Di Juniper & Thorn avevo cominciato a sentir parlare durante il vivacissimo BUZZ di lancio di Ne/oN – l’imprint di schieramento fantastico delle Edizioni e/o -, ma mi sono convinta a procedere solo dopo averlo ritrovato nella Ghinea di dicembre, ben sviscerato nel pezzo di Diletta Crudeli. Non mi aspettavo di certo una garrula passeggiata per i prati, ma sono rimasta comunque piuttosto sorpresa dalla piega gore che accompagna la parabola di Marlinchen e delle sue sorelle. Nell’economia generale della faccenda, però, quella crudeltà così fisica e pesante ha perfettamente senso, quindi mettiamocela in saccoccia e pedaliamo.
Che succede?
Partendo da una fiaba dei fratelli Grimm – già di loro più che avvezzi alla truculenza, pienamente espressa nel Ginepro -, Ava Reid costruisce un altrove che richiama l’Est Europa, in bilico tra antichi e nuovi paradigmi. La città di Oblya, come racconta anche Reid in questa succulenta intervista, è ispirata all’Odessa del primo Novecento, la perla di un impero in cui sono confluiti popoli diversi, tradizioni radicate e impulsi rivoluzionari di industrializzazione e modernizzazione.
In questo posto liminale e ribollente, l’ultimo stregone del regno vive con le sue tre figlie in una casa totalmente separata dalla società, in una sorta di bolla in cui sopravvivono i valori e i codici del vecchio mondo. Zmiy Vashchenko ha spazzato via la sua unica concorrente, trasformandola in un vomitevole grumo di serpi ma, prima di lasciarsi sopraffare, la temibile Titka Whiskers l’ha maledetto: dormirai ma non ne ricaverai alcun ristoro, mangerai ma continuerai ad aver fame, sarai attorniato dalle tue figlie ma non saprai più nutrire alcun affetto per loro!
La maledizione funziona a meraviglia e lo stregone perdurerà tra mille tormenti, asserragliato nella sua fortezza come il relitto di un universo destinato a scomparire e campando sostanzialmente alle spalle delle tre sorelle, streghe anche loro. Le maggiori sono bellissime – Undine prevede il futuro guardando in uno stagno che le restituisce il suo magnifico riflesso, mentre Rosenrot è un’erborista straordinaria – mentre l’ultima, Marlinchen, divinatrice della carne, non ha niente di speciale. Anzi, le viene continuamente ripetuto che è brutta, sgraziata, ordinaria e indegna d’amore.
Tutte e tre ricevono a ripetizione clienti in cerca di prodigi e, per pochi soldi, mandano avanti la baracca, di fatto prigioniere dei capricci e delle imposizioni del padre, che servono senza devozione alcuna ma nel perenne terrore che possa rendere le loro vite ancora più insostenibili. Marlinchen fa la serva per tutta la famiglia, tollerando angherie costanti, le intemperanze dei mostri che popolano il giardino e anche il peso di un potere che le permette solo di mostrare quel che c’è e mai di mutare concretamente la realtà, anche se molto ce ne sarebbe bisogno.
È davvero possibile, però, stritolare a tal punto l’orizzonte da soffocare ogni slancio verso la libertà? Vashchenko è un tiranno che amministra con grande talento manipolatorio il suo controllo sulle figlie. Non solo le limita fisicamente, confinandole alla casa e al giardino, ma fa tutto quel che può per lasciarle nell’ignoranza, sia della storia che della contemporaneità. I poteri delle tre sorelle sono innati e “funzionanti”, ma lo stregone li dipinge in pianta stabile come ridicoli, in confronto ai suoi. Non trasmette alcuna conoscenza, non offre spiragli o futuro. Soddisfare i bisogni del padre – la fame incessante dello stregone ha la precedenza su tutto – è l’unico compito ammissibile, per le tre sorelle. Ma Vashchenko sarà abbastanza formidabile da tenerle rinchiuse per sempre?
Il romanzo di Reid è ricchissimo di stratificazioni. Ci si può cercare dentro l’alba dell’industria e del sapere “scientifico” che spazza via la superstizione per proporre un avvenire luminoso – almeno per i pochi che stanno in cima alla catena alimentare. Lo si può vedere come una mastodontica operazione di gaslighting e di violenza domestica sistematizzata, la si può leggere come una storia di riscatto e di liberazione a carissimo ma necessario prezzo, fatta di alleanze innaturali e di sopraffazioni meschine. Marlinchen è l’anello di congiunzione tra mente e corpo, un po’ perché il suo potere legge nella carne quello che per il pensiero è quasi impossibile da sopportare, ma anche perché è sulla sua pelle e nella sua coscienza che si compie la trasformazione più drastica, agghiacciante e decisiva. Ci si salva quando si smette di vedere (e di vedersi) con gli occhi di chi vuole tenerti buona, si decide per sé quando si trova il coraggio di immaginare quello che ti è stato portato via.
Insomma, Juniper & Thorn ha saputo atterrirmi più per l’atmosfera ricattatoria e bieca di casa Vashchenko – e del luccicante teatro di Oblya – che per le secchiate di sangue che a più riprese mi sono arrivate in faccia. Se siete in cerca di un bel groviglio da interpretare, cattivo come una fiaba classica ma assai più capace di parlare al presente, accostatevi con coraggio al cancello dello stregone.
[Juniper & Thorn si può leggere nella traduzione di Giorgia Demuro per Ne/oN e si può anche ascoltare su Storytel, come ho fatto io. Un collaudo? Ecco qua il solito mesetto di prova gratuita.]


Bianca ha sette anni, quando Stella muore. Pare essersi trattato di un incidente in una tremenda giornata tempestosa, una fatalità sinistra ma priva di macchinazioni – se escludiamo quelle del destino. Stella, la maggiore, è sempre stata il suo punto di riferimento, un rifugio sicuro e una fonte di inesauribile ammirazione. Anche Bianca è bella, ma non sarà mai magnetica come Stella. Mai così perfetta, universalmente adorata, magnanima nel gestire tutti i doni che le sono stati dispensati. Nulla, senza di lei, sarà più come prima. La madre sprofonderà in una pesantissima depressione che pare comporsi di mesi passati davanti alla televisione e repentini tentativi di suicidio, mentre il padre si farà sempre più evanescente, fino a levarsi di torno. L’evento inspiegabile e improvviso che ha eliminato Stella dall’equazione contamina il presente e rende il futuro impossibile da immaginare – a patto che ci si voglia arrivare, poi. Bianca, che non ha più una guida, cresce portando con sé un fantasma, una domanda destinata a non ricevere risposta e una muraglia invalicabile di ossessioni e stratagemmi che dovrebbero donarle l’illusione di poter controllare la sua presa sul mondo.
Come funziona? Basta una puntura di Kallocaina per spingere chiunque a spiattellare ogni segreto con il massimo candore: quel che si pensa ma non si dice può diventare all’improvviso informazione di pubblico dominio, come già capita per ogni altro aspetto della vita collettiva e privata – per quanto possa definirsi tale – dei cittadini-lavoratori. Chi finge fedeltà ma nasconde un cuore sovversivo? Chi si abbandona – nei pochi coni d’ombra disponibili – a comportamenti antisociali? Chi trama? Chi non denuncerebbe alla polizia un tradimento? Chi osa pensare con la propria testa? Chi dubita dello Stato? Con il siero di Kall è ora possibile scoprirlo… e una sostanza così potente non può di certo passare inosservata. Cosa ne farà il regime? Quale futuro può prospettarsi, se nemmeno le intenzioni e le ipotesi possono più dirsi al riparo dal controllo totale?
Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.
Con 



Cosa succede? Una scrittrice incontra per caso per strada l’attrice che una quindicina d’anni prima aveva interpretato il personaggio “scandaloso” del suo libro d’esordio, bestseller lettissimo e chiacchieratissimo. Sia la carriera di Clara T. che della nostra autrice sembrano aver seguito parabole di “contrazione” della fama ipertrofica degli inizi ma, se la scrittrice ha continuato a lavorare e si è costruita una famiglia felice e “regolare”, di Clara T. si sono completamente perse le tracce.




