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GRAVITY

Da piccola, per far contento il mio papà, dicevo che mi sarei laureata in ingegneria aerospaziale. Avevo letto da qualche parte che per diventare astronauta bisognava studiare quella roba lì. Ero molto lanciata, sulla storia dell’astronauta. Dopo la prima pagella del liceo scientifico, però, ho capito che non sarebbe andata a finire proprio benissimo, nonostante la mia sincera ed entusiastica fascinazione per lo spazio. Il fatto è che coi miei voti nelle materie d’indirizzo ci si poteva evocare il demonio. 6 in matematica. 6 in scienze. 6 in fisica. E 9 da tutte le altre parti. Per cinque anni. Che uno dice, succede un anno solo, può essere stato un incidente. Macché, cinque anni a far riemergere Satana da un abisso fiammeggiante. Non ne vado fiera, ma è andata così. Solo parecchio tempo dopo il mio papà ha avuto la forza di ammettere l’evidenza: obbligarmi a fare lo scientifico è stato un insulto contro Dio. Non c’è niente di più blasfemo del vedermi seduta lì che cerco di risolvere un integrale. Alla fine sono uscita con 95 lo stesso, dal liceo, ma se potessi tornare indietro e gridare qualcosa alla piccola me di terza media, griderei più o meno un MANDALI A STENDERE E SCAPPA DI CASA. E SFASCIA PURE IL PIANOFORTE.

gravity-debris

Comunque.
Nonostante la mia totale impermeabilità a qualsiasi genere di nozione fisica, adoro le imprese spaziali, voglio un bene dell’anima ai rover che vagano su Marte e, Lost in Space a parte, amo la fantascienza – sia quella fanfarona e sparacchiona che quella più “realistica”. La minuscola me che voleva fare l’astronauta, probabilmente, non si è ancora rassegnata. Ed è dunque con questo spirito (e con le poche informazioni fisico-gravitazionali ricavate da Angry Birds Space… gioco in cui, per altro, sono una pippa) che sono andata a sedermi di fronte a Gravity di Alfonso Cuarón. Con tanto di pop-corn.


da this isn’t happiness

E va bene. Ci sono un mucchio di robe che nello spazio non funzionano come nel film. E se me ne sono accorta io, vuol dire che sono cazzate grosse grosse.
E va bene. Sandra Bullock ad un certo punto si mette a ululare e ad abbaiare come un cane, il che non è proprio una trovata brillantissima, a livello di sceneggiatura e approfondimento del personaggio.
E va bene anche che vederla sopravvivere alla prima pioggia di sfiga-frammenti-orbitanti (in compagnia, per giunta), è già qualcosa di eccessivamente incredibile… figuriamoci poi il resto.
E va anche bene domandarsi come sia possibile che un medico dell’ospedale con sei mesi di addestramento astronautico sia lì che armeggia con Hubble come se fosse il frullatore di casa sua. Per non parlare di quello che riesce a fare dopo.
E anche a me è parso bizzarro che lo Shuttle, la Stazione Spaziale Internazionale e la Stazione Spaziale Cinese fossero lì tutti belli vicini, alla stessa altitudine e serenamente visibili a occhio nudo.
E le traiettorie di rientro? Cioè, è un attimo trasformarsi in orride palle di fuoco. Non si può mica precipitare a casaccio.
E quel qualcosa che non convince-convince quando George Clooney ti piglia al guinzaglio nello spazio e ti tira in giro.
Per non parlare dell’inverosimile sicumera e della totale assenza d’agitazione dell’astronauta Clooney, in modalità rassicurante-gattone-caffé-Illy-in-vena-di-chiacchiere.

Ecco, va bene tutto questo (e pure qualcosa in più). Ma a me Gravity è piaciuto moltissimo lo stesso. Sarà che ho una spiccata attitudine alla sospensione dell’incredulità, sarà che mi sono lasciata rincoglionire dall’aurora boreale, sarà che ad un certo punto ero così in ansia che mi andava bene pure Sandra Bullock rimbambita che ulula, ma mi è proprio sembrato di assistere a un degno spettacolo. Mi è quasi venuto da dire “ecco, è per queste cose qua più giganti della vita e anche del pianeta Terra, che uno decide di andare al cinema, certe volte”. A parte la meraviglia visiva di quel che c’era e il perenne interrogativo del “come diamine avranno fatto a fare questo film” mi sono sentita un po’ un giudice di X-Factor che, con Cuarón sul palco, gli fa “mi hai davvero trasmesso qualcosa, anche se magari potevi dare qualche soldo in più ai tuoi consulenti tecnici della NASA. Però, considerando anche che c’è un personaggio che parla da solo per due ore, non te la sei poi cavata così tanto male. Anzi”. Proprio io, che la storia del “mi hai emozionata” l’ho sempre odiata. Stavo lì a bocca aperta. E ho pure pianto dentro ai pop-corn, in mezzo a uno di quei super-crescendo musicali nel vuoto siderale. Quindi niente, sono uscita dal cinema piena di stupore… e spero che là fuori, parecchi ex-6 stiracchiati in fisica potranno fare dei grandi OOOH e AAAH davanti a questo film senza sentirsi troppo in colpa. Perché è un polpettone spaziale scaldacuore, e tutto quello che si vede è strabiliante… detriti compresi, anche se viaggiano a qualche migliaio di chilometri al secondo e manco per tutti i razzogomiti di Pacific Rim uno si accorgerebbe che stanno passando. Ecco. Azzarderei un chi se ne importa. Godetevi l’orbita geostazionaria. E arrabbiatevi per qualcosa di ben più importante, tipo le invidiabilissime chiappe sode di Sandra Bullock. Quelle sì che sconfiggono anche la più volenterosa delle sospensioni dell’incredulità.

Vi sentite in dovere di leggere Infinite Jest perché la gente generalmente reputata intelligente dice di saperlo a memoria e siete stufi marci di tutte queste vanterie?
Volete leggere Infinite Jest perché vi piace David Foster Wallace ma non ce la vedete dentro?
Eravate lì lì per leggere Infinite Jest ma poi un vostro carissimo amico vi ha detto che si è arenato a pagina 30 e vi siete scoraggiati?
Siete personcine tenaci e piene di buone intenzioni, ma la prospettiva di affrontare 1280 pagine in questo momento della vostra vita vi atterrisce e sgomenta?
Animo!
Leggere Infinite Jest non è troppo difficile, se qualcuno decide di incoraggiarvi un po’. Non dico che diventi una passeggiatona liscia liscia, ma non sarà nemmeno l’incubo quadridimensionale che potrebbero avervi raccontato. Le note hanno delle note! L’ho iniziato sei volte e volevo morire con la testa nel microonde! Per carità, in quel tempo lì leggo altre venti cose! Figurati, non si capirà nemmeno come finisce!

Obiezioni rispettabilissime. Ma siamo lettori, mica pavidi opossum, e si può fare.

In questo post – che ha il preciso intento di innalzare di una tacca il livello di meraviglia media contenuta nell’universo -, troverete alcuni utili mattoncini base per affrontare Infinite Jest con la serena caparbietà di una gigantesca nave rompighiaccio. Senza frottole e infiocchettamenti, ma con la sincera e autentica fierezza del lettore che ce l’ha fatta, tra innumerevoli OOOH e AAAH di gioia e divertimento. Perché se ci sono riuscita io, che ho lo span di attenzione di una locusta, non vedo perché non ci si possa riuscire in un po’ più di gente. Che così poi ne parliamo… o andiamo in riabilitazione tutti insieme.
Pronti?
Pronti.

L’Infinite-Guida è fatta così:
– Un confortante preambolo d’esperienza personale
– Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest
E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest
– Ma alla fin fine, di che parla?
– Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest
Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

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Un confortante preambolo d’esperienza personale

Ho letto Infinite Jest in un mesetto e mezzo. Ho cominciato in spiaggia (fase riposante della vita) e ho finito l’altra sera sul divano di casa (prolungata fase di spossatezza da lavoro che ricomincia). L’ho iniziato all’improvviso: dovevo andare in vacanza e l’ho buttato in valigia, gridando qualcosa tipo COWABUNGA. Ne avevo ben due edizioni, in attesa sulla polverosa lavatrice-libreria, e continuavo a passare di lì senza decidermi. Ma no, adesso sono troppo stanca. Ma no, non è ancora il momento giusto. Non ho tempo, non ho tempo. La verità è che non credo ci sia un momento giusto. È un’impresa che vi conviene intraprendere con una certa incosciente impulsività, e con grande fiducia. Il libro non vi renderà le cose troppo difficili, è bello da subito. E non ho detto chiaro e pieno di mappe TUSEIQUI con le freccione rosse, ho detto bello. Lasciatevi portare a spasso, anche se non sapete dove finirete.

***

Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest

Il mondo di Infinite Jest è, in buona sostanza, molto simile al nostro, solo peggiore. Tutto è familiare, ma deformato da una serie di catastrofi puntualmente accadute. Dall’inquinamento alle relazioni umane, tutto quello che poteva andare male è andato male. Il risultato è una specie di parodia triste e super geniale di quello che conosciamo.
Ma facciamo un po’ di cornice geopolitica.
Gli USA hanno “inglobato” il Canada e il Messico, dando vita a una bizzarra confederazione che si chiama ONAN (un nome, un perché), guidata da un presidente fanatico dell’igiene che, in tempi non sospetti, cantava a Las Vegas in mezzo alle paillettes. Per non offendere nessuno, sulla bandiera dell’ONAN campeggia l’aquila degli Stati Uniti con in testa un sombrero, una foglia d’acero in una zampa e una scopa nell’altra. La scopa ha senso, non temete. La crociata pro-pulizia assoluta del presidente Gentle, infatti, insieme allo sviluppo di un dannosissimo processo di produzione dell’energia (diciamo che l’idea di usare i rifiuti come combustibile ad alta efficienza va a farsi benedire e i rifiuti, sempre più tossici, aumentano invece di diminuire), finisce per devastare un’ampia zona di confine tra Canada e USA. La Concavità – così si chiama questo non-luogo – diventa una distesa fosforescente e inabitabile. La gente è costretta a fare fagotto e a scappare a gambe levate da questa spaventosa Concavità, che si trasforma in una gigantesca discarica. Per dire, nelle città ci sono delle CATAPULTE che sparano la spazzatura fin lassù. I costi ingentissimi per far funzionare tutta la baracca (e per traslocare quantità incredibili di persone dalla Concavità a zone meno letali, posti dove i fiumi sono blu cobalto ma ancora si tira il fiato) vengono coperti dall’amministrazione Onanita con un astuto stratagemma: gli anni non sono più anni coi numeri, ma diventano anni sponsorizzati. Un’azienda compra un determinato anno e lo battezza col suo nome o con il nome di un suo prodotto. Per farvi capire, ecco il calendario di Infinite Jest:

visore infinite jest

Non è fantastico?
L’anno più denso di avvenimenti, per la nostra storia, è quello del Pannolone per Adulti Depend, ma tenetevelo comunque lì, il calendario, che vi fa del bene quando vi sentite un po’ persi.
E non venitemi a dire che non siete già molto impressionati.

***

E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest

Tornando alle storie geopolitiche di prima, è vero che c’è l’ONAN, ma non è che i canadesi siano proprio felicissimi della situazione, con tutta quella spazzatura che gli arriva in casa e annichilisce boschi e prospere fattorie di patate. I più arrabbiati e bellicosi sono gli abitanti del Quebec. E fra gli abitanti del Quebec, i più rancorosi e incazzati e vendicativi sono gli AFR – Assassins des Fateuils Rollents -, una cellula terroristica composta esclusivamente da assassini sulla sedia a rotelle che non solo combatte per l’indipendenza del Quebec (dall’ONAN e pure dal nativo Canada) ma ha anche una gran voglia di fare del male agli USA. Gli AFR sono così letali che l’espressione “udire un cigolio” (insomma, le ruote cigolano) è entrata nel linguaggio comune per indicare una morte imminente e cruenta.
Se invece vogliamo dare un occhio a tutti quanti gli altri, Infinite Jest è pieno zeppo di gente che beve, si droga, ruba borsette, picchia bambini, perde la dignità, guarda cartucce senza mai schiodarsi da casa e tenta con grande caparbietà di non deludere qualcuno. C’è solitudine e c’è un silenzioso andare alla deriva – prevalentemente dentro la propria testa e lontano dagli altri. Si può fare tutto, si può scegliere tutto quello che si vuole e si può disporre di una libertà sconfinata – all’apparenza – ma alla fine si cerca di scappare fortissimo. E le occasioni offerte dal mondo sono, anche qui, innumerevoli: vi farete una cultura sul funzionamento di ogni genere di stupefacente. Vi farete una cultura sull’offerta sterminata delle cartucce d’intrattenimento (l’era post-tv è intricata e avvincente). Cercherete di capire che cosa si può arrivare a sacrificare, in nome di queste felicità artificiali e solitarie, di questi bisogni onnipresenti che capottano il senso di quello che si fa. Che cos’è davvero il divertimento? E’ qualcosa che possiamo controllare? Come dare un senso alla propria vita, quando nulla di quello che ci circonda sembra avere un contenuto e un cuore?
Sono domande, gente.

***

Ma alla fin fine, di che parla?

Infinite Jest è fatto a capitolozzi, più o meno omogenei. Il libro funziona a macchina del tempo, come un puzzle cronologico che ci spiega da dove arriva quello che sta succedendo ai personaggi e ai loro pensieri. Conosceremo genitori, nonni, dottori, vicine di casa matte, e sarà sempre per il nostro bene. E parecchio succede anche nelle note, quindi leggetele, se non volete scoprire dopo 200 pagine che qualcuno a voi molto caro, magari, è vivo invece che stecchito come sospettavate o se vi preme capire come faccia un innocuo giovane canadese in camicia a quadri a finire su una sedia a rotelle assassina.
Comunque.
Direi che ci sono tre tramone, due corrispondono ad altrettanti luoghi e l’ultima è il filo conduttore di tutto quanto. Che faccio, uso l’elenco puntato?

  • l’Enfield Tennis Academy (ETA) di Boston > l’ETA è un’accademia per giovani tennisti di eccezionale talento. E all’ETA abitano/giocano/lavorano/si aggirano i superstiti della famiglia Incandenza, che l’ETA l’hanno anche fondata. Senza di loro, non ci sarebbe Infinite Jest, e i nostri pallonetti sarebbero molto peggiori. Il libro segue, mese per mese, quello che succede all’accademia, che a me – poi magari sbaglio – è sembrata un piccolo laboratorio, una specie di simulazione controllata, di quello che capita nel resto dell’universo di Infinite Jest.
  • la Ennet House di Boston > la Ennet è una casa di accoglienza per tossicodipendenti. Visto che tutti hanno problemi di Sostanze – così si chiamano, le Sostanze – e svariati gradi di dipendenza da qualcosa, i centri di recupero e le riunioni degli Alcolisti Anonimi sono qualcosa di normale e diffusissimo. I residenti della Ennet vi regaleranno un mosaico di storie incredibili, orrende e tragiche, storie che portano alle estreme conseguenze tutte le riflessioni sul “che diavolo vogliamo ancora? Perché non è mai abbastanza?” del mondo di Infinite Jest. Alla Ennet imparerete a conoscere meglio tutti quanti, anche quelli che non ci abitano.
  • l’Intrattenimento > è una cartuccia letale. E’ un film così ipnoticamente rasserenante e felice che se lo guardi non puoi più smettere. E’ l’ultimo desiderio che si avvera, per l’eternità. Chi lo guarda non riesce più staccarsi, chi lo vede dimentica di mangiare, dormire, andare in bagno e parlare. E’ così bello che uccide e spiaccica il cervello.
    Ad un certo punto, l’Intrattenimento comincia a circolare. C’è chi cerca di controllarne la letale meraviglia, c’è chi vuole usarlo come un’arma, c’è chi non ne sa niente ma lo vorrebbe vedere, c’è chi ci ha recitato ma non l’ha mai visto (e ha già i suoi bei problemi) e c’è chi, tipo voi che leggerete Infinite Jest, ci finirà davanti.

***

Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest

Tutti i personaggi servono a qualcosa. Nessuno sprizza felicità e nessuno sembra fiero del proprio passato. C’è chi è lì per raccontare una nevrosi, c’è chi – per puro egoismo e incontrollabile irrazionalità – funge da motore involontario per eventi giganteschi, c’è chi si porta sulle spalle aspettative irraggiungibili, senza volere niente per davvero. Partendo dal fatto che incontrerete solo figure di una complessità terrificante – direi che c’è gente vera che è meno complicata e interessante di questi umani inesistenti di Infinite Jest -, i personaggi più importanti sono anche quelli più “utili”, quelli che fanno succedere le cose e che vorreste tenere con voi. Avrete la certezza della sorte di moltissimi di loro ma, proprio quando si tratterà di capire che cosa succede ai più cari, ci sarà di che lambiccarsi.
Facciamo un minimo di presentazioni?
Il nucleo di strabiliante follia di Infinite Jest è la famiglia Incandenza.
Il papà, Lui In Persona, era un genio alcolizzato e un uomo inconoscibile, alto due metri e passa. Pioniere dell’ottica e astruso regista – quasi sempre – incompreso, Lui In Persona ha fondato l’ETA e ha creato l’Intrattenimento – insieme a una montagna di altre opere filmiche che potrete leggere con soddisfazione immensa in una nota più che esaustiva. Da vivo non lo incontrerete mai.
La madre, Avril – detta la Mami – è una donna altissima e stranamente magnetica di origini canadesi. Perseguitata da ogni fobia al mondo, la Mami è così ossessionata dall’ordine da riuscire a riordinare anche le sue fobie più paralizzanti. E’ cortese ed empatica fino all’esasperazione ma mai davvero capace di un autentico gesto di amore assoluto.
I figli di Lui In Persona e della Mami sono tre – anzi, due e mezzo… ma più per vere origini che per morfologia. Il maggiore è Orin, ex promessa del tennis che, in maniera del tutto accidentale, diventa il più grande punter di tutti i tempi. I punter sono quei giocatori di football che calciano la palla e basta. Orin ha un rapporto quantomeno ambiguo con la verità (e una ripugnante strategia per rimorchiare le donne, sua personale Dipendenza), ma per molte cose dovrete contare sulla sua parola.
Hal Incandenza è il secondo miglior giocatore under 18 dell’ETA – e tipo il sesto dell’ONAN -, ha una memoria fotografico/enciclopedica e un’intelligenza labirintica che non gli servono a niente. Quello che impara e quello che ottiene giocando a tennis non gli procurano alcuna vera gioia. Hal è il nostro “protagonista”, credo, un personaggio che si svuota pagina dopo pagina. Lui ve lo confermerà, che è fatto di niente, ma voi e tutti quelli che gli stanno attorno – pronti cogliere ogni sua prodezza – faticherete ad accettarlo. Perché Hal non vi vuole deludere e, nel farvi felici, fingerà di non capire che cosa vuole davvero. Sempre che ci sia, qualcosa da desiderare.
Mario, l’Incandenza di mezzo, è deforme e minuscolo. La sua passione è fare riprese con una camera speciale, vuole bene a tutti – ricambiato – ed è incapace di mentire. Innocente, sempre felice, è il figlio che ha passato più tempo con Lui In Persona, senza poterci capire niente ma portandogli un casino di borse piene di attrezzatura da cinema.
Altre due creature (tra le mille) che vale la pena conoscere sono Don Gately e Joelle.
Don Gately è un ex tossico grosso come un armadio a muro. La sua storia vi aprirà le porte degli AA di Boston e della Ennet House, dove lavora come sorvegliante, dopo aver completato il suo percorso di riabilitazione da residente. Diventerà un po’ il vostro eroe e la vostra speranza per un futuro migliore. Vi farà fare fatica e vi farà preoccupare.
Joelle, La Ragazza Più Bella di Tutti i Tempi, è un enigma. Joelle sarà uno dei motivi che vi farà girare pagina. E’ ancora bellissima? Perché va in giro con un velo sulla faccia? Perché lei e Orin si sono lasciati? E’ colpa sua, se l’Intrattenimento è così letale?

***

Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

Per lo stupore.
Io non riesco ancora a credere che una persona vera abbia scritto questo libro. Gli incastri, l’immaginazione, il controllo, l’intelligenza nel trasformare la realtà in qualcosa di assurdo, ma plausibile. L’idea dell’Intrattenimento, la tristezza. Se mai nella vita siete stati tristi, capirete che cosa vi è successo per davvero. Se non vi è capitato, imparerete a rispettare le ombre.
Leggetelo per lo stupore. E perché non c’è niente di simile.
Leggetelo perché sarà il primo libro che vi farà stancare sul serio, e non perché è lungo, ma perché è un mistero che somiglia molto a quello che ancora non capite del mondo e di quello che dovreste farci voi, al mondo.
Non è facile. E non è sempre piacevole. Alla sesta pagina di una nota, vi verrà da gridare un legittimo “che palle!”, ma vi accorgerete che la frustrazione non dipende dal font corpo 4 della nota, ma dall’allegro desiderio di poter leggere più pezzi contemporaneamente.
Che nervoso.
Non so se si è capito.
Non so se vi ho INFUSO sufficiente curiosità.
Non so se ci sono riuscita, a tirarvi addosso qualche polpetta di Infinite-Meraviglia.
Comunque vada, però, e tenetemi informata sulle vostre decisioni e su come procede la lettura, insomma, comunque vada usate due segnalibri, che se no è un casino. E buona villeggiatura. E state alla larga dai neonati carnivori alti come palazzi che infestano la Concavità! E se avete problemi di scarafaggi, fatevi dare qualche buon consiglio da Orin, che almeno su quello è affidabile. E se qualcuno ha voglia di sfidare due gemelle siamesi in doppio, me lo faccia sapere, che porto a incordare la racchetta.

Il mio rapporto con gli autoveicoli è pessimo.
In macchina ci stavo bene quand’ero alta un metro e mezzo e potevo dormire comodamente sul sedile posteriore, lunga e distesa a pancia per aria. Poi ho iniziato a dover piegare le ginocchia o a rannicchiarmi di lato, magari umiliando l’illustre pupazzo Coniglio Mabiglio relegandolo al triste ruolo di cuscino, e da lì ciao, le macchine hanno cominciato a indispettirmi. All’esame della patente, su un cavalcavia con riga continua e categorico divieto di sorpassare, mi sono trovata davanti questo camioncino del rudo  – per tutti quelli che ignorano il colorito idioma del Piacenzashire, il RUDO è la spazzatura – che, all’improvviso, si è messo a seminare scatole di cartone per la carreggiata. Visto che non c’era molto altro da fare – morire nella corsia opposta o devastare la macchina della motorizzazione scartavetrando il GUARDRAIL -, ho preso in pieno uno scatolone, trovando anche il modo di inveire orrendamente contro lo sbadato spazzino. In tutta la vita, credo di aver parcheggiato sul serio al massimo tre volte. Con la Uno Hobby ereditata da mia zia, una macchina viola, senza servosterzo, con le ventole dell’aria piene di foglie secche – in qualsiasi stagione – e il riscaldamento finto, fare delle manovre raffinate era impensabile. Un mal di braccia. Una fatica. La roba più bella, però, succedeva nei giorni di pioggia. Perché quando pioveva, la Uno non partiva. Devi andare da qualche parte? Mi vuoi mettere in moto? Fottiti, piove.
Insomma, detesto guidare e mi rompo le balle quando mi trasportano, anzi, mi rompo le balle e, certe volte, mi abbandono a comportamenti folli. A maggio, per dire, abbiamo vagato come delle trottole tra la provincia di Gela e quella di Catania. Del tutto annientata dalla festa di matrimonio della sera precedente, disperatamente bisognosa di dormire e ormai furibonda per il continuo ciondolamento del mio cranio, ho deciso di legarmi la testa al sedile con una sciarpa.

Comunque.
Brummm!

È con questo spirito di totale disinteresse misto a ostilità per l’universo delle automobili e dell’automobilismo competitivo che mi sono presentata al cinema per vedere Rush di Ron Howard. Il film in cui Thor, dopo parecchi problemi col test a crocette, riesce finalmente a prendere la patente. Il film in cui tutti gli italiani, a parte il signor Ferrari che fa lo spocchioso con le sue calzette rosse, sono brava gente. Un film in cui il Giappone somiglia alla Desolazione di Smaug e, se fai l’autostop da qualche parte in provincia di Trento (se ho capito bene), a caricarti sono due indomiti, improbabili e calorosissimi scugnizzi. Io non ho ben capito se Rush mi sia piaciuto, perché somiglia a tantissime rivalità cinematografiche che ci siamo già abbondantemente sciroppati, solo che qui sono rese con ancora meno sottigliezza. E uno scopa il mondo. E l’altro non ha cuore nemmeno di andare a una festa. E uno lo abbracciano tutti. E l’altro lì, nell’angolo, incazzato nero che pensa a mettere il magnesio negli ingranaggi. E uno dentro una limousine piena zeppa di gnocche totali, sbronze come foche leopardo, e l’altro che smanetta con il carrello dell’aereo, tutto ustionato e derelitto ma equilibrato e geniale. È come se ci fossero i sottotitoli, in questo film. Và, qua c’è Lauda che decide così perché ha capito che la sua bella moglie con lo SCIGNOGN, quella signora alta ed elegante che non parla mai per tutto il film, ecco, forse ha capito che la signora silenziosissima è più importante delle infide pozzanghere giapponesi e buonanotte, non vale la pena crepare per dimostrare ancora qualcosa. E lì, toh, c’è Hunt che fa lo spavaldo coi giornalisti ma gli rode un casino che la moglie l’abbia lasciato per andare a farsi regalare tonnellate di diamanti da Richard Burton… e insomma, fuori ride ma dentro piange.
Non l’avrei mai pensato, ma i pezzi che mi sono garbati di più sono proprio quelli con le macchine che sfrecciano e le gomme che si disfano e tutta quella roba meccanica che fa su e giù e s’infuoca. Ed è stata una fortuna non sapere com’era andato a finire, poi, il lunghissimo campionato del mondo che racconta il film. Che se sapevo chi vinceva c’era da spararsi, non mi passava più. Insomma, mi viene da dire che Rush è “fatto bene” (“sai no, quel tuo amico… non è figo, però è un tipo, dai…”, ecco), che è un giocattolone piacevole, è da mi siedo lì e mi faccio imbottire di frasi plateali con una buona disposizione d’animo, ma volentieri. Che sia EPICO, ispirato e geniale no, però. E va già bene che non mi sono addormentata come davanti ai gran premi alla tv, che dopo due curve sono già sotto a una coperta che russo. Una squillante nota di totale entusiasmo, però, vorrei emetterla: ad un certo punto, c’era una macchina da corsa con SEI RUOTE. SEI. Sembrava un millepiedi cromato. Se le avesse avute la mia Uno Hobby, sei ruote, forse la mia vita sarebbe stata diversa. E oggi sarei una di quelle pilotesse Nascar col completo di Victoria’s Secret sotto alla tutona ignifuga. Una persona che si prende bene coi film della Formula 1 e parcheggia senza nemmeno spettinarsi. E invece.

 

Per chi si forse perso l’imprevedibile antefatto, c’è addirittura un post di pura esultanza che si chiama Charlie e la fabbrica del Martini. Per gli altri che magari non hanno voglia di risalire alle origini del mondo, sarà sufficiente sapere che il 19 settembre avevo una cena al circolo bocciofilo Caccialanza, ma poi non ci sono andata perché Vanity Fair ha deciso di donarmi un invito per il festone totale dei 150 anni della Martini, a Villa Erba sul lago di Como. Cenerentola può lucidarmi le scarpette quando le pare.

Ebbene, che diamine sarà mai accaduto?
Com’era, chi c’era, cos’è successo?
Che cosa ci abbiamo capito?
Ma soprattutto, saremo riusciti a mimetizzarci con dignità?

Benvenuti alle avventure dei Tegamini del Cuore al SUPREMO party-Martini. Ci tenevo a dirlo subito, che è stato supremo.

***

Il tutto è cominciato con noi che trascinavamo i valigini fino all’albergo. Con nostra grande sorpresa, all’albergo c’era della gente che festeggiava un matrimonio. Alle cinque di un giovedì pomeriggio. Con uno scaldapubblico chiaramente prelevato di peso da un villaggio turistico e portato lì sulle maestose pendici del lago di Como a gridare a squarciagola OLLELLE’-OLLALLA’, FACCELA VEDE’-FACCELA TOCCA’. Io ero là, col mio lapin nella custodia-sacco-da-morto e i riccioli appena fatti che non sapevo bene che cosa dire. Per fortuna, una madamigella ci ha accolti calorosamente, sospingendoci nell’ascensore fino alla nostra cameretta. E nella cameretta c’erano dei doni. E già ti senti spaventosamente figo, se non fai in tempo a levarti le scarpe che già ti hanno regalato qualcosa.

Che poi è incredibile, quanto poco tempo ci vuole a prepararsi se non abiti insieme a un gatto. Alle sette e dieci precise precise eravamo giù, tutti pieni di brillantini (io) e di farfallini (Amore del Cuore). Sulla sbodenfia terrazza dell’albergo faceva già un freddo povero, ma ero troppo contenta per ammetterlo. O meglio, contavo con tutte le mie forze sull’effetto-Capodanno: due bicchieri e tutti fuori in canottiera, anche se infuria la tormenta.
Ora, vorrei ribadire all’universo che non sono una persona fotogenica. Non solo non sono fotogenica, ma non dispongo nemmeno di un fidanzato particolarmente interessato a fotografarmi con un po’ di sensibilità e accortezza. Amore del Cuore ha moltissime ottime qualità, ma di farmi le foto non gliene frega una beata mazza. E quando me le fa è perché lo obbligo, quindi ne sforna sei di fila a caso (piedi tagliati, sfocamenti, luci che inghiottono teste e arti) e ciao. Quindi, insomma, faremo con quello che c’è e con la limitata fotogenicità che la natura mi ha concesso. A me e basta, ovviamente, perché lui è bello anche quando sbatte il mignolino in uno spigolo.


Tegamini in Vivienne Westwood Anglomania (Halton dress + Melissa pumps) and vintage MADRE clutch.
Credits: Amore del Cuore for Getty Images.
E questa, tanto per farvi capire, è la foto dell’AUTFIT più chiara che ho.

Poi è arrivato un pullman gigante e siamo partiti. Memori delle gite delle superiori, ci siamo messi in fondo. Anche perché eravamo molto imbarazzati e non ci è venuto da fraternizzare con l’altra gente che era tutta affiatatissima e batti un cinque, ciao grandissimo e col cavolo che alle 9 e mezza domani mattina vado a vedere Blumarine. Ecco, spaventati ma baldanzosi (e con mezzo colletto fuori), abbiamo deciso di immortalare il momento con un video inutile ma dolce. O almeno credo.

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Villa Erba è un luogo favolosamente meraviglioso. C’era tutta questa super passerella scarlatta con le macchine da corsa, le luci, dei rampicanti ordinatissimi, la gente che ti rincorreva lateralmente sul lato per capire se eri famoso per davvero o se ti eri soltanto vestito abbastanza bene da suscitare il sospetto, ghiaietta perfettamente calpestabile, il tramonto rosa-pesca, insomma, arrivavi ed eri già contento di stare al mondo.

All’ingresso, sotto a un milione di bolle di cristallo che penzolavano dal soffitto, dei gentili signori ci hanno graziosamente cacciato in mano un bicchiere di RUAIAL e niente, l’abbiamo considerato come un “bene, giovani, andate con Dio. Qui davanti c’è la sala con il pianoforte e le luci interessanti, laggiù c’è il salotto con gli specchi, ai lati ci sono i bar. A destra c’è il bar simil-metropoli-sfarzosa, mentre a sinistra c’è il bar da Don Draper con le poltrone di pelle e il caminetto. Uscite in terrazza, mi raccomando. Vedrete bene il palcoscenico galleggiante, l’orchestra e i giardini. Abbiamo fatto in modo che, da qualunque punto della villa, la distanza tra voi e un barman campione del mondo nella categoria Cocktail Spettacolari sia al massimo di sei metri. Buon divertimento”.
Cheers, buon uomo.

Se volete vedervi delle foto serie della LOCHESCION, c’è anche l’album di Martini, visto che è praticamente impossibile maneggiare un attrezzo in grado di immortalare l’ambiente con una maledetta POSCETT in una mano e un bicchiere nell’altra. Ad un certo punto abbiamo scoperto un sontuoso buffet e non mi sono potuta alimentare degnamente perché avevo finito gli arti. Escludendo categoricamente di potermi privare del bicchiere, avrei anche gettato la borsa nel lago, se solo non fosse stata una borsa appartenuta a MADRE, in un lontano passato di cui poco so e ancor meno voglio sapere. “Amore del Cuore, prendi un po’ di grana, te ne prego, mi farei un piattino, ma con che cosa lo tengo! Il barman di Don Draper ci ha messo dieci minuti a prepararmi questa divina bevanda, non posso mica piantarla lì, sarebbe offensivo, non siamo mica in Colonne!”

 

Grazie al cielo, però, qualche genio del party-planning ha pensato anche alla gente come me. Gente non mangia in piedi, gente che s’impiccia ai buffet e che ha l’atavico bisogno di appoggiare i propri oggetti su altri oggetti. Così, felici come pasticcini, ci siamo seduti sotto a questi alberi giganteschi sopra a dei cubi rossi fosforescenti – che secondo me volevano essere grossi ghiaccetti – e abbiamo atteso fiduciosamente l’arrivo di un gentile signore con dei regali garganelli ai gamberi, noi e il nostro piattino.

E mentre lottavamo con la borsetta e ci divertivamo sotto agli alberi tutti illuminati, c’era l’Orchestra Italiana del Cinema che suonava le colonnone sonore arroganti e, dentro la villa, c’era anche un uomo dietro a una tenda (contrassegnata da un cartello con un grosso “?”) che preparava bastoncioni di zucchero filato ai coraggiosi che osavano avventurarsi nell’ignoto. Il perché fosse dietro a una tenda non mi è chiaro, ma credo si sia fatto delle gran risate.

TEGAMINI – Zucchero Filato Man, are you ok? Here, all alone…
ZFM – I’m good, I’m good. Don’t worry.
TEGAMINI – Ok, then. We’ll be back, so you don’t get lonely.
ZFM – Thanks guys, see you later!

Ma il dialogo definitivo l’ha prodotto Amore del Cuore. Prima, però, c’è stato l’adorabile LAIV di Lily Allen, che ha fatto qualche canzone fluttuando su un assurdo palco galleggiante delle meraviglie scusandosi moltissimo perché “I’ve got a chest infection and tonight my voice is horrible”. Mica vero, madamigella Lily, io ero contentissima. E nei pressi del divanone-terrazzato dove avevo preso la residenza cantavo solo io. O forse non bisogna cantare, quando si è ricchi e famosi e si va a una festa? Temo non lo scopriremo mai. Comunque, poi è successo tutto un brindisi generale con Federico Russo che incitava ad agitare per aria i calici insieme ad amministratori delegati e fondatori della Bacardi. Voi non lo sapete, ma Mr Bacardi esiste davvero. E’ un pacioso signore di nome Facundo Bacardi, uno che al lavoro credo abbia la seguente mail: MRBACARDI@BACARDI.WORLD.
Ma cosa stavamo dicendo… il dialogo vincitore della serata è stato quello tra Amore del Cuore e Joseph Fiennes.

TEGAMINI – Amore del Cuore! Guarda che quello lì che hai davanti, seduto sul tavolino, quello lì secondo me è Joseph Fiennes.
AMORE DEL CUORE – Ma va là.
TEGAMINI – E’ lui, è lui! Quello del Nemico alle porte! Quello mega geloso di Vasilij Zajcev perché Zajcev si trombava Rachel Weisz, quella della Mummia, e lui no. Ha fatto anche Shakespeare in Love! E’ più bello adesso, però… sì, sì, è lui.
AMORE DEL CUORE – E chiediglielo, no?
TEGAMINI – L’ultima volta che ho parlato con una celebrity è stato terribile. Ho chiesto a Jonathan Franzen se gli potevo fare una foto, così la twittavamo con l’account della casa editrice. Ho parlato di Twitter. A Franzen.
AMORE DEL CUORE – Cristo!
(Tegamini si volta un secondo per soffiarsi rumorosamente il naso in un volgare fazzoletto di carta. Quando si ricompone, la scena è la seguente):
AMORE DEL CUORE – Excuse me, are you an actor?
JOSEPH FIENNES – Yes.
AMORE DEL CUORE – You played against Jude Law in The Enemy At the Gates, right?
JOSEPH FIENNES – Yes.
AMORE DEL CUORE – Because I didn’t think it was you, but my girlfriend was sure.
JOSEPH FIENNES – She won.
TEGAMINI – Awesome! …sorry if we bothered you, have a good night.
AMORE DEL CUORE – Sono stato bravissimo!
TEGAMINI – Grazie al cielo. Ora possiamo dire di non aver visto soltanto Melissa Satta, di famosi.

Ecco, questo qui vestito come un pistacchio gigante è Mark Ronson. Che io scusate molto ma non sapevo chi era (e anche adesso non ho proprio le idee chiarissime). Comunque, Mark Ronson ci ha fatto ballare. E noi abbiamo danzato al meglio delle nostre capacità, in mezzo a gioconi di luce super strabilianti e lampeggiosi. Per la contentezza mi sono scelleratamente tolta le mollette dai capelli trasformandomi in un incrocio tra Jem e Chewbacca.

E poi?
E poi è arrivata la carrozza per portarci a nanna, prima che ci trasformassimo in zucche lì davanti a tutti. Io il red carpet l’ho fatto alla fine, con le luci un po’ spente e manco più un cane a dirmi dove dovevo andare. Mi sembrava più appropriato. Avessi avuto un panino con la coppa l’avrei incluso nello storico ritratto. E’ stato mirabile, e anche davvero surreale. Gente che ti apre la porta quando vai in bagno e rimane lì fuori per sincerarsi che nulla di male ti stia capitando. Cubetti di ghiaccio che non sono cubetti di ghiaccio, sono ICEBERG picconati via da blocchi di ghiaccio ancora più grossi, tutti accatastati in giro. Bicchieri che, ve lo giuro, pesano sette etti. Gente con lo strascico. Gente che si scusa perché il UISCHI che sta per versare nel tuo cocktail è invecchiato solo 14 anni e non 18 perché quello da 18 è finito. Persone incapaci di avere male ai piedi. Io non ci sono mica abituata, ai comitati di benvenuto che mi salutano con calore ogni volta che entro in una stanza. E quando chiedevo un ROYALE mi veniva voglia di dire “un RUAIAL CON FROMASG, grazie”. Però, dalla faccia fluttuante e felicemente smarrita che sono riuscita a fare qua sotto (un’altra grande prova fotografica per Amore del Cuore), secondo me mi sono divertita sul serio.

Grazie, allora.
Grazie a Martini per l’ospitalità e per il corso accelerato di sfarzo. E grazie a Vanity Fair per avermici mandato senza un perché.
Ma soprattutto, gloria e onore allo Zucchero Filato Man! Solitario e indomito! Brinderemo a te coi bicchierazzi che ci hanno regalato… e non ti dimenticheremo mai.

***

Bonus-track
Tegamini feat.MADRE

TEGAMINI – Eh, stasera vado alla festa.
MADRE – Mi raccomando, NON BERE!
TEGAMINI – MADRE, ma di cosa stiamo parlando. Vado alla festa del Martini, non vado mica a un compleanno di quinta elementare! Mi cacciano fuori, se non bevo niente.
MADRE – NON BERE!
TEGAMINI – Berrò responsabilmente. Per onorare l’ospitalità che mi verrà dimostrata. Perché sono educata. Perché sei tu che mi hai cresciuta così, posata e a modo.
MADRE – …smettila di prendermi per il culo. E stai attenta, con la mia borsetta.

 

L’altro giorno ero in ufficio con la muffa che mi cresceva da tutte le parti. Muffa, con contorno di licheni e disperata stanchezza. Occhiaie a forma di amaca, a grandezza naturale. Smalto sbeccato. Nostalgia del gatto. E male a un mignolino del piede. Insomma, una giornata triste e inutile.
Poi niente, guardo un attimo su Twitter e mi casca l’occhio su questa cosa di Vanity Fair. Ohilà, vuoi venire al glorioso party per i 150 anni di Martini, sul lago di Como? Molto bene, cari lettori, mandateci una mail e spiegateci perché vi ci dovremmo mandare… e doneremo l’ambito biglietto a della gente a nostra scelta (o almeno credo).
Fondamentalmente, alla redazione online di Vanity Fair ho detto che agli open bar mi comporto con la grazia di una dama pietroburghese e che, all’occorrenza, sapevo già cosa mettermi (si ipotizzava un virtuoso riciclo di quanto faticosamente acquistato durante le Vestitiadi), che mi sembrava una roba carina da dire. È come quando chiedi a qualcuno di poter portare un amico a una festa e poi questo qua arriva con una felpa fatta con la fodera di un divano della DDR, le ciabatte dell’Adidas con le rigone bianche e blu e un pacco di quelle diafane patatine a nuvoletta, quelle che nessuno mangia perché sanno di polistirolo e anemia. Cioè, lo scemo è comunque lui, ma anche te che te lo sei tirato dietro non è che ci fai la figura dell’anno.
Comunque. Ho mandato la mia mail e ciao, sono tornata alle emozioni travolgenti della mia giornata.
Il giorno dopo, però, è accaduto qualcosa di sconvolgente e inaspettato, uno sfavillante prodigio, un rocambolesco colpo di scena, un miracolo scaturito per direttissima dagli zoccoli rosa della Pony Madonnina.


My Little Mary (SoasigChamaillard, Apparitions)

Insomma, mi ha telefonato questa gentile madamigella della Martini e mi ha detto che Vanity Fair aveva avuto il coraggio di invitarmi alla festa. Giovedì 19 settembre a villa Erba, a Cernobbio-Naboo, il luogo in cui la principessa Amidala e un Anakin Skywalker non ancora malvagio, mutilato e afono si giurarono eterno amore, arrossendo moltissimo.
Che storia.
Che storia!
In pratica sono stata benedetta con un Golden Ticket. E al posto del cioccolato c’è il Martini. Una cascata di Martini, magari, che se ce l’aveva Willy Wonka, la cascata, vuoi che non ce l’abbiano loro, gente che abbevera James Bond da tempo immemore?
Grande Giove!
Anzi, EPIC WIN!
Apple-tini!
Olive galleggianti!
E pensare che quella sera lì dovevo andare a cena alla Bocciofila Caccialanza!

L’euforia ha lasciato ben presto il posto all’atavico terrore della nudità.
E va bene, nessuno dei personaggi in cui mi imbatterò su Naboo mi avrà mai vista col vestito delle Vestitiadi – sono una strenua sostenitrice del principio “se non ti toccherà incontrare la medesima gente, vestirsi allo stesso modo per due giorni di fila è cosa buona e giusta” – ma cosa vogliamo fare, vogliamo rinunciare a sogni, ambizioni e unicorni elegantissimi senza combattere nemmeno un po’? Per tutti i samovar, non sia mai!, come direbbe ogni dama pietroburghese che si rispetti.
E così, contenta ma atterrita, ho camminato come un’imbecille da Porta Genova a Piazza San Babila – la mia tradizionale via crucis – senza trovare una beata My Little Mary di niente. Anzi, mi sono pure imbattuta in una manifestazione di ragazzine che vagavano per Corso Vittorio Emanuele gridando in coro il nome di Justin Bieber. Erano tantissime. Vedi quelle ragazzine lì e ti viene voglia di non riprodurti mai, altroché guerre, carestie e mondo cattivo, difficile e oscuro. Poi niente, per tornare a casa mia c’è da fare Corso Venezia e che sarà mai, davanti a Vivienne Westwood ci devo passare comunque, vuoi non andare dentro per un corroborante giro turistico?
Solo che poi è finita così.


Mi manca la borsetta, ma sono quasi pronta. Quel che posso dire, prima di sommergervi di foterie della festa – voglio fare anche un casino di video felici – è che tutto l’AUTFIT sarà più o meno in tinta con questa magnifica gallina:

(gallina fotografata da Tamara Staples per il suo The Magnificent Chicken)

Ora ho l’ansia perché mi è arrivato il programma – e tra gli altri, suonerà una delle mie cantanti del super cuore, emozionona! -, so dove mi ospiteranno per la nanna e i preparativi – perbacco! – ma l’invito di carta non è ancora giunto. Ho detto, pubblichiamo il post dopo che mi è arrivato l’invito di carta, che non si sa mai, metti che ho immaginato tutto o che si sono sbagliati, che è una gigantesca candid-camera o un complesso scherzone tipo quello dei film americani coi ragazzini del liceo, la tipica situazione del giocatore di football figherrimo che va dalla più deforme della scuola e la invita al ballo di fine anno, solo che quando lei esce di casa, pronta per farsi portare al ballo dal ragazzo dei sogni, il ragazzo dei sogni passa in limousine limonando con la capo-cheerleader e, visto che è uno sportivo dotato di strabilianti qualità di coordinazione, riesce a colpire la povera ragazza deforme con un gavettone di sangue di maiale senza mai smettere di limonare la capo-cheerleader.
Ecco, io questo lo vorrei evitare, ma sono proprio troppo contenta per stare lì zitta zitta. E poi mi sembrava bello ringraziare Vanity Fair. Grazie, Vanity Fair. E grazie pure a Martini. E saluti anche all’adorabile Cesare, che mi ha vestita da Dame Vivienne con estrema pazienza e dedizione.

Diamine, sono contenta come una crostatina.

Cheers!

 

TEGAMINI – Amore del Cuore, ma dove sono le Azzorre, di preciso?
AMORE DEL CUORE – …sono un po’ più in là delle Canarie.
TEGAMINI – Pensavo peggio.
AMORE DEL CUORE – Perché?
TEGAMINI – Perché potremmo andare là, in vacanza!
AMORE DEL CUORE – …
TEGAMINI – Massì, c’è la natura, ci sono le rocce vulcaniche, c’è l’acqua splendente, ci sono le balene!
AMORE DEL CUORE – Balene.
TEGAMINI – Ce ne sono tantissime, megabelle. L’ha detto Philip Hoare! Lui c’è stato e ci nuotava insieme… non vuoi nuotare con le balene? A Philip Hoare piacciono molto anche le balene dell’Artico, ma ho pensato che forse preferivi andare un po’ più al caldo in estate… quindi possiamo lasciar perdere la Groenlandia, per qualche tempo. Cosa dici? Ma lo sai che Melville c’è andato davvero, su una baleniera? Ma lo sai che il Physeter macrocephalus sta in una famiglia naturalistica tutta sua, che di bestie simili-simili non ce ne sono? Pensa, ha solo i denti di sotto, il capodoglio! E i calamari giganti esistono davvero e il capodoglio li mangia! Ma t’immagini? CAPODOGLIO vs CALAMARO GIGANTE!

Amore del Cuore, non ancora pronto ad affrontare un tale entusiasmo balenifero, mi ha lasciata sola a farneticare di cetacei, spermaceti, arpioni, fanoni, remore e vertebre. Ma posso sempre ammorbare voialtri. Perché ho letto Leviatano, mi sono divertita immensamente e adesso so anche mucchi e mucchi di cose, un po’ zoologiche, un po’ economiche, un po’ letterarie e un po’ sentimentali.

Mentre scorrazzano per i mari, i capodogli non si curano se sia giorno o notte. Come tutte le balene respirano in modo volontario e devono dunque rimanere svegli con metà del cervello quando si riposano. È quasi sicuro che sognino. A volte,dopo aver mangiato a sufficienza, fanno una pennichella tutti insieme, mettendosi in perpendicolare, come pipistrelli, con lo sfiatatoio sopra il pelo dell’acqua. Gradiscono il contatto reciproco e passano ore a strofinarsi e rotolare l’uno sull’altro appena sotto la superficie: «Sembra che si vogliano tutti bene, – dice Jonathan Gordon per descrivere questo balletto subacqueo. – Non è raro vedere individui che si tengono delicatamente per le fauci».

Teniamoci per le fauci!

In questo libro misterioso e bizzarro – scritto da Philip Hoare, l’uomo al mondo che più ama le balene, tradotto dai prodi Duccio Sacchi e Luigi Civalleri per le sempre adorabili Frontiere Einaudi – c’è tutto quello che serve per esplorare le profondità marine e tornare a galla per respirare con un bello sbuffone dallo sfiatatoio (N. B. se una balena che ha il raffreddore vi colpisce con il suo portentoso soffio, quando torna a galla, ebbene, il raffreddore ve lo prendete anche voi).
Comunque, Leviatano comincia con la storia di Moby Dick e delle ossessioni del suo autore, ci racconta le vicende dell’industria baleniera americana e i primi tentativi – sull’approssimativo andante – di studiare le creaturone più imponenti dell’oceano. Ci sono animali che si arenano sui litorali, richiamando l’attenzione di monarchi, principi e pittori. Ci sono lunghi viaggi, pericoli terrificanti, acque calde e acque gelide. C’è un beluga malinconico in un acquario di Coney Island e c’è la megattera che fa più versi di tutte le altre balene del pianeta. C’è la caccia con l’arpione e la descrizione di tutto quello che si può ricavare, ahimé, da una balena. C’è la balenottera azzurra appesa al soffitto del Museo di Storia Naturale di Londra, un affare gigante e molto realistico, costruito alla vigilia della Seconda guerra mondiale in una sala allestita appositamente… che le balene erano diventate TRENDY e la gente le voleva vedere.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1937, il capotecnico e imbalsamatore ufficiale del museo, Percy Stammwitz, si dichiarò disponibile a costruire il modello direttamente nella sala. Aiutato da suo figlio Stuart, impiegò quasi due anni per completare l’opera, basandosi sui dati forniti dalla spedizione scientifica nella Georgia del Sud. Seguendo giganteschi modelli di carta simili a quelli dei sarti, si tagliò il legno necessario per creare le varie parti dell’armatura e le stecche per tenerle assieme. Il tutto fu poi ricoperto di fil di ferro, sopra il quale fu modellato lo strato esterno di gesso. Era un lavoro lungo e faticoso. Durante la costruzione l’interno fungeva da tavola calda per le maestranze (nel 1853 Benjamin Waterhouse Hawkins ebbe l’idea di organizzare una festa di capodanno tra scienziati dentro il suo modello di iguanodonte ancora da completare, un evento che fu descritto dalla stampa periodica come una riunione di moderni Giona inghiottiti dalla balena).

Insomma, si fanno scoperte meravigliose – il cervello del capodoglio pesa sette virgola otto chili! Che roba è l’ambra grigia e per quale ragione olezza così tanto? Ah, che orrore! – e ogni tanto passa un serpente di mare mitologico. Conosceremo dinastie di cacciatori, marinai specializzati nell’intaglio di denti di capodoglio – J. F. K. li collezionava, pensa te -, leggende del mare e terrori atavici. E, finalmente, qualcuno ci rivelerà a che serve il corno del narvalo. Ma vi dirò di più, Philip Hoare, sui narvali, la pensa come me.

Anche nel narvalo ritroviamo la mesta bellezza del beluga, un’aura ferale suggerita dal suo stesso nome, derivato dall’antico norreno nar e hvalr, ovvero «balena cadavere», perché le chiazze della sua livrea ricordano le livide macchie dei corpi senza vita (…). Ciò non toglie che l’emblema della malinconia del narvalo risieda proprio nella sua caratteristica piú appariscente, sottolineata dal binomio del suo nome scientifico: Monodon monoceros, ovvero un solo dente e un solo corno.

BALENA CADAVERE.
MALINCONIA.
Povero, povero narvalo.

La zanna del narvalo è infatti un grosso dente vivo, che crescendo perfora il labbro sul lato sinistro della bocca e si avvita a spirale fino a sfiorare, e addirittura superare, i tre metri. (…) Le recenti analisi al microscopio elettronico hanno svelatola vera magia racchiusa nel dente del narvalo. La sua superficie,a differenza di quella dei denti normali, è attraversata da tubuli aperti verso l’esterno e connessi con i nervi interni.Il corno in pratica è un gigantesco organo sensoriale, fornito di decine di milioni di terminazioni nervose che permettono all’animale di registrare i piú lievi cambiamenti di temperatura e pressione. Si spiegherebbe cosí, tra l’altro, l’abitudine che hanno i narvali di sollevare il corno fuori dall’acqua, quasi annusassero l’aria. Altre ricerche hanno mostrato che questo dente, oltre a essere una sonda sensoriale, può anche fungere da trasmettitore e ricevitore acustico ed elettrico.

IL DENTE DEL NARVALO SERVE A MILLE COSE!
IL MONDO È UN POSTO MERAVIGLIOSO!

Ma ricomponiamoci, dopo questo momento d’euforia per il narvalo e le balene dell’Olartico – pagine bellissime, BELLISSIME, c’è persino il disegnone di un unicorno -, che bisogna concludere con dignità e un qualche genere di autorevolezza.

Leviatano mi è garbato immensamente. Philip Hoare è così felice di raccontarti tutte quelle storie sulle balene che finisci per appassionarti quanto lui. Io ho chiuso il libro e ho quasi pianto, consumata dal rimorso per essermi mangiata una bistecchina di balena quand’ero a Oslo. Philip Hoare, perdonami, non sapevo cosa facevo. Non conoscevo ancora la mirabile struttura del cranio del capodoglio o la complessità dei suoi rapporti sociali. Andrò all’inferno. Sprofonderò in un abisso pieno di furibondi calamari giganti. Comunque, se volete nuotare insieme al buon Hoare e alle musicalissime megattere, se volete partire per un viaggio con Ismaele – e capire, finalmente, anche le cose più astruse di Moby Dick – o anche solo imparare meraviglie sugli animali più grandi e difficili da studiare del nostro allegro pianeta, ecco, allora Leviatano vi garberà. Anzi, sarete tristi quando finirà… ecco una buona GIF in grado di riassumere i miei sentimenti:

***

P.S. Questa frase è straordinaria. Una cosa orribile, è vero, ma se cercherete di immaginarvi la scena sarà la fine.

A regnare sovrana era una palese indifferenza per la dignità degli animali, come illustra ancora il fatto che il personale delle stazioni antartiche di caccia alla balena era abituato a ravvivare il fuoco dei falò gettandoci sopra i pinguini come grasso da ardere.

Fra sei giorni e rotti minuti sarò in ferie. Ma saperlo non mi aiuterà. Mi aiuterà moltissimo, invece, pensare intensamente a qualcosa di insopportabilmente carino, tenerello e scaldacuore.
Con il patrocinio del volpino di Pomerania – mascotte ufficiale dell’operazione “Carinerie confortanti per i momenti difficili” – un pratico elenco di immagini semplici e banalissime che fanno del bene. Almeno a me.

 

Fresche fochine monache neonate, bianche come la neve, da usare come cuscino.

Lanterne di carta che volano, con dentro le candeline.

Pasticcini tondeggianti ripieni di minuscoli frutti di bosco.

Infradito numero ventinove, a forma di pulcino.

Le orchidee che si rifiutano di morire, perché sanno che non le tratti male apposta.

Le casette per i pipistrelli. E i pipistrelli che mangiano le zanzare.

La gente che ti telefona nel raro istante in cui hai voglia di rispondere.

Andare al cinema da grandi a vedere i film da piccoli. Però coi popcorn da grandi.

Usare discretamente le forbici con la mano sinistra.

Usare discretamente le bacchette con una qualsiasi mano.

Lontre piccole e molto espressive, lontre con le manine palmate che salutano.

Quando ti regalano delle cose e non capisci perché.

Ricevere un bel soprannome, tipo LADY MIDNIGHT.

I romanzi russi che ti piacciono sul serio. O che ti mettono molta ansia.

I cuscinetti sotto ai piedi di Ottone che diventano caldissimi quando gioca/corre/sclera.

Buttare via la carta. A pallette.

Jeoffrey Baratheon che prende dei nomi dal  suo elegante nonno.

Amore del Cuore che ogni tanto si sbuccia le ginocchia.

La pacifica consapevolezza di aver già fatto la spesa.

Capire senza i sottotitoli.

Sbagliare le vacanze ma prenderla bene, tutto sommato.

Cestini di cuccioli. Divani di cuccioli. Praterie di cuccioli poffosi. Cuccioli che rotolano e gorgogliano.

PER COERENZA, LA RECENSIONE DI PACIFIC RIM DOVREBBE ESSERE TUTTA IN MAIUSCOLO. E SE SOLO FOSSI CAPACE DI AUMENTARE LE DIMENSIONI DEL CARATTERE LA SCRIVEREI PURE PIU’ GROSSA. VISTO CHE NON SO FARE NIENTE DEL GENERE E CHE DOPO TRE RIGHE DI STAMPATELLO COMINCIO A SENTIRMI A DISAGIO COME QUANDO SI PROVA A CHIACCHIERARE IN DISCOTECA, CREDO CHE MI RIDIMENSIONERO’. MA NEL MIO CUORE C’È TUTTO UN TRIPUDIO DI CARATTERI CUBITALI, E VE LO DIMOSTRERO’! GO BIG OR GO EXTINCT!

SANTO CIELO, COME MI SONO DIVERTITA.
È COME SE FOSSE ARRIVATO UNO A DIRMI CHE I CARTONI ANIMATI SONO VERI.

Pacific Rim è una gloriosa celebrazione delle nostre lontane infanzie. Tutto è grosso, fosforescente, stereotipato, fumettoso, rumoroso, semplicione e pieno di lucette e accartocciamenti. Ruggiti, mazzate, devastazione, macchiette assolute, pepperepé musicali e unioni che fanno la forza. Alla terza volta che ho visto un pilota di jaeger che tirava su i pugni per spaccare il testone a un kaiju li ho tirati su anch’io. Quando ho visto i russi, poi, non vi dico, credo di aver sgambettato. Se avessi avuto un colbacco me lo sarei cacciato in testa.

Ma quanto sono meravigliosi, nella loro infinita improbabilità? Ma sono anche più belli dei cinesi sul robottone con tre braccia e lama rotante. Cioè, i russi guidano un coso che si chiama CHERNO ALPHA e somiglia a un ferro da stiro che ha avuto una brutta giornata. E niente, accetterete l’esistenza di due personaggi del genere perché il buon Del Toro – ma quanto gli piacciono gli ingranaggi e i bulloni, a Del Toro? – vi ha già abbondantemente mostrato ogni genere di enormità. Creature di milioni di tonnellate che rosicchiano i palazzi e corrodono interi quartieri con delle bave fluo super acide. Robot mezzi rotti che collassano su litorali dimenticati. Variegati terrori che emergono da portali in fondo all’oceano, così, perché la vita è ingiusta. E troverete il tutto estremamente rilassante, accetterete ogni cosa con serenità e gioia. E poi, una volta che vi sarete abituati all’intrinseca assurdità di quello che state vedendo – abbandonando consapevolmente la speranza di sentir dire a qualcuno una battuta che non sia una tonante spacconata e/o un bel luogo comune -, comincerete a fare il tifo. Io ho iniziato a sbracciarmi quando Gipsy Danger ha fatto partire il PUGNO-GOMITO, o come diamine si chiamava. L’apice della felicità, però, è la battaglia di Hong Kong. Sono convinta che l’ingegno umano non riuscirà a partorire nulla di più bello di un jaeger che si avvicina a grandi falcate a uno di quegli schifoni anfibi pieni di denti brandendo UNA PETROLIERA. Concretamente, non riesco a capire che cosa ci sia di così bello in un robot che prende a sganassoni un kaiju degli abissi con UNA PETROLIERA. Non me ne capacito, a livello razionale. So solo che ero felice come una bambina. Ci sarei stata delle ore, a vedere entità gigantesche che si percuotevano con delle imbarcazioni. Ma poi, che meraviglia era il kaiju grasso – felice incrocio tra un gorilla, un lottatore di sumo e un carlino – che lancia un’onda elettromagnetica scassa-macchinari dalla cima di quel suo cranio pieno di pistilloni frementi? E quanto era ancora più bello l’altro kaiju – quello che prende la petroliera in faccia – che si trasforma all’improvviso in un astiosissimo pterodattilo? Il momento pterodattilo ha risvegliato in me ogni genere di entusiasmo infantile. Al momento “tagliamolo in due con l’agile spadone seghettato in dotazione al nostro jaeger analogico” ho esultato, ammirando il maestoso orizzonte terrestre pieno dei pezzi maciullati del maligno creaturone.

Del Toro, diciamolo, coi mostri è sempre stato bravo. E i suoi kaiju sono belli sul serio. Tutti diversi ma anche tutti familiari, per qualche strano motivo. Un po’ coleotteri, un po’ coccodrilli, un po’ serpenti o scimmioni, sono delle bestie spaventose di un altro pianeta, ma qua e là, nei loro corpaccioni incasinati, c’è sempre qualcosa che possiamo riconoscere. E quando te ne accorgi ti spaventi davvero, perché smettono di sembrarti entità astratte e, anche nella loro infinita improbabilità, cominciano quasi a diventare plausibili. E poi sono interessanti. Hanno i loro poteri, i loro attacchi, sono dei cosoni complicati e, ogni volta che ne sbuca qualcuno per azzannare un ponte, sai bene che non vedrai lo stesso combattimento che ti ha fatto agitare i pugnetti in aria quindici minuti prima. Viva i kaiju e la loro immane varietà… anzi, fossero così avvincenti pure i personaggi, saremmo a cavallo.

Io dei personaggi non volevo nemmeno parlare, perché se tiri a mano un personaggio poi devi anche soffermarti su quello che dice e su come lo dice… e qua sarebbe meglio mettersi lunghi e distesi su una zattera appena sopra la breccia-portale-ingresso-kaiju. Inghiottici, kaiju gigante! O almeno, azzannaci le orecchie. Diciamolo, perbacco: i Power Ranger avevano una vita interiore ben più ricca di questi piloti di jaeger.
La povera Rinko Kikuchi, che l’avevano pure nominata a un Oscar, non fa altro che sgranare gli occhi. Io non so perché, ma passa metà del film a girarsi di scatto con due occhi così, come una foca monaca che ha appena preso una mazzata sul cranio, PAM! La sua versione piccola e disperata – con cappottino azzurro e scarpetta di vernice rossa -, è invece di un’espressività commovente. Quel che sospetto è che, in realtà, non piangesse tanto per il kaiju gigante che aveva appena sterminato la sua famiglia, quanto per la recitazione surreale della sua controparte adulta. Bei capelli, certo, ma santo il cielo.
L’altro marimittone biondo che guida Gipsy Danger non è da meno. Dovrebbe essere un’anima ferita, uno che ha sentito morire suo fratello con tutte le sinapsi a sua disposizione, uno che ha perso ogni ragione per vivere e passa il tempo a dare martellate a un muro inutile in Alaska. Ecco, noi dovremmo assistere alla trasformazione di questo reietto in un baluardo di speranza, in un eroe capace di vendicare l’intera umanità. E invece zero, tutte le volte che lo inquadrano ci ritroviamo a sperare, segretamente, che tornino a farci vedere un personaggio a scelta tra A) tizio hipster con basettoni, bretelle e farfallino (la sua unica funzione è osservare un display e annunciare l’arrivo di un nuovo kaiju. Se c’è proprio del dramma gli fanno anche dire di che categoria è e come si chiama) – B) matematico zoppo con la sindrome di Asperger – C) il biologo nerd, iperattivo come uno scoiattolo che ha passato la vita a rossicchiare semi di caffé, che dovevano fargli fare uno degli amici di Sheldon Cooper ma poi hanno capito che non era brutto abbastanza per essere sfigato sfigato davvero.
Sarò poi io che non ho capito, ma in base a che cosa si è deciso che Rinko e Marmittone Biondo – che mai s’erano visti in vita loro – erano così assolutamente adatti a guidare un robottone insieme? È perché lei continuava a sbirciarlo dal buco della serratura (con tanto di sobbalzo e sgranata d’occhi quando è passato mezzo nudo)? Per le quattro bastonate che si son dati davanti a tutti? Perché entrambi nascondevano traumi profondissimi e sconcertanti? Boh. A me sembravano due concorrenti del Grande Fratello. Sai no, quando arrivano nella casa, che nessuno sa chi è nessuno e dopo ventisei minuti si amano tutti alla follia? Ecco.
Palma imperitura dell’odio, però, va al cane di papà-figlio-Australia. E se mi venite a dire che quei cani lì sono belli e/o dolci, nella loro bavosa goffaggine, vi meritate una cataratta. Ron Perlman, ne sono certissima, la pensa come me… anche perché il cane lo si vede molto più spesso del suo spregevole e godibilissimo contrabbandiere di pezzi di kaiju.

Tutto quel pippone lì sui personaggi l’ho scritto solo per far vedere che non ho perso la voglia di criticare. Volevo però anche dirvi che è un discorso del tutto inutile: mettersi a questionare sulle espressioni più o meno ridicole di Rinko Kikuchi non ha alcun senso, così come recriminare per la buffa serietà marziale di Idris Elba. Se va avanti così, a fare parti da albero parlante – Heimdall! -, Idris Elba camperà cent’anni senza manco una ruga.
Comunque, non agitatevi, che non serve: al minuto uno vedrete un iguanodonte crestato alto ottanta metri che sgranocchia un viadotto e non ve ne fregherà più niente di niente.
Non vi sembrerà strano che bastino dieci elicotteri per trasportare a pelo d’acqua un jaeger che pesa come un Gesù. Non vi chiederete come sia possibile che a furia di mollare mazzate a bestie acide i robottoni non si ritrovino coi pugni tragicamente corrosi. Non batterete ciglio di fronte alla signorina Mori che nuota allegramente con tanto di armatura e stivaloni piombati, galleggiando con l’agilità di un delfino saltatore.
Nulla di tutto questo riuscirà a scalfirvi, perché ad un certo punto Marmittone Biondo e Rinko schiacceranno un bottone rosso con su scritto SWORD e ciao, insieme a un kaiju urlante e sputacchioso il buon Gipsy Danger affetterà in due anche il vostro cervello. L’emisfero sinistro vi spingerà a gettare per aria dei popcorn e ad emettere suoni inarticolati. L’emisfero destro governerà l’altro braccio, che deciderete di preservare così com’è, bello lindo e morbido, per farvelo ricoprire di tatuaggi di kaiju. E niente, sprofonderete felici nella magnifica insensatezza di questo film. Pacific Rim farà contento il vostro cuore, come il più gigantesco e ben fatto dei cartoni animati della vostra infanzia… e uscirete con un unico rimpianto: il Megazord di jaeger, perché non han fatto un Megazord coi jaeger? C’è un sequel, vero? MEGAZORD, vi prego, fate un MEGAZORD!


Non sarò una FESCIONBLOGGHER con tesserino di riconoscimento e cane ripugnante al seguito ma, se permettete, le borse piacciono pure a me. E quindi mi impiccio – e a gratis, mossa dal puro e semplice entusiasmo, che tanto se faccio finta ve ne accorgete subito.
Dunque, grazie a uno dei bellissimi Almeno tre cose di Zeldawasawriter, ho scoperto che al mondo c’erano le cartelle di le grenier de vivi. Mai al mondo avrei pensato che potesse piacermi una cartella, ma credo sia perché ne ho sempre viste di orribili. Fosforescenti, con le borchie, piene di pirolini e teschi, squadrate e dure come il mattone. Tutte uguali, noiosone e spigolose. Che siamo, degli ufficiali della Gestapo?
Ecco. Qua no, qua sboccia la poffosità. Il logo di le grenier è un cavallino a dondolo. Ci sono colori pastello, forme tondeggianti, ghirigori da piattini delle bambole. E mi sono subito sentita molto a mio agio. Anzi, pure incuriosita: ma da dove verranno? Chi se le sarà inventate? In un giorno di particolare risolutezza, dunque, ho gettato il cuore oltre l’ostacolo e ho mandato qualche domanda a Valentina D’Amato… e sotto le adorabili cartellette-rosette potete leggervi l’intervista.

Non sono molto da cartelle. O meglio, non lo ero. Sarà che non mi garbano i colori fluo o la pellaccia dura dura da anfibio Dr Marten’s (le mie non si sono MAI ammorbidite. Al solo pensiero ancora mi si spellano i calcagni). Poi, però, saranno i cavallucci a dondolo, saranno le fantasie da teiera della nonna, saranno i colori, ma mi sono convertita. Come si sceglie la stoffa per una cartella-fiaba? Perché è così che le vedo io, sono borse-fiaba.

È una questione di cuore, occhio, istinto. Ho sempre amato quel mondo segreto che sanno creare e vivere i bambini, fatto di stupore, curiosità, il perdersi nella ricerca di qualcosa che colpisca e attiri l’attenzione. Ecco, questa è la stessa cosa che accade a me quando inizio la ricerca di un tessuto.

Sempre parlando di stoffe, dov’è che si trovano delle meraviglie del genere? Anzi, facciamo che ci racconti anche il luogo di approvvigionamento più bizzarro, che fa poesia.

In Italia siamo pieni di bravissimi tessutai che hanno archivi che nascondono meraviglie. Uno dei più magici per me si trova in un piccolo paese in provincia di Como: varchi la soglia di un magazzino in una strada isolata e ti si apre un mondo!

Dieci anni dieci da Moschino, e poi un marchio tutto tuo. Ci vogliono sogni, ci vuole coraggio, ci vuole della sana incoscienza, insomma, cosa ci vuole per iniziare un’avventura così?

Non so se si tratta di coraggio, ma dell’istinto che ognuno di noi ha e dalla decisione di assecondarlo o meno. Per me è stato fondamentale decidere di fermarmi e ascoltarmi, è una sensazione bellissima che ripaga degli sforzi che ne conseguono nel decidere di cambiare rotta.

Com’era la prima borsa che ti sei inventata?

In realtà era uno zaino… ed è in programma l’idea di  realizzarlo per farvelo conoscere, quindi stay tuned!

Ma abiti davvero in campagna? Anatroccoli e tutto?

Sì, tra i cavalli, che sono il mio mondo, e tanti altri animali.

Che cosa hai in mente per il futuro delle tue cartelle e del fido cavallino a dondolo?

Continuare a rimanere in questo mio mondo un po’ fiabesco e preppy con nuovi modelli che verranno aggiunti in futuro.

 

Se quella meraviglia di roba che ha disegnato Leo Ortolani è una recensione che non serve più, figuratevi un po’ la mia. Ma che volete fare, i supereroi sono ormai una tradizione, qua nei Tegamini, mica potevo risparmiarvi le mie fondamentali riflessioni sul marmittone di Kripton, che poi magari pensate che sono diventata una personcina come si deve, che passa lo Swiffer e si alza all’alba per farsi la piega. Che è.

Orbene.

Dei Superman originali, quelli con Christopher Reeve che volava a pancia in giù su una tavola di legno, mi ricordo che li davano in tv in tre parti. Era una cosa inaudita. Fine primo tempo. Fine secondo tempo. Mi ricordo anche delle strida insopportabili di Lois Lane e delle mattacchionerie di Gene Hackman, che aveva un complesso termale in casa e degli scrigni pieni zeppi di kriptonite nascosti da tutte le parti, pure nella scarpiera. Di Superman Returns, invece, mi ricordo solo che faceva schifo pure ai cani morti. E ho visto anche Smallville, per un po’ di tempo. Era di una stupidità unica – sceneggiatori, per quante volte pensate di potervela cavare con “nessuno ha visto Clark in azione perché tutti quanti han preso una botta in testa e non si ricordano niente/hanno ingerito una tossina azzera-memoria/la peperonata ha offuscato i sensi dell’intera città”? Datecela pure a noi, una tranvata in testa, che almeno ci allineiamo alla popolazione della ridente cittadina del Kansas -, dicevo, a parte la cretinaggine cosmica di Smallville, io e mio padre stavamo lì perché ci piaceva Lionel Luthor, uno così bastardo da far credere a suo figlio di essere cieco, ma per diversi decenni. Comunque, vagamente menomata e/o sostenuta da tutto questo bagaglio supermaniano, mi sono avviata al cinema con una certa fiducia. Insomma, Superman – proprio per tutti quei trascorsi lì – non è mai stato il mio supereroe del cuore, quindi evviva, se mi piace bene, se non mi piace mica mi straccio le vesti. Fantastico. Visto che tutti quanti avete già visto il film, procederei con agili osservazioni in ordine sparso, che tanto bene fanno alla fantasia.

Direi di parlare subito di un fatto di rara rilevanza: i mutandoni.

Il mantello Superman non ce l’ha perché gli serve. Ce l’ha perché sa che a volare in giro col sederone per aria, foderato di rosso, non ci fa una bella figura. E’ anche un po’ per quello che sia il buon Reeve che quel Brandon-Kebab-Routh hanno dei mantellini che arrivano sotto al ginocchio, così, né lunghi né corti. Sono mantellini sfigati e si capisce benissimo che, una volta celato il Super Sedere, a nessuno gliene importava più niente di farli ricadere maestosamente a terra. Ora, quel gran figlio di Kripton di Henry Cavill, invece, ha mantello da vendere. Un glorioso viluppo di stoffa degno del miglior Spawn. E perché il mantello del nuovo Superman ha finalmente un senso, in tutto il suo fantastico e magicissimo ondeggiamento? Perché gli hanno finalmente tolto i maledetti mutandoni, liberando per sempre il supereroe più vetusto del mondo dall’increscioso problema del deretano rosso. Coriandoli!

Sono belli, i costumi, poche storie. I vecchi rincoglioniti di Kripton sembravano un po’ usciti dall’ultima sfilata di Dolce&Gabbana – quella con tutte le madonnazze d’oro zecchino, le corone e i gingilli penzolanti -, ma applaudo con entusiasmo, dall’alto del mio esigente gusto baroccheggiante-fantascientifico. Diamine, sembrava tonico e compatto persino quel SUFFLE’ gigante di Russel Crowe. I cattivi erano molto interessanti, soprattutto la stronzaccia supersonica col rossetto sempre in ordine, pure a lei hanno donato un gran mantello… sembrava un cormorano zuppo di petrolio, che per una generalessa spaziale di rara malvagità è un effetto molto appropriato. Forse erano un po’ troppo corazzati, i supercattivi, ma mi è venuto in mente solo alla fine, quando è rimasto in tutina da sub pure Zod. Ecco, a Zod dovevano dargli da mangiare qualche cinghiale di più, che vicino a quella santa abbondanza di deltoidi e bicipitoni di Cavill sembrava un po’ un cucciolo di iena.


Padre, non ti deluderò. Ora che so dove vanno le mutande, la Terra è salva.

Faora, millemila anni nello spazio profondo e nessun danno per lo SMOCHI AI.

Zod, che sembra un po’ un cosplayer che va in giro a fare Megatron con una cinghia del motorino attorno al collo.

Insieme alla costumaglia, ho apprezzato parecchio anche le buffe navi kriptoniane. La seppiolona terraformante era magnifica, soprattutto quando ha iniziato a funzionare. Sarà che ero una pippa ad Angry Birds Space, ma tutte le robe con gravità strana, palazzi che si accartocciano e aerei militari che vanno in orbita intorno a congegni alieni ormai mi intrigano un sacco. Avrei qualcosa da dire sull’architettura del pianeta Kripton – e sul fatto che tutti i mondi abitati da alieni super evoluti si somigliano… vedi Vulcano -, ma siamo in fascia protetta e di giganteschi peni a propulsione non si può parlare.

Ma che dire della storia di Kal-El? Ho apprezzato i saltabeccamenti passato-presente e, nonostante la faccenda patetica del cane in mezzo al tornado, il piccolo Clark e i suoi rustici ma saggi genitori non sono stati una disgrazia. Temevo le scempiaggini retoriche alla Smallville e il massiccio ricorso alle botte in testa azzera-memoria, ma il povero Kevin Costner è decorosissimo e ragionevole. Figlio mio, sei un alieno in un paese di bifolchi, vedi un po’ te. Forse è anche un po’ per quello che papà Kent ha finito per preferire il cane, accettando di buon grado di crepare in un turbine di lamiere e tronchi d’albero. Del padre-padre di Superman ho un’opinione meno scaldacuore. Di Jar-El conservavo un ricordo marlonbrandesco: un po’ apparizione mistica, un po’ voce del destino. Russel Crowe qua è una specie di ingombrante bug del computer di bordo di navi stellari a caso. Paf! Tu sei Kripton! Paf! Ferma Zod! Paf! ‘Spetta, che mi son dimenticato di aprirti la porta. Paf! Eccoti un bel costumino. Paf! Non è una S, è una SPERANZA. Ma padre, speranza inizia per S. Figlio, per queste pidocchierie lessicali vai a parlare con Lois Lane. E affrettati, sta precipitando, come al solito.

Figlio, è inutile che mi guardi così. Non mi hanno installato il plug-in ABBRACCI.

Ecco, nonostante tutto, mi sembra che il giovane e aitantissimo Superman sia venuto su piuttosto bene. Ha quello che un tormentato eroe solitario DC deve avere – inclusa la totale assenza di senso dell’umorismo e attitudine alla spensieratezza della vita – ma gli succedono delle cose che lo fanno cambiare e lo fanno crescere. E scusatemi se sono all’antica, ma a me i personaggi che si evolvono fanno sempre un gran piacere. Alla luce di questa incoraggiante premessa, dunque, mi chiedo che bisogno ci fosse di calcare la mano sulle analogie Superman-GESOO. E Superman va in chiesa a confidare i suoi tormenti. Dietro gli mettono questo mastodontico vetratone policromo con un Cristone ancora più grosso di lui. Lo interrogano e la prima cosa che gli fanno dire è che ha 33 anni. Ma allora sei proprio GESOO! Autorità, mi consegno a voi, guardate, vi fluttuo davanti già in posizione-crocifisso, va’ che bravo. Capisco che là fuori ci sia della gente un po’ dura di comprendonio, ma sul metaforone religioso-salvifico potevano andarci anche un po’ più delicati. Che cavolo, è uno che vola, spara raggi laser dagli occhi e si ripiglia da ogni male se lo metti al sole, che altro deve fare, vagare per il deserto e raddrizzare gli storpi?

La roba che mi ha convinto di meno, anche se dovrei amare le mazzate e divertirmi come tutti gli altri bambini delle medie, sono proprio i combattimenti. La sfida finale tra Superman e Zod era puro Dragonball, solo che Dragonball aveva quasi più PATOS. E Goku e Vegeta, lasciatemelo dire, hanno sempre avuto il buongusto di allontanarsi dai centri abitati. Quando sono finiti a prendersi a pugni sul satellite credo di essermi lasciata andare a un sonoro MAVAFFANCULO. L’unico aspetto positivo delle variegate distruzioni di Metropolis e Smallville sono le robe da allegro nerd che spuntano a destra e a sinistra. Io ho visto solo un camion della Lexcorp, ma poi ho scoperto che ci sono mille altre comparsate geografico-aziendali – tipo il satellite della Wayne Enterprises – che fanno proprio felicità.

Per finire – omettendo ogni genere di riflessione su Lois Lane, personaggio-pacco per eccellenza -, mi domando che mai dovrà fare il buon Clark Kent nel futuro… a parte andare al lavoro con su un paio d’occhiali che non ingannerebbero manco Santa Lucia, intendo. Io, scusatemi, ma la sospensione dell’incredulità su Clark Kent in borghese continuo a non riuscire ad applicarla. Hai appena salvato il mondo, davanti a miliardi di esseri umani che t’avranno pure visto. Figurati i vincitori di premi Pulitzer di Metropolis. E te arrivi là dentro, garrulo e smagliante, con su un paio d’occhiali e ciao? Accetto tutto, pure che ti possa piacere Lois Lane, ma la storia degli occhiali va oltre le mie capacità. Comunque, tornando al discorso sulle ipotetiche nemesi del futuro, che mai può esserci di peggio di altri kriptoniani incazzati? Gente programmata per dare calci in culo ai nemici, gente che ha passato trecento cicli (chissà poi quanto tempo è davvero) a congelare dentro a un buco nero radiocomandato in attesa di vendicarsi. Gli tirano dei kraken? Gli evocano Chtuhlu? Lo minacciano con lo spauracchio-mutandoni? E un’altra cosa. Quando trova la navettona d’esplorazione sotto a tutto quel ghiaccio, ma chi c’era nel lettuccio-criogenico vuoto? Perché Clark piomba nell’astronave – sereno e pacioso, nella sua maglietta di cotone – e in un lettuccio c’è un suo connazionale putrefattissimo, ma l’altro è vuoto e immacolato. Ci sarà ancora, da qualche parte, quel personaggio lì? E sarà buono o cattivo? Si tireranno i camion o canteranno canzoncine kriptoniane tenendosi per le manone indistruttibili? Ma soprattutto, se mi sto facendo questa quantità di domande-pippone, vuol dire che mi sono invasata anche con Man of Steel o c’è una S di Speranza pure per me? Per tutti i GESOO alieni, insegnatemi a sparare palle di fuoco dagli occhi, che il mantello-couture me lo procuro da sola!