macchine da scrivere! Schermaglie! Che tra Iris e Roman debba divampare del sentimento è il tacito accordo di base di cui siamo inevitabilmente fin troppo consapevoli – e il trope procede con ineluttabile efficienza.

Come da canone, però, è previsto che subentrino difficoltà ulteriori rispetto a quella che potrebbe ridursi a un’antipatia professionale mista a VOGLIO FARTI LE SCARPE. Iris e Roman provengono da classi sociali agli antipodi – lei pezze al culo e lui rampollo facoltoso – e c’è pure la guerra. È ancora lontana dalla capitale ed è anche avvolta da una nebulosità piuttosto irritante. Sappiamo solo che due grandi divinità di un passato quasi mitologico – ma inspiegabilmente poco storicizzato o tramandato – hanno deciso di riesumare gli antichi rancori e di mettere insieme due eserciti. L’amatissimo fratello di Iris sceglie di arruolarsi per la dea Enva, fa fagotto e innesca una reazione a catena che di fatto demolirà la famiglia. E l’informazione? Il giornale di Iris e Roman tratta la guerra come una sorta di leggenda metropolitana. Che interessi giustificano questa linea editoriale? Non si sa.

Leggeremo mai un articolo di Iris o Roman? Macché. Leggeremo, in compenso, la loro corrispondenza privata. L’aspetto del romanzo epistolare è rilevantissimo nell’economia della storia e visto che è anche l’unico vero “colpo di scena” – telefonato come poche altre cose al mondo – non mi ci soffermo, ma ci arrivate. C’è un colpo di scena anche nell’ultima pagina, ma per il resto – e per quanto mi riguarda – si naviga in un mare di tedio. Loro due DEVONO detestarsi all’inizio per tenere in piedi la baracca, ma è una di quelle contrapposizioni basate su LO ODIO PERCHÉ È TROPPO PERFETTO e te sei lì che pensi MA SE VUOI TI PRESENTO I PAGLIACCI CHE HO CONOSCIUTO IO GUARDA. Dura poco, per fortuna, ma c’è comunque una gran flemma. I contesti sono sbozzati – sia del funzionamento di un giornale che di un fronte di guerra apprendiamo il minimo indispensabile e quel minimo è stereotipato – e ogni speranza di vedere le divinità fare qualcosa di spettacolare (almeno loro, perbacco) si inabissa all’istante. È scritto male? Ma no, ma nell’insieme è un po’ come guardare una lavatrice che gira.

Da giovane l’avrei amato? Forse sì, perché c’è questo cortese romanticismo di fondo – CORTESISSIMO – che un minimo fa il suo. Anche da piccola, però, mi sarei probabilmente aspettata più vivacità, più ricchezza di “mondo” e più ritmo. Pace, ci abbiamo provato.


[Se vi va di collaudare Storytel, vi rammento che qua si può attivare la prova gratuita “estesa” – 30 giorni invece delle canoniche due settimane.]

Qua non so bene come comportarmi, perché La spinta di Ashley Audrain – da noi uscito per Rizzoli con la traduzione di Isabella Zani – è un libro di una sgradevolezza rara. Succedono cose terrificanti, luttuose, traumatiche. E succedono nel territorio della maternità, una landa che già di suo presenta una gran quantità di garbugli e di potenziali pozzi oscuri. È un romanzo tremendo da leggere, difficile da sopportare e a tratti anche fin troppo calcato, ma eliminando tutte le tare del caso penso restino degli spunti di riflessione più che dignitosi. Certo, li si piglia e li si stiracchia fino al limite estremo del plausibile – per quanto possa aver senso stabilire confini -, ma pare quasi un esercizio speculativo. Che succede se deformiamo le domande basilari che una neo-madre può porsi? Da dove spuntano i mostri? Saremo capaci di fare quello che ci si aspetta da noi? Quanto possiamo ritenerci attendibili in situazioni di stress e isolamento? I “cattivi esempi” sono una profezia o un monito che può aiutarci a spezzare un destino fallimentare?

Blythe è il prodotto di una dinastia di madri che la società civile disapproverebbe. È sopravvissuta a un’infanzia infelice e al rifiuto costante, senza avere gli strumenti “anagrafici” necessari per decodificare i patimenti delle donne della sua famiglia. All’università conosce un ragazzo e, per la prima volta, riesce a immaginare un futuro tollerabile – anzi, un futuro felice. Sono innamorati, lui è convinto che in lei si nasconda una madre meravigliosa e lei ha un gran bisogno di crederci, di meritarsi questa vasta fiducia. Nasce Violet, ma Blythe ci capisce poco. Si ritrova inchiodata a casa – è Fox che lavora mentre lei prova a dedicarsi alla scrittura – con una neonata che pare richiedere più di quanto lei possa ragionevolmente darle. Nulla di quanto aveva immaginato trova specchio nella quotidianità con Violet, ma mostrarsi capace e padrona della situazione, dar prova di essere degna di quell’immagine di madre esemplare così cara al marito ha il sopravvento sulla realtà dei fatti. Chissà, magari Blythe esagera. Magari è lei che non ci sta dentro. Violet non sarà mica così terribile, dai. Perché la devi sempre dipingere a tinte così fosche? Verrebbe quasi da pensare che non le vuoi bene… ma sarebbe una mostruosità bella e buona. Sei un mostro, Blythe?

Blythe si convince, giorno per giorno, che in sua figlia ci sia qualcosa di anomalo, qualcosa che supera anche le sue potenziali inabilità nel “gestirla”. Chiaro, si sente in colpa per quattordicimila motivi e si vergogna pure di fare così fatica con lei, ma col passare dei mesi – e dei primi anni – quell’inquietudine di fondo resta. Violet è fredda, manipolatrice, crudele con gli altri bambini (e con lei). Insieme agli innumerevoli “ma dove ho sbagliato”, Blythe deve confrontarsi con suo marito, che Violet pare adorare e che vive un’esperienza di genitorialità completamente diversa dalla sua. Fox resta inserito nel mondo, fa carriera, arriva a casa la sera e viene accolto da sua figlia con evidentissimo entusiasmo. Fox, soprattutto, non accoglie i timori di Blythe. Anzi, li respinge con intransigenza. Il perché facciano un altro figlio è ben sviscerato nel romanzo – per quanto possa sembrarci controintuitivo. È come se Blythe avesse bisogno di riscattarsi, di dimostrare in maniera incontrovertibile che il problema è Violet e che lei è una madre capacissima – e capacissima di amare…

Audrain è abile nel gestire la tensione e i diversi piani temporali. Funziona così: sappiamo da subito che qualcosa è andato terribilmente storto, ma occorre l’intero libro per afferrare davvero l’estensione del disastro. Oltre al “piano temporale” di Blythe abbiamo a disposizione anche le storie di sua madre e di sua nonna che, pur in epoche e contesti differenti, rappresentano un precedente significativo. È come se tutto quello che circonda e “costituisce” Blythe lavori per corroborare la sua inattendibilità. È come se la spiegazione più semplice e valida, nel caso esista qualcosa di cui preoccuparsi, sia l’inadeguatezza della madre. Blythe è problematica a modo suo – e non è un personaggio che ispira chissà quali moti di simpatia -, ma non dispone mai di punti di riferimento accoglienti. Smette quasi di essere una persona e diventa una funzione, non ha più un posto o un’identità – a parte quella di madre, in cui sente esplodere tutto il suo fallimento. È un libro orrendo? Sì. Perché Audrain fa succedere orrori. È un libro potenzialmente utile? Anche. Perché può farci pensare, nonostante l’evidente situazione-limite che costruisce.

Penso capiti di rado di imbattersi in una voce narrante come quella che Barbara Kingsolver decide di donare a Demon Copperhead, il caparbio protagonista di quest’epopea di disastri premiata col Pulitzer e approdata qui da noi in libreria grazie a Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino – che non invidio e molto ammiro per il coraggio.
Demon condivide con David Copperfield l’ambizioso arco narrativo – sono nato… ed ecco qua tutto quello che mi è successo – e con Rosso Malpelo il colore dei capelli e una specie di bersaglio invisibile dipinto sulla schiena. Demon in miniera non ci arriva, ma la sua contea natia è un centro estrattivo degli Appalachi già avviato al declino, popolato da gente che si arrabatta, griglia anche quello che non si potrebbe grigliare, coltiva tabacco, venera i giocatori di football del liceo e accoglie a braccia aperte il ristoro che le pillole della Purdue Pharma promettono di dispensare.

Demon nasce senza tante cerimonie sul pavimento di una casa mobile, da una diciottenne con già alcuni percorsi di disintossicazione (non molto ben riusciti) alle spalle. L’unico dono che il destino pare tributargli sono dei vicini che diventano una sorta di seconda famiglia. Pure loro sono hillbilly da manuale, ma in confronto a Demon e a sua madre – privi di mezzi, privi di radici, di direzione o di magici piani a lungo termine – sembrano il Rotary Club di Corso Magenta. Demon oscilla tra un’iperconsapevolezza della propria condizione di svantaggio “materiale” e una struggente capacità di assorbimento delle disgrazie. Non solo cerca di cavarsela, ma resta “intero”, anche se chi dovrebbe prendersi cura di lui non si dimostra mai all’altezza della situazione, anzi.

Ricapitolarvi anche solo a grandi linee la sua fosca parabola fatta di povertà, fondi di magazzino di Walmart, pezze al culo, assistenti sociali oberate dalla vastità delle catastrofi da gestire, fame, fornelli luridi, fratelli di sventura e genitori affidatari che si vendono pure i cotton fioc usati al banco dei pegni sarebbe sciocco, perché il punto di vista del piccolo Demon vale il prezzo del biglietto. La Lee County del libro è un posto che asseconda da un bel pezzo la narrazione di disfacimento del Sogno Americano, che qua resta in piedi per riti collettivi e per un’attitudine quasi comica alla venerazione della celebrità – status che in questo contesto di pochissime pretese è raggiungibile anche da quel tuo amico che piscia più lontano di te in mezzo a un bosco. Demon non ha mai potuto beneficiare del lusso dell’ambizione, perché arrivare indenne alla fine di una giornata è già un traguardo sufficiente, ma spicca strano e meraviglioso ovunque lo si piazzi. È piccolo e più che adulto insieme, disegna per sfogarsi e per immaginare supereroi che raddrizzino le storture del suo mondo… ma chi salverà lui?

Che da questa serie di sventure non scaturisca una narrazione dolente e lacrimevole è una specie di miracolo. Credo dipenda da come viene tratteggiato Demon, ma anche dall’intento di esplorare un contesto che ha una presa forte sulla realtà – piaga degli oppioidi venduti come caramelle assolutamente innocue compresa. Demon cresce e la sua voce cambia, creando un certo stacco tra la prima parte del libro – quella dell’infanzia – e la seconda, che è una prova generale di un’età adulta azzoppata dalla carenza di “esempi” virtuosi e da circostanze sistemiche che finiscono per risucchiarlo. La famiglia è un’entità ondivaga, inaffidabile, monca. Per Demon l’idea di “casa” perde senso molto presto, per essere sostituita dalla Lee County in generale, quasi. Ma è proprio quel posto, con le sue storture che affliggono chiunque resti, ad avvelenare ogni possibilità di riscatto. Quello che per noi potrebbe essere percepito come degrado, marginalità o circostanza “estrema” per Demon è ordinaria amministrazione, “prodotto tipico” della contea. Come si fa a salvarsi se l’unico punto di riferimento che si possiede è anche la radice di quello che ci fa più male? La grande sfida di Demon sarà proprio quella. E a ogni istante tiferemo sinceramente per lui. Anche nei momenti peggiori, anche quando ci deluderà o lo vedremo prendere decisioni sciagurate, non smetteremo di volergli bene e di provare a regalargli tutti i pennarelli del mondo.

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.

Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.

McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.

Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

[Un doveroso commento all’immagine di copertina: “o almeno ci provo”].

I libri che ho letto più volentieri nel 2023 non sono necessariamente i libri più belli del 2023. O i libri più meritevoli dal punto di vista letterario o contenutistico. O i libri più “importanti”, quelli che cambieranno le sorti del mondo e ci renderanno collettivamente esseri umani meno schifosi. Magari non sono nemmeno tutti usciti nel 2023, ma per fortuna i libri non scadono e possiamo leggerli quando ci pare.
Insomma, questo agglomerato di letture è un esercizio riepilogativo che non ha mai avuto l’ambizione di configurarsi come classifica d’assoluta nobiltà all’interno dell’impervio cammino della civiltà umana. Sono i libri che ho letto più volentieri quest’anno e che, per un motivo o per l’altro, mi hanno sorpresa per inventiva, son riusciti a intrattenermi quando ho sentito la necessità di essere intrattenuta – mi hanno “fatto bene”, in parole povere – o hanno risvegliato in me dell’ammirazione per chi ha saputo congegnarli.
Se son libri che ho amato vuol dire che sono libri di cui ho già parlato a tempo debito, quindi qua li mettiamo in fila e per approfondire vi rimando ai pezzi originali. 

Vado. E no, non sono in ordine di preferenza o roba simile.


A. K. Blakemore
Le streghe di Manningtree
Fazi
Traduzione (splendida) di Velia Februari


Sam Kean
La brigata dei bastardi
Adelphi
Traduzione di Luigi Civalleri


Coco Mellors
Cleopatra e Frankenstein
Einaudi
Traduzione di Carla Palmieri


R. F. Kuang
Babel
Mondadori
Traduzione di Giovanna Scocchera


Kate Beaton
Ducks
BAO Publishing

Traduzione di Michele Foschini


Eleonora C. Caruso
Doveva essere il nostro momento
Mondadori


Niccolò Ammaniti
La vita intima
Einaudi


Gabrielle Zevin
Tomorrow and tomorrow and tomorrow
Nord

Traduzione di Elisa Banfi


Maria Grazia Calandrone
Dove non mi hai portata
Einaudi


Michael McDowell
La saga di Blackwater
Neri Pozza

Traduzione di Elena Cantoni

Ani e Bianca si sono avvicinate per rendere più sopportabile il presente e per ricostruire un’idea di famiglia, in un posto dove si arriva spogliate di legami pregressi, identità e futuro. Sono raccoglitrici di sale, prigioniere di un gigantesco campo di lavoro in cui centinaia di altre donne “indesiderabili” (e pericolose per il rigido ordine pubblico del regime) si spaccano la schiena in un susseguirsi di giorni sempre uguali, guardate a vista da sorveglianti armati e private di ogni prospettiva di fuga, cambiamento, libertà.
Fuori si sta peggio, si sentono ripetere. Qui almeno si mangia e abbiamo un tetto sopra la testa. Non siamo nessuno, ma siamo vive. E provvediamo all’approvvigionamento dell’unica risorsa energetica ancora disponibile… quale onore più grande può esistere? Rese inermi dalla fatica estrema e anestetizzate dalla paura, le donne del campo vivono in un limbo che cancella il tempo, piega la volontà e distorce la realtà… ma Ani e Bianca non hanno mai smesso di domandarsi cosa resti del mondo oltre i confini di quella prigione. E sarà la loro alleanza – sghemba come il loro modo di stare insieme, nonostante le differenze – a cambiare tutto e a spalancare nuovi scenari: si muore davvero quando si smette di sperare nella possibilità di cambiare le cose.

Non voglio spoilerare, perché meritate pure voi di godervi in santa pace i numerosissimi colpi di scena di Brucia la notte di Tiffany Vecchietti e Michela Monti – in libreria per Mondadori e in audiolibro su Storytel. Qualche tema lo nominerei, però.
Ci sono ragazze guerriere, ragazze rancorose, ragazze potenti e ragazze che si organizzano in nuovi modi antichissimi. Ragazze sradicate che resistono e provano a ripartire da un’idea di collettività che cerca di tornare umana, amica delle differenze e attraversata da prodigi insperati. C’è un’Italia “alternativa” e un’Italia leggendaria e mistica. È una storia che indaga il potere del pensiero – e la relazione ambivalente tra pensiero, autorità e comunità. È una storia di rivoluzione e di quanto “costa” credere in un’idea – o accettare quel che c’è scegliendo il silenzio. Che Bianca non stia mai zitta non è una coincidenza… e che Ani dica invece così poco – ma veda moltissimo – nemmeno. Spero le accompagnerete nel viaggio. Sarà lungo e difficile… ma tra strighe bisogna darsi una mano.

L’esordio di Dizz Tate – tradotto da Annalisa Di Liddo per Neri Pozza – è senza dubbio da apprezzare per il quadro tematico che apparecchia, ma non possiamo manco far finta che sia un libro chiaro, leggibilissimo e limpido. Insomma, Bestie va da qualche parte e ci va con pagine potenti e con rara padronanza di una voce narrante originale – ci torniamo, perché è un punto centrale -, ma s’impantana anche in un’opacità strutturale che mi ha fatto faticare e mi è spesso parsa pretenziosa. Si son sprecati i paragoni con Le vergini suicide – perché se la vicenda ruota attorno a un gruppo di ragazze alle prese con vari orrori, interiori e/o mutuati dal mondo ECCO vuoi non tirare a mano Eugenides? Non sia mai! – ma la somiglianza col romanzo delle sorelle Lisbon mi pare resti un lontano auspicio. Bestie  è un libro che fa decisamente dell’altro… per quanto risulti astuto vendercelo così.

Che succede, in sintesi?
Le “bestie” sono un gruppo di tredicenni. Vivono in una cittadina della Florida, in una sorta di stretta simbiosi. Si appostano e osservano quel che succede nei dintorni dei loro palazzoni in riva a un lago fetido e scuro, guardano TUTTO nella speranza di essere viste, amate, scelte, ma restano ai margini. Vengono da famiglie senza padri, girano scalze, nessuno si prende la briga di accudirle davvero e nessuno sa cosa facciano, in fin dei conti. Quando  Sammy – ragazzina d’oro che le nostre bestioline idolatrano e osservano con particolare trasporto – sparisce nel nulla, tutta la comunità si mobilita per cercarla. Possibile che loro non ne sappiano niente? Lo scopriremo strada facendo.

Il racconto della ricerca di  Sammy è il pretesto che serve per addentrarci in un microcosmo ermetico, inserito in una landa desolata. Le ragazze si nutrono di sogni di fuga e biglietti da conquistare per volare a Los Angeles e diventare delle star. La cultura della celebrità è lo specchio delle loro grossolane illusioni, ma anche del loro candore disarmato, riottoso, cattivo. Si ripetono come un mantra “sei bellissima, potresti fare la modella”, ma hanno i piedi mangiati dalle formiche rosse, i denti blu per i ghiaccioli zeppi di coloranti e i capelli sporchi. “Ti amo, sei speciale”, vorrebbero sentirsi dire, ma il ragazzo di cui si invaghiscono in blocco resta un miraggio da spiare col binocolo. 

Tate mette in scena il loro legame trattandole come una coscienza collettiva. Parlano col “noi”, come i Borg. Il “noi” ci racconta quel che capita durante le ricerche di Sammy, ma il libro prosegue dedicando capitoli proiettati nel futuro alle singole bestioline. Che fine han fatto? Quell’estate ha lasciato segni indelebili? Che adulte sono diventate?
Ecco, quel “noi” è interessante da leggere. È ipnotico, zeppo di ritualità, terrificante nella precisione con cui riesce a cogliere determinate sfaccettature dell’adolescenza. I capitoli “individuali” fan confusione, secondo me. Inseriscono altra roba che dovremmo intuire in filigrana ma invece di alimentare il mistero – dov’è Sammy? Cosa è successo davvero? – introducono elementi tra il mostruoso e lo straniante che pasticciano un orizzonte narrativo già estremamente opaco. Ci son cose che emergono a livello tematico – il bisogno d’amore, l’esclusione, il degrado, il divario di potere, la violenza, l’illusione – che sarebbe stato bello vedere forse affrontate di petto, con meno giri metaforici o ricorso a mostruosità che sembrano ridicole in confronto a quanto di mostruoso possono farsi le persone. Che si tratti di un tentativo di riflettere sulla validità dei ricordi traumatici? Quanto possiamo fidarci (a posteriori) del nostro punto di vista, in situazioni che ci hanno terrorizzate e che non avevamo gli strumenti per gestire? Non si sa, perché finiamo pure noi con la testa nell’acqua scura del lago. E nessuno viene a cercarci, perché nessuno cercherebbe le bestioline… loro non sono Sammy. Noi non siamo Sammy.