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tegamini

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Accadono un mucchio di cose, in questo periodo. E io sono contenta, perché ho gli occhi grandi e una specie di scomparto/cassapanca adibito alle curiosità e alle avventure che aspetta sempre di essere riempito. Nonostante le numerose spedizioni scientifiche e le rigorose analisi speleologiche, però, non s’è ancora capito se lo scomparto/cassapanca abbia un fondo. La teoria più accreditata vota per l’ipotesi abisso-senza-fine. Che è una buona notizia, se ci pensiamo, soprattutto quando si inciampa in una coccosità da raccontare. Perché non capita spesso, ma ogni tanto succede che si faccia qualcosa per la prima volta.

Perché io non sono abituata ad andare ai corsi di origami. Non so bene come funzionino, le vostre giornate, ma io non mi diletto abitualmente con la nobile arte della piegatura della carta. Non faccio quasi da mangiare, mi rifiuto di imparare a stirare. Figurati se mi metto lì a piegare dei pezzi di carta carina.

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1740465_209642815900497_2137399360_nChe a vederli così sembra facile. Ma volano le bestemmie, quando tocca a te.

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È successo che Sony si è inventata dei nuovi Vaio – tutti sottilissimi, tutti leggerissimi, tutti snodatissimi. Ce n’è uno con lo schermo che si stacca della tastiera gridando “sono un Transformer tablet-pc-e-viceversa! YOLO! Fai di me ciò che vuoi!”. E un altro ha lo schermo che gira al contrario tipo esorcismo-touchscreen. Ve lo giuro, me l’hanno aggeggiato davanti per quindici minuti ma non ho ancora capito quale stregoneria gli consenta di piegarsi di qua e di là. Un portatile, siori e siore, ma ora diventa un portatile con lo schermo ribaltato sul coperchio, siori e siore, non c’è trucco e non c’è inganno! -, dicevo, Sony si è inventata questi pc portatili che fanno i miracoli e, per farci divertire ancora di più, ha pure organizzato una lezione di origami con un’adorabile signorina maestra giapponese che era così giapponese che sembrava finta.

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Dunque, Kayoko si è rimboccata le maniche del kimono, ci ha spiegato da dove vengono gli origami – i nobili giapponesi superglamour, intorno all’anno 1000, facevano regali a un sacco di gente… e molto spesso la piegatura della carta faceva parte del regalo, oltre che funzionare da sfarzosa confezione -, ci ha raccontato la storia della gru – leggiadro simbolo di speranza e pace – e ha cercato di insegnarci a piegare una farfalla e un fiore di loto. Io, che ho la manualità di un orso di pezza con la congiuntivite, ho più volte gridato aiuto. Li volevo far bene i miei origami, ci tengo tantissimo a queste imprese disperate. Mi appassiono, anche se ho le mani di legno. E poi come si può deludere una persona così tenera e adorabile? Kayoko è praticamente commestibile, santo il cielo!

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sony experience tegamini 2Ora pieghiamo GLU.
Anzi no, GLU è troppo difficile.

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Al posto di GLU, abbiamo fatto una farfalla e un fiore di loto. Gli origami dovrebbero donare un’anima alla materia inanimata, trasformare la carta in poesia, in arte e fantasmagorica illusione. Bene, la mia farfalla è l’unico origami che non solo non prende vita, ma riesce addirittura a far regredire la materia prima: da splendido quadrato di carta turchese di prima qualità a risma di fogli super economici per la stampante dell’ufficio.
Il fiore di loto, invece, m’è uscito con le proporzioni sbagliate. Ci vorrebbero tutti dei petali che avvolgono magicamente la corolla, ma io avevo solo la corolla. I petali sotto, stitici e storti, manco si vedono. Come esercizio di pura auto-flagellazione, vi invito ad individuare il mio fiore di loto, che spicca per scarsa grazia e assoluta asimmetria in mezzo alle meraviglie di Kayoko. Accidenti a lei e alle sue ditine affusolate.

Insomma, sono un’inetta, ma è stato molto istruttivo. E poi è successa un’altra cosa assolutamente surreale. Perché s’era fatta una certa, e ci hanno generosamente offerto la cena, con sushi, lasagnazze e tutti quei cosini nei bicchierini con le forchettine piccine picciò. La cosa fantastica è che se prendi una dozzina di blogger e li metti davanti a un buffet, i blogger rispetteranno il buffet. Si sistemeranno tutti quanti alla distanza più idonea rispetto alla tavola imbandita e, belli dritti in piedi, faranno le foto al cibo, perfetto e intatto – così com’è. Solo dopo aver fatto la foto al cibo – ed essersi assicurati che tutti i presenti ci siano riusciti senza interferenze e, anzi, con una buona angolazione -, ecco, solo in quel momento si sentiranno autorizzati ad avvicinarsi alla roba da mangiare.

Agli apericena ci vorrebbe un cordone di blogger che ripristinano l’ordine e la civiltà. Altroché pizza fredda e patate coi tocchi di salsiccia unta.
Armonia. Cibo fotogenico. Dagherrotipi.
Mi sembrava di stare alle corse di Ascot. O in una missione di James Bond, nel caso della tizia che fotografava le cosa con l’orologio.

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Come se non ci avessero cullati a sufficienza, poi, ci hanno anche donato delle cose utilissime. Un po’ di carta da origami – con istruzioni (per infanti) che riuscirò comunque a fraintendere mentre tento disperatamente di piegare un cuore per Amore del Cuore – e la manna delle manne, il bombarozzo-batteria portatile. Me n’ero appena comprato uno di quella serie lì, solo un po’ meno capiente, e già mi sentivo Robocop. Adesso che ne ho due posso sopravvivere anche in fondo a un crepaccio, con un’orda di stambecchi mannari alle calcagna. Anche perché, ormai, l’iPhone mi sta carico per tre ore, poi crolla al 22% e poi si spegne. Una vita grama. Tutte le volte che penso alla batteria dell’iPhone mi viene in mente quel gioco-esperimento per i bambini che amano la scienza… quello con la patata con tre elettrodi conficcati nella buccia che – non so come – fa funzionare un orologio, o qualcosa di altrettanto ininfluente dal punto di vista energetico. E’ così, l’iPhone, ha la batteria che va a patate.

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🙂

E niente. Volevo raccontarvelo, visto che è stato una tenerezza. Ho anche conosciuto @LaVyrtuosa, finalmente! 😀

Grazie, allora, Vaio-inventori. E’ stato proprio super divertente.
GLU a voi!

sabato

Scrivere una bella quarta di copertina è un lavoraccio. Di che parla questo libro? Perché dovresti leggerlo? In quali e quanti incredibili modi ti sconvolgerà l’esistenza? È piaciuto a qualche persona importante? Com’è fatto? C’è un genio che ne ha parlato bene?
Ecco.
E se già la quarta è un casino, le biografie degli autori non sono certo da meno. Quelli vivi, di solito, se la scrivono da soli (ma fanno finta di no… mica come Paolo Nori, che lo dice sempre che è stato lui) e quelli morti, molto spesso, sono stati personaggi avventurosi, irrequieti e complicati. La loro opera riecheggia nell’eternità, insomma, non possono mica essere gente scontata… ed è un bel problema, se hai solo una bandella o un rettangolino grosso così per farci star dentro tutto. Per non sbagliare – cioè per non offendere la memoria di nessuno, per non scatenare l’ira degli eredi, per illuminare tutto di una luce benevola e innocua, e per stare dalla parte degli oppressi -, ci si piazza un bell’elenco delle opere, coi loro bravi anni di pubblicazione, e qualche notizia-base. Ha scritto per questo giornale, è nato qui, è morto là, ha insegnato in questa università, è andato in guerra, la pensava all’incirca così.

Le notine biografiche dietro ai libri, la tomba del fascino.

C’è però una collana che si rifiuta fermamente di impantanarsi in queste noiose pratiche da elenco telefonico. C’è una collana che ha le quarte più belle del mondo, belle quasi quanto i libri. Un autore ha fatto il dog-sitter per la nobiltà di Odessa? Una scrittrice si dilettava coi puzzle da 10.000 pezzi, tra un attacco di tisi e l’altro? Quanto esattamente si beveva, nei più sfavillanti salotti culturali della Grande Mela? Cosa ha ucciso – ma nel dettaglio – i grandi della letteratura mondiale? In quella collana lì c’è tutto, dalla professione dei genitori agli hobby più strampalati ed esotici, dalle fortune critiche alle pessime abitudini. Ed è sempre una felicità:  le biografie delle Letture Einaudi sono praticamente dei romanzi. Bisognerebbe farci su un premio apposta.
Ma perché siamo qui? Io – devo tristemente ammetterlo –  le Letture non le ho ancora lette tutte-tutte, ma di biografia non me ne sono persa neanche una. Ed è arrivato il momento di rendervi partecipi di questo prodigio.

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Le Bio-Letture: l’esplorazione definitiva

In rosso le dipartite (precississime), i malanni e le catastrofi. 
In verde le infanzie difficili.
In
rosa i sentimenti, i legami surreali e le passioni travolgenti.

In blu i mestieri, per scrivere senza morire di fame.

Il nome dell’autore, guarda un po’ che coerenza, vi porta alla sua Lettura (e alla bio completa, che qua qualcuna è tagliata). Mi sembrava una roba ragionevole: se vi affascina il personaggio, magari vi viene anche voglia di capire che cosa ha scritto.
I miei preferiti (in termini strettamente biografici), hanno pure la copertina. Perché se muori inghiottendo uno stuzzicadenti mentre fai festa a Panama (e hai scritto Winesburg, Ohio), la copertina te la meriti.
Non sono poche, queste bio. E non sono manco tanto corte. Ma prendetele come una raccolta di racconti, perché sono proprio quella roba lì. Pure un po’ meglio.

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Sherwood Anderson nasce a Camden, in Ohio, nel 1876. Dopo aver fatto molti mestieri, dal manovale al pubblicitario di successo, sembra avviato a una tranquilla vita regolare: si è sposato con una moglie riccadirige una fabbrica di vernici. Ma all’improvviso lascia la moglie e il lavoro per tentare la strada della scrittura. Prima a Chicago, poi a New York frequenta gli ambienti letterari e conosce alcuni fra i più importanti scrittori americani: Lee Masters, Sandburg, Dreiser, Gertrude Stein. (…)
Muore nel 1941 di peritonite, a Panama, dopo avere ingerito uno stuzzicadenti a un rinfresco in suo onore.

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José Marìa Arguedas nasce nel 1911 ad Andahuaylas, sull’altopiano andino. Figlio di un piccolo avvocato di provincia, rimane orfano di madre quando ha appena due anni e viene affidato alle cure di una piccola comunità india. La sua lingua madre è il quechua. Poi comincia a seguire il padre nei suoi spostamenti a cavallo da un paesino all’altro delle Ande. A quattordici anni entra in un collegio per giovani bianchi. Nel 1929 si iscrive all’Università di Lima. Dopo la laurea in Lettere, trova impiego prima alle Poste, poi al ministero dell’Educazione. Intanto si dedica alla scrittura e agli studi: nel 1957 ottiene la cattedra universitaria di etnologia.
Soffre di ricorrenti crisi nervose e nel 1966 tenta per la prima volta il suicidio con i barbiturici. Riesce nell’intento tre anni dopo sparandosi un colpo di rivoltella alla tempia.

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Roberto Arlt nasce a Buenos Aires nel 1900. Figlio di immigrati europei (il padre prussiano, severissimo), fin da bambino si ribella alla rigida educazione familiare. A sedici anni lascia i genitori e vive senza fissa dimora per le strade di Buenos AiresLavora come meccanico, imbianchino, operaio portuale, commesso e intanto studia da autodidatta. Poi comincia a collaborare a qualche giornale e infine diventa giornalista a tempo pieno. (…)
Muore a Buenos Aires nel 1942, per un infarto.

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Thomas Bernhard nasce nel 1931 a Heerlen, in Olanda, figlio di una ragazza madre che aveva lasciato l’Austria per sottrarsi allo scandalo. Cresce coi nonni a Vienna, a Seekirchen e a Salisburgo. A diciotto anni viene ricoverato in sanatorio, dove comincia a scrivere. Pubblica racconti su quotidiani e riviste e, nel 1963, il suo primo romanzo, Gelo. (…)
Muore a Gmunden nel 1989.

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Antonio Delfini nasce nel 1908 a Modena, in una famiglia di ricchi proprietari terrieri finita poi in disgrazia, non senza sue responsabilità. Nel 1931 pubblica il primo libro, Ritorno in città, una raccolta di prose poetiche e divaganti, e lo «lancia» alla fiera del libro di Modena creando anche un volantino pubblicitario che si apre con la scritta «AUTORE IGNOTO PRESENTA». Dopo la perdita del grande palazzo familiare nel centro di Modena, nel 1935 si trasferisce a Firenze e frequenta la società letteraria che si riunisce al caffè delle Giubbe Rosse. (…) Ricordo della Basca, vince il premio Viareggio nel 1963 pochi mesi dopo la sua morte.

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Lawrence Durrell nasce a Jalandhar, nel nord dell’India, nel 1912, di padre inglese e madre irlandese. A undici anni viene spedito in Inghilterra per compiere studi regolari, ma lo stile di vita della madrepatria gli appare subito detestabile. Dirà poi: «La vita inglese è come un’autopsia». Nel 1934 legge Tropico del cancro e ne rimane folgorato, scrive a Henry Miller una lettera da entusiasta ammiratore: iniziano così un’amicizia che durerà tutta la vita e un carteggio tra i più importanti del Novecento. L’anno dopo due eventi significativi: la pubblicazione del primo libro (Pied Piper of Lovers) e il trasferimento a Corfù con madre, fratelli e moglie. Il primo impatto con la Grecia è per Durrell una rivelazione che lo affascina. Nel 1938 esce Il libro nero, lodato da Eliot. Nel 1941 lascia la Grecia dove stanno arrivando i tedeschi e si trasferisce al Cairo. L’anno dopo Durrell si separa dalla moglie e si stabilisce ad Alessandria, dove inizia a lavorare per il servizio informazioni britannico. In questo periodo conosce Eve Cohen, una seducente donna ebrea che diventerà la sua seconda moglie e il modello per la Justine letteraria. Finita la guerra, Durrell svolge diversi incarichi governativi e diplomatici in varie parti del mondo: a Rodi, dove scrive Il labirinto oscuro (1947), a Córdoba in Argentina, a Belgrado e infine a Cipro, dove scrive Justine (1957) e i successivi libri del cosiddetto «quartetto di Alessandria»: Balthazar (1958), Mountolive (1958), Clea (1960). Nel 1960 Cipro ottiene l’indipendenza dal dominio britannico e scoppia la guerra greco-turca per la spartizione dell’isola: Durrell è costretto a fuggire e si sposta a Sommières, in Provenza, dove vivrà gli ultimi trent’anni della sua vita. In questa fase si sposa altre due volte e scrive molti altri libri senza però ottenere più il successo del «quartetto di Alessandria». (…)
I suoi ultimi anni sono stati resi drammatici dal suicidio della figlia Saffo Jane (1985). Muore a Sommières nel 1990.

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Ralph Ellison nacque a Oklahoma City nel 1914. Nipote di uno schiavo e figlio di un muratore, riuscì a studiare musica grazie a una borsa di studio. Al prestigioso Tuskegee Institute imparò a suonare il piano e la tromba, e il jazz rimase per sempre una sua grande passione. Trasferitosi a New York nel 1936, incontrò lo scrittore Richard Wright che lo instradò alla letteratura e al comunismo. Tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta cominciò a pubblicare racconti su varie riviste. Nel 1945 uscì dal Partito comunista americano, a cui riservò critiche severe negli anni successivi. Nel 1953 pubblicò Uomo invisibile dopo un lavoro di scrittura e riscrittura che lo aveva impegnato per circa sei anni: il libro vinse il National Book Award. Fra il 1955 e il 1958 visse prevalentemente in Europa, per un certo periodo anche a Roma. Tornato negli Stati Uniti, insegnò letteratura americana al Bard College, poi alla Rutgers University, a Yale e alla New York University. Nel 1967 la sua casa nel Massachussetts fu distrutta da un incendio che si portò via il manoscritto del suo secondo romanzo in fieri. Gran parte della sua vita rimanente fu dedicata a riscrivere il libro, che uscirà soltanto postumo e incompiuto nel 1999, con il titolo JuneteenthEllison era morto a New York cinque anni prima per un tumore al pancreas.

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William Faulkner nasce a New Albany, Mississippi, nel 1897. Il bisnonno aveva costruito una delle più importanti ferrovie del Sud, il nonno aveva fondato la First National Bank, il padre, dopo la vendita della ferrovia di famiglia, era diventato rappresentante della Standard Oil. William cresce a Oxford, Mississippi. Lavora nella banca del nonno e nel
1918 comincia a pubblicare poesie e racconti. Dopo un periodo a New Orleans per frequentare Sherwood Anderson e gli ambienti letterari, pubblica il suo primo romanzo, La paga dei soldati (1926) che la madre giudica scandaloso e il padre rifiuta di leggere, seguito da Zanzare (1927) che per volontà dell’editore viene decurtato di quattro brani giudicati sconvenienti. Tornato a Oxford, intraprende molti lavori saltuari come l’imbianchino, il falegname, il fuochista alla centrale elettrica dell’università, ma soprattutto scrive e pubblica ormai con regolarità.
Il successo arriva con Santuario (1931). A quel punto viene chiamato da Hollywood come sceneggiatore e lavorerà al cinema per circa vent’anni, tornando non appena poteva a Oxford, dove morirà nel 1962.
Nel 1949 gli è stato assegnato il premio Nobel.

faulknerChe meraviglia.
(Foto? Qui)

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Max Frisch nasce a Zurigo nel 1911. Nel 1942 si laurea in architettura e si sposa con Gertrud Constanze von Meyenburg, da cui avrà due figlicome primo lavoro progetta una piscina comunale nella sua città. Contemporaneamente all’attività di architetto, scrive i suoi primi testi per il teatro: uno dei più famosi, La muraglia cinese, viene messo in scena nel 1946. Nel 1947 incontra Brecht e Dürrenmatt. Nel 1955, dopo il successo del suo romanzo Stiller, chiude il suo studio di architetto e si dedica interamente alla scrittura. Nel 1957 un nuovo romanzo, Homo faber, amplia ulteriormente la sua fama letteraria ormai internazionale. Si trasferisce a Roma nel 1959 dove vive un’intensa relazione con Ingeborg Bachmann («Conosco Roma quasi come un taxista», scrive a un amico nel 1961), poi nel 1965, finita tumultuosamente quella fase della sua vita, acquista una casa rustica in Valle Onsernone, nel Canton Ticino, e ne fa la sua abitazione principale. Nel 1968 si risposa con la giovanissima Marianne Oellers, conosciuta negli anni romani. Con le sue aspre polemiche politicosociali diventa la coscienza critica della Svizzera e dell’Europa.
Muore a Zurigo nel 1991.

La piscina di Frisch.
(Lo dicono qui, che è questa. E anche qui).

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Bohumil Hrabal nasce nel 1914 a Brno. Dopo studi in legge interrotti a causa dell’occupazione tedescaper gran parte della sua vita passa da un mestiere all’altro: magazziniere, preparatore di malto in una fabbrica di birra, impiegato in un ufficio notarile, ferroviere, telegrafista, assicuratore presso la compagnia «Sostegno della vecchiaia», commesso viaggiatore nel ramo giocattoli, operaio metalmeccanico, imballatore di carta da macero, macchinista e comparsa teatrale. La sua «mobilità» lavorativa è divenuta una leggenda, da lui stesso alimentata nei suoi libri, come anche la sua assidua frequentazione di tutte le taverne praghesi. I suoi primi libri di racconti sono degli anni Sessanta e gli danno una notevole fama, ma con la fine della Primavera di Praga tutte le sue opere vengono bloccate e circolano solo clandestinamente.
Nel 1997 cade da una finestra del quinto piano dell’ospedale di Praga dove era ricoverato.

bohumilCheers.
(L’immagine arriva da qui).

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James Joyce nasce a Dublino nel 1882. Frequenta le migliori scuole cattoliche e all’università studia letteratura inglese, francese e italiana. Insieme alla compagna di tutta la vita, Nora Barnacle, nel 1904 si trasferisce prima a Zurigo e poi a Trieste per insegnare alla Berlitz School. (…)
L’Ulysses viene pubblicato nel 1922 da Sylvia Beach, mitica figura di libraia intorno alla quale ruotava gran parte della cultura parigina. Nel 1923 inizia la stesura del suo ultimo libro, ma uscirà solo nel 1939 con il titolo di Finnegans Wake. Nel 1940, affetto da molti malanni, lascia Parigi invasa dai nazisti e si rifugia nuovamente a Zurigo. Muore all’inizio del 1941 dopo un intervento chirurgico per un’ulcera duodenale.

JamesJoyce&SylviaBeachQuella signora lì è Sylvia Beach. Il pirata è Joyce.
(E arriva da qui)

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Kawabata Yasunari nasce a Osaka nel 1899. Negli anni Venti è attivo nei movimenti di avanguardia letteraria attenti alle coeve sperimentazioni europee. Con un gruppo di giovani scrittori e registi fonda la «scuola delle nuove sensazioni» che si proponeva di cogliere la realtà attraverso l’immediatezza delle percezioni. Il suo primo libro esce nel 1926 ed è una raccolta di racconti: La danzatrice di Izu. Nel 1930 è la volta del primo romanzo: La banda di Asakusa (numero 1 di questa stessa collana). Dopo la guerra mette a punto il suo stile piú maturo recuperando in chiave moderna forme e valori della tradizione giapponese. (…) Dopo i suoi piú importanti romanzi degli anni Sessanta (La casa delle belle addormentate, 1961; Bellezza e tristezza, 1965, nei tascabili Einaudi) gli viene assegnato il premio Nobel nel 1968.
Muore a Zushi nel 1972 asfissiato dal gas in casa sua, forse suicida.

kawabataIl frac alla cerimonia del Nobel è sopravvalutato.
(Fotina: qui)

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Bernard Malamud nasce a Brooklyn nel 1914 da una famiglia di ebrei russi immigrati negli Stati Uniti all’inizio del secolo. Il padre gestisce un piccolo negozio di alimentari. Lui studia alla Columbia University e insegna per molti anni nelle scuole serali, a Brooklyn e a Harlem. Nel 1949, quando alcuni suoi racconti sono già stati pubblicati su un paio di importanti riviste, viene chiamato a insegnare nell’Oregon State College. Nel 1959 i racconti del volume Il barile magico vincono il prestigioso National Book Award e lo consacrano fra i più importanti scrittori americani. Nel 1961 si trasferisce con la moglie e i due figli nel Vermont, dove insegna al Bennington College. Negli ultimi tempi, malato di cuore e colpito da un ictus, torna a New York dove muore di infarto nel 1986.

malamudCampanilismo universitario.
(L’articolotto viene da qui).

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Nakagami Kenji è nato nel 1946 a Shingu, a sud-est di Osaka. Apparteneva ai burakumin, gli abitanti dei ghetti destinati da secoli a svolgere i lavori «impuri», legati alla morte e al sangue (macellai, conciatori, becchini). Vivevano isolati ed emarginati, rifiutati dalle scuole, privati dei diritti civili. Sebbene le leggi abbiano abolito la discriminazione di questa parte della popolazione giapponese (pari al 2-3 per cento) dalla fine dell’Ottocento, i vecchi pregiudizi non sono ancora del tutto superati se ancora vent’anni fa schedature dei cittadini di origine buraku venivano normalmente utilizzate da molte aziende per evitare di assumere burakumin.
Nakagami si è trasferito a Tokyo da giovane e ha svolto molti tipi di lavoro manuale. Si è fatto una cultura da autodidatta sviluppando le passioni per il jazz e la scrittura. Nel 1973 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti; nel 1976, con Il promontorio, ha vinto il prestigioso premio Akutagawa. Mille anni di piacere è stato pubblicato nel 1989. Ha scritto per giornali, cinema e televisione. È morto nel 1992, quando ormai era considerato uno dei grandi scrittori del Novecento giapponese. Di lui in Italia è stato tradotto Il mare degli alberi morti (Marsilio 2000).

burakuminE abbiamo anche imparato chi sono i burakumin.
(L’immagine viene da qua).

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Flannery O’Connor nasce nel 1925 a Savannah (Georgia, Usa) da una famiglia cattolica di lontane origini irlandesi. Quando ha sedici anni, suo padre muore per una malattia immunitaria. Dopo la laurea all’Università dello Iowa, vive a New York e nel Connecticut, dove frequenta gli ambienti letterari e inizia a scrivere i primi racconti. A venticinque anni le viene diagnosticata la stessa malattia di cui era morto il padre. I medici le prognosticano cinque anni di vita: ne vivrà quasi quindici. Torna in Georgia dalla madre e, fra un ricovero ospedaliero e l’altro, scrive il suo primo libro: La saggezza nel sangue (1952). Seguono due raccolte di racconti e il suo romanzo più famoso: Il cielo è dei violenti (1960). Muore nel 1964.
Nei suoi ultimi anni, oltre alla passione della scrittura, ha avuto quella dell’allevamento di pavoni. Nella sua fattoria ne ha amorevolmente nutriti e cresciuti un centinaio.

pavoni<3
(I pavoni vengono da qui).

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Juan Carlos Onetti nasce nel 1909 a Montevideo, in Uruguay. Molto presto abbandona gli studi svolgendo i mestieri più disparati, come portinaio o venditore di pneumaticiNei primi anni Trenta sposa in sequenza due sue cugine, prima Maria Amalia Onetti, poi sua sorella Maria Julia. Nel 1939 pubblica il suo primo romanzo, El pozo, che diventa presto un libro simbolo per tutta una generazione di giovani intellettuali anticonformisti. Nel 1941 si stabilisce a Buenos Aires e lavora presso l’agenzia di stampa Reuters. Qui conosce la terza moglie, l’olandese Elizabeth Pekelharing, sua collega di lavoro. Nel 1943 pubblica Per questa notte, nel 1950 La vita breve, nel 1954 Gli addii. Collabora con vari giornali occupandosi di critica letteraria e cronaca politica. Nel 1955 torna a Montevideo chiamato da Luis Batlle Berres, presidente dell’Uruguay e suo vecchio amico. Si sposa per la quarta volta (con Dolly Muhr) e pubblica Il cantiere (1961) e Raccattacadaveri (1964). Nel 1975 si trasferisce definitivamente a Madrid, dove scrive i suoi ultimi libri, tra i quali il romanzo Quando ormai nulla più importa (1993). Muore nel 1994: negli ultimi anni si era autoconfinato nella sua camera da letto rinunciando a qualsiasi vita sociale.

Juan_Carlos_Onetti_perra_Biche_cama_piso_Avenida_America_31_MadridDel cane non conosciamo il nome.
(Ma la foto viene da qui, con un bel saggio).

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Fernando Pessoa nasce a Lisbona nel 1888. Orfano di padre all’età di cinque anni, a sette si trasferisce in Sudafrica al seguito della madre e del suo nuovo marito, console a Durban. Torna a Lisbona nel 1905 e si iscrive alla facoltà di Lettere.
Nel 1907, abbandonati gli studi universitari, apre una tipografia che fallisce in breve tempo. Nel 1908, grazie al suo perfetto bilinguismo inglese-portoghese, si impiega in un’azienda commerciale come corrispondente con l’estero, e sarà questo il suo lavoro per il resto della vita. Contemporaneamente pubblica poesie in inglese e in portoghese su molte riviste letterarie. Nel 1914 crea i suoi piú famosi eteronimi: Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro. Nel 1915, insieme ad altri scrittori e poeti, dà vita alla rivista «Orpheu». Nel 1921 fonda la casa editrice Olisipo, che viene costretta a chiudere due anni dopo per aver pubblicato un libro in difesa dell’omosessualità. Nel 1924 dirige la rivista «Athena». Nonostante la continua pubblicazione di poesie e prose in varie riviste, il suo unico libro a essere edito in vita è la raccolta di poesie Mensagem nel 1934. L’anno prima di morire, nella sua città, per una crisi epatica.

VII-1Ed era anche un signore molto elegante.
(Fotina: da qui).

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Marcel Proust nasce a Auteuil, nei pressi di Parigi, nel 1871. Il padre Adrien era professore di igiene alla facoltà di Medicina; la madre, Jeanne Weil, era di famiglia ebrea. Dopo gli studi al Lycée Condorcet, si iscrive a Legge ma viene assorbito dall’attività letteraria e mondana. (…) Nel 1906 si trasferisce in un appartamento di boulevard Haussmann, fa insonorizzare le stanze per proteggersi da ogni rumore, e porta a compimento il progetto della Recherche. Il primo volume, La strada di Swann, esce nel 1913 a spese dell’autore. Poi, dal 1919 l’editore Gallimard pubblica in sequenza gli altri sei volumi concludendo l’opera nel 1927. Proust, gravemente malato di asma, muore dopo l’uscita del quinto volume, nel 1922.

Monsieur ProustL’immagine viene da qui… e ci troverete anche una corposa collezione di lettere in cui Proust si lamenta del chiasso.

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Juan Rulfo nasce a Sayula, in Messico, nel 1918, in una famiglia agiata. Quando ha cinque anni, i «cristeros», fazione cattolica che contestava le leggi anticlericali della rivoluzione, uccidono suo padre; quando ne ha nove, la madre muore per un attacco di cuore; il piccolo Juan cresce in un orfanotrofio di Guadalajara. Compiuti gli studi medi superiori, si trasferisce a Città del Messico e nel 1936 trova lavoro come funzionario statale all’Ufficio emigrazione. Nel 1944 fonda la rivista letteraria «Pan». Nel 1948 cambia impiego diventando rappresentante di pneumatici. Nel 1952 ottiene una borsa di studio della Fondazione Rockfeller che gli consente di dedicarsi per alcuni anni alla scrittura letteraria.
L’anno seguente pubblica la raccolta di racconti El Llano en llamas. Nel 1955 pubblica Pedro Páramo. Nel 1963  è assunto all’Istituto nazionale per gli studi indigeni, di cui diventa poi direttore. A partire dagli anni Sessanta diventa uno degli scrittori-culto della letteratura ispano-americana. Muore a Città del Messico nel 1986. Dopo El Llano en llamas e Pedro Páramo non ha più pubblicato libri di narrativa, ma ha scritto diverse sceneggiature per il cinema.

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Non sono meravigliose, istruttive ed emozionanti?
Non meriterebbero un drinking-game tutto per loro? “Bevi un bicchiere ogni volta che uno scrittore decide di andare a fare il rappresentante di pneumatici”. “Bevi un bicchiere ogni volta che Onetti si sposa. Se il matrimonio è fra consanguinei, bevi l’intera bottiglia”. “Bevi un bicchiere ogni volta che un autore abbandona gli studi universitari”. “Romanzo postumo? Chi è seduto alla tua sinistra deve bere un bicchiere”.
Cin-cin (in una taverna di Praga) e buone Letture. Che le quarte sono belle… ma i libri, dentro, riescono ad essere ancora meglio.

Avrei una gran quantità di cose da fare, ma la fuffa deve avere la precedenza. Perché l’arte non aspetta, l’arte sgomita e scalpita per farsi largo nella triviale quotidianità delle piccole cose della vita. L’arte è ovunque, e apprezzarla è un nostro dovere, anche quando ci sono di mezzo i cartoni della pizza.
La pizza d’asporto si chiama “pizza d’asporto” anche se, spesso e volentieri, non sei te che la asporti fisicamente dalla pizzeria. Te, che hai il culo pesante e il frigorifero vuoto, chiami la pizzeria e lasci che ad asportarla dal forno sia uno scattante giovane uomo col motorino. Sfidando le intemperie, i rigori dell’inverno, il traffico, i semafori rossi, la nebbia e il calore che – inesorabilmente – tende ad abbandonare la roba da mangiare a una velocità vertiginosa, il coraggioso giovane uomo col motorino apparirà sul tuo zerbino con uno scatolozzo termico pieno di pizza (e una Fanta omaggio, se hai ordinato in un posto che ha aperto da tre giorni). Individuare i pizzari più validi di una determinata zona è un’operazione di importanza capitale. Io e Amore del Cuore, per dire, abitiamo insieme dal mese di settembre dell’anno 2012 e solo dopo innumerevoli collaudi, decisioni difficili e atti di fede degni di Indiana Jones – che cammina su una passerella invisibile sospesa su un abisso senza fondo – siamo riusciti a capire dove è saggio ordinare la pizza. Indipendentemente dalla vostra scelta – più o meno oculata -, però, l’apparizione del giovane uomo delle pizze è sempre motivo di gioia. Io all’inizio mi spavento perché ho paura del campanello, ma poi sono felice come ogni persona normale. Del cibo, c’è una persona che ti porta del cibo. Anzi, della pizza! Cosa c’è di meglio della pizza! Credo sia per questo entusiasmo del tutto spontaneo, naturale e sacrosanto che, quando uno piglia le pizze e le porta sul tavolo, non sta troppo lì a guardare la scatola. Ci sono faccende più importanti da sbrigare. Dove sono i tovaglioli. La birra, la birra ci siamo ricordati di metterla in freezer? Era calda! Le posate, le posate! Non rispondere al telefono, diventa fredda! Ecco perché nessuno si accorge mai dei cartoni. C’è fermento, quando arriva una pizza, bisogna accoglierla, bisogna mangiarla. Si alza il coperchio e buonanotte, il cartone non lo guardiamo. Ma sbagliamo di grosso. Perché mentre noi affettiamo, mastichiamo e sputiamo nocciolini di oliva, anonimi artisti (e conclamati squilibrati) si sfogano sui coperchi, generando mostri e capolavori.
I cartoni della pizza sono interessantissimi.
E posso dimostrarlo.

Qui c’è un pingue cuocone, fiero del suo forno a legna, con dei pomodori che gli gravitano sulla zona inguinale. Ciuffi di basilico decorativo e colori caldi e rassicuranti.

cartone della pizza

In questo secondo esemplare di cartone della pizza, invece, il realismo si attenua. Un signore con le guance da criceto russo e una camicia a quadri simil-tovaglia decide di cacciare in forno un cartone tondeggiante – forma che in natura non esiste – proprio uguale a quello che lo ritrae. Un meta-cartone della pizza, pieno di scritte incoraggianti. LA QUALITA’! LA TUA PIZZERIA DI FIDUCIA!

tegamini pizza cartone tondo

In questo caso, invece, un cuoco baffuto (con un occhio guercio e una mano nei pantaloni) emerge da una pizza gigante per porgerci un’invitante fetta piena di funghetti. E, visto che gli slogan in inglese fanno autorevolezza, ci grida “THE BEST ONE”, con un’arroganza del tutto immotivata.

tegamini pizza the best one

Il pizzaiolo-principessa Disney, aiutato dal suo inseparabile animaletto sorridente. Ci piace pensare che il delfino non venga di tanto in tanto fatto passare per tonno all’olio d’oliva.

tegamini pizza delfino

Qui, invece, il pizzaiolo perde l’obbligatorio baffo a manubrio e si trasforma in uno studente della Bocconi che, stufo di farsi schiavizzare da Accenture (o da un’analoga società di consulenza e sofferenza) decide di aprirsi un ristorantino.

tegamini pizza bocconi

Fregi elfici e cuoco in stile Ratatouille. Di questo cartone andavano così fieri che l’hanno esposto in vetrina.

tegamini pizza ratatouille

Il mio preferito, però, è questo. Perché c’è Obama – circondato da melanzane e floridi pomodori – che si esibisce in un agile virtuosismo con la pasta. Obama.

tegamini pizza obama

Vorrei mangiare pizza tutti i giorni. Ma non solo perché è buona e fa tanto Tartarughe Ninja, ma anche un po’ per imbattermi in nuove rappresentazioni dell’eccellenza gastronomica italiana. Vorrei avere altri esemplari da analizzare, ma c’è un limite alle pizze che possiamo ingerire.
Ma come saranno i cartoni della pizza nelle altre regioni del Bel Paese? Cuochi robusti o cuochi esili? Realismo o rarefatto astrattismo?
Un museo, bisognerebbe buttare in piedi un’esposizione permanente di cartoni della pizza. Insieme possiamo farcela. Gettate la mozzarella oltre l’ostacolo: avete mangiato una pizza da un cartone particolarmente avvincente? E mandatemi una foto, santo il cielo. Il Corriere dell’Alpaca merita una sezione sui cartoni della pizza, con i nostri avvistamenti migliori. Vedete voi come fare. Appiccicatemela su Facebook, TUITTATEMELA (con la chiocciolina @francescapeach, che se no ciao), INSTAGRAMMATEMELA (con la chioccioletta @tegamini, che se no ciaone). E non dimenticate di inserire un esauriente commento da professoresse di storia dell’arte. Costruiremo una torre di cartoni della pizza così alta da sfiorare la cima dell’Olimpo!
Lievito! Gloria! Pomodori! Carciofini!
Prendetemi a cartoni!

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Il mondo potrebbe essere bellissimo.
E invece è pavido e palloso.
Il mondo potrebbe essere confortevole e variopinto.
E invece è pieno di mutande che ti vanno a finire in mezzo alle chiappe.
Vivere è una meraviglia, in teoria. E’ che ci sono dei problemi, spesso e volentieri. Problemi, ostacoli e convenzioni sociali di rara imbecillità. Menate, vicini di casa impiccioni e buona creanza. Gente che sale sul tram senza darti il tempo di scendere. Standard cultural-comportamentali, fumose norme sul decoro e la dignità, completi da consulente pendolare e costrutti artificiosi privi di anima che, tanto per fare un esempio, non consentono a un essere umano adulto di affrontare la giornata indossando una tutina zoomorfa in morbido pile cinigliato. Con la coda, dove serve. Con la coda, il cappuccio e delle grosse orecchie simpatiche.

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I Kigu, gente, la più fantastica invenzione dell’umanità, il punto più alto della nostra parabola evoluzionistica! Siamo andati sulla Luna… e, se mai andremo su Marte, sbarcheremo sul rossiccio suolo alieno con una Kigu-tutina, se mai debelleremo la fame, gli stenti e le zanzare, se mai capiremo dov’è veramente il Molise e troveremo il modo di coesistere in pace, ebbene, lo faremo indossando un Kigu. Rovesciare le dittature, spazzar via i pregiudizi, fare film degni dei libri, mangiare senza sporcarsi, sconfiggere la placca, capire l’arte moderna e mettersi il mascara conservando un’espressione intelligente. Tutto questo potrebbe accadere, se solo avessimo un soffice Kigu!
Come ho fatto a sopravvivere fino a questo momento, senza aver mai sentito parlare dei Kigu? Vegetavo nell’oscurità e nel tormento, ma ora ho visto la luce!

Insomma. I Kigu vengono da questo sito/azienda/fabbrichetta/nobilissima impresa britannica che, nel 2009, ha deciso di provare a diffondere i kigurumi fuori dall’Asia, perché pure il resto dell’umanità li meritava. I kigurumi esistono in Giappone – E DOVE ALTRIMENTI – da decenni e, letteralmente, la parola kigurumi vuol dire una roba tipo “costume da animale”.  Il sito dei Kigu è pieno zeppo di persone come me e voi che vanno in giro vestite da panda rosso o da scoiattolo volante. Così, senza una preoccupazione al mondo. Ora, io non so che scusa abbiano usato questi personaggi qui – ho perso una scommessa! È il mio addio al celibato! Una devastante dermatite mi impedisce di indossare indumenti attillati! -, ma non posso che invidiarli ferocemente. Sono lì, che fanno la spesa con su un Kigu a draghetto, e sono contenti. Sorrisi di totale appagamento. Gioia. Sport invernali e gufini con le ali.

E chi li ammazza.
Ma soprattutto, perché noialtri no? Bisogna adottare una strategia tipo Progetto-Mayhem. Prima ci troviamo in un po’ di gente in cantina, a casa di qualcuno, tutti con su un bel Kigu. Pian piano, poi, Tyler Kigu comincerà ad assegnare dei compiti: regala un Kigu a uno sconosciuto. Ruba i vestiti alla gente in palestra e riempi gli armadietti di Kigu. Ingolfa Tumblr di Kigu-gif. Caccia George Clooney dentro a un Kigu (si sa, l’ENDORSMENT delle SELEBRITIES è importante). Cosa di assoluta importanza, poi, è far capire alla popolazione mondiale che un Kigu non è poi molto più strano di quello che si mette Anna Dello Russo anche solo per portare il cane a fare la cacca. O per affrontare i rigori dell’inverno. Dai, di cosa stiamo parlando. Col Kigu almeno non brini, il 26 di gennaio. E puoi comunque metterti in posa come una bestiolona sexy che sta sempre in braccio ad Anna Wintour alle sfilate. Tié, guarda che magnificenza.

Dopo aver costruito uno zoccolo duro di indomiti cittadini con gli armadi pieni di Kigu, il Kigu-brand dovrebbe pensare a una massiccia campagna pubblicitaria. Ho già in mente il testimonial perfetto: il ragazzino (che ormai avrà finito l’università) di Where The Wild Things Are. Perché lui l’ha già fatto. Lui ci andava in giro tutti i santi giorni, vestito da volpegattino bianco. E gli hanno giustamente dato una corona.

Non solo, ma ragazzino-volpegattino avrà anche il coraggio di difendere i nostri diritti. Salirà in piedi sui tavoli e inveirà con decisione contro chi tenterà di tirarci fuori dal nostro Kigu. VOI, CON LE VOSTRE CAMICIE SCOMODE! VOI, COI VOSTRI LEGGINGS FIORATI! VOI FASHION BLOGGERS, SENZA CALZE NELLA NEVE! Io vi ripudio! Io scelgo il Kigu!

E se la Kigu-rivoluzione fallirà, se nemmeno il ragazzino-volpegattino riuscirà a difenderci dalla tristezza e a costruire una fortezza abbastanza grande da tenerci al sicuro, noi coi nostri Kigu a forma d’unicorno, ecco, vi chiedo di seppellirmici, dentro a un Kigu. E di fare un libro tutto illustrato pure per me.

Kigu, per la gloria!
Amici, vale la pena combattere. Dobbiamo tentare.
…vanno pure in lavatrice.

sochi logo

Durante i miei cinque anni di onorato pendolarismo universitario, io e Sky ci siamo fatti della compagnia, come un anziano signore col suo cantiere preferito. Perché, arrivando da Piacenza e studiando in Porta Romana, la cosa più razionale da fare è scendere dal treno a Rogoredo e pigliare la metro gialla. Rogoredo è un posto che in pratica non esiste, e prima del palazzo di Sky non aveva nemmeno l’orizzonte, c’era soltanto una steppa grigia piena di erbaccia. Poi si sono messi a costruire il palazzo di Sky e, finalmente, ho trovato qualcosa da guardare. E niente, aspettavo il treno e ogni tanto mi giravo per vedere a che punto erano con il mega quartier-generale di Sky. Chissà quanta gente ci sarà dentro. Ma saranno contenti? Boban avrà un ufficio tutto suo? Ci sarà una stanza solo per i tubini neri di Ilaria D’Amico? Come è possibile che tutti quanti abbiano almeno un amico (o un amico di un amico) che lavora da Sky? Tegamini, ma vuoi venire da noi a Sky Sport a commentare la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali? Ci saranno anche delle altre personcine, e poi vi facciamo fare un giro in regia e negli anfratti più nascosti e vi spieghiamo delle cose. C’è pure da mangiare.
Perbacco. Certo che ci voglio venire, a vedere una cerimonia d’apertura a casa vostra.

Dopo essermi sincerata una volta per tutte della posizione di Sochi – è al mare… e immagino che il mare ci sia anche nel logone olimpico ufficiale perché non volevano farsi prendere in giro senza combattere: “Va bene, gente, lo sappiamo anche noi che c’è il mare… c’è il mare, ed è un mare di vodka liscia. Avete ancora da dire?” – e aver salvato sull’iPad di Amore del Cuore una serie di irriverenti creature dei mille colori dell’arcobaleno – da twittare obbligatoriamente ad ogni apparizione di Putin -, ho riempito la borsa di spinotti e aggeggi per tener carico il telefono (finirà, prima o poi, questa lenta agonia?) e sono tornata a Rogoredo. Ma con entusiamo, questa volta. Anzi, superato il magnifico sottopassaggio, sono finita sotto le mura del poderoso palazzo e ho gridato ENTRA IN SKY! …OK, MA DA DOVE? 

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È stato tutto estremamente coccoloso e divertente. Eravamo in questa saletta piena di divani morbidini, con le tv e le focaccette. Sono venuti a trovarci il direttore di Sky Sport – messer Giovanni Bruno -, il prode Giorgio Rocca – che mi ha pure fatto il caffè – e la leggiadra Claudia Morandini, che dobbiamo applaudire – oltre che per l’affabilità e l’imperioso stacco di coscia – anche per un’esauriente panoramica della felice situazione.

Nadia di Gazduna, poi, ha anche avuto l’onore di veder sfrecciare Tomba in corridoio, ma da noi non è venuto perché probabilmente doveva mettersi tantissimo gel nei riccioloni e non faceva in tempo. Messer Rocca, in compenso (E PAPPAPPERO), ci ha fatto anche vedere i tatuaggi a fiocco di neve. Che pazienza infinita.

Comunque.
Prima che potessi cominciare ad ammorbare illustri ex-olimpionici con le mie storiacce da Sci Club
– “Una volta a Borno sono arrivata seconda nello slalom speciale perché tutte le altre sono cadute. Pure io. Ho inforcato alla penultima porta, ma in qualche modo devo essermi girata e me l’hanno tenuta buona. Il mio amico Vittorio, invece, è uscito dal cancelletto con le punte incrociate ed è atterrato di faccia. E a quel punto ha lasciato perdere. Poi, quell’estate lì, ho trovato Michele con le tibie rotte. Eravamo in Marmolada che facevamo i pali di pomeriggio, con la neve sciolta. Anzi, erano i funghetti, mica i pali. C’era il solco, si è incastrato con gli sci sotto al funghetto, ha fatto leva e CRAC, tibie. Gridava da far paura… però, dai, ci si divertiva anche” -, dicevo, prima di far paura a tutti con le mie gloriose imprese allo Sci Club Libertas Bettola – “Oh, una volta mi è cascato uno sci dalla seggiovia” -, ci hanno presi per mano e siamo andati a fare un tour delle regie e di un mucchio di posti pieni di bottoni e schermini a mosaico. C’è anche una selfie collettiva in ascensore. E indovinate un po’ chi è l’unica che non aveva capito dove guardare.

FAAAAAAAAIL.
Qua, però, ci sono un po’ di fotine fantascientifiche. Perché noialtri lavoriamo a una scrivania normale, ma c’è gente che sta in plancia sull’Enterprise.

regia sky

regia sky 2

Sul quinto cerchio che s’incaglia e rimane lì come un carciofino sott’olio, direi che ha già fatto tutto Buzzfeed. Stesso discorso per la tragicomica accoglienza riservata ad atleti e giornalisti: se volete approfondire, ridervela moltissimo e vedere della gente che cerca con tutte le sue forze di prenderla con sportività, c’è il fantastico @SochiProblems. Quando c’è stato il super-segmento Guerra e pace, vi dirò senza vergogna che stavo mangiando delle robe con dentro gli spinaci e non sono stata attenta. Idem per il momento dei monumenti gonfiabili fosforescenti, con la bambina terrorizzata che c’era all’inizio e che, stavolta, è stata costretta a camminare sulle mani di una folla di pagliacci. Ma sulle sognanti mascotte zoomorfe alte dodici piani, però, posso fornire uno struggente documento originale a base di occhi dolci:

mascotte sochi giorgio rocca

Sciatori e conigline di dodici piani. C’è del feeling.
Oltre a tutte queste faccende belle e divertenti, al giro #SkyOlimpiadi è successa un’altra cosa che, ne sono certa, avrà ripercussioni geopolitiche di una certa rilevanza. Ho incontrato tre quarti dei Chiamarsi Bomber Tra Amici Senza Apparenti Meriti Sportivi. E mi hanno regalato una maglietta. C’è scritto sopra 100X100 BOMBERINA e ne andrò fiera finché vivo. Me la metterò quando vado a vedere Amore del Cuore che gioca a tennis, in un profluvio di Bomber di qua e Bomber di là. Che han tutti una gamba di legno e la voglia di correre di un paguro guercio, ma Bombereggiano con orgoglio.

E niente. Mi sono divertita come un fringuello. Sono tornata a casa con qualche tweet buffo, una maglietta da Bomberina e un kit da piccola spettatrice delle Olimpiadi. Ho conosciuto dei personaggi bizzarri, ho applaudito la coerenza degli atleti delle Bermuda in bermuda, ho osato dire che le divise dell’Italia – disegnate da Re Giorgio Armani in persona – sembrano delle tute da benzinaio e ho partecipato a un’operazione collettiva di disturbo della pubblica quiete lavorativa di un numero spropositato di indefessi dipendenti di Sky. Che bello. Ma la facciamo, una gita sugli sci tutti quanti insieme? Messer Rocca, portaci tu. Da piccola prendevo al volo l’ancora sul ghiacciaio del Presena! Sono sopravvissuta a una lastra di ghiaccio di 450 metri, in mezzo a una pineta! Ho fatto La Longia senza mai fermarmi… col telefonino in mano! SONO STATA AZZURRA DI SCI! Portaci, Messer Rocca! Saremo il tuo orgoglio! Intanto che ci pensi, però, vorrei ringraziare Sky per l’ospitalità, per i donini e per tutte le cose nuove che ho scoperto. Avessi incontrato pure ZVONIMIR Boban – anche se gli sport invernali non sono il suo campo – piantavo la tenda nel pratino in mezzo ai palazzoni di vetro, con vista su Rogoredo e una bandiera piena di minipony arcobaleno che nitriscono in cirillico.
Grazie. E infrastrutture olimpiche – funzionanti – a tutti!

Ebbene. Le Matrimoniadi procedono. Cioè, ho addirittura trovato il vestito. Avrò tutto. Pizzo, tulle, organza di seta, velo, coprispalle, tutto. Farò provincia. Attirerò stormi di candide colombe (opportunamente provviste di pannoloni e di spade laser anti-gabbiani), l’intera corte di Asgard precipiterà sul sagrato della chiesa surfando sul Bifrost e una carrozza trainata da dodici alpaca cotonati ci porterà dove ne abbiamo voglia. Mi piacerebbe da matti sbandierare un po’ di foto dell’adorato abito, ma non posso. Amore del Cuore è un assiduo visitatore di Tegamini, dopotutto. E poi, anche volendo ignorare la leggenda – se lo sposo vede il vestito della sposa prima del matrimonio, la sposa dovrà passare il resto dei suoi giorni con l’herpes, la pellagra, il tifo petecchiale, la depressione e una gamba di legno -, dicevo, anche volendo non potrei far vedere niente a nessuno, perché il mio papà – aizzato dalla superstiziosissima MADRE – si è categoricamente rifiutato di mandarmi i DAGHERROTIPI scattati nel mirabile atelier. Insomma, dovrete avere pazienza. Quello che mi preoccupa, sul fronte abito, è che ho cambiato pillola e le tette mi sono aumentate di volume. Ma in un mese. BAM! Non ho idea delle ripercussioni che questa faccenda avrà sul mio abito su misura di stellare sartoria, ma – alla bisogna – risolverò ogni cosa con una plateale crisi isterica tipo Abito da sposa cercasi, e buonanotte. Insomma, avrò diritto a un esaurimento-nervoso-lampo. Sono la sposa meno stracciapalle del mondo, fatemi agitare un po’, che vi costa.
Comunque, questa domenica ci siamo cimentati con la prova-catering, nel piovoso e sempretetro Piacenzashire invernale. C’eravamo noi Tegamini del Cuore, il mio papà+MADRE e Il Maurizio e La Paola, gli adorabili futuri suoceri. MADRE, dopo un millisecondo di affabilità, si è immediatamente offesa perché le ho detto che si era messa in testa una molletta che somigliava a una cozza gigante. Nonostante tutto, però, ci siamo dilettati assai. Ci hanno portato svariate tonnellate di tortelli, spassosi risotti, pezzi di carne di gran bontà e badilate di gnocco fritto col salume. Sono fiera del mio autocontrollo: quando ho mandato la mail al Signor Catering indicando quello che volevamo assaggiare, non ho scritto solo GNOCCO FRITTO E SALUMAZZO. E, col senno di poi, ho fatto bene.

miao cateringCATering.
Lo so, è pessima.

Comunque. Ci sarà questo allegro buffet con le isole dei cibotti diversi, e poi si andrà tutti a tavola. MADRE – che non ama mangiare, non ama bere e, in generale, non ama la gente che si diverte – ha immediatamente devastato un’affabile cameriera con la seguente risposta:

AFFABILE CAMERIERA – Signora, per lei acqua naturale o frizzante?
MADRE – Leggermente frizzante.

A intervalli regolari, poi, qualcuno interveniva per ordinare ad Amore del Cuore di tagliarsi i baffi – in momenti del tutto incongrui:

SIGNOR CATERING – Se non volete l’isola degli stuzzichini, possiamo fare solo un po’ di bruschette al pomodoro.
IL MAURIZIO – E magari l’antipasto di pesce lo serviamo al tavolo.
SIGNOR CATERING – Esatto. E possiamo aggiungere dell’altro salume, volendo.
LA PAOLA – Sì, ma Marco deve tagliarsi i baffi.

Il mio papà ha passato buona parte del pranzo a ricordare a tutti che i nostri parenti sono in larga parte defunti, MADRE ha reso noto ai presenti che lei il burro nei tortelli non lo può tollerare e, cosa ancor più sacrilega, Amore del Cuore – ad un certo punto – ha incautamente deciso di aprire uno dei video che Ermanno, il suo ex-compagno di banco, aveva allegramente condiviso con il gruppo Whatsapp dei gagliardi compagni di classe delle superiori. In questo video c’è un pupazzo che bestemmia. Fortissimo. E senza ragione. Immaginatevi questo ristorante vuoto e immacolato, coi sottopiatti d’argento e sei bicchieri a cranio. Ci siete voi – piene di boccoli -, con i vostri genitori e i futuri suoceri. E il vostro fidanzato – in giacca, camicia immacolata e scarpe da ragazzo serio regalate dalla sottoscritta a Natale – vede un pupazzo apparentemente innocuo e schiaccia PLAY.
Pure il cuoco si è affacciato, pallido come un grembiule nella tempesta.
MADRE ha esclamato Perbacco!
Il mio papà ha commentato a tono, con un deciso E la Madonna!
Il Maurizio ha riso un sacco.
E La Paola ha ordinato a suo figlio di tagliarsi i baffi.

Insomma, video di Ermanno a parte, ci siamo divertiti e abbiamo deciso miriadi di cose utili. C’è affetto, reso ancor più sincero e fiammeggiante dalle assurdità. E, faccenda importante, alle Matrimoniadi ci sarà da mangiare. Compresa la spaghettata delle due del mattino:

TEGAMINI – Le volevamo chiedere, poi, se si poteva portare ancora qualcosa più tardi, verso fine serata.
AMORE DEL CUORE – Che si balla, magari bevono un po’ e uno spuntino ci sembrava ragionevole.
SIGNOR CATERING – Non c’è problema. Due pennette all’arrabbiata. Un’aglio e olio…
TEGAMINI – Perfetto, molto bene.
MADRE – …ma che schifo.
TEGAMINI – MADRE, te sono trent’anni che non esci di casa. Le persone si muovono, si divertono, si agitano. Ti viene fame, a un certo punto, ma anche se hai cenato. Siamo in campagna, non è che possono andare dalle Luride a farsi un panino. Facciamo portare due spaghetti, che la gente non viene mica per patire, al nostro matrimonio.
MADRE – …IABBO’.
TEGAMINI – E’ inutile, non ti si può spiegare niente. Finirai nel Girone del Kebab. Anzi, del Kebab CON TUTTO.
MADRE – Marco, ma la senti?
AMORE DEL CUORE – Eh, signora, lo so.
MADRE – …devi proprio tagliarteli, quei baffi.

HER

Il mio papà ha un rapporto fantastico con la tecnologia. Il giorno della mia Prima Comunione, tanto per farvi capire, nell’unica foto che ha scattato volentieri ci sono io, col vestito bianco e le maniche a sbuffo, seduta davanti a un 486 che fingo di essere un genio. Il mio papà ama così tanto la tecnologia che, quando uno dei suoi PC si rompe o si pianta, lui è contento, perché così può smanettarci dietro per giorni per risolvere il problema. La vera svolta, però, è arrivata con l’iPhone. L’ammirazione che il mio papà nutre per chi ha saputo inventare, assemblare e far funzionare una roba del genere sfiora il misticismo. E, ora che ha anche un iPad, è tutto più interessante. Si è addirittura rimesso a parlare con Siri, che giace inutilizzata e comatosa nelle profondità del suo telefono da tempo immemore. E le parla, le chiede le cose, si diverte un mondo a sentire come gli risponde. Ed è come se la incontrasse per la prima volta… su una spiaggia al tramonto. Violini. Balene canterine. Petali. Manghi. E la seguente telefonata.

TEGAMINI – Allora, come procede con l’iPad?
IL MIO PAPA’ – Ah, benissimo. Pensa che ieri eravamo in campagna e ho fatto un po’ di foto col telefono… poi ho acceso l’iPad ed erano già lì!
TEGAMINI – Un prodigio!
IL MIO PAPA’ – Ma non mi ha neanche chiesto se volevo sincronizzare, ha fatto tutto da solo.
TEGAMINI – Sia lodato il Cloud!
IL MIO PAPA’ – …poi c’è Siri. Ad un certo punto volevo vedere se mi riconosceva. E allora le ho chiesto “Siri, chi sono io”?
TEGAMINI – Per quel genere di cose devi installare iSensoDellaVita, secondo me.
IL MIO PAPA’ – E lei mi ha risposto “Domenico, devo dirtelo io?”. Domenico, perché sulla Apple sono registrato così…
TEGAMINI – Papà, lo so che ti chiami Domenico.
IL MIO PAPA’ – Poi c’era tua madre che era agitata perché ieri sera non hai chiamato…
TEGAMINI – Puoi spiegare a MADRE, una volta e per sempre, che anche il suo telefono ha la facoltà di inviare chiamate? Se è lì, schiacciata dalla preoccupazione e dal terrore, perché non chiama lei, invece di lamentarsi che non chiamo? E ricordiamoci che vi chiamo DUE VOLTE AL GIORNO.
IL MIO PAPA’ – Eh, ma lo sai com’è fatta lei.
TEGAMINI – Male, è fatta.
IL MIO PAPA’ – Comunque, dove sarà la bambina? E che cosa sarà successo, che non chiama? E che fa? Insomma, ho detto a Siri di cercarti, così almeno taceva.
TEGAMINI – …ma è perché deve pagare la telefonata? No, perché non capisco proprio.
IL MIO PAPA’ – Ma no. Ho detto a Siri di cercarti. Le ho detto “Dov’è mia figlia?”
TEGAMINI – Papà, ma che cazzo ne sa Siri di dove sono?
IL MIO PAPA’ – Solo che non lo sapeva che eri tu mia figlia. Allora le ho detto di cercarti col nome della rubrica: “Siri, dov’è Bimba?”
TEGAMINI – Dio Onnipotente. Ma telefonatemi. Telefonatemi se volete sapere dove sono. Cosa chiedete a un’intelligenza artificiale di localizzarmi?
IL MIO PAPA’ – Massì, era per divertirci. Aspetta che ti passo tua madre che se no si offende perché dice che parli sempre con me e con lei mai.
TEGAMINI – Per forza, o si lamenta o mi fa dei versi inarticolati!
IL MIO PAPA’ – Eh, va così. Aspetta che te la passo.
MADRE – GHEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!!!
TEGAMINI – …….FRUUUUU?
MADRE – GHEEE! …Allora?
TEGAMINI – Niente. Adesso vado a pranzo. Te che fai?
MADRE – Tuo padre continua a parlare con quella roba lì, nel telefono. Io la chiamo Ninetta.
TEGAMINI – Siri? Te Siri la chiami Ninetta?
MADRE – Già. Perché Ninetta è un nome da cameriera.

Dopo aver abbandonato la casa di MADRE e papà, ho abitato – certe volte per poco e certe volte per molto – in tre grandi e nobili città. Le metropoli in questione sono New York, Torino e Milano.
A New York ci sono rimasta per tre mesi, che poi ti scade il visto turistico, che è quello che scegli di usare quando sei una stagista che deve tornare in Italia per laurearsi. A New York abitavo in un posto surreale e struggente, una specie di palazzo per femmine che studiano e lavorano, vicino alla Penn Station e al Madison Square Garden. Si chiama Webster Apartments, ed è una via di mezzo tra un college, un albergo, una casa di tolleranza e un ospizio. Pagavi poco meno di mille dollari al mese e avevi la tua stanza, la colazione, la cena e le pulizie. Mille dollari al mese possono sembrare una bestemmia, ma per gli standard abitativi della sfarzosa Manhattan è praticamente un dono del cielo.

Il Webster era stato inventato negli anni Venti dal signore dei grandi magazzini Macy’s, come rifugio sicuro e accogliente per le giovani donne volenterose che si spostavano nella Grande Mela per inseguire i propri sogni. Io ci sono stata nel 2009, e il regolamento era ancora quello degli anni Venti. Gli uomini li potevi far entrare, ma non salire ai piani. Ci potevi bere un tè nei salotti comuni, li potevi far venire giù a mangiare, ma se un maschio tentava di prendere un ascensore per avventurarsi nella tua camera, veniva giustiziato sul posto da un energumeno russo. Insomma, scopare era categoricamente proibito, in compenso – però -, si potevano fare un sacco di altre cose pericolose e infiammabili, tipo fumare in stanza, gettarsi dal tetto, far scadere scatole di cereali nell’armadio, fare la cacca nei bagni comuni o decidere di abitare in quel posto per tutta la vita. C’erano ragazze giovani e piene di speranza tipo me e poi c’era un plotone di settantenni e ottantenni col deambulatore. C’erano divorziate rancorosissime che non sapevano dove altro andare. C’erano matte che non uscivano mai dalla loro camera.
Comunque, a parte l’assurdità della situazione, una roba che non ha mai creato problemi è il bucato. Sul mio piano c’era la lavanderia e te andavi col tuo sacco pieno di roba puzzolente, pigliavi un misurino dell’economicissimo detersivo Tide e cacciavi tutto nella prima lavatrice libera. Poi ti ritiravi nella tua stanza, facevi un po’ di sudoku e, dopo un’oretta, tornavi indietro e traghettavi i tuoi poveri panni nell’asciugatrice. E avevi fatto il bucato. Piegavi e via, i tuoi sei metri quadri di spazio vitale erano salvi.

Poi, niente, mi sono trasferita a Torino. Quartiere San Paolo, una camera da letto che ci stava dentro solo il letto, un minibagno, un minicorridoio e una cucina-ingresso-stanza-per-vivere-quando-non-stai-dormendo. Dopo un annetto e un po’, mi sono spostata verso il centro (si sa, quando si fa una carriera travolgente nel settore dell’editoria è importante abitare vicino ai bar) e ho perso una stanza. Quella casa lì era grande come camera mia a Piacenza e, volendo, potevi pure ribaltare il letto dentro al muro, tipo Quagmire. Non c’era nessun posto dove andare, in quella casa. E continuavo a non avere un balcone. Lì almeno c’erano due finestroni che facevano entrare un po’ di luce, ma mica potevo attaccare un bastone alla ringhiera e stendere le mutande col pizzo su Corso Re Umberto. Quell’anno lì mi si congelò la caldaia e, tempo dopo, augurai la morte alla padrona di casa, tra me e me. Avete presente quelle quarantenni che vanno a fare la piega ogni due giorni, non hanno bisogno di lavorare, sono sempre stressatissime perché devono andare a prendere i bambini a scuola (e basta) e si strappano gli adduttori al corso pomeridiano di zumba? Le mamme ricche con le Hogan. Non affittate mai una casa da una mamma ricca con le Hogan. Se hai un problema non ti sapranno aiutare, ma ti faranno le pulci sul tubo della doccia. “Guardi, signora, le lascio in casa una libreria e una scarpiera… il docciatore, con tutto il rispetto, costa 8 euro e ci può anche pensare da sola”. La mamma ricca con le Hogan ti fa un favore ad affittarti la casa, lo fa di malavoglia, fingerà di aver imbiancato e ti vesserà con ogni genere di pidocchioso adempimento (spesso facoltativo)… ma non lo fa perché sa che cosa sta succedendo o perché ci tiene. Lo fa perché glielo ordina un sadico agente immobiliare che il marito le ha messo vicino, ben sapendo di aver sposato una cretina.

Comunque, ora abito a Milano e la nostra padrona di casa è una nobildonna genovese con tredici cognomi che, periodicamente, mi chiede di mandarle delle foto del mio gatto. E’ una persona adorabile. L’antica nobiltà sconfigge le parvenu con le Hogan 1789 a 0. Ha delegato tutto – di sua sponte – a una solerte agenzia che, in caso di rogne – per ora ci si è liquefatto un lavandino IKEA, con conseguente accumulo d’acqua che ha fatto corrugare il parquet della cucina, creando un sorprendente effetto zattera-pirata – interviene con piglio e decisione. La signora Eliodora, dopo aver riconosciuto che, in effetti, poteva scegliere un lavandino migliore e/o far montare un lavandino mediocre da un idraulico sobrio, ha pagato le riparazioni, compresi gli incredibili puntellamenti e incollaggi del parquet, con la pacifica rassegnazione dei veri mecenati. E Ottone le piace un casino.

Comunque.

A parte il netto miglioramento nei rapporti locatario-locatore e la felicità di quest’ultima soluzione abitativa (c’è Amore del Cuore, i metri quadri sono aumentati, c’è una lavastoviglie), anche qui a Milano – e forse anche peggio che a Torino -, il disagio da stendino non si placa. Non c’è il balcone, la “lavanderia” è angusta, e non stiamo in uno di quei palazzi dove tutti si accampano sul ballatoio e si fanno le treccine, coi tendoni di plastica verde che scrocchiano al vento, a tempo coi bonghi. Fai il bucato e stendi in salotto. Hai da stendere le lenzuola? Peggio per te, dovrai tenerti in mezzo al soggiorno una specie di catafalco umidiccio e ondeggiante, una roba imponente e minacciosa che, se per caso devi andare a fare la pipì nel cuore della notte senza accendere le luci e ti sei dimenticato che ce l’hai lì in mezzo a casa, ti farà anche venire uno stramlone.
Ora, non so voi, ma qui ci garba andare in giro con la roba pulita, ed è un festival perenne della lavatrice. Ho addirittura comprato un secondo stendino all’IKEA, un affare bianco, a tre piani, con dei bracci rotanti e una bizzarra struttura a libro. Appena entri in casa lo vedi. Lo vedi, in qualsiasi modo. Sta lì, pieno di calzini, come un parente rancoroso che ti mette in imbarazzo al pranzo di Natale: allora, come andiamo? Abiti sempre in quello strano stanzone col soppalco? Ah, certo. Io non credo che ce la farei. Insomma, è anche vero che sei a Porta Venezia, ma come si fa a cucinare di fianco al bucato. Bisognerebbe rispondere con un perentorio FOTTITI, IO VADO SEMPRE AL RISTORANTE, ma evito di mentire, quando posso.

stendino della malora
Insomma, lo stendino sta diventando il simbolo di ogni fallimento, ti fa ricordare che la vita è effimera e che non ti pagano abbastanza. Ti fa sentire in povertà, lo stendino, come il campeggio… una roba che hai accuratamente evitato anche quando ci andavano tutte le tue amiche del catechismo. Ma dai, in tenda agli scout ci si diverte un casino, vieni anche tu, siamo nel gruppo dei Furetti! Col cavolo, vacci te a fare la cacca in un buco scavato nella foresta. Sono troppo vecchia per avere uno stendino in mezzo a casa. Mi muovo troppo scompostamente per non urtarlo ogni volta che passo. Dietro allo stendino c’è questa piccola libreria bellissima che mi ha regalato Amore del Cuore al compleanno… E NON LA VEDO MAI, MALEDIZIONE! Oh, permesso, ma che buon odore di bucato che c’è in casa! PER FORZA, HO SEMPRE LO STENDINO IN SALOTTO.

Mi arrabbio sempre, ultimamente.
Credo sia una mezza sindrome di Mary Poppins. Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto. E il salotto appartiene a me. Me lo merito, un salotto. Ho finalmente un divano. Era dal 2009 che non avevo un divano. E’ scomodo, i cuscini si spostano ed è color cacchetta, ma è un divano. Quanto ancora dovrò attendere per non vedere più il diamine di stendino in mezzo ai piedi? Io non lo so. Ma voi come fate? Sono l’unica che vuole accendere un mutuo per avere una camera da destinare unicamente allo stendino? Un tempio, gli posso anche erigere un altare votivo, basta non trovarmelo più nei coglioni. E adesso che ne ho due, di stendini, faccio lavatrici a rullo, perché così non mi si accumula la roba sporca. E GLI STENDINI CHE MI INGOMBRANO L’ANIMA SI MOLTIPLICANO!

Ho bisogno di aiuto.
Ho bisogno di un castello.
Con dei terrazzamenti baciati dal sole.
Con le mura merlate.
E in cima alle mura ci metterò centinaia di stendini.
E ballerò nel mio salone. Finalmente vuoto.
Senza neanche un paio di calzette che cercano di asciugare.

La cabina armadio è sopravvalutata. Lo “studio” non è niente. La vera ricchezza è la stanza in più per lo stendino. Anzi, sono pronta alla conversione. Sono pronta a credere in qualcosa di bellissimo, di innovativo, di civile. Finalmente so che cosa voglio. IO VOGLIO L’ASCIUGATRICE.
…solo che di là non mi ci sta.
Manco quella.
Mai una gioia.
E poi si muore.

Maleficient poster

Sono emozionata, dai. È un mio diritto, anagraficamente parlando. E lo sa pure la Disney. Maleficent non lo fanno mica per le bambine che sono piccole adesso. Lo fanno per le ex-bambine tipo me. Perché noi c’eravamo, quando Malefica prendeva a rovi in faccia il principe e sputava fuoco verde a destra e a sinistra e augurava ogni sventura a innocenti principessine neonate. E le entrate ad effetto? Parliamone. Prima di vederla sul serio, c’erano sempre almeno cinque minuti di questa ombra lunga e cornuta che si avvicinava, implacabile. A me faceva paura per davvero, diamine. E la rispettavo profondamente. Voglio dire, trasformatevi voi in un drago. Terrorizzatelo voi un intero regno, senza manco rovinarvi la manicure. A noi sceme un corvo non darebbe mai retta, ci farebbe la cacca su una spalla e ci mangerebbe un occhio. A noi il viola sta male, ci sbatte. A Malefica no. È è la cattiva Disney con la miglior coordinazione tra rabbia e ondeggiamenti furiosi del vestito. Un mantello antigravità. Quando Malefica si arrabbia e agita i pugni per aria, tutto quanto il mantello si arrabbia insieme a lei. In pratica le levita attorno, bello puntuto e minaccioso. Che lei peserà quindici chili, ma con quel mantello lì sembra grossa come un continente.

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Niente, volevo dire che sono contenta che facciano questo film. E anche Angelina Jolie mi garba, come Malefica del cuore. Ha gli zigomi adatti, per un ruolo del genere, ma anche prima dei ritocchi digitali. Con quegli zigomi lì ci si può affettare il kevlar. Gli zigomi sono tutto, nella vita. Sono contenta, molto curiosa e anche un po’ preoccupata. Perché mi piacerebbe tanto che questo Maleficent non fosse una divagazione inutile. Sarebbe bello se avesse una storia bizzarra e intelligente. Se ci fosse qualcosa di interessante, oltre all’Angelina che fa la strega sbruffona e ci insegna come si trascina in giro un costume meraviglioso con uno strascico che arriva fino a casa vostra. È plausibile aspettarsi un qualche cosa, da questo film? Cioè, stiamo parlando dei miei ricordi d’infanzia. È una faccenda seria. Se non ho mai imparato a cucire è anche un po’ colpa della Bella Addormentata. Le fiabe sono importanti, ti rovinano per sempre. Ti convincono che puoi parlare coi coniglietti del bosco e roba del genere. Vorrei del sacro rispetto, per la Malefica che mi ricordo io. Magari anche un po’ più di ombretto sulla faccia di Angelina. O uno zigomo-party per il lancio del film, con uno che mi prende, mi trucca e mi caccia in un costume da Malefica… abbiamo bisogno di crederci. Abbiamo bisogno che il corvo parli. E che i rovi siano un po’ più belli e spaventosi, mica quei cavolfiori cicciardi che si vedono nel trailer. Perché siamo diventate più grosse, alte e piene di occhiaie, ma ci ricordiamo vagamente come si stava bene da piccole. E i film come questi servono a farcelo tornare in mente sul serio. Va bene, Disney? Vi siete segnati tutto? Anche le fate madrine sono orribili. Date una bella sistemata generale. E lavorateci sul serio, al party. E invitateci, che poi va a finire in un disastrone sanguinario, come il battesimo di quella narcolettica di Aurora. Ok? Stiamo tranquille? Ci fidiamo? Perfetto, allora, fateci vedere una cosa fatta bene. E tante care cose. That’s all…

maleficent

walter mitty torta

Animata da un’incomprensibile fiducia, sono andata a vedere I sogni segreti di Walter Mitty, storia di un omino che non possiede maglioni e si mette la giacca a vento direttamente sopra la camicia, ma in serenità, senza strati intermedi. A parte quello, Walter Mitty lavora alla rivista LIFE – in qualità di GesùCapo dei Negativi Fotografici – e ha l’abitudine d’incantarsi come un barbagianni, sognando mirabolanti avventure ad occhi aperti. Ama in silenzio Kristen Wiig – quell’attrice che fa tanto ridere e che, probabilmente, una mattina si è svegliata con l’impellente bisogno di fare un film pieno di cuore e sentimento, così, tanto per non restare intrappolata nell’angusta categoria delle simpaticone a tutti i costi – dicevamo, Walter Mitty ama in silenzio questa sua collega – in stage a 50 anni, tipo – e coltiva una solida e fraterna relazione professionale con Sean Penn, il fotografo più geniale del mondo, uno che non sta mai fermo, un eroe del reportage, uno che potrebbe fare bunjee jumping appeso a un cavo elastico fabbricato con le budella di un muflone andino, uno che risale le cascate coi salmoni e si fa incatenare sull’ala di un biplano per volare in mezzo a una nube di cenere bollente. Comunque, il film parla di questo Walter Mitty che, all’improvviso, deve scrollarsi di dosso il grigiore della pavida esistenza che si è ritrovato a condurre per tuffarsi a testa avanti in quei mondi fantastici che ha sempre avuto solamente il coraggio di immaginare. Squilli di tromba! Longboard! Baratti con ragazzini imbecilli! Groenlandia! Partite di calcio al tramonto con simpaticissimi abitanti delle steppe! Una vita degna di essere vissuta!

walter-mitty-sean-penn

Ora, per carità, son tutte cose belle, buone, giuste e condivisibili. Il film finisce, te ti alzi, raccatti le cartacce, ti metti il cappotto e senti della sincera contentezza per Walter Mitty. Nonostante ciò, proseguirai per la tua strada continuando a fottertene spavaldamente del buon Walter, dei suoi problemi e delle sue allucinazioni aspirazionali. Perché è noiosone, questo film. Ci sono un casino di bei paesaggi e una simpatica gag con uno squalo, ma dopo un po’ uno si rompe anche le balle. Almeno, io che ho un cuore di pietra ho cominciato a sbadigliare quando ancora Ben Stiller – regista e interprete di questo tenerissimo film non proprio necessario – stava a New York a raddrizzarsi il fermacravatta. Al ventesimo luogo comune sul senso della vita, però, ho scagliato la borsetta in terra, ho accavallato le gambe e, con la bocca piena di pop-corn – che qualcosa devi anche fare, al cinema, se ti stai solennemente tediando – ho esclamato:

MA SANTO IL DIO, BEN STILLER, MA NON POTRESTI USARE UN PO’ MEGLIO IL TUO TEMPO? CHE NE SO, FACENDO ZOOLANDER 2, INVECE DI QUESTA MINESTRINA DI WALTER MITTY? CHE SENZA WALTER MITTY  STIAMO BENE UGUALE, MA NON SO QUANTO POTREMO ANCORA RESISTERE SENZA ZOOLANDER 2, DIAMINE E FULMINI!

Walter Mitty è una specie di film-caramella, una giuggiolona già ciucciata da qualcun altro, magari mentre ammirava una pietraia islandese baciata dal sole del meriggio, tra una sorgente termale e l’altra. Zoolander, invece, è pura gloria! Zoolander è necessario! Serve! Zoolander è importante! Altroché imbambolarsi in mezzo a un ufficio con una torta in mano… vogliamo Mugatu!
Cioè, guardiamo questa faccia, per cortesia. Fermiamoci un momento e osserviamola con attenzione.

walter mitty

Questa faccia, così com’è, con quell’aria lì da idiota sapiente che va al campeggio, non ci serve a niente. Ci serve una faccia da idiota conclamato che fa la Magnum. Ci serve un Sirenetto! Vogliamo vedere la nuova collezione DERELICTE! Abbiamo bisogno di applaudire l’inventore della cravatta-tastiera! Altroché fotografi filosofi che fuffeggiano sul cucuzzolo di un picco himalayano, ma che ci frega! Dove sono i manisti con le estremità protette da mini-camere iperbariche?

Ahhhh!!

zoolander_hypnotize

Potevi non dirci niente, Ben Stiller. Potevi non dircelo che avevi cominciato a lavorare a Zoolander 2. Così noi non ci agitavamo. E invece no. Sono anni che si parla di chi ritornerà nel cast, della sceneggiatura che è pronta e poi non è vero che è pronta, di si fa/non si fa/chi può dirlo e via così, tutti a rotolare in giro, travolti da un tornado di dubbio, incertezza, tentennamenti e titubanze che spezzano il cuore. Taci, no? Ce lo vieni a dire quando lo sai, maledizione, così possiamo sorbirci il resto dei tuoi film – che, ci spiace, ma mai potranno eguagliare un capolavoro come Zoolander – senza contorcerci e adirarci per tutto il tempo che stai perdendo dietro a questa roba che non ci serve, mentre – invece – potresti deciderti una volta e per sempre a finire ciò che il mondo brama. E non peggiorare le cose con dichiarazioni di questo tenore:

What’s the latest on Zoolander 2? Will it ever happen?

Right now, it’s on hold. There’s a script we like, but I don’t want to force it, because people who love that movie really love it, so I want to make sure we do the sequel the right way. Mike Myers did it well with the Austin Powers movies – they were all funny, and very ‘of their time’. And Zoolander is ‘of its time’, too, so it’s about how we could bring it up to date, to the present day.

Presumably, Derek will be rolling out ‘Blue Steel’ again in the sequel…

Not ‘Blue Steel’ again, no. He’s got a new look. I think part of the sequel will be about how the fashion world moves so quickly. So, the movie will begin at a time when the whole world has moved on from Derek and Hansel because they’re so ancient history. It’s about them having to reinvent themselves and try to become relevant again.

Ci devi lavorare? MA VA. Bisogna farlo bene, che se no ci innervosiamo? MA VA. E serve del tempo, per produrre questa cosa ben fatta? MA VA.
E allora smettila di sperperare i tuoi giorni in menate marginali! Impegnati, invece di propinarci dei Walter Mitty che manco capiscono come si mette un maglione, figuriamoci se sanno come funziona la haute-couture! Maledetto Ben Stiller! Fatti incatenare da Milla Jovovich a un albero maestro rivestito di piumino Moncler! Esaudisci i nostri sogni più imbecilli!

Aaaaahhhhh!

Stavo bene, più o meno, e adesso sono arrabbiata. Mai una gioia. Mai. Basta, mandate a chiamare la mia carrozza, non posso resistere un minuto di più.

mugatu

Perché la verità è che Ben Stiller è uno stronzo. E ci odia. Noi e il Primo Ministro malese.