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Il GGG è il secondo libro che ho letto. Ho cominciato con Le streghe e, visto che mi ero trovata bene con Roald Dahl, ho deciso di fidarmi della collana. Li avevo letti al mare, nella stessa estate. Avevo sette anni e una libreria di fiducia. Ci passavamo la sera, dopo aver finito il gelato. Coi gelati non ti fanno entrare, in libreria. C’era uno scaffale basso pieno di Istrici. Io sceglievo, MADRE pagava. E tutto funzionava molto bene. Una ventina d’anni dopo, Amore del Cuore mi ha regalato la nuova edizione del GGG. Sempre un Istrice, ma con la copertina rigida. L’avevo letto in mezzo pomeriggio, mentre aspettavo che tornasse dal lavoro. Rileggerlo è stato terapeutico. Mi sono sentita super fiera della piccola me. Con tutto quello che c’era nella libreria del mare, io ero riuscita a pescare i due libri per ragazzi (e per persone grandi) più belli mai scritti. La gente non ha a disposizione un numero illimitato di ottime decisioni, nella vita. Io me ne sono giocate due a sette anni nel budello di Loano, in provincia di Savona. E non credo di averne a disposizione molte altre. Cercheremo di farcele bastare.
Ma perché mai ci troviamo qui?
Siamo qui perché la Disney ha finalmente deciso di sfornare il teaser trailer del GGG, diretto da Steven Spielberg. E il mio cuore trabocca di timori e di vaghe speranze. E pure di una certa ilarità. Che ci devo fare. Il GGG, in inglese, si chiama The BFG. E io, accidenti a me, non riesco a vederci un innocente The Big Friendly Giant. Per me è un tragico THE BIG FUCKING GIANT. Per sempre. E senza rimedio. Addio poesia, addio meraviglia dell’infanzia. E millemila applausi alla delicatezza dell’acronimo italiano. Grande Gigante Gentile. Un titolo che è riuscito a preservare la mia innocenza fino a un’età francamente eccessiva.
Ma com’è questo benedetto trailer?
Beccatevelo qua.

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Trattandosi di un teaser, non è che si capisca un granché. La piccola Sofia ha un greve accento inglese e un taglio di capelli di un’inclemenza rara. L’orfanotrofio è un orfanotrofio regolamentare. E il GGG è sufficientemente grande da suscitare un legittimo timore. Non sappiamo se le sue orecchie saranno della dimensione giusta. Non c’è traccia della sua bizzarra sintassi. Non c’è ombra di cetrionzoli. Il procedimento di soffiaggio dei sogni non è stato ancora affrontato. Non ci sono giganti selvaggi e crudeli. La regina d’Inghilterra non ci ha ancora onorato della sua presenza – con o senza corgi. Insomma, ne sappiamo come prima. Ma possiamo cominciare a crederci. È un trailer incredibilmente cauto e guardingo. Il che, forse, può farci ben sperare. Perché la cautela e la circospezione possono anche essere sintomi di estremo rispetto – per un libro meraviglioso e per noi ex-mini persone che hanno imparato ad amare la lettura grazie a questa storia. Non nutro una fede cieca e assoluta nelle capacità di Steven Spielberg. Certo, mica è il primo cretino che s’incontra dal panettiere… è che, di base, non sono il tipo. Propendo per i presagi di sventura, così poi non ci rimango male. In questo caso, però, vorrei provare a sperarci. Spero che Spielberg non si sia dimenticato di noi. E che, in qualche modo, abbia provato a immaginare tutto quello che ho immaginato io da piccola, in spiaggia, con il mio Istrice in mano e MADRE che m’inseguiva per spalmarmi la crema solare. È un libro incredibilmente conciso, per la vastità di quello che racconta. Lo schermo del cinema sarà grande abbastanza? Vedremo. Intanto, proviamo a metterci un po’ di fiducia. Metti mai che, per una volta, finirà per andarci bene.

 

In generale, sono stata una bambina molto fortunata. E Harry Potter, senza ombra di dubbio, fa parte a pieno titolo delle cose felici che mi sono capitate crescendo. Imbattersi in un universo di questo genere è raro, nella vita di un lettore. Che ti capiti mentre stai diventando grande, poi, è piuttosto miracoloso. Le “mie” edizioni di Harry Potter sono un gran casino. I primi due sono in italiano, gli ultimi cinque in inglese – tutti diversi. Ordinavo la mia copia online – su Bol, pensa te – appena usciva il nuovo libro, senza badare troppo al packaging. Alcuni hanno la copertina dell’edizione “da grandi”, altri quella illustrata. Ora, a casa, abbiamo in tutto 21 libri di Harry Potter, compresi i due cofanetti completi – quello blu con il castello di Hogwarts e quello psichedelico con le coste fotoniche e i collage con gli animali pazzi. Si narra che quelle copertine siano, in assoluto, le preferite dalla Rowling, ma continuo a sperare che si tratti di una pura leggenda metropolitana. Comunque. I “miei” Harry Potter sono ancora a Piacenza, esattamente dove li avevo lasciati. Forse, però, è arrivato il momento di portarli qui e di presentarli alla nuova edizione Salani con le illustrazioni di Jim Kay. Perché un libro così è una garanzia di felicità, proprio come la felicità che ho provato da piccola quando ho scoperto che al mondo esisteva la saga di Harry Potter.

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Qualche parruccone potrebbe dire che Harry Potter è un libro che non ha bisogno di illustrazioni. Racconta un mondo così ricco, ramificato e vivo che, chiedendo a qualcuno di rappresentarlo, si finirebbe quasi per rovinarlo. Con i film, tutto sommato, ci è andata bene, ma mettere dei disegni di fianco a una storia – e ritrovarsi tutto quanto in mano, in un libro vero – è un’altra faccenda. La lettura, un po’ come la fantasia ben coltivata, è un lavoro solitario. La puzza di una pozione, il baccano sulle tribune di un campo da Quidditch e l’aspetto di un Dissennatore sono, in fin dei conti, una questione molto privata. Ho visto i Dissennatori al cinema, ma continuo a immaginarmeli a modo mio… e niente, temo, potrà farmi cambiare idea. Quello che posso dire, dopo aver sfogliato La pietra filosofale è che questa nuova edizione è incredibilmente affascinante, ma anche molto “rispettosa” del nostro amore per la saga. Perché quelle di Jim Kay sono illustrazioni da lettore. Sono di una precisione maniacale, ma sono anche diverse da tutto quello che ci è capitato di vedere prima. Non si mangiano la storia, le crescono attorno – come un commento saggio o un approfondimento interessante. Sono i disegni di una persona che, in un modo o nell’altro, adora questa storia quanto la adoriamo noi. E ce ne sono un milione, di questi disegni. Le pagine sono piene di macchioline d’inchiostro, i capitoli cominciano sempre con una cornice “tematica”, ci sono paesaggi a pagina piena, castelli e personaggi che spuntano all’improvviso e, in ogni angolino, si nascondono dettagli inaspettati. Ho trent’anni e un brutto carattere, ma se mi accorgo che un artista si è preso la briga di incidere un microscopico “T RIDDLE” sul portone che fa da sfondo a un ritratto di Hermione, un po’ mi emoziono. E gli sono istintivamente grata.
Adoriamo tutti insieme:

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Saltellini.
Cricetini festanti.
Vulcani che eruttano fenicotteri!
LACRIME GLITTERATE.
Per concludere il tour, parlerei anche del prezzo. Questo libro bellissimo costa 29 euro. Ora, 29 euro possono essere molti o pochi. Il molto o il poco dipendono dalla vostra disponibilità economica, dalla vostra propensione all’investimento o al risparmio e dalle vostre priorità di consumo in un dato momento storico. Qui, però, non stiamo parlando di 29 euro in senso generale. Stiamo parlando del prezzo di questo specifico libro. Bene? Bene. Cortesemente, non venitemi a dire che 29 euro per questo libro sono tanti, perché vi denunzierò ai centauri. E vi consiglierò anche un corso accelerato dal titolo “Come si fa un’edizione illustrata fighissima”, seguito dall’approfondimento “Se non capite perché questo strabiliante volume non costa 5 euro e 90, vi meritate Newton Compton. E pure Geronimo Stilton”. L’affermazione “Mi piacerebbe un casino, ma in questo momento non me lo posso permettere perché ho appena sganciato 160 euro di gas –  ma conto sulla benevolenza di Babbo Natale” è del tutto accettabile e legittima. L’affermazione “Minchia, zia! Costa troppo! Ma che è, d’oro?” scatenerà l’orda di centauri.
Non credo di dover aggiungere altro.
Visto che non posso fotografarvi maldestramente l’intero TOMO – e che, in tutta franchezza, auguro a chiunque di portarsene a casa una copia da spulciare con infinita attenzione -, mi fermo qui. Sfogliatelo quando siete tristi, convertite i miscredenti, allevate basilischi e preparate una carbonara con Peppa Pig.

 

Siamo arrivati a quel momento dell’anno in cui la gente si chiede che cosa leggere durante le vacanze. La cosa divertente, però, è che tutti pensiamo ancora all’estate come se fossimo alle superiori. DUE MESI! Ho bisogno di almeno CENTO libri da mettere in valigia! Leggerò la Recherche in francese, dalla prima all’ultima pagina! La verità, purtroppo, è che le nostre sontuose vacanze non sono più delle vacanze. Sono delle pulciose ferie. E durano due settimane, un lasso di tempo decisamente troppo breve per portare a termine i faraonici progetti di lettura che la nostra psiche, contro ogni evidenza empirica, continua ad associare ai mesi più caldi e tecnicamente spensierati dell’anno. Pur invitandovi ad accettare la crudele realtà, non posso fare a meno di unirmi al carrozzone dei “consigli di lettura sotto l’ombrellone”, esortandovi – con tutte le energie che l’afa mi permette di sprigionare – a comprare Auro Ponchielli contro la fine del mondo di Alessandro Pozzetti, pubblicato da NN edizioni – nati da poco e, proprio per questo motivo, decisamente incoscienti… ma sempre più degni d’amore.

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Quanto sono belle, le copertine di NN?
Comunque.
Ci sono tanti libri, là fuori, che provano – invano – a farci ridere. Auro Ponchielli ci riesce. Ma più o meno ogni otto righe. Io non sono una che ride facilmente, quando legge qualcosa. Tanto per farvi capire, sono la classica persona che rimane impassibile mentre risponde a un messaggio utilizzando decine di emoji incredibilmente sorridenti. O che scrive HAHAHAHAHA senza fare una piega. Anzi, mi acciglio pure un po’, perché sono consapevole dell’imperdonabile contraddizione generata dalla mia faccia di legno e mi sento automaticamente in colpa, come se stessi raccontando una bugia colossale. Ma questo non ci interessa granché. Quello che vi serve sapere, invece, è che questo libro – non si sa come – è riuscito a produrre un miracolo in stile Ammaniti. L’Ammaniti cazzaro, che se lo leggi in pubblico fai anche delle figure da imbecille perché sghignazzi fortissimo e ci piazzi pure qualche grugnito. Perbacco, Tegamini, che paragone azzardato! Attaccatevi al tram, a me ha fatto quell’effetto lì… anche se non ho idea di chi sia questo Alessandro Pozzetti. La storia, alla luce di tutto ciò, non è particolarmente importante. O meglio, è importante il fatto che sia molto ben costruita. Ci sono tanti personaggi – appena scappati da Arkham, in pratica -, che si muovono in un bellissimo presente frantumato. Ogni pezzetto contribuisce a far procedere la trama, in un saggissimo salta di qua-salta di là che ti fa venire voglia di continuare a leggere, sopprimendo l’irresistibile e sacrosanto bisogno di chiamare il 118.
Ma che roba è, però? Visto che non c’è modo di riassumere la storia senza rovinarvi il surreale gusto della lettura, dirò delle cose a casaccio sui personaggi. Il capitano di questo libro è un trentottenne sfigato – afflitto da stitichezza cronica – che, immischiandosi in qualcosa di molto più grande di lui, riesce a salvare il mondo e a sentirsi un po’ meno un caso umano. Il suo migliore amico è un tizio che si guadagna da vivere interpretando Gesù. Il suo capo è un maniaco megalomane che sella la moglie e la mette a quattro zampe su un prato d’erba sintetica, if you know what I mean. Il suo amico invisibile è Clint Eastwood. E la sua fidanzata è una tizia spigolosissima con dei capezzoli insolitamente mobili. Nel libro ci sono anche Zanna, conduttore radiofonico dall’inspiegabile carica erotica, il Papa – per la prima volta nello spazio -, Niki Lauda, uno spirito vendicatore, Adriano Celentano – nelle vesti di un supercomputer senziente -, un settore ultrasegreto del governo degli Stati Uniti, svariati milioni di vecchi tabagisti con strabilianti capacità digestive, un attore mancato, Rino Tommasi che si trasforma in un pesce, Bud Spencer, una Delorean, una hippy decrepita piena di propositi rivoluzionari, un congegno capace di materializzarvi davanti tutto quello che volete, una stirpe aliena alla deriva, una scimmia che parla e una pornostar con la sindrome di Stoccolma.
Insomma, una casino di proporzioni epiche.
Come faccia il Pozzetti a far funzionare una tale accozzaglia di assurdità – riuscendo anche a spiegarci perché i vecchi guardano i lavori in corso – lo lascio scoprire a voi… anche se le vostre ferie saranno probabilmente uno schifo.
In alto i pinguini!
Lunga vita ai cantieri!
Potere alla pizza quattro formaggi!
Chi non ride è un pubblicitario sadico!
😀

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Dunque. Siete andati a vivere da soli, finalmente. Ed è tutto bellissimo. Mangiate tonno in scatola cinque giorni a settimana (ricavando le vitamine necessarie al vostro sostentamento dal pomodoro che c’è sulle molteplici pizze che ingurgitate nel weekend insieme ai vostri amichetti), sperate che non vi caschi un bottone perché non ve lo sapete riattaccare e tornate a casa quando vi pare, senza dover fronteggiare vostra madre che, alle quattro e cinquanta del mattino, vi aspetta in camicia da notte al tavolo della cucina. Con una falce in mano.

Ma che cos’è che voglio dire.

I giovani virgulti che si levano dai piedi, tipicamente, sono costretti a lasciare a casa buona parte dei libri con cui sono cresciuti. In certi casi è meglio così. Spesso, però, è un gran peccato. Ma che ci volete fare. Col vostro stipendio vi potete permettere uno sgabuzzino per le scope, che libri volete portarvi. Pace, andrete all’Ikea, comprerete una di quelle mini-librerie da 22 euro e 90 e la ficcherete nell’unico angolo libero. E ci metterete i libri nuovi, quelli che vi accompagneranno trionfalmente in questa fase super avventurosa della vostra esistenza. I libri nuovi, dopo qualche mese, cominceranno ad invadere il pavimento. Si ammucchieranno sul comodino. Si impossesseranno di una porzione piuttosto rilevante del tavolo dove consumate frugalmente le vostre Spinacine. Vi sveglierete di notte per fare la pipì e, nonostante iTorcia, ne butterete in terra una pila. Ma sarete contenti, perché tutti quei nuovi libri li avete letti voi. E pazienza se non avete un posto decente dove immagazzinarli. Nel vostro disordine c’è comunque del criterio. Voi lo sapete. E che gli altri si attacchino al tram.

All’improvviso, se vi andrà particolarmente di culo, potreste innamorarvi a tal punto da decidere di traslocare, scegliendo consapevolmente di vivere con un altro essere umano. Una persona importante, la persona che potrebbe stare al vostro fianco per tutta la vita… o almeno così vi sembra. Farete il bucato, per questa persona. Mangerete negli stessi piatti. Vi scambierete fluidi corporei, a più riprese – e con una certa veemenza. Condividerete un bagno, delle lenzuola, la bottiglia d’acqua che sta vicino al letto per quando vi svegliate col mal di gola e non avete voglia di trascinarvi fino in cucina. Con questa persona programmerete delle vacanze, acquisterete un gatto anallergico e addobberete l’albero di Natale. Proprio voi, che immaginavate di invecchiare da sole – in una cantina buia piena di ratti scontrosissimi -, con questa persona riuscirete ad immaginare un futuro. Siete così felici e in pace che non litigate neanche. Vi verrà voglia di preparare delle torte. Maneggerete il terribile contenuto di una borsa del tennis piena di calzini sudati senza fare una piega. Per sbaglio, poi, una sera vi laverete i denti con lo spazzolino del vostro consorte. E, con vostra grande sorpresa, non verrete assaliti dall’irrefrenabile necessità di strapparvi la faccia.
Accadrà tutto questo. E anche qualcosa in più. La vostra gioia sarà così potente da condensarsi in una forma solida, sfaccettata e scintillante, che sventolerete con grande soddisfazione – e una certa tracotanza – in faccia alle vostre amiche. Ma nemmeno dopo aver ricevuto un anello di fidanzamento riuscirete a fare qualcosa di apparentemente semplicissimo. Nemmeno dopo aver tagliato una torta multistrato con sopra due improbabili dinosauri di ceramica riuscirete ad accettare l’idea mostruosa di disperdere e incasinare i vostri libri. Quelli vecchi, quelli nuovi, quelli che ancora dovete leggere. Sono vostri. Vi appartengono. Li avete portati in giro, vi hanno fatto compagnia, ci avete trovato dentro una quantità sterminata di cose. Vi piace girarvi e dire “Insomma, ho letto tutti questi libri. Vuol dire che qualcosa di buono l’ho combinato, alla fin fine”. E vi dispiacerà molto, ma non ce la farete proprio. Alla domanda “Gallina, ma nella casa nuova le possiamo unire le librerie?” risponderete ancora una volta con un risolutissimo NO. Le librerie no. Le librerie non si toccano, non si uniscono, non si ingarbugliano. Zero. Né ora, né mai.

 

Il regno è in festa! Abbiamo la libreria, finalmente! Vittoria! Saltini! Pioggia di cuccioli!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

Un tratto di costa disabitato da trent’anni.
Un confine invisibile che delimita una zona dove la natura è tornata a regnare indisturbata, generando un’anomalia capace di sovvertire le leggi della materia, del tempo e del ricordo.
Un’organizzazione governativa top-secret.
Quattro donne – una biologa, una psicologa, un’antropologa e una topografa – pronte a lasciare il “nostro” mondo per decifrare definitivamente il mistero dell’AreaX – nonostante il fallimento delle dodici spedizioni precedenti.
Un faro.
Un tunnel.
E voi lettori, che vi prenderete proprio benissimo.

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Per questo libro ho provato un amore istantaneo. Ne ho sentito parlare per la prima volta in casa editrice, lo scorso anno. C’è una riunione, ad un certo punto, che serve a spiegare a tutti quanti che libri usciranno in un certo periodo. Arrivano gli editor, distribuiscono un mucchio di fogli di carta e raccontano – a quelli che fanno un lavoro decisamente meno bello del loro – che cosa vogliono pubblicare. Sulla Trilogia dell’AreaX di Jeff VanderMeer si sono dovuti impegnare un casino. Un po’ perché VanderMeer, con la sua sterminata produzione di romanzi fantasy e fantascientifici, non è proprio un classico personaggio da Supercoralli, e un po’ perché la Trilogia è, senza dubbio, un serpeggiante oggetto non identificato. Vivo. Anzi, mutante. Nei mesi successivi, un po’ alla volta, mi sono letta tutti e tre i romanzi, stupendomi moltissimo per la costruzione icredibilmente precisa, per le complicatissime e grandiose stratificazioni della narrazione, per i millemila piani temporali e per la vasta e diffusa stramberia del mistero che mi ero trovata ad esplorare.

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L’edizione americana della Trilogia. Mi sembrava sufficientemente arrogante, ma ancora non avevo visto il Supercorallo.

Sono proprio superfelice, dunque, che Annientamento sia finalmente arrivato in libreria, devastando le gabbie grafiche einaudiane con un bombardamento di stelle marine fosforescenti, piante striscianti, conigli bianchi e faldoni pieni zeppi di documenti segreti. Il primo volume della Trilogia è uscito questa settimana, mentre AutoritàAccettazione si potranno leggere a giugno e a settembre. Non sono abbastanza colta per lanciarmi in dissertazioni sul New Weird – genere ibrido “inventato” da VanderMeer medesimo – o per produrre una saggia carrellata di illustri paragoni letterari, ma posso provare a trasmettervi tutto lo stupore e la gioia che ho provato nel trovarmi davanti a una storia così profondamente bizzarra e tentacolare. Annientamento è un romanzo fatto di metamorfosi inspiegabili e, allo stesso tempo, perfettamente plausibili – almeno all’interno di un mondo naturale che fagocita e “digerisce” tutto quello che incontra. È un romanzo in cui il senso di minaccia è costante, quasi come il bisogno fortissimo di scoprire la verità. È un libro in cui ogni personaggio diventa parte integrante del grande enigma dell’AreaX, dove ogni elemento – anche il più comune – diventa qualcosa di “altro”, incomprensibile e lontanissimo. Vi imbatterete in condizionamenti psicologici, menzogne, scienziati quasi pazzi, mariti perduti, taccuini e costruzioni sotterranee che compaiono all’improvviso sulla mappa. VanderMeer, particolare dopo particolare, costruisce un intero mondo, governato da leggi complesse e destinato a stravolgere la realtà che conosciamo.
Cioè, mica bricioline.

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Le copertine dei tre romanzi – tutti tradotti da Cristiana Mennella – sono state magicamente disegnate da Lorenzo Ceccotti. Se volete sentire che lavoraccio è stato, qua c’è il video-discorsone che Lorenzo ha preparato per me e per gli altri fortunati blogger e giornalisti gitanti (più Michela Murgia) che si sono precipitati alla presentazione della Trilogia in casa editrice, con tanto di Jeff VanderMeer (sommerso da gatti incredibilmente affettuosi ed espansivi) in collegamento Skype.

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Avevamo un maxischermo, milioni di cose interessanti da ascoltare e tutti i comfort possibili e immaginabili, ma uno dei momenti più memorabili ci è stato regalato dagli Annali della Storia d’Italia, trasformati in un versatile e sapiente tavolino.

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Se, invece, la faccenda del PVC trasparente vi ha dato dei pensieri e non siete troppo sicuri di aver capito bene, non vi resta che dare un’occhiata ad Annientamento. A denudarvelo ci ho pensato io.

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Per concludere – e per facilitare il vostro avvicinamento all’Area X, mentre aspettiamo che la Trilogia arrivi al cinema (come ci ha anticipato il buon VanderMeer) – mi sono sentita in dovere di compilare una breve lista di tutto quello che potrebbe spaventarvi a morte dopo aver terminato la lettura di Annientamento:
– i delfini
– i bruchi
– i vasi di fiori e la vegetazione nel suo complesso
– i vostri amici che han studiato psicologia e vi rivelano che l’ipnosi è una roba interessantissima
– il vostro analista
– le agende Moleskine
– la gente che grida e si lamenta (soprattutto se non potete vederla)
– la predica in chiesa (se già non vi fa paura)
– la burocrazia
– X-Files
– il giardiniere
– i funghi
– le spore
– il muschio
– le pareti umide
– la muffa
– i fari abbandonati
– il direttore generale del posto dove lavorate
– i sotterranei
– le scale
– l’orizzonte
– le grandi distese d’acqua
– tutto quello che al mondo c’è di fosforescente.

Spassatevela, caroni. E non preoccupatevi troppo: finché la spia rossa sul vostro scatolino non si accende, siete al sicuro.

***

Grazie di cuore ad Einaudi per avermi fatta tornare a casa… almeno per una giornata.
Grazie a Canon per avermi permesso, ancora una volta, di fare delle foto sensate con la G7X.
E grazie ai librai che capiranno dove esporre Annientamento. Non mettetelo nella sezione del fantasy. Non mettetelo nella sezione fantascienza e nemmeno in mezzo ai romanzi per ragazzi. Pigliatene una pila alta così e piazzatelo davanti alla porta. Perché è lì che deve stare. 

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Benvenuti, questo è il Vedileggi. La rubrica che esiste – suo malgrado – per raccontarvi che cosa ho letto e visto nel mese X. Questo mese – e solo per questo mese -, X = febbraio. Grande Giove! Sembrerebbe una gloriosa rottura di balle… e invece no. Perché ci sono le GIF animate.

***

Lucy

Sono dieci minuti che provo a scrivere qualcosa su questo film di Luc Besson, ma non so da che parte cominciare. Sul serio, il disagio mi strangola. Atteniamoci dunque ai fatti. Scarlett Johansson, sfigurata da un infelice taglio di capelli, viene rapita da un pingue gangster asiatico e, dopo un intervento chirurgico incredibilmente rapido, si ritrova con la pancia imbottita di bizzarri sacchetti di droga. A questo punto, Scarlett-Tacchino-Ripieno-Johansson viene presa a calci da un carceriere poco lungimirante e, grazie a una qualche diavoleria cellular-metabolico-molecolare, la droga comincia massicciamente a fondersi con il suo nobile organismo, trasformandola in una specie di Gesù telecinetico che tutto vede, tutto sa e tutto può. Il domandone generale è il seguente: che cosa accadrebbe se usassimo il 100% delle nostre facoltà cerebrali? Che problema c’è, chiediamolo a Morgan Freeman. Il distinto signor Freeman, ancora una volta, viene chiamato ad interpretale uno dei tre ruoli che ha passato la vita a perfezionare: la divinità, il saggio, il presidente degli Stati Uniti. Qua, visto che fa il genetista – o qualcosa del genere – possiamo farlo passare per saggio. Senza riuscire a nascondere il proprio imbarazzo – ogni volta che dice qualcosa, infatti, Besson ci attacca dietro degli improbabili spezzoni di documentario pieni di mufloni che crepano, coccodrilli che nuotano e mangrovie che crescono -, Morgan Freeman accoglie Scarlett-Gesù nel suo laboratorio, assistendo alla sua trasformazione finale in un mucchio di nafta semovente.
Ma quindi il senso della vita…?
Ma allora l’umanità dovrebbe…?
Cioè ma cosa possiamo imparare da questa strabiliante metafora di…?
Ma noi…?
Ma allora la scienza…?
Non ci sarà dunque mai dato sapere come fare a…?
…io non lo so. Sarà che uso una porzione troppo esigua del mio cervello.
E un gigantesco WTF solcò il cielo.

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Nymphomaniac II

Cosa facevamo, ne guardavamo solo un pezzo? Giammai!
Mi ha messo una tristezza unica, questo secondo capitolo. E non tanto perché la povera Jo sia una che si diverte a farsi prendere a scudisciate da Billy Elliot, macché, è il finale. Ci sono rimasta male. Malissimo. Disperazione e scoramento. Non perché sia un “brutto” finale – anzi, è assolutamente glorioso -, ma perché è proprio uno sputo in faccia a tutto quello che di buono e bello ti aspetteresti dall’umanità. Una tempesta di cacca che investe il bucato bianco di vostra nonna. Una slavina che travolge una capanna piena di gattini e speranza. Il cavallo Artax che affonda nelle sabbie mobili, mentre il Nulla vi fa dei pernacchioni.
Aaaaah! Ma andatevene tutti quanti a quel paese!

Love-and-Other-Drugs

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Marco Peano, L’invenzione della madre (Minimum Fax)

https://instagram.com/p/ynLsmUFdDq

Quando è uscito questo libro, l’intera galassia ha esclamato ERA ORA, PERBACCO! Non si sa perché, ma tutti sanno – da sempre – che Marco Peano è uno scrittore. Dev’essere l’andatura. La roba strana che ti racconta. O l’incredibile coerenza che lo spinge a vestirsi sempre e solo di nero. O Michele Mari che vuole essere seguito solo da lui, quando gli esce un Supercorallo nuovo. Non so, se si fida Michele Mari, chi siamo noi per dubitare. Insomma, si sapeva già, che Marco Peano avrebbe scritto qualcosa, prima o poi. E finalmente abbiamo L’invenzione della madre.
Non so cosa mi aspettavo, da questo libro. Quando una persona che conosci – anche solo un pochino – scrive qualcosa, si cerca di fare un passo indietro e di non partire prevenuti. Ti viene anche un po’ d’ansia… e se poi è una scemenza? E se non lo capisco? Insomma, se una persona che conosci scrive un libro, senti il bisogno di creare una piccola distanza, e di fartelo piacere. Ecco, L’invenzione della madre vi toglierà dall’imbarazzo. Una storia così non ti può piacere. Almeno non come potrebbe garbarti una tortina tutta glassatina, fruttatina e zuccheratina. L’invenzione della madre, tanto per farvi capire, è un po’ come pigliare uno che soffre di vertigini e appenderlo a un viadotto. È un libro durissimo, indigesto, doloroso. Vi verrà voglia di sbudellarvi in Piazza Duomo, coi piccioni che vi becchettano le palle degli occhi. Un libro capace di conciarvi in una maniera così miserabile è raro e prezioso. E sono felice che Peano sia finalmente riuscito a farcelo leggere.
Tié.

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Antonio Riccardi, Cosmo più servizi (Sellerio)

https://instagram.com/p/y4ZDg9ldGg

 

In questo volumino troverete incresciosi segreti di famiglia, animali impagliati – a Parigi, mica a Buccinasco -, giardini congelati, pietrificatori di materia viva, diorami, montagne di gazzelle artisticamente carbonizzate, cimiteri monumentali e vecchie zie veramente devotissime. Questa raccolta di saggi, in pratica, è una puntata di Mistero… solo che non c’è Pinketts che ronfa su una seggiola. Ci sono, invece, curiosità super leggiadre e meraviglie nascoste, ricordi che si mescolano a pomeriggi passati al museo, cose antiche – spesso decomposte – e installazioni iper tecnologiche, libri, bellezza e carabattole.
Gioia, amici. Gioia.

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Birdman

Amore del Cuore, ma hai visto? Sembra un unico piano sequenza! E quanto è stronzo Edward Norton? Cioè, è proprio Edward Norton! Anche Michael Keaton è lì che racconta la sua vita! E c’è addirittura Carver! E gli occhi di Emma Stone SONO SEMPRE PIÙ GROSSI! Come diavolo è possibile! Non ci credo, la batteria che ci rintrona da mezz’ora? È quel tizio lì! …ma dici che vola veramente? Che dialoghi interessanti e ingarbugliati… va bene, certe volte parte un pippolone, ma mi sorbisco volentieri anche quello. Cielo, la magia del teatro! La telecinesi!
Birdman mi è piaciuto moltissimo. Sarà perché è un po’ un oggetto volante non identificato. Sarà perché è qualcosa di incredibilmente bizzarro e originale. Sarà che è bello quando il cinema, di tanto in tanto, ti spiazza con qualcosa che non ti aspetti. Stupore, amici dei cuccioli. Stupore.

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Better Call Saul – 1×01 + 1×02

Orfani di Breaking Bad, accorrete – ma non troppo velocmente! Saul Goodman è venuto a soccorrerci… anzi, Saul Goodman e una valanga di altra gente in vena di divertirci con assurdi cameoS. Cameo ce l’ha un plurale? Perché CAMEI mi suona veramente malissimo.
Comunque.
Better Call Saul comincia in bianco e nero. All’insegna della mestizia, del fallimento e della pasticceria industriale. E non è che la vita del nostro eroe, prima di diventare effettivamente il Saul Goodman che conosciamo, sia poi tutta questa gran festa. Scopriremo che, da giovincello, si guadagnava da vivere spaccandosi le gambe sul ghiaccio. Di proposito. Ci troveremo di fronte ad abissi di squallore senza fondo, da studenti che si accoppiano con teste mozzate ad uffici-ripostiglio nel retro di deprimenti saloni di bellezza cinesi. Better Call Saul è un mini-festival del grottesco, dell’espediente maldestro e del malinteso. E, no, per ora non è Breaking Bad, ma ho molta voglia di vedere come andrà a finire. Saul, d’altra parte, ha sempre bisogno di un pochino di tempo per carburare. In alto i bicchieroni di caffé.

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Vikings – 1×03 + 1×04

Ve lo dico con sincerità. Vikings lo guardo solo perché sono tutti incredibilmente arroganti, biondi e sbruffoni. E per imparare a farmi le trecce come una vera guerriera. Nemmeno nel diamine di Trono di Spade ci sono delle pettinature così gloriose, improbabili e barocche. Lagertha, conducimi dal tuo parrucchiere!

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Italiano medio

Maccio Capatonda ha allietato gli anni migliori della mia vita. Una sera l’ho pure incontrato nel posto meno avvincente del mondo. A Piacenza c’è questo locale che si chiama Baciccia. Una specie di cascina trasformata in un serraglio per gli amici della birra. Niente, una sera – come sempre senza senso – siamo andati al Baciccia e ci siamo accorti che, lì in mezzo agli altri esseri umani, c’erano Maccio Capatonda e Rupert Sciamenna. Perché erano lì? Che cosa speravano di trovarci? Da dove arrivavano? Avevano già fatto visita al sudicio paninaro in fondo alla strada? Che ne pensavano della mia città natale? Ci sarebbero mai tornati? Chi lo sa. Ci siamo fatti una foto insieme e tanti saluti.
Perdonatemi, ma ci tenevo proprio a raccontarlo. Tutti hanno un aneddoto insignificante, da qualche parte. Se c’è un VIP, poi, ancora meglio. Per dire, MADRE ripete da trent’anni che, una volta, Ornella Muti mi ha presa in braccio. Anche lì, nessuno ha mai capito perché. Ornella, ti prego, spiegamelo.
Dicevamo?
Ah.
Dicevamo che Maccio Capatonda è stato molto importante per me. Ho passato settimane bianche a intonare i lamenti di Mariottide in seggiovia. Ho cercato invano di scoprire che faccia avesse il piccolo Riccardino Fuffolo. Tutt’ora, alla bisogna, dichiaro di avere i pugni nelle mani. E, ogni volta che vedo un medico, la prima cosa che vorrei fare è strillargli DOTTORE CHIAMI UN DOTTORE. Maccio Capatonda è un genio. È il maestro indiscusso della trollaggine. Ed è il capo degli zarri, anche se riesce a farsi passare per un acuto e illuminato mago della satira.
Ma chi se ne importa.
SCOPARE!
Per me, alla fin fine, Italiano medio è soprattutto un collage di antiche felicità. Certo, fa ridere. Chiaro, si potrebbe addirittura sostenere che smascheri con sagacia e impareggiabile acume ogni bruttura della nostra società, dal menefreghismo dilagante all’ignoranza più gretta e distruttiva. Io, però, mi diverto un sacco anche a guardare cinque minuti di Anna Pannocchia in tutù rosa – e rasta – che balla in un corridoio.

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Lehman Trilogy (Piccolo Teatro)

Avevo vicino questa signora fastidiosa. La classica signora con il sedere ripieno di suricati, quelle che vanno a teatro perché così possono dire che sono intelligenti, quelle che fanno SHHHH se qualcuno osa ridere un po’ più forte degli altri e che si stizziscono se, accidentalmente, la codina della tua sciarpa finisce per invadere – di massimo un centimetro – il loro spazio vitale. Ebbene, io – che passo le giornate a guardare le lontre neonate su internet – ho spavaldamente affrontato cinque ore di spettacolo senza battere ciglio. La signora, invece, si è ingloriosamente addormentata a metà del primo atto, facendomi incazzare come una bestia. Ma che storia è! Vieni qua a fare la paladina delle arti, ci rompi i coglioni per un colpo di tosse e a “Lo spettacolo sta per iniziare. Si prega di silenziare i cellulari” commenti “Ah, sarebbe anche ora…”, e poi ti addormenti come una mondina devastata dagli stenti e dalla disidratazione. Non sai dove buttare i tuoi 40€? Dalli a me, invece di comprarti i biglietti di Lehman Trilogy! Maledetta!

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Sempre alla fine del primo atto – della durata di due ore e trentacinque minuti -, i vicini di Amore del Cuore ci hanno deliziato con la seguente conversazione.
Ah, ma no, il Giangi tirerà su duecentomila l’anno.
Vabé, capirai.
Eh. Ma ti pare?
Ma guarda te.
Senti, però. Ti chiedo una roba, che non so mica se ho capito.
Dimmi, ciccia.
Ma questi Lehman qua.
Eh.
Sono quelli della Lehman Brothers, no? Che magari mi sono persa qualcosa, non lo so.
Sono loro, ciccia.
Ah, ecco.
Sono quelli che hanno causato la crisi!
…merde!
Luca Ronconi, grazie al cielo, non è stato costretto ad assistere a questo scempio. Comunque, Lehman Trilogy viene da un libretto di Stefano Massini (che potete comodamente leggervi anche nella Collezione di Teatro made in Einaudi). E noi ce lo siamo visto al Piccolo (QUELLO IN VIA DANTE, PER CARITÀ, NON COMMETTETE IL NOSTRO ERRORE), con grandissima felicità. La storia è quella della famiglia Lehman, dei tre fratelli bavaresi che, arrivati in America alla metà dell’Ottocento, sono riusciti a costruire dal nulla – ma dal nulla vero – uno dei colossi della finanza moderna. È una storia di usanze, religione, origini, sangue e tradizioni. E di soldi, scambi e controllo. Meravigliosamente recitato, saggiamente minimalista e assolutamente ipnotico, Lehman Trilogy è istruttivo, affascinante e per nulla pomposone. Il capitalismo spiegato a chi non sa usare un foglio Excel! E, cosa non da poco, non dovete per forza vedervelo in cinque ore filate. Lo fanno anche spezzettato in due. Chiedete al Giangi se vi trova un paio di biglietti. Sempre che il crollo della Lehman non l’abbia mandato in rovina…

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Sentiti ringraziamenti ad Amore del Cuore per questo banner spaccainternet.

 

Visto che Steven Soderbergh me l’ha chiesto espressamente – ma proprio di persona, con un cabaret di pasticcini in mano e un ghepardo rosa al guinzaglio -, ho deciso di provarci anch’io. Perché l’idea è quantomai avvincente, nella sua grassa semplicità. Il domandone è il seguente: che cosa hai visto/letto nell’intervallo di tempo X? Valgono i libri, gli spettacoli teatrali, le serie TV, i film, le mostre, i fumetti, le etichette della crema idratante, l’opera, il burlesque e pure gli scontrini dell’Esselunga. Insomma, faccende culturali, ludiche e curiosone. Soderbergh, che non ama pettinare le bambole, la lista la mette insieme una volta l’anno. Io, che ambirei ad aggiungere anche qualche commentino a quello che ho masticato, vorrei provare a sfornare un piccolo papiro mensile, divertendo le folle e seminando il disordine. Il mostruoso esperimento, qua nei Tegamini, si chiamerà Vedileggi. E che il cielo ci protegga.
Provo?
Provo. In rigoroso ordine cronologico. E senza vergogna.
Molto bene.

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Fuori in 60 secondi

Sei sul divano con la sacra copertina di ciniglia, cambi canale a caso e, magimagia, esce il faccione di pietra di Nicolas Cage. In uno dei suoi ruoli più acclamati, poi. Vedi Nicolas Cage e una forza misteriosa ti impedisce di scappare. Nicolas Cage balena sullo schermo – con una certa flemma – e te devi per forza dargli retta. Che facciamo, Amore del Cuore? Cioè, è Fuori in 60 secondi. Dobbiamo guardarlo. È una missione, in pratica… se non lo facciamo, lo scaffale con la nostra sarcastica collezione di DVD di Nicolas Cage ci crollerà in terra. Anzi, cadrà sul gatto e ce lo acciaccherà irrimediabilmente. È proprio una questione di coerenza. E poi c’è anche Angelina Jolie coi rasta fatti col dentifricio. LA VITA.
E niente. Siamo rimasti lì a guardare Fuori in 60 secondi. Felici come gli ultimi imbecilli della Terra.

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The Imitation Game

Durante i primi ventisei minuti di questo film, la mia preoccupazione principale è stata una focaccia al pomodoro. Rovente. Untissima. Impossibile da mangiare al buio. Avevo questa focaccia sulle ginocchia, adagiata sul suo civilissimo cabaret. Nonostante il cabaret, un tovagliolo di carta al collo e pure le posate, sono riuscita a tirarmi addosso di tutto. Litrate di sugna. Pezzi di formaggio. Grasso di balena. Gnomi. Nasi finti. Mentre io lottavo con una focaccia, Benedict Cumberbatch – la lontra più espressiva del mondo – combatteva la sua personale battaglia contro il nazismo, i pregiudizi della società, Nonno Lannister, le parole crociate, le clavicole a punta di Keira Knightley, l’impressionante panza che è spuntata all’improvviso all’autista di Downton Abbey e le continue lamentele di Amore del Cuore – il laureato in storia più pignolo e rompicoglioni di sempre… soprattutto quando gli toccano la Seconda Guerra Mondiale.

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Come sottofondo generale – a parte il mio scartocciamento di focaccia e le puntualizzazioni stizzite del mio consorte -, c’erano i vecchi dell’ultima fila, telecronisti mancati. Quando s’è scoperto chi era davvero la spia sovietica, nessuno è stato più in grado di tenerli. Al mio fianco, per peggiorare ulteriormente la situazione, c’erano due fangirl (VECCHISSIME) di Sherlock. Quando il signor Turing s’è messo a correre in braghette corte, hanno praticamente cominciato a strofinarsi sul bracciolo della poltrona, mugolando come scimmie bonobo. E io là con la mia focaccia, troppo disorientata per riuscire a pigliarmi bene per questo film, nonostante l’infinita ammirazione che nutro per il genio di Alan Turing e l’immane sdegno per l’ingiusto e ripugnante destino che gli è toccato.

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Franca Valeri – Bugiarda no, reticente

Franca Valeri bisognerebbe utilizzarla come un oracolo. Costruirle una specie di salottino e metterla lì a dispensare saggezza, fino alla fine dei tempi. Questo libro è una specie di autobiografia, un album di ricordi che parla di carriera, amore, infanzia, teatro e storie. La roba davvero speciale di questo libro, però, è che riesce quasi a rendere comprensibile uno dei misteri più ingarbugliati dell’universo: l’ironia.

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Keith Gessen – Tutti gli intellettuali giovani e tristi

Sarò io che non sono abbastanza sensibile, ma questo libro mi è sembrato involontariamente buffo. Mark, Sam e Keith sono veramente tre cialtroni. Lo spaesamento, il declino post-Clintoniano, la becera era-Bush, gli ideali, le tesi di dottorato, i parcheggi che non si trovano, i grandi punti di riferimento, il viaggio come scoperta del proprio cuore, le differenze. La verità è che a Mark, Sam e Keith interessa solo scopare. Tutto il resto succede perché non ci riescono mai.

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Big Eyes

Ci provo sempre, perché è Tim Burton. Io ci provo, ma non c’è niente da fare. Tutto quello che mi piaceva di Tim Burton è praticamente scomparso. Alice in Wonderland è stato un duro colpo, e dubito che riuscirò mai a dimenticarlo. Dark Shadows mi aveva fatto ben sperare, visto che si trattava di una storia di freak, mostri e scherzi della natura. Ma niente, non ha funzionato neanche quello. I film che cercano disperatamente di essere divertenti mi mettono in imbarazzo. È una situazione tremenda. Ti si stringe il cuore e ti dispiaci un casino, ma proprio non riesci a spassartela. Ti prego, apprezza il nostro umorismo un po’ vintage e strambo! Ti scongiuriamo, amaci!
Zero.
Big Eyes, come succede sempre nella fase “Gente, esce un nuovo film di Tim Burton!” mi ispirava parecchio. Ci credevo. Ero pronta a sfidare il gelo serale e il torpore post-ufficio per trascinarmi al cinema. Insomma, c’è Christoph Waltz. C’è questa matta che dipinge bambini derelitti con gli occhi giganti! Sarà fantastico, me lo sento! Adesso… non è mica un brutto film, per carità. È un film dignitoso. Non ti fa arrabbiare, è pieno di colorini pastello e non insulta eccessivamente la tua intelligenza – a parte la battuta cardine di tutta quanta la baracca: “Perché disegni questi grandi occhi?”, “Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima…”. Solo che… è un film senza cuore. E pure un attimino palloso. Cioè, poi magari è colpa mia, mi sarò trasformata in un’arida istitutrice con una gamba di legno… sarò diventata un personaggio di Bret Easton Ellis. Io non lo so, ma guardare Big Eyes è stato come sedermi per due ore a fissare un ragazzino che non ha voglia di fare i compiti.
Ma forse sono io che ho gli occhi troppo piccoli.

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Guardians of the Galaxy

Meritano tutto il nostro amore. Ora e per sempre.

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Nymphomaniac – Part 1

Tutti a pesca con Stellan Skarsgård!
Tutti ad abbracciare un frassino!
Tutti a prendere lezioni d’organo!
Diamine… CIT.
Non pensavo di essere tagliata per i polpettoni da intellettuali erotomani – ossessionati dalle tonalità più tristi del beige -, ma Nymphomaniac mi è garbato. Sarà che stavo sorseggiando del genepì, ma l’ho trovato estremamente interessante. È un documentario, in pratica. E io adoro i documentari. Non riesco ad accettare che il naso della giovane Jo si sia in qualche modo evoluto fino a trasformarsi nel canappione della vecchia Jo, ma consideratemi a bordo per tutto il resto. Giaguari compresi.

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Joan Didion, The Year of Magical Thinking

Cielo, c’è addirittura una recensione seria!

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La maschera di Zorro

Dopo circa una settimana di diretta dedicata all’elezione del Presidente della Repubblica, Mentana ha deciso di andare a farsi una doccia, lasciandoci in balia del palinsesto di La7. La7, quando non c’è il telegiornale o un talk-show di approfondimento o la Bignardi che intervista casi più o meno umani, si trasforma uno straordinario pentolone di assurdità cinematografiche. L’altra sera, dal niente, è apparso un film imperdibile: La maschera di Zorro, con Anthony Hopkins che fa Zorro vecchio, Banderas che fa lo Zorro-stagista e Catherine Zeta-Jones che fa l’emoticon della ballerina di flamenco. Tra peones cenciosi, sadici soldati ariani, il limone più duro mai apparso sul grande schermo e tramonti dipinti con le tempere, spicca il maestoso cavallo Tornado… vero uomo-partita-Sky della mirabile pellicola. Io me ne vergogno – anche perché non riesco più a distinguere Banderas dal mugnaio pazzo del Mulino Bianco -, ma mi sono divertita un casino. Con buona pace della pancera di Hannibal Lecter e dell’infelice gallina Rosita.

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Joan Didion, Play It As It Lays

Da qualche parte in copertina, c’è scritto che la Didion scrive col rasoio. Zac. Zac. Zac. Implacabile, affilata e precisissima. La copertina, per una volta, dice la verità. Play It As It Lays è il primo Didion-romanzo che leggo – visto che, purtroppo, L’anno del pensiero magico è una storia autobiografica – e continuo ad essere una piccola fan in pieno entusiasmo da super scoperta recente. In questo libro si sale in macchina con Maria, attrice dalla carriera breve e neanche un po’ folgorante, e si guida in giro per Los Angeles. È una storia di fuga, di vuoti perpetui, di aspettative disattese, di chiacchiere e lunghe giornate senza senso. Più che un essere umano, Maria è una specie di pianta che secca, una persona che si trasforma gradualmente in un fossile mentre il resto del mondo continua a girare – che tutto questo girare, poi, possa rivelarsi senza scopo e senz’anima, è un altro paio di maniche. E in queste maniche dovreste proprio infilarvici.
Team-Didion!

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E per questo mese, cari tutti, abbiamo visto e letto a sufficienza.
Per il prossimo Vedileggi – e per ammirare ancora una volta l’header più straordinario di sempre -, ci si ritrova a fine febbraio. Ho già chiamato il Piccolo Teatro per i biglietti di Lehman Trilogy, quindi potrò cominciare a darmi un tono anche come altolocata consumatrice d’impegnata drammaturgia – impegnata e costosissima, cazzo.
Che gli alpaca proteggano le vostre avventure da divano. E raccontatemi i vostri Vedileggi, se ne avrete voglia.

 

Gli abitanti del mondo civilizzato hanno cominciato a leggere Joan Didion circa mezzo secolo fa. E hanno fatto proprio bene. Noialtri, amici del fashionably-late, ci siamo arrivati parecchio dopo. Un po’ per questioni anagrafiche e un po’ per negligenza. Visto che non si può fare granché per riavvolgere il tempo – come The Year of Magical Thinking ampiamente dimostra -, accontentiamoci di questa felicità a scoppio ritardato, che riempirà il nostro futuro di meraviglie ancora sconosciute. Ormai ho deciso di prenderla così: non sono l’ultima della Terra, sono una che ha ancora un sacco di bei libri da scoprire. E ciao.
Joan Didion, lo so per certo, non ha per niente bisogno dei miei evviva. Creatura mitologica dal caschetto infrangibile e dall’intelligenza portentosa, a ottant’anni suonati ha anche deciso di fare la modella, innalzando di circa millemila punti il suo già considerevole livello di LEVATEVI.

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Non potendomi permettere un guardaroba Céline – roba che, con ogni probabilità, mi starebbe pure malissimo -, ho allegramente ordinato The Year of Magical Thinking – in italiano può soccorrervi il Saggiatore – e Play It As It Lays – idem come sopra -, preparandomi a un supremo sbudellamento. L’anno del pensiero magico, infatti, nasce da una tragedia improvvisa e terrificante. La Didion e il marito – sposati (e innegabilmente simbiotici) da quarant’anni – si siedono a tavola come tutte le sere. La Didion si inventa qualcosa da mangiare, c’è il camino acceso, la tavola è apparecchiata. Niente di che… a parte John che ci rimane secco. Ma così, senza un lamento. Arresto cardiaco e morte subitanea, con buona pace di paramedici, infermieri, portieri e dottori. E già ci sarebbe panico a sufficienza. Ma mica finisce lì. Mentre il padre stramazza sulle piastrelle, Quintana Roo – l’unica figlia della Didion e del fulmineamente scomparso messer Dunne – è in coma in ospedale, in preda a una mostruosa setticemia dovuta all’imprevedibile degenerazione di un’influenza apparentemente banale. Ed è pure la settimana del santo Natale.
Aiuto.
Quando ho scoperto per bene di che parlava questo libro, devo ammetterlo, un paio di domande me le sono fatte. Ma voglio leggerlo davvero? A te le storie – più o meno autobiografiche – dove la gente soffre, si dispera e rantola non piacciono mica, gioiosa Tegamini. Non ti fanno bene. Le malattie, per carità. Un libro intero sullo star male, santo il cielo. Il lutto, il rimorso, il terrore dell’ignoto. L’impotenza e la solitudine. Mariti che crepano, figlie in fin di vita. Funerali, cremazioni.
Ma chi te lo fa fare. A te garbano i gattini.
…i gattini, però, possono anche decidere di cavarti gli occhi.

The Year of Magical Thinking, pur mettendoci addosso una paura infinita, è una lettura di rara bellezza. Dopo Livelli di vita di Julian Barnes mi ero quasi convinta che si potesse parlare della morte della persona che più amiamo solo costruendo delle metafore ariose e leggere. Palloni, mongolfiere, corteggiamenti leggendari, cadute e risalite. Anche in Barnes c’è una storia di quotidianità, c’è l’incapacità di accettare un evento troppo enorme per essere mai compreso davvero. Ma tutto questo arriva dopo, come se il dolore più tremendo avesse bisogno di un cuscinetto incredibilmente robusto. Te lo racconterò, ma prima ho bisogno di scavarci attorno un fossato. Che il fossato sia fatto d’aria, poco importa. Joan Didion non fa niente di tutto questo. Ci sono fatti, diagnosi, date, luoghi precisi. Da subito, da sempre. C’è la meccanica di un cuore che smette di battere. E c’è l’ingranaggio di un dolore che si mette in moto, tirandosi dietro i ricordi di una vita intera. Ci sono le domande che ci facciamo tutti – ho apprezzato abbastanza questo momento? Ho davvero capito che cosa volevi dirmi? Abbiamo fatto le scelte giuste? Che cosa resterà di noi? -, portate alle estreme conseguenze… visto che, dall’altra parte, non c’è più nessuno che potrà risponderci. Ci sono silenzi, panico, aerei da prendere e hamburger da condividere su una pista d’atterraggio. Ci sono nuove emergenze e speranze da nutrire. E ogni angolo diventa una trappola, perché anche il minimo dettaglio può far riemergere qualcosa che non possiamo controllare: la memoria dei momenti felici. Il ricordo di una fiducia assoluta, la consapevolezza di aver scacciato la solitudine.
Porca miseria.
Quanto diamine fa patire, questo libro.
E quanto ti fa venire voglia di prendere per mano qualcuno e ricordare alla perfezione ogni passo che si farà insieme, dai pezzetti che si perdono per la strada ai discorsi che ci insegnano qualcosa. I dettagli giganti e le stupidaggini piccolissime. Il perché ci sembrava di essere al posto giusto, per una volta. Vorrete tenervi tutto. E portarlo con voi… come una cassetta degli attrezzi che vi augurerete di non dover mai usare.

Ecco.

Passatemi un gattino – anche uno di quelli cavaocchi -, che devo soffiarmi il naso. Di nuovo.

 

Non so bene cosa piaccia a voi, ma io sono una grande fan dei punti di vista. Se mi piovesse in testa un superpotere, credo che sceglierei una roba alla Professor X, supremo aggeggiatore di pensieri altrui. Anche una spolveratina di telecinesi – garanzia di tette sodissime per tutta la vita – non sarebbe male, ma già col pacchetto Telepatia-Base mi sentirei più che a posto. Che cavolo, le altre persone sono interessanti. Quale enigma è più gigantesco dei frullaggi di cervello di chi ci sta attorno? Che cosa passa per la testa dei nostri congiunti? Che cosa sappiamo davvero? C’è qualcosa che ci nascondono? Di chi cavolo ci siamo innamorati? Il mondo che ci siamo costruiti è solido come pensiamo?
Che ansia, lo so. Ma che ti frega di come la pensano gli altri. Ma vai a mangiarti un gelato. E invece no, non si può. Non si può Perché Gillian Flynn non vuole. Gillian Flynn ha deciso di prendere la nostra serenità e di farci dei complicatissimi origami a forma di pernacchia. E noi, per questo, dovremmo addirittura ringraziarla. Perché Gone Girl in italiano si chiama L’amore bugiardo e lo pubblica Rizzoli – è un bellissimo giocattolo. E, faccenda estremamente succulenta, è anche un romanzo di punti di vista.

Non intendo tediarvi più del dovuto, ma due cose su come comincia questo benedetto libro ve lo devo anche dire. Nick e Amy si conoscono per caso a una di quelle feste per giovani professionisti del genere mega-creativi-YEA-Brooklyn-caput-mundi, fanno di tutto per conquistarsi reciprocamente, si innamorano molto, vanno a vivere insieme e si sposano. Nick scrive di film, tv e libri per una rivista. Amy, invece, si inventa quiz – tipo “metti una crocetta e ti dirò chi sei” per pubblicazioni un po’ meno nobili ma comunque rispettabili. I genitori di Amy, entrambi psicologi, si sono vergognosamente arricchiti con una serie di libri liberamente ispirati alle prodezze della loro perfettissima figlia che, nella stucchevolezza generale dei romanzi, sfiora quasi la santità. Nick, invece, è un ragazzone del Missouri con una famiglia incasinata alle spalle – con tanto di sorella gemella scaricata a rullo da fidanzati e datori di lavoro, e genitori separati che non li hanno certo tirati su a macarons e succhi macrobiotici. Comunque. Nick e Amy sono belli, brillanti e svegli, hanno una splendida casa, un ottimo lavoro e un sacco di cose da dirsi. L’universo li invidia. Il globo intero vorrebbe la loro vita. E poi niente, va tutto in vacca. Va tutto in vacca in Missouri, poi. Che se ti rovini la vita a New York ne possiamo ancora parlare, ma ritrovarsi col culo per terra a New Carthage, cittadina devastata della provincia profonda, è un bel problema. Lo sfascio matrimoniale, finanziario e professionale si trascina per qualche tempo, i due si allontanano, il risentimento si accumula e poi, nel giorno del loro quinto anniversario, Amy scompare. Ma così, senza senso.
Ta-daaaaa.
E chi sarà stato? Ma è morta? Ma è viva? Possibile che Nick non sospettasse niente? Non ce la racconti giusta, Nick. E non sembri neanche così dispiaciuto. Indaghiamo!
Allora. Io non sono una che si prende bene con i misteri, le investigazioni, le forze dell’ordine che raccolgono unghie dei piedi dal tappeto e le mettono dentro a delle bustine di plastica, i processi, gli avvocati, i vicini impiccioni e i tribunali. Anzi, non potrebbe fregarmene di meno. Crepa qualcuno? Sparisce della gente? Pazienza. Me ne dispiaccio, ma non impazzisco per scoprire chi è l’assassino. O il malvagio che trama nell’ombra. Con Gone Girl non puoi infischiartene. Devi sapere. E’ un libro fatto per creare dipendenza. C’è un capitolo raccontato da Amy. E c’è un capitolo raccontato da Nick. Ci sono piani temporali diversi – con sovrapposizioni super intelligenti di dettagli ed episodi – e una strabiliante analisi di quello che ci passa per la testa. Di come scegliamo di cambiare per adattarci ai desideri degli altri e del perché pensiamo che, così come siamo, non potremmo mai trovare qualcuno che ci ami davvero. La cosa veramente interessante, a parte la costruzione chirurgica della trama, è proprio l’alternanza dei punti di vista, lo strano crepaccio che si spalanca quando due persone raccontano – in maniera radicalmente diversa – la vita che condividono. Griderete a pieni polmoni NON CI CREDO! e vi partirà via la faccia più o meno ogni venti pagine. E mai, anche quando le cose prenderanno una piega piuttosto estrema, penserete che le motivazioni dei disgraziati personaggi siano prive di fondamento. Vi metterete lì, con una tazza di Nesquik in mano, e penserete che è vero, la realtà è uno strano specchio, che spesso deforma anche il nostro riflesso. Ma soprattutto, vi accorgerete che Gillian Flynn è riuscita a intortarvi alla grandissima. E che il libro, cascasse il mondo, non potete proprio metterlo giù. E mica capita spesso.

Per chi, fra qualche settimana, vorrà continuare a farsi fantasticamente prendere per il naso, ci sarà anche il film. Di David Fincher. Uscirà il 18 dicembre e sono piuttosto certa che sarà una gran bella cosa. E che il cielo protegga le nostre vite sentimentali.

 

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Nella mia mirabolante carriera editoriale ho vinto in tutto quattro premi Nobel. Uno in modalità kamikaze – che ero in ufficio da sola – e ben tre negli ultimi tre anni. Il Nobel è una faccenda interessante, surreale, incredibilmente istruttiva ed estremamente stancante. E da quando c’è il famigerato #TotoNobel, poi, non si vive più. C’è il bellicoso team-Murakami, ci sono i fenomeni che devono per forza dimostrarti che loro la letteratura africana contemporanea la conoscono benissimo – e voi che non capite il mangbetu siete dei poveri derelitti -, quelli che tifano per Ken Follett e Stephen King – che tanto hanno fatto leggere le genti del mondo -, gli snob così snob da snobbare anche il Nobel, quelli coi bambini all’asilo – diamolo a Peppa Pig! -, quelli che si scandalizzano per le candidature estemporanee dei cantautori, gli astiosi a prescindere, gli amici del vintage che non han capito che possono vincere solo gli scrittori ancora vivi, gli esperti di geopolitica e di minoranze – quest’anno tocca all’Oceania! E vogliamo solo autori gravemente celiaci! -, i depressi – tanto in Italia non legge più nessuno, è inutile che stiamo qui a farci i pipponi sul Nobel -, i curiosi che stanno zitti ma si divertono un casino, i “guardate che non c’è mica solo il Nobel per la Letteratura! Lo sapete com’è andato quello per la fisica, per dire? Asini!”,  gli scrittori rosiconi, gli scrittori che incitano i loro beniamini, noi soliti quattro pirla che ci emozioniamo piuttosto sinceramente e quelli che s’inventano i meme con Philip Roth e Leonardo DiCaprio che singhiozzano abbracciati. Tutto questo marasma di scemenze, nichilismo, tifo da stadio e belle speranze raggiunge il suo detestabile picco a circa un’ora dall’effettiva proclamazione del Premio Nobel. Un’ora di agonia pura e cristallina. Dovreste lavorare, ma c’è troppa confusione. Dovreste lavorare, ma siete ipnotizzati dal conto alla rovescia dell’Accademia di Svezia. Dovreste lavorare, ma poi vi accorgete che sono tutti lì a fare i tarocchi e buonanotte. Quest’anno, ormai assuefatta e recalcitrantissima, ho deciso di buttarla in caciara anch’io. E ho allietato la mia scomposta timeline con il #TotoNobel delle bestiole. Visto che ne vado immotivatamente fierissima, ve lo appiccico qua sotto.

Poi niente. Vincete voi e il pomeriggio diventa un inferno.