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Allora, qua c’è tutto un prologo che vi dovete sorbire. Perché l’adorabile illustratrice di A.A.A. – Il diario fantastico di Alessandro Antonelli, Achitetto è anche la medesima persona meravigliosa che, tempo fa, decise di partecipare a uno dei miei Contest-ini con un Loki che sfreccia sul dorso della borsa-gallina. E vinse, che diamine. Come si fa a non amare follemente un Loki che sfreccia su una gallina gigante? Così, mandai a Ilaria Urbinati una bella Sportini-premio (“Andare a vedere i narvali”) e continuai ad esserle molto grata, ma un po’ da lontano.

Ecco. Poi, la settimana scorsa, si scopre che Ilaria è in partenza per la fiera del libro per ragazzi di Bologna. E allora le grido “ma vai a salutare Amore del Cuore, che è a quello stand là”. “Ma come faccio a riconoscere Amore del Cuore?”. “Non temere, allo stand sono solo in due, e lui è molto grosso”. Ed è solo grazie all’indomito coraggio e alla gentilezza di Ilaria se sono qua a parlare di questo libro. Perché lei allo stand ci è andata e, oltre a “Scusa, mi vergogno molto, ma tu sei Amore del Cuore?” ha anche deciso di farmi un regalone. Con tanto di biglietto e autoritratto.

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Ma cuori, cuori!
E io il libro l’ho letto e, come succede sempre quando c’è qualcosa che mi piace, ne parlo con sincero trasporto.
Dunque, A.A.A. (Espress edizioni) viene fuori da Ilaria, Fabio Geda, Marco Magnone e dal 150° anniversario della stipula del contratto per la costruzione della Mole, super edificio che, oltre ad essere il simbolo di Torino, è anche la grande eredità di un personaggio avventuroso, ambizioso, sognatore e bisbetico. Questo libro a fumetti è il diario fantastico dell’architetto Alessandro Antonelli. C’è l’infanzia, ci sono gli studi, la laurea, i primi progetti, una discreta quantità di porte in faccia, delle solenni rampognate da parte dei committenti e anche una casa a forma di fetta di polenta. C’è la ricerca della perfezione e la volontà di costruire sempre più in alto. C’è tutta la vita di un uomo fuori dal comune e la storia delle opere che ha solo immaginato – come il progetto per la “nuova” Piazza Castello – e di quelle che è riuscito a realizzare – come la Cupola di San Gaudenzio a Novara e, ovviamente, la Mole… anche se morì prima di vederla completata.

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Il pollo alla Marengo dell’Antonelli non l’ho assaggiato, ma la sua storia mi è piaciuta davvero. Tanto per cominciare, ho imparato delle cose che ignoravo sovranamente (che vi devo dire, colpa mia), ma ho anche fatto mille oooh e aaah. Un po’ per i magnifici disegni di Ilaria e un po’ per i pensieri e i sogni – appassionati e contagiosissimi – che finiscono nella testa dell’illustre Architetto. Insomma, le costruzioni saranno pesanti e complicate, ma questo libro è felice e pieno d’ispirazione. E una volta finito non sarete grati solo al trio di autori, ma anche a quegli omini-alpinisti che si svegliano alla mattina e vanno a staccare le stalattiti in cima alla Mole. O frugano nei buchi fra un mattone e l’altro per vedere se ci si sono incastrati dei falchi. O raddrizzano le stelle arrugginite. Ecco, evviva tutti quanti, allora.

 

Mi sono seduta con la schiena contro il muro e ha cominciato a battermi forte il cuore. Qualcosa stava venendo verso di me, allargandosi come una nuvola bassa all’orizzonte. La nuvola si è addensata. Mi ha riempito la bocca e gli occhi e a un tratto c’è stato un boato e hanno cominciato a succedere delle cose, molto in fretta e tutte allo stesso tempo, e poi ero seduta contro il muro e mi scendeva il sudore da sotto i capelli e mi sentivo più strana di quanto mi fossi mai sentita in vita mia.
E se dovessi dire come mi sentivo direi che mi sentivo come una scatola che era stata capovolta. E la scatola era stupita di essere così vuota.

Grace McCleen, Il posto dei miracoli
Einaudi (Supercoralli)
traduzione di Norman Gobetti

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In questo libro si impara a far nevicare buttando in aria farina, zucchero e cotone. Si impara a fare una mongolfiera col filo di ferro, dei palloncini e una retina delle arance. E si impara anche a costruire un gatto. O delle persone. Impariamo perché Judith sa benissimo come si fa: pezzo per pezzo, ha messo insieme un universo in miniatura. Nella sua cameretta c’è un mondo intero, fatto con pezzi di vetro, matasse di lana, scatole e barattoli vecchi. È il mondo in cui si rifugia, ma è anche il mondo perfetto che spera di raggiungere, quando quello che abitiamo sarà finalmente spazzato via dall’Armageddon. Un mondo dove ritroverà sua madre e riuscirà a capire se il papà le vuole davvero bene. Un posto felice in cui non esistono bulli che minacciano di affogarti o fabbriche che fanno sciopero, dove non c’è bisogno di costruire un cancello gigantesco per tenere lontane le sassate e dove non sarà più necessario trascorrere le domeniche a predicare porta a porta. Ma Judith ha fede. E ha molta immaginazione. E quello che fa succedere nel suo mondo in miniatura finisce puntualmente per manifestarsi anche nel mondo reale. E nel momento di solitudine più buia, arriva anche una voce, la voce di Dio, a dire a Judith che ha un grande dono, ma anche che ogni scelta ha un prezzo. E le conseguenze, spesso, sono imprevedibili e tragiche, anche quando si prova a lottare per raddrizzare le cose, a difendersi e a sgomitare verso la felicità.

Ecco.
Le foto al Posto dei miracoli le volevo fare nella neve. Ma ce n’era poca in terra, quando ho finito di leggerlo. Allora ho pensato, ma che te ne fai della neve, piglia un mucchio di farina e cacciaci il libro in mezzo… Judith farebbe così. Ma poi mi sono accorta che non ho mai fatto una torta nella mia vita e che la farina in casa non esiste. Poi ho preso la pagina dove c’è tutto lo spiegone su come si costruisce una persona, ma per fare le cose per bene ci volevano ciuffetti di lana, colori, plastilina.  E ciao, idem con la mongolfiera, anzi, molto peggio. Poi, però, mi sono accorta che non erano necessari dei gran effetti speciali. Perché è già speciale il libro. E non credo sia solo per la sorpresa… perché parto sempre super prevenuta quando c’è un narratore bambino, magari un po’ stralunato e santo il cielo siamo tutti meravigliosi a nostro modo e vieni vieni caro lettore ad esplorare i segreti dell’esistenza attraverso il mio sguardo unico e spiazzante. Basta. Peggio c’è solo il narratore-gatto, il narratore-cane di casa o la mucca che ti racconta cosa le succede. E invece no, magimagia. La voce di Judith è delicatissima e tragica. E’ un personaggio che ti fa preoccupare, come se fosse una persona vera. E dove c’è Judith, Grace McCleen è bravissima a far addensare sempre dei nuvoloni minacciosissimi: che cosa succederà a scuola? E il suo papà, riuscirà a proteggerla? E la voce che sente, la distruggerà o la salverà? Ma è matta o fa davvero i miracoli? Insomma, è difficile incontrare un personaggio che ti fa preoccupare così tanto. Ed è anche complicato trovare una voce di bambina che analizzi la realtà con tanta dolcezza e perfetta consapevolezza della propria profonda infelicità.
Perbacco, è un libro complicato, poetico e crudele. Si prova a crescere e a capire come funziona il mondo. Si esplora la solitudine, in una famiglia che funziona sui dogmi di una religione che invade ogni minuto della giornata. Si scopre come ci si può difendere, quando non si può parlare con nessuno, ma solo giocare con i propri pensieri e la propria fantasia, perché non c’è nient’altro e non c’è nessuno che è davvero in grado di darci delle risposte. Insomma, se volete affezionarvi a una creatura immaginaria, affezionatevi a Judith. La sua storia si merita le preoccupazioni del vostro cuore.

 

E’ una bella giornata, c’è il sole e il resto. Il tipo di giornata che ti fa pensare che va tutto bene. La giornata sbagliata per questo, sbagliata per noi che siamo stati insieme quando pioveva sempre, dal 5 ottobre al 12 novembre. Ma adesso siamo a dicembre e il cielo è limpido e mi è tutto chiaro. Ti dico perché ci siamo lasciati, Ed. Te lo scrivo qui, in questa lettera, tutta la verità del perché è successo. E la stramaledetta verità è che ti ho amato tantissimo.

Daniel Handler, “Perché ci siamo lasciati”
Salani Editore

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Daniel Handler di solito va in giro a dire di chiamarsi Lemony Snicket e gli piace tantissimo far succedere cose agghiaccianti agli orfanelli. Orfanelli che non solo soffrono, ma vengono anche presi per mitomani per un buon tre quarti dei tredici libri che li vedono protagonisti. Loro e quel gran bastardo del Conte Olaf. Ma non siamo qui per compiangere i poveri fratelli Baudelaire, anche se si meriterebbero tutta la nostra solidarietà… dall’alba al tramonto. Siamo qua perché Lemony Snicket ha scritto 360 pagine di croccantissimi spezzamenti di cuore. Spezzamenti di cuore che vi faranno ricordare tutte le vostre disgrazie, ma al momento giusto… perché adesso è tutto passato e ci potete quasi ridere sopra. Per dire, a me sono tornate in mente centoseimila cose spiacevoli che cerco di dimenticare da quasi un decennio. Ma che cosa capita, in questo libro che vi farà preoccupare molto e sperare di aver bruciato tutte le vostre fotografie del liceo?
Succede che c’è Min che mette tutti i ricordi della sua storia con Ed dentro a un grande scatolone e va a scaricarglielo davanti alla porta di casa.
All’apparenza, Min non ha niente di speciale. Anzi, sa un po’ troppe cose per essere una ragazza popolare. È fissata col cinema e con i vecchi film, beve caffè con panna e tre cucchiai di zucchero e le piacerebbe fare la regista.
Ed è un bellone, vicecapitano della squadra di basket – con relativo stuolo di ragazzine che gli tirano dietro le mutande di pizzo – e una mandria di amici che si sbronzano ai falò post-partita e ruttano in coro la Nona di Beethoven.
Ed e Min sono sbagliatissimi, insieme. Non hanno niente in comune. Ed non capisce le battute di Min. A Min fa schifo il basket e ha sempre pensato che la cosa più triste del mondo sia andare sulle gradinate a vedere il proprio fidanzato che cerca di fare canestro. Eppure, c’è dell’eppure. Una sera Ed arriva – senza invito – al compleanno del migliore amico di Min e, tra una torta al cioccolato troppo amara per essere mangiata e un paio di birrozzi – che Min svuota nell’erba perché le fa schifo pure la birra – finisce a bigliettini con “Non riesco a smettere di pensare a te” e ciao, è amore. ADDIO.
Il libro è fatto di tutto quello che Min si ricorda di lei e di Ed. Di tutto quello che è successo nella loro storia-meteorite e delle cose che le sono rimaste in tasca, o nella borsa o nel cuore in quel breve periodo passato insieme. Ogni oggetto che Min restituisce – un cappotto comprato in un negozio di seconda mano, i biglietti del cinema del loro primo appuntamento, degli assurdi tagliauovo cubici, roba così – si trasforma in una spiegazione del perché è tutto finito. E finisce per qualcosa che tramortirà sia Min che voialtri. E ci rimarrete male. Malissimo. Perché dopo un po’ ci crederete anche voi, che magari le cose potrebbero aggiustarsi. Che tutto quel super-amore non andrà davvero a farsi benedire.
Il libro è accompagnato – anzi, è più che accompagnato – dalle bellissime illustrazioni di Maira Kalman, che ci fa vedere tutto quello che Min ha buttato nella scatola, capitolo dopo capitolo.

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Insomma, indipendentemente dal livello di felicità delle vostre adolescenze, fatevi del male con Ed e Min. Sarà un esercizio salutare. Vi farà venire in mente tutto quello a cui siete sopravvissuti. E sarete contentissimi di non doverne più sapere niente. Anche se, a voler proprio essere sinceri, ci saranno anche molti stomaci pieni di farfalle che avevate dimenticato… e torneranno a galla anche quelli. Che poi, quegli stomaci lì, erano anche un po’ il motivo di tutta la fatica che avete fatto.

 

I libri divertenti sono molto necessari. Almeno, a me i libri divertenti servono moltissimo. Mi riposano. Mi fanno delle sorprese. Mi scarrozzano in posti improbabili. Si fanno leggere in fretta e lasciano quella piacevole sensazione di contentezza cicciottella che, di solito, sopraggiunge appena dopo aver mangiato uno di quei cioccolatini giganti al RUM. Dovrei leggerne di più, di libri divertenti, dovrei mettermi in piedi su una bianca scogliera e gridare alla vastità degli elementi una roba tipo “leggetevi un libro divertente, ogni tanto!“.
Ecco.
Vi griderei anche qualcosa sull’Atletico Minaccia Football Club di Marco Marsullo, che è uscito da poco per Einaudi Stile Libero rallegrandomi quasi quanto mille foto di cuccioli molto piccoli. Potevo mettermi qua a far fatica, ma poi ho pensato che magari era più bello per tutti quanti se a dirvi delle cose ci veniva il Marsullo in persona. E allora gli ho fatto un po’ di domande. Qualcuna è seria, qualcuna per niente. Lui però è sempre impeccabile. Insomma, divertitevi qua e divertitevi col libro.

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Messer Marsullo, direi di procedere con ordine e precisione. Che faceva prima di diventare un giovane scrittore?

Studiavo con scarso profitto all’università, facoltà di giurisprudenza: media del 21.9. Un salasso dell’anima. Poi una mattina Einaudi mi ha chiamato e sono diventato, automaticamente, un giovane scrittore.

Lo sa, vero, che sarà considerato un giovane scrittore fino ai cinquant’anni (indipendentemente da come se li porta)?

Lo so, da queste parti è così. Infatti io mi definisco, talvolta, uno “scrittore liquido amniotico”, a 27 anni giovane è pure troppo.

Il suo libro è pieno zeppo di gente che piglia a calci il pallone. Lei come se la cava?

Sono un difensore centrale senza fronzoli. Per me palla e gamba sono la stessa cosa. Chiaro: non entro mai duro per far male apposta, però può capitare. Diciamo che ho dovuto sopperire con il cuore ciò che madre natura non mi ha dato nei piedi. Ah, e sperdo (quasi) sempre il pallone fuori dal campo quando faccio un tiro al volo.

Scusandomi in anticipo per lo sfoggio di stereotipi, c’è una vicenda che mi stupisce. Che cosa spinge un napoletano a tifare Milan con travolgentissima passione?

Quando ero piccolissimo (5 anni) mio zio mi chiese quale fosse il mio calciatore preferito. La risposta fu Van Basten. La conseguenza fu AC Milan. E per fortuna, amo la mia squadra in modo viscerale. PS: Forza Lotta / Vincerai / Non ti lasceremo mai!

Come devo comportarmi con la mia maglietta di Ibrahimovic, ormai obsoleta?

Be’, io Ibra lo rispetto. Nel senso: lui è un mercenario, lo ammette, lo ha sempre dimostrato. Ma mercenario non in accezione negativa, come tanti calciatorini che si baciano la maglia e il giorno dopo trattano con altre squadre per guadagnare il doppio. Zlatan è così: non fa promesse, non si innamora, in campo dà tutto per i suoi colori del momento. Poi dopo un paio d’anni se ne va, cambia. Devo tanto a lui e ai suoi gol. Gli voglio bene, possiamo dirlo.

Continuo ad essere invaghita di Zvonimir Boban, dovrei preoccuparmi? È bello pure il nome: ZVONIMIR.

Anche io ho un problema con Zvonimir “Zorro” Boban. Era un numero 10 fantastico, un giocatore geniale. Lo amo ancora, infatti quando lo becco a commentare in tivù mi impallo lì davanti a fissarlo. Grazie, Zorro.

Un giorno si è svegliato – magari anche un po’ tardi – e ha deciso che avrebbe scritto un libro. Insomma, da dove viene l’Atletico Minaccia?

Viene da un’intuizione. Una sera guardavo Mourinho in televisione e in venti secondi si è materializzato Vanni Cascione (il mister sfigato dell’Atletico Minaccia). Il resto è venuto fuori in tre mesi, una storia che si è davvero scritta da sola. E poi l’Atletico è la squadra che tutti vorrebbero vedere in campo: non ortodossa ma piena d’onore, un’accozzaglia di pazzoidi con i tacchetti ai piedi.

Giocatore preferito dell’Atletico Minaccia. (Io adoro il quarantenne che in carriera ha superato la metà campo solo tre volte).

Voglio bene a tutti, però ne ho due. Peppe Sogliola, il centravanti, perché lui è il vero trascinatore, quello che più di tutti salva la panchina di Cascione in più riprese. E Sasi Mocciardi: il numero 10 arrogante e presuntuoso, col suo tatuaggio del “Pocho Lavezzi che si ammocca (bacia, per i non napoletani, ndr) con la Madonna” che gli ricopre la schiena. Ecco, lui mi è piaciuto proprio scriverlo, quando lo rileggo rido io per primo di gusto.

Tifoso preferito dell’Atletico Minaccia. (Io voto Renetta. E deve anche sapere che ero in treno, quando mi sono imbattuta nella meravigliosa storia del soprannome del Renetta. Ero in treno e ho riso da Asti a Milano Centrale, suscitando la curiosità di tutti i consulenti incravattati che mi circondavano e facendole così vendere almeno dieci copie, controllore compreso).

Michele Caputo: l’ex ultrà del Benevento che, senza nessun motivo, comincia a diventare folle dell’Atletico Minaccia Football Club. Però a Renetta e Caracas voglio proprio bene, come due amici.

Mourinho l’ha ricevuto, un Atletico Minaccia?

Gliene abbiamo mandata una copia, sì. Sono quasi sicuro che quando l’ha ricevuto, ha detto: “Marsullo? Non lo cunosco. Io cunosco Marzulo, presentatore tivù, marsupio, borza per purtare ojetti, ma Marsullo non lo cunosco”.

Consigli un bel libro alle nuove generazioni.

“I frutti dimenticati”, di Cristiano Cavina. Commovente e sincero ritratto del rapporto padre-figlio, e delle sue difficoltà. Oh, anche io riesco a essere serio, ogni tanto.

Lei da cucciolo che cosa leggeva?

Ho letto poco, e questo, seriamente, è il più grande rimpianto della mia vita. Ho iniziato con Paulo Coelho a 17 anni (!!!), poi ho incontrato (il primo) Ammaniti. Non proprio due cose accostabili. Da lì ho capito cosa mi piaceva.

Ma i calciatori, scrivono e basta o leggono anche qualcosa?

Non saprei, credo qualcuno legga, non sono così capre come sembra. Mi piace immaginare che qualcuno prenda (o gli venga regalato, va’) il mio Atletico Minaccia. Si farebbero un sacco di risate.

Fifa o PES? Ma soprattutto, che ci trovate in quelle robe lì?

Fifa, rigorosamente Fifa. Da più piccolo ero un accanito giocatore di PES (l’allora: Winning Eleven), ma da un paio d’anni (da quando, in pratica, ho preso l’Xbox) Fifa ha divorato il suo concorrente. Non c’è più partita. In “quelle robe lì” ci troviamo la cosa più sacra e forte che fa di noi uomini, Uomini: la Sfida. È tutto lì.

Fornisca alla popolazione italica qualche buon motivo per leggere il suo romanzo.

Fa ridere, fa pensare, fa appassionare alla vicenda, umana e non solo calcistica (le migliori recensioni le ho avute da donne, ad ora!), di questo allenatore scalcagnato, Vanni Cascione, un po’ canaglia e un po’ sognatore. E poi c’è il rapporto con sua figlia 14enne, che in tutto il romanzo è una specie di filo di Arianna che condurrà alla fine con una soluzione. Ma soprattutto, e vi parlo col cuore: l’ho scritto con tutta l’onestà e la sincerità del mondo. Volevo solo raccontare una storia, ho provato a farlo nel modo più vero possibile.

E ora, che cosa accadrà? Il tour promozionale le spezzerà per sempre le gambe o ha già in mente delle nuove storie?

Dopo i primi giorni in libreria posso dire solo una cosa: non ci sto capendo niente, e non me lo aspettavo. Ricevo ogni giorno messaggi via mail, su Twitter, su Facebook, dove tantissimi sconosciuti (gli amici l’hanno già preso, eh) mi fanno i complimenti e dicono di aver letto/preso il romanzo. Uau. È tutto stupendo. Poi sono stato a “Quelli che il calcio” e mi sono divertito un sacco. Diciamo che è una lavatrice, per ora. Ma detto questo: sto scrivendo il romanzo di dopo, sono a un ottimo punto, non dimentico mai una cosa: io sono uno che racconta storie. È la cosa che più mi piace fare. Non smetterò facilmente.

Per concludere, vorrei ricordarle che una volta, su Twitter, mi ha mandato un DM che così recitava: FIDANZIAMOCI IA’! Così, senza nemmeno un ciao.

Ti risponderò con una citazione finale di uno dei miei film (e romanzi) preferiti: “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”. E in ogni caso, Francesca: “Fidanziamoci, ià!”. E il “Ciao” lo aggiungo ora. A te e ai tuoi lettori. Stare su Tegamini è il mio sogno fin da quando non ero ancora un giovane scrittore einaudiano. Adelante! E grazie.

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Agili e scattanti consigli di lettura. Perché è così che siamo: agili e scattanti. E anche non proprio super tempestivi, ma comunque molto volenterosi.
Bene, procederò senza indugi a dire bene del Seggio vacante (Salani editore, viva Salani).

Non ci saranno maghi con gli occhiali tondi, dissennatori e licantropi, non ci faranno un parco a tema né un esercito di pupazzetti con le sciarpette a righe, ma Il seggio vacante è un bel libro.
Nessun protagonista vi starà simpatico: l’unico essere umano degno di stima è Barry Fairbrother che, crepando a pagina tre nel parcheggio di un ristorante, darà involontariamente il via a una catena di catastrofici sconvolgimenti amministrativi, etici e sentimentali che devasteranno la quiete di Pagford, cittadina inglese di finto marzapane. Al centro della contesa ci sono i Fields, quartiere periferico e degradato di cui Pagford tenta di liberarsi da anni, appioppandone la giurisdizione alla vicina Yarvil. Il consiglio comunale – col seggio lasciato vuoto da Barry – è spaccato a metà e la dipartita del più strenuo sostenitore dei Fields non farà che peggiorare le cose. Bisogna decidere sui Fields, e alla svelta, non se ne può più di quei drogati che disturbano la pubblica quiete, corrompono i nostri figli e gettano le cartacce in terra. Chi prenderà il posto di Barry? Tutti quelli che si candidano per rimpiazzare il povero Fairbrother hanno molto da nascondere… e determinatissimi nemici pronti al sabotaggio.
Tutto questo per dire che la trama è ben costruita, piacevolmente intricata e va dove deve andare, concitazione finale compresa (Voldemort non arriva mai, ma l’idea è quella)… insomma, la Rowling ci aveva abituato bene e non si è dimenticata come si fa, anche se ogni tanto inciampa in qualche piccola noioseria e situazione stereotipata. C’è anche un mezzo martirio con annessa simbologia salvifica per la collettività pagfordiana, ma se la prendete come dei veri sportivi vi sembrerà un buon finale, coerente con quello che è capitato prima e adatto a chiudere la faccenda.
I personaggi sono dei gran bastardi e, ancora meglio, sono dei bastardi che sembrano veri. Aggrappati a patetiche ambizioni, pregiudizi ed egoismi, andrebbero tutti buttati in un pentolone pieno di lava. Pagina dopo pagina, Rowling ci fa fare un tour guidato nelle loro teste: paure, scheletri nell’armadio, invidie, gelosia… è il festival del “lo penso ma non lo dico”.  Ed è bellissimo, perché il lettore che sa come stanno davvero le cose si sentirà un po’ come una portinaia onnipotente. Il lettore si troverà anche a fare il tifo (giustamente) per i ragazzini che, più che parteggiare per un generale senso di giustizia e rettitudine, scateneranno agghiaccianti vendette sul capo di chi se lo merita… o quasi sempre. Insomma, vi verrà da schierarvi e da partecipare alle elezioni, vi preoccuperete per i personaggi di cui nessuno si preoccupa e cercherete di non sputare sul libro ogni volta che i vostri più acerrimi nemici apriranno bocca.

In conclusione, Rowling approvata e consigliata ad amici e parenti. Ci ritroverete tutto quello che sa fare meglio (gestire moltitudini di personaggi – con identità, vite interiori e obiettivi perfettamente delineati – dentro a una cornice/trama con tutte le necessarie complicazioni) e, anche se Pagford somiglia molto di più a Privet Drive che a Hogwarts, constaterete con piacere che gli orfani di Barry Fairbrother non hanno bisogno di una scopa volante per farvi saltare dentro alle loro storie.

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero. Del resto, cos’è una rappresentazione realistica se non una forma di rappresentazione convenzionale come tante altre? Non è radicalmente diversa, né costituisce un progresso. Se non si cogliesse questo aspetto, non si capirebbe niente né dell’arte medievale né della storia delle immagini. Nell’immagine tutto è convenzione, compreso il “realismo”.

Michel Pastoureau
Bestiari del Medioevo

Saggi – Einaudi

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La meraviglia. Questo libro è la meraviglia.
Sul nostro pianeta, Michel Pastoureau è la persona che più sa di zoologia medievale. Ed è anche la persona che te la sa raccontare meglio.
Suddiviso in sezioni che rispecchiano le classificazioni originarie dei bestiari miniati –  quadrupedi selvatici, quadrupedi domestici, uccelli, pesci e creature acquatiche, serpenti e vermi -, il super saggio di Pastoureau è divertentissimo da leggere e straordinario da guardare: ogni animale viene presentato ricostruendone le proprietà, i vizi, le virtù e le valenze simboliche che gli erano attribuite nel Medioevo. E ogni bestia-capitolo è accompagnato da una miriade di illustrazioni e riproduzioni di venerabili pagine. Le illustrazioni non solo aiutano a comprendere meglio l’universo di significati che ruota intorno all’animale rappresentato, ma vengono utilizzate da Pastoureau per espandere il discorso e avvicinarlo, allo stesso tempo, all’uso dell’illustrazione così com’era inteso nel Medioevo. Per dire, il cervo, reso impetuoso dal suo sangue caldo, non riesce quasi mai a star fermo dentro i bordi di una miniatura… e c’è sempre qualcosa che esce, uno zoccolo che spunta, un corno che sconfina. Il testo di ogni Bestiario continua a raccontare delle cose (utili e didattiche per l’uomo Medievale) anche attraverso le immagini, che non sono solo un ornamento, ma un necessario proseguimento della trattazione.
Quadrupedi selvatici e domestici, uccelli, pesci, serpenti e vermi, si diceva. In questo libro, così come nei Bestiari europei che Pastoureau ha analizzato, troviamo bestie comuni, o meglio, bestie comuni per la sensibilità dell’uomo Medievale, con sporadiche incursioni di creature mitologiche. Ci sono l’aquila, l’asino, il bue, il gatto, la lupa… ma pure il leone, l’elefante. Animali che per noi, oggi, sono esotici abitatori della savana, nel Medioevo erano o molto presenti nell’iconografia – e quindi reali, roba da tutti i giorni – o attrazioni formidabili che poteva capitare di vedere, almeno una volta nella vita. I sovrani si scambiavano doni di ogni genere, inclusi orsi polari – dispensati con grande generosità dal re di Norvegia -, e l’arrivo di queste creaturone era spesso un evento per gli abitanti di sterminati territori, attraversati spesso e volentieri anche da serragli itineranti, gioia infinita per grandi e piccini. Insieme a queste apparizioni da documentario, i Bestiari, anche quelli di zoologia “standard”, non specializzati in mostri e mitologia, includevano spesso gli animali leggendari come l’unicono, la manticora, il centauro… capitava perché un milione di diverse tradizioni e variegate testimonianze dirette – da Plinio in poi – ne parlava e li raffigurava come il più reale dei conigli da cortile, giudicandoli al massimo un po’ più “rari” e difficili da scorgere del benedetto coniglio. Altro fattore, a rendere del tutto equivalenti gli animali (per noi) veri da quelli (per noi) mitologici, è l’onnipresente strato di insegnamenti e significati religiosi che la società Medievale utilizzava per interpretare il comportamento degli animali, trasformandoli in esempi di vizio o virtù.

Cavolo, se ho studiato.

Al di là di tutta questa erudizione, Pastoureau rende avvincentissimo anche il più scalognato dei serpenti di mare. Ogni animale è una minera di divertimento e stupefacenti rivelazioni, tra incredibili metafore cristiane, orribili pregiudizi e grande disapprovazione per gli appetiti sessuali più smodati (peste vi colga, se vi comportate come la lupa!).

Qualche pagina, così vi innamorate pure voi.
Và, che storia.

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Per i bestiari, (il riccio) è una bestia “nociva”, “avida e piena di spine”, che cerca di rubare l’uva dalle vigne. Quando è matura, il riccio si dirige furtivamente nel vigneto, scuote i pampini, fa cadere i chicchi e ci si rotola sopra: gli acini gli si conficcano negli aculei, conferendogli l’aspetto di un pesante grappolo; il riccio, allora, torna nella tana col bottino e si rimpinza a volontà. E’ un ladro che, come il cinghiale biblico, “devasta le vigne del Signore”. I bestiari ne fanno un ritratto negativo, molto lontano dall’immagine che ne abbiamo noi oggi.

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Altre proprietà restano più enigmatiche, non essendo state commentate a sufficienza. Secondo i bestiari, il leone ha paura di un unico animale, il gallo bianco, e due cose sole lo spaventano: il fuoco e il cigolio delle ruote di un carro. Da dove viene questa credenza, presente già in Solino? Che senso ha? Non lo sappiamo. E poi, perché il gallo bianco, e solo lui, fa paura al leone? I bestiari non ce lo rivelano direttamente, ma ricordano che fu un gallo ad accompagnare per tre volte con il suo canto il rinnegamento di Pietro (associato al leone) e che, da allora, tutti i galli accompagnano con il loro verso lo scoccare delle ore del giorno in onore di Dio. Al crepuscolo, quando il gallo tace, scende la notte con il suo corteo di demoni malefici: la notte è nera, il gallo è bianco.
Il leone si distingue anche per altre caratteristiche, meno diffuse. Quando è arrabbiato, pesta per terra: è Dio che colpisce gli uomini per allontanarli dal male; castiga coloro che ama. Quando vuole andare a caccia, traccia un cerchio con la coda; tutte le bestie che vi entrano non vogliono più uscirne: il cerchio è il paradiso; la coda la giustizia divina; le bestie gli eletti chiamati in Cielo.

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Quelli a sinistra, anche se non si direbbe, sono struzzi. E non importa che non somiglino a com’è davvero lo struzzo, per dire: “la maggior parte degli autori presenta lo struzzo con testa e corpo da uccello, ma gli attribuisce zampe da cammello. Altri lo assimilano al misterioso camaleonte, creatura polimorfa che cambia colore a suo piacimento. Del resto, non soltanto non vola, ma non costruisce nemmeno il nido. Non può essere un uccello!”
Altre magimagie dello struzzo:

Stando ai bestiari, lo struzzo può ingoiare qualsiasi cosa. Il suo stomaco è in grado di digerire tutto, anche il metallo: la sua natura calda fa sciogliere ciò che vi si introduce, come in una pentola. Di qui, nelle immagini, la scelta di un attributo metallico che aiuta a riconoscere lo struzzo: un chiodo o un ferro di cavallo nel becco.

Lo struzzo depone uova enormi, che non cova: le nasconde sotto la sabbia del deserto, poi le dimentica, preferendo passare il tempo a guardare le stelle. Per alcuni autori, la femmina è una cattiva madre, pigra, smemorata, indifferente. Altri le trovano qualche giustificazione: è così pesante che schiaccerebbe le uova, se le covasse; spetta dunque al sole riscaldarle con i suoi raggi.

Quelle a destra, invece, sono gru. Occhio a quella davanti, col sasso nella zampa.

Tutti i bestiari raccontano che durante i loro lunghi viaggi le gru si posano a terra per dormire. Una sola monta la guardia, e per non scivolare nel sonno stringe un sasso con una zampa. Se si addormenta, la pietra cadrebbe sull’altra zampa e la sveglierebbe.

La gru, paladina dei Metronotte.

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Sembra un libro di favole. Ed è anche scritto come un libro di favole. Solo che è anche un saggio storico, una bellissima collezione di immagini che mai al mondo avrei sospettato che i miniatori del 1200 potessero fare pavoni così “moderni”, un’avventura artistica, un trionfo per i curiosoni e uno spaccato di vita quotidiana in un tempo lontano… molto meno buio di quanto siamo abituati a pensare.
Insomma, io mi sono divertita immensamente. E ho anche scoperto che le donnole venivano ritenute molto più abili dei gatti a cacciare i topi. E ora so anche perché i delatori li chiamiamo “corvi”. Ma è lunga da spiegare, bisognerebbe avvalersi di una volpe e di una foresta… e poi Pastoureau è molto più bravo a raccontarvelo. Vi affido a lui, senza indugi.
Fatevi un regalo. E campate mille anni, come il cervo.

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Là fuori capitano cose belle. Mentre siamo tutti a buttar via le nostre vite sul divano, quattro personaggi (Eli Horowitz, Russell Quinn, Matthew Derby e Kevin Moffett) si inventano The Silent History, un’app-romanzo che oltre ad essere di piacevole lettura è anche sommamente interessante.
L’antefatto è semplice: all’improvviso iniziano a nascere bambini che non emettono suoni e non sono in grado (o non vogliono?) comunicare verbalmente. Bambini perfettamente in salute, capaci di interagire emotivamente e di comprendere quello che capita intorno a loro, ma che, semplicemente, non fanno nemmeno BA. E diventano sempre di più, sparpagliandosi in una sorta di epidemia silenziosa che la scienza medica non sa spiegare e la società fatica a digerire. Questi bambini vanno a scuola, crescono, camminano per strada… e con questo loro impenetrabile silenzio cambiano per sempre il mondo che conosciamo.
L’app – per tutti quelli che come me stanno pagando un iCoso in trenta mesi -, è un super puzzle di testimonianze, dal 2011 al 2043. Sono capitoletti che si leggono in cinque minuti, rilasciati giorno per giorno. Ci sono i ricordi dei papà che portano la moglie in ospedale per il parto, le babysitter dei primi bambini silenziosi, le vicine di casa impiccione, i dottori che gettano le basi per gli studi all’inizio del fenomeno, maestre turbate, sorelline affettuose. Voci diverse da posti diversi, per scoprire che cosa sta davvero accadendo insieme al lettore.

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Oltre alle testimonianze, l’app prevede anche un secondo livello di lettura, con i field reports geolocalizzati. Si va in punto ben preciso e solo da quel punto, sventolando il proprio DEVAIS davanti a non so bene cosa, è possibile accedere a una testimonianza aggiuntiva, specificamente pensata per quel punto. I field reports non sono indispensabili alla comprensione generale della storia, ma sono una sorta di bonus interattivo, perchè oltre ad andarteli a leggere, se hai voglia puoi pure crearne uno. In Italia, per ora, non c’è granchè, ma sarebbe davvero bellissimo poterne trovare di più.

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Tutto il baraccone costa 6,99€. Si può anche decidere di scaricare il primo periodo a 1,99€ e poi vedere che succede ma, come per gli album, conviene davvero investire l’inestimabile somma e iniziare subito a leggere.
E’ bello perchè è una storia (una bella storia, tra le altre cose) che si adatta, finalmente, al supporto destinato a convogliarla. Gli iPhone e gli iPad non sono fatti per leggere libri come può molto meglio fare su un Kindle, su un Kobo o sugli altri fratellini della famiglia degli inchiostrini magici… e ben vengano, allora, i capitoli da cinque minuti. E ben vengano, soprattutto, i capitoli da cinque minuti che raccontano una storia gigantesca, combinando prospettive, mescolando registri differenti e invitandoti a fare dei chilometri a piedi, magari, tanto per andarti a vedere che è capitato. E come ogni app degna di questo nome, crea dipendenza.
Insomma, per chi può, The Silent History è una bella faccenda. Una storia che funziona e un meccanismo antico come il mondo (ah, il romanzone a puntate!) che si trasforma. Evviva.

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– Michele?
– Dimmi.
– Ti chiami Michele, giusto?
– Sì. Scusa. Otto anni.
– Sono otto anni che lavori qui?
– Otto anni e sette mesi.
– E ti trovi bene?
– Abbastanza.
– A me qui piace tantissimo.
Gervasini grattò con la punta della forchetta la base della collina giallognola. Niente da fare. Persino il purè era più forte di lui.
– Senti Adele, io non ti conosco. Ma…
– Facciamo finta che ci conosciamo. Così è più semplice.
– Ok. Allora, posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Sicura?
– Sicura.
– Come fa a piacerti tantissimo un posto dove la gente si ammazza?

Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile
Einaudi (i Coralli)

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Non si lavora. Si lavora troppo. Si lavora bene ma nessuno se ne accorge. Si fa finta di lavorare, tanto c’è sempre un pirla che si prende la colpa. Si timbra il cartellino quattro volte al giorno. Non si timbra perchè col progetto non c’è da timbrare. Ad agosto non si può accendere l’aria perchè la tua collega ha i bronchi di cristallo. Ad agosto devi stare a meno sei perchè la tua collega in menopausa deve tenere a bada le scalmane. Ci sono quelli che hanno la firma in fondo alla mail, quelli che scrivono mail come se fossero verbali dei carabinieri, quelli che si personalizzano il carattere perchè l’Arial 10 è da impiegato senz’anima. Scrivanie con foto di cani. Scrivanie con foto di bambini. Tutti hanno una tazza, te hai un portamatite di plastica. Il temperino non ce l’ha mai nessuno. Tutti attaccano qualcosa di straordinariamente originale alla chiavetta del caffè. La macchina del caffè non caccia latte neanche a pedate. Se c’è il latte, non vengono giù le palettine per mescolare la roba. La chiavetta del caffè le distribuisce sempre una persona importante, che non è mai quella che custodisce i buoni pasto. I buoni pasto li hanno gli stagisti e quelli col contratto. In ogni caso, sono sempre di almeno un euro sotto a quanto mangi effettivamente. Si scorgono tupperware pieni di pasta vecchia, i salamini Beretta nella pratica confezione con lo scompartino per i taralli, le piade del bar che ti fanno venire sonno, i cous-cous organico che non si capisce se vada mangiato caldo o freddo. La mensa c’è se lavori in uno di quei posti scomodissimi fuori città. Se lavori al confine tra la città e la non-città sei fregato, non c’è la mensa e l’unico bar dei dintorni è in mezzo a un deserto nucleare, punteggiato dalle ossa dei grandi rettili del passato. E la benzina costa. E i mezzi non funzionano. La metro è comoda, ma poi arrivi in ritardo perchè ci sono quelli che si gettano sulle rotaie. Leggi il Leggo. E in Metro leggi Metro. Alle fermate all’aperto leggi City. L’unica differenza è l’oroscopo. Passano sempre dei piccioni, poi volano via e te devi andare in ufficio e allora li guardi e ti ritrovi su un marciapiede a domandarti come sei riuscito a produrre un sentimento d’invidia per dei piccioni. E allora entri e passi il resto della giornata a cercare di capire perchè sei lì.

Non credevo che venisse così lungo, il benedetto preambolo. Sarà perchè l’ufficio confonde. E debilita anche un po’. Il fatto è che l’ufficio produce anche una girandola di emozioni e sentimenti assolutamente non richiesti. Sarà che ci si passa troppo tempo per far finta che non stia davvero capitando a te, alle tue variopinte occhiaie e alle tue lauree. Allora ti adatti, ti arrabbi, ti stanchi, qualche volta ti diverti e immancabilmente inveisci come un vichingo contro le trattenute. Ma poi capisci che ti è andata bene, perchè alla Montefoschi, nobile azienda a ex-conduzione familiare per la produzione di latte e derivati, c’è chi decide di darsi fuoco nell’armadio delle scope.

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Raggiunse lo schedario di alluminio verde alle spalle di Gervasini, infilò il faldone nel cassetto della lettera C. Tornò a sedersi, e concluse: – La paura, Gervasini. La nostra cara, umana, preziosa paura. L’unica forma di democrazia che resiste al tempo. Altrimenti perchè crede che la gente si uccida?
– Lucia Frangipani non aveva paura di niente.
– E lei cosa ne sa? I colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane.

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Nessuno è indispensabile è un libro pieno zeppo d’intelligentissimo e malvagio divertimento. Imperscrutabili mucche in vetroresina, gente che s’ammazza in ufficio, agghiaccianti siti per cuori solitari, stagiste col nasone che però se le guardi bene non sono poi così degli scaldabagni, integratori alimentari che spazzano via i risparmi di una vita, code sul raccordo, silos pieni di latte che luccica al chiaro di luna, case con dentro solo un’iguana, grezzoni col gessato che fanno i brillanti alla macchinetta del caffè e amministratori del personale con la katana appesa in ufficio… personaggi inespressivi e insensibili, che mandano mail direttamente dal cimitero dei tuoi sogni.

from: segreteria.hr@montefoschicorporate.it
to: m.gervasini@montefoschicorporate.it
subject: CONVOCAZIONE

Alla c.a. del sig. Michele Gervasini
La SV è invitata a presentarsi il giorno lunedì sg. corrente mese alle ore 17.00 presso l’Ufficio del personale, piano V, stanza 127 all’attenzione del dott. Stefano Bigazzi.

Si prega cortesemente di dare conferma di avvenuta ricezione della presente.

Cordiali saluti,

La Segreteria Direzione Human Resources

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E l’eroe? C’è, l’eroe?
Peppe Fiore ha deciso di scrivere un libro sul più sfortunato e goffo dei vostri colleghi. Quello che se anche si cambia vi sembra sempre vestito allo stesso modo e che la gente si tira dietro sul balcone perchè non c’è neanche un ficus su cui indirizzare il fumo della sigaretta. Una faccia che mai riuscirete ad associare a un nome… e non perchè siete rincoglioniti, ma perchè proprio non v’interessa.
E Michele Gervasini è lì, che fa il suo, sperando fortissimo che non gli capiti più niente di male.
Lo devono promuovere da quattro anni, ma non è mai il momento giusto. E quella totale assenza di eventi che contraddistingue la sua giornata lavorativa finisce pian piano per invadere anche il resto del tempo. Fa il contabile per mozzarelle e yogurt e, non pago, campa a mozzarelle e yogurt. Tollera orribili spostamenti mattutini nell’incubo del traffico di Roma, ma solo per andare in ufficio, che se lo invitano da qualche parte a farsi due risate non ci va perchè pigliare la macchina è troppo faticoso. Gervasini viene rimbalzato, ignorato, maltrattato e lasciato a marcire come un delfino disorientato sul bagnasciuga dell’ufficio contabilità. Zero carriera, mai una gioia… e i suoi conti sono un casino perchè l’unico che doveva dargli una risposta urgente s’è buttato dalla finestra. Gervasini un po’ ti fa tenerezza e un po’ lo prenderesti a sganassoni. E gli sganassoni sono per quelle innumerevoli piccole cose della sua personalità che ti fanno venire in mente anche la tua, di giornata lavorativa.

Insomma, panico, scrivanie, contabilità, cattiverie burocratiche ed estrema disperazione impiegatizia… sembrerebbe una roba che non potrebbe mai e poi mai far ridere (sia forte e allegramente che con amara pensosità), ma probabilmente Peppe Fiore è cascato in un ruscello magico da piccolo.

Insomma, è con passione e scompigliatissimo trasporto che vi consiglio questo libro. Ci sono pure dei piccoli lavoratori che si gettano ordinatamente nel vuoto dal codice a barre. Parliamone!

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Ai piedi delle due immagini c’era scritto cubitale LAVORARE UCCIDE! e più sotto ancora la convocazione di un’assemblea sindacale straordinaria per il martedì successivo. Gervasini, come tutti gli altri, si appallottolò il volantino in tasca, e si avviò a passo deciso verso l’ingresso degli uffici. Doveva lavorare, lui.
Anche il sindacalista, ovvio, doveva lavorare. Ma questo non gli impedì di presidiare il piazzale finchè non fu sicuro che il grosso dei dipendenti avesse avuto almeno un volantino. Avrebbe timbrato il cartellino in ritardo, ma amen: la rivoluzione non ha orari d’ufficio.

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E ricordate. Chi non legge Nessuno è indispensabile è un Michele Gervasini!

C’era una volta un ragazzo che era troppo curioso. Se ne andò dalla fattoria di famiglia in cerca di fortuna. Prima ancora di dire addio al cane, proprio fuori dal cancello di casa, incontrò un serpente gigante. Aveva le squame color rubino, e gli disse: “Devi tornare dalla tua famiglia”. Il ragazzo rispose: “Ma io voglio vedere il mondo”. Il serpente disse: “Loro sono il sangue del tuo sangue. Loro sono tuoi, tu sei loro, per sempre”.

Steven Amsterdam
Ritratto di famiglia con superpoteri
Isbn edizioni (Special Books)

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Il titolo originale di questo libro è What the Family Needed. E anche se è un titolo allegro come un secchio pieno di alghe, c’informa esattamente di quel che succederà. Gli adorabili di Isbn, invece, hanno deciso di farci sapere che nelle innumerevoli possibilità concesse alle famiglie infelici di essere infelici a modo loro, c’è pure una modalità che prevede l’utilizzo di superpoteri. C’è Giordana che diventa invisibile, Ben che vola, Natalie che nuota velocissimo, Ruth che legge nel pensiero, Sasha che fa innamorare le persone, Peter che può far materializzare tutto quello che desidera. E poi c’è Alek, che si accolla tutta la tristezza e la confusione, che scompare, ritorna e cerca di non farsi mettere in gabbia, anche se è l’unico che non ha mai davvero abbandonato nessuno.
I superpoteri, in questa storia, non sono niente di strano. I personaggi li ricevono all’improvviso, in giornate che spesso non hanno niente di speciale, e diventano subito parte di loro, come il colore degli occhi o il temperamento. Sono superpoteri distribuiti con saggezza, doni che dovrebbero riuscire a risollevare da un momento buio, per infondere la determinazione necessaria a vedere che cosa riserverà la giornata successiva. Spesso appaiono col giusto tempismo, a volte peggiorano le cose o attirano una catastrofe peggiore di quella schivata nel presente, tutti innescano conseguenze difficili da governare. A tirare le fila, a scegliere quale sia il sentiero giusto per avvicinarsi alla felicità, c’è l’unico della famiglia ad avere davvero qualcosa di speciale. Non sapremo mai da dove arrivi il suo dono, ma credo ci si possa accontentare di osservarlo mentre mette insieme un puzzle molto complicato con le storie e il tempo di chi ama.

Che vi devo dire, evviva. E’ un degno Special Book, è una raccolta di scatole piene di quello che non ci piace dire ad alta voce. E’ una storia di famiglia e un interessante giocattolo di incastri. E se mentre lo leggete camminerete in un muro, credo riuscirete ad attraversarlo, senza impegnarvi.

Appena l’aveva vista, Robbie si era sentito martellare il cuore in petto come la prima volta in cui aveva azzoppato una volpe.

Stefania Bertola
Romanzo rosa
Super ET – Einaudi

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Dunque, in questa difficile estate, Christian Grey ha sculacciato così forte la sua derelitta partner da farci diventare tutti quanti sordi.
Personalmente, non ho avuto il piacere di ammirare nessuna delle cinquanta sfumature che sembrano comporre la complessissima e sfaccettata psiche del sadico – ma irresistibile, misterioso, affascinante, instancabile, superdotato, indomito e bello bello in modo assurdo – milionario di E.L. James, che il cielo la perdoni, nè ho tentato di documentarmi più del necessario. Quel che ho capito è che c’è una semprevergine ventenne che va a intervistare il Grey per il giornaletto dell’università e, senza manco accorgersene, dopo tredici pagine si ritrova incatenata alla zampa di un leopardo imbalsamato, nelle segrete di una qualche lussuosa dimora. Mentre è lì attaccata al leopardo – nuda, bendata e con le articolazioni sbriciolate – il Grey le gira intorno tirandole addosso secchiate di cera bollente, puntine e ghiaietta. Tra un’ustione e l’altra, Anastasia viene trombicchiata, malmenata, presa a parolacce e buttata in una cassapanca piena zeppa di furetti deformi. Perchè quel che non ti ammazza t’ispira durante l’accoppiamento.
Comunque, pare che i due si amino di un sentimento cristallino e sfavillante e che ora vivano felici in una mirabile villa nelle immediate adiacenze del pronto soccorso… e a me non potrebbe che far piacere. Insomma, alla fin fine gli sganassoni se li prende lei, chi siamo noi per polemizzare.
Nel rispettare con cortesia e benevolenza l’edificante storia d’amore e pedate nelle costole di Christian e Anastasia, però, non riesco bene a comprendere come si possa affrontare con serietà e autentica partecipazione emotiva una faccenda del genere.
Perchè io la vedo esattamente come Stefania Bertola, e non saprei fare altrimenti.

Giovanna ha problemi con il suo Hot Fire. Vorrebbe iniziare subito con una scena hard, ma Leonora Forneris le ha bocciato un semplice atto di sesso orale praticato dalla protagonista, Olean, nei confronti del protagonista, Kosak. Leonora obietta che al sesso orale ci arriveranno non prima del terzo o quarto capitolo, e che nel frattempo al massimo possono avere un rapporto solo apparentemente casuale nel deposito bagagli della nave da crociera su cui entrambi viaggiano. Solo apparentemente casuale perchè in seguito nessuno dei due potrà dimenticare quel momento, e questo impedirà a lui di sedurre, come programmato, la presidentessa della Indusrials Union del Canada.
– Che faccio? Lui la rovescia su una Samsonite?
– Troppo dura. Fai uno zaino.

Romanzo rosa è un piccolo libro immensamente spassoso. C’è questa bibliotecaria di quasi sessant’anni che decide di frequentare un corso del Circolo dei Lettori per imparare a scrivere un Melody. Ed è una poco abituata ad essere travolta dall’impeto della passione… quando proprio si emoziona è perchè va a mangiare al Flunch con la sua vicina di casa, che la sconfigge sempre a canasta. Insomma, va a questo corso. L’insegnante è la celeberrima Leonora Forneris, maestra del Melody e gran signora, una che si veste con colori mai sentiti, tipo l’ardesia. Nel libro ci sono la storia del corso, le dispense della Forneris (con dettagliate istruzioni su come strutturare un glorioso Melody capitolo per capitolo) e il romanzo della signora Olimpia.
Bene. In due diversi punti ho distintamente pianto dalle risate. E la sera che l’ho letto ho scordato che dovevo lavarmi i capelli ed è finita che ho dovuto rimediare alle tre di notte, in uno sconvolgimento totale di bioritmi. Insomma, sarebbe importantissimo prendere la signora Bertola, vestirla tutta di rosa confetto e mandarla a soccorrere le vittime di Christian Grey, che farsi una sonora e intelligente sghignazzata sui luoghi comuni è decisamente più salutare che farsi sfigurare a sberloni – anche se pieni di romanticismo – da giovani uomini con insondabili disordini della personalità.
E poi l’ardesia è la più nobile delle sfumatura di grigio.
Leggetevelo, valà, vi allungherete l’estate… e capirete che forse avete sbagliato il libro da spiaggia.