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Non è rilevante a livello macroscopico ma, in scala ridotta, un pezzo della mia parabola professionale somiglia un po’ a quella di Anna Wiener. Abbiamo entrambe esordito nel mondo del lavoro con un impiego editorial-librario – lei a New York come assistente in una piccola agenzia letteraria – e ci siamo successivamente spostate nel “tech”. Lei ha fatto i bagagli e si è trasferita a San Francisco per trovare la rampetta di lancio a cui sentiva di poter ambire nella terra promessa delle start-up, io mi sono stabilita a Milano e ho cominciato a lavorare in pianta stabile coi social. La mia era un’agenzia digital e, al contrario di Wiener, mi occupavo effettivamente di contenuto, ma trattandosi di un memoir che usa la cultura aziendale come chiave di lettura per tratteggiare un paradigma umano più ampio, qualche punto di contatto – mio malgrado – l’ho percepito a livello epidermico, innescando un certo meccanismo di riconoscimento che ha sicuramente aiutato il libro a far presa sul mio cervello aggrovigliato e perennemente distratto dai social.
Il fatto che si fatichi a spiegare che lavoro effettivamente facesse Wiener è un aspetto che oscilla tra lo sfizioso e il terrificante. Assistenza clienti. Prima per una start-up di analisi dati e poi per una blasonata piattaforma open-source. Non si fanno mai nomi, ovviamente, perché gli avvocati dei giovani miliardari della Silicon Valley sono molto più agguerriti di quelli che potrebbe permettersi l’autrice, quindi la si piglia sempre un po’ alla lontana… anche se non ci sono dubbi su come identificare il “il grande negozio online” o “il social network che tutti odiano”. Al di là delle pressanti necessità di raccontare la sua parabola professionale parandosi al contempo il deretano, Wiener costruisce una ricca cronaca socio-manageriale di un settore che ha completamente sballato le “proporzioni” finanziarie del passato e che, al contempo, è riuscito a modificare radicalmente le nostre abitudini e le nostre scelte di consumo, informazione, intrattenimento. Non mi impegnerò troppo a compilare un elenco, perché non ci sono elenchi da fare. L’impatto è totale, capillare, onnipresente. Così tanto da superare, di fatto, le nostre capacità di valutarne a pieno le implicazioni. Un po’ perché è complicato analizzare un fenomeno che sta ancora succedendo – e che ci coinvolge – e un po’ perché l’ambiente tecnologico in cui ci muoviamo è strutturato per darci l’illusione di essere decisori attivi. Siamo incoraggiati a compiere, di continuo, miriadi di micro-azioni, ingegnerizzate per generare soddisfazione istantanea e risposte immediate. E quello che si intuisce ancora meno è l’ordine di grandezza dei soldi che girano, soprattutto rispetto ad altre aree dello scibile produttivo umano e del mercato del lavoro.
Wiener parte per San Francisco anche perché a New York la vita è cara e l’editoria è pezzente. A venticinque anni non ha prospettive concrete di carriera e tutti i suoi amici che condividono con lei una medesima matrice lavorativo-antropologica fanno altre trentasette cose per mantenersi, perché lo stipendio che portano a casa con il loro impiego “nobile” e intellettualmente gratificante non è sufficiente. Nella Silicon Valley, i venticinquenni sono già navigati amministratori delegati che con una manciata di ingegneri che si occupano del codice e l’idea di un’app – spesso destinata a sorgere e tramontare nel giro di due anni – riescono a raccogliere milioni di dollari di finanziamenti. Si parla una lingua fittizia, fatta di slogan spiritosi, stronzate motivazionali, meme rimasticati e slang tecnico. Si allestiscono uffici giocosi e accoglienti perché ci si aspetta, più o meno tacitamente, che il tempo trascorso al lavoro superi quello da trascorrere “fuori”, come individui disgiunti dall’azienda. Si incoraggia artificiosamente il cameratismo, perché la narrazione della grande famiglia felice crea devozione alla causa. Perché c’è una causa, ovviamente. Nessuna start-up fa semplicemente quel che fa: implementare e vendere un prodotto tecnologico. Le aziende salvano il mondo, creano legami indissolubili, fanno fiorire la creatività e coltivano sogni. E i primi a cui si vende il sogno sono i potenziali dipendenti. L’offerta è attraente: alloggio, assicurazione sanitaria e dentistica, benefit materiali e possibilità di intrattenimento di cui tendenzialmente non avrai tempo di usufruire, perché stai lavorando. Sempre.

Wiener non smette mai di oscillare tra il desiderio di entrare a pieno titolo a far parte di quella specie di confraternita di eletti – brillanti, ricchi, realizzati, integrati nel contesto – e quello di fare un passo indietro per ricordarsi “chi era” e analizzare con più lucidità le evidenti storture di quel nuovo ambiente umano.
A più riprese ci fa notare con veemenza che sì, desiderava moltissimo che l’amministratore delegato di turno le dicesse quanto era brava e quanto il suo contributo fosse prezioso, ma era anche consapevole di trovarsi in un contesto dove il problema della diversity e del sessismo più smaccato erano talmente interiorizzati e “normali” da essere parte integrante, insieme al frigo delle birre, alle felpe col logo aziendale e ai giri in skateboard per l’ufficio, di quella stessa cultura aziendale finto-compagnona che continua a rappresentare uno dei benefit più gettonati del settore.
Tra scandali per molestie gestiti come scocciature periodiche da disinnescare mettendo in piedi un bel dipartimento per le pari opportunità – come diremmo noi con un gergo forse un po’ vetusto – da utilizzare come efficace leva per le pubbliche relazioni senza però generare nessun mutamento strutturale e il graduale riversarsi verso l’esterno, verso la città, verso i quartieri e gli appartamenti delle dinamiche della nuova bolla tecnologica, che di fatto finisce per inglobare anche il mondo materiale circostante, Wiener racconta il suo nuovo universo professionale e cerca di mapparne le implicazioni. Urbanistica, economia, mercato del lavoro, risvolti psicologici, consumo, cultura, controllo. Il punto di vista è ovviamente soggettivo e parziale… e l’intento non è quello di fornirci soluzioni per demolire un sistema che alimentiamo quotidianamente anche noi. Non percepiremo uno stipendio dal social network che tutti odiano (tanto per citare una delle tante entità), ma di fatto forniamo al social network che tutti odiano il materiale indispensabile al suo funzionamento e alla sua redditività: il nostro tempo, i nostri dati, le nostre interazioni, i nostri pensieri e la nostra attenzione. Non è un libro che ambisce tanto a farci impugnare i forconi. Forse è un libro che vuole farci riflettere – fornendoci un po’ di informazioni di contesto e qualche dritta su “quello che c’è dietro” – sul perché, tutto sommato, non ci dispiaccia lasciare i forconi dove stanno.

[La valle oscura è uscito per Adelphi nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra. È una traduzione leggibilissima che, qua e là, si ingoffa un po’ sul gergo tech o economico. Il problema, secondo me, è più che altro di definizione del pubblico di riferimento per questo libro. Perché venture capitalist resta così mentre flagship store diventa “negozio di bandiera”? Tanto gergo aziendale, tecnologico e di marketing è mutuato dall’inglese e viene usato correntemente anche nel nostro contesto – risultando dunque, comprensibile -, ma stabilire la linea di demarcazione che separa l’uso corrente dal lessico ancora troppo specialistico non è mai di semplice definizione e, inevitabilmente, a un pubblico più vicino al tema certi adattamenti balzeranno di più agli occhi e appariranno forzati.]

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Che difficoltà, gente. Sto invidiando con ogni mitocondrio del mio organismo chi, in questo periodo gramo, ha trovato nella lettura un benefico rifugio. Io, da essere umano che considera la lettura un elemento saldissimo della quotidianità, sto arrancando. Perché tanti sono stati gli aggiustamenti necessari per farla funzionare, questa nuova versione della quotidianità, e nello scombussolamento generale mi sono un po’ arenata e ben poche pagine sono state macinate. Diciamo anche serenamente che è già andata bene se sono riuscita ad andare avanti con il romanzo che sto traducendo e con le altre attività da PRODIGIOSA content-creator, ma non lamentiamoci.
Così a naso, però, mi pare di non essere l’unica ad aver subito un certo rallentamento.
Ecco dunque perché mi è sembrato interessante provare a compilare una listina di libri smilzi (da 200 pagine, all’incirca e suppergiù) per provare a ripartire con slancio.
Anzi, per dirla con maggiore veemenza:

Procediamo?
Procediamo.

M. T. Anderson – Paesaggio con mano invisibile

160 pagine.

Per chi apprezza la fantascienza stramba: alieni VUUV che colonizzano la terra, diciassettenni che cercano di riscattarsi con l’arte, umanità che si arrabatta (senza riuscirci), un finto idillio creato a uso e consumo degli invasori, dei gran problemi intestinali.

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A. S. Byatt – Ragnarök

142 pagine.

Per chi gradirebbe allargare i suoi orizzonti mitologici: una bambina seccolina (che diventerà poi una grande scrittrice) cerca di dimenticarsi della guerra rifugiandosi ad Asgard. I miti norreni più celebri, rielaborati per noi seguendo una lente lirica, autobiografica e maestosa… come un lupo gigante che divora il sole. 

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Peter Cameron – Gli inconvenienti della vita

122 pagine.

Per chi apprezza gli svisceramenti interpersonali: due racconti lunghi per altrettante coppie inquiete, traballanti e ormai impermeabili al potere protettivo del “facciamo finta che vada tutto benone”.

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Diego De Silva – La donna di scorta

148 pagine.

Per chi è stufo di leggere sempre le solite menate sulle relazioni extraconiugali: un marito fedifrago, un’amante che non gli rompe l’anima per sostituire la legittima consorte. Anzi.

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Jeffrey Eugenides – Le vergini suicide

216 pagine.

Per chi… per le tre persone al mondo che non l’hanno ancora letto, credo. Le cinque sorelle Lisbon, che s’ammazzano tutte nell’arco di pochi mesi, vengono ricordate a distanza di vent’anni, tra nostalgia e vero enigma, dai ragazzini che hanno assistito alla loro breve, enigmatica e sfolgorante parabola esistenziale.

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Hiraide Takashi – Il gatto venuto dal cielo

132 pagine.

Per chi ha bisogno di una storia lieve e delicata dove non succede praticamente niente, a parte un gatto che fa avanti e indietro e cerca di scroccare da mangiare (mantenendo una certa dignità) a una coppia serena ma malinconica.

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Rachel Ingalls – Mrs. Caliban

148 pagine.

Per chi ha più paura dei mostri “normali” che dei mostri-mostri: una casalinga perfetta si innamora di un uomo-rana scappato da un laboratorio segreto. Giuro. È meraviglioso.

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Francesco Piccolo – L’Italia spensierata

162 pagine.

Per chi ormai si rimetterebbe volentieri anche in coda sull’autostrada: una raccolta di mini-reportage sui grandi riti collettivi del nostro Bel Paese… ma anche un po’ un viaggio in tutte quelle esperienze che tendiamo a rinnegare, ma poi ci caschiamo dentro comunque… non senza un certo godimento.

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Yasmina Reza – Felici i felici

168 pagine.

Per chi è affascinato dagli infiniti garbugli della commedia umana: non c’è legame affettivo o di parentela (ma pure alla lontana) che Yasmina Reza non passi al setaccio e non punzecchi con raro acume – e pure un po’ di compiaciuta cattiveria. Ah, che benessere.

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Kurt Vonnegut – Ghiaccio-nove

224 pagine.

Per antropologi in erba e paciosi cultori dell’inevitabilità della catastrofe: che cosa succede se su una bizzarra isoletta caraibica convergono gli eredi a lungo trascurati dell’inventore di una sostanza capace di congelare all’istante tutta l’acqua del pianeta? Vonnegut, patrimonio UNESCO.

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Amélie Nothomb – Stupore e tremori

105 pagine.

Per chi pensa di lavorare in un postaccio e ha voglia di consolarsi un po’: il devastante disfacimento di un’impiegata occidentale che cerca di districarsi in una MEGADITTA giapponese, soccombendo con caparbia inventiva e inanellando una tampa dopo l’altra. Un auto-sabotaggio magistrale. La mia prima Nothomb non si scorda mai.

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David Foster Wallace – Questa è l’acqua

162 pagine.

Per chi si chiede con cosa convenga cominciare a leggere David Foster Wallace, probabilmente. Diciamo che possono esserci diversi approcci, ma Questa è l’acqua, forse, è una delle rappresentazioni più sintetiche, per quanto sfaccettata e profonda, di quello che è stato in grado di raccontarci. Sono sei “pezzi”, scritti tra il 1984 e il 2005, per cominciare a fare amicizia con l’autore… o per cominciare a chiamare per nome i grandi casini, belli e brutti, che gestiamo campando.

 

Buone nuove in tempi grami: gli audiolibri continuano a sostenermi. Dopo un doveroso classico – Le notti bianche di Dostoevskij, sentito per fortuna quando l’allegria ancora ci attorniava -, La corsara di Sandra Petrignani – che ha triggerato un approfondimento ginzburghiano di tutto rispetto – e Cos’è l’America del sempre gradito Francesco Costa, mi sto sollazzando con Questione di Costanza di Alessia Gazzola – che il cielo la preservi.
Ma ci troviamo qua riuniti, oggi, perché Storytel ha recentemente caricato una valanga di nuovi titoli (quasi DUECENTO, signora mia) del gruppo Mondadori, suscitando in me insopprimibili impulsi di aggiornamento della libreria dei futuri ascolti. Per chi fosse poco aggiornato sulla struttura molecolare del gruppo Mondadori, i copiosi editori coinvolti sono i seguenti: Mondadori (Capitan Ovvio, ti salutiamo), Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer e Rizzoli.
Per la vostra e la mia utilità, dunque, ecco una piccola panoramica di quello che potrete allegramente ascoltare d’ora in poi. La bislacca categorizzazione è opera mia, sollevo Storytel da ogni responsabilità.

Narrativona bestsellerona

Non so niente della Kinsella, ma sappiate che si può or ora andare a fare shopping con lei in tutte le salse, in ogni grande capitale del mondo e con i budget più disparati. Il più caloroso benvenuto anche al buon Ken Follett – che ho visto esibirsi a Pietrasanta con il suo gruppo musicale e mai lo dimenticherò, soprattutto perché indossava una camicia Versace tempestata di foglie dorate ed era visibilmente FELICISSIMO di stare al mondo – che approda sulla piattaforma con i suoi cavalli di battaglia, dai Pilastri della terra al Mondo senza fine. Su le mani anche per Zafón che appare con L’ombra del ventoIl labirinto degli spiriti. Spolverata disinvolta di ulteriori autori: Corrado Augias, Cecilia Ahern, Anna Todd – e i suoi innumerevoli After -, David Grossman con Qualcuno con cui correre, John Green con Colpa delle stelle e Sandrone Dazieri. Mi sento anche di citare Geronimo Stilton, perché sarà anche un ratto saputello col panciotto, ma i suoi libri sono indiscutibilmente dei bestseller.
Capolavoro definitivo: Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno.
Sincere ambizioni mie: Sveva Casati Modignani. Sento di dover colmare questa lacuna.

Raccomandabili per direttissima (o quasi)

Rullo di tamburi: il primo Neil Gaiman in italiano! Ora, Neil Gaiman è anche un lettore splendido e moltissimi dei suoi lavori sono disponibili in lingua originale con la sua interpretazione (provateci, se il vostro inglese non è troppo zoppicante), ma non posso che rallegrarmi per la comparsa di Coraline nell’idioma che tutti quanti padroneggiamo. Speriamo sia il primo di una lunga serie. Io, nel frattempo, ne ho approfittato per aggiungere alla libreria anche Trigger Warning, una raccolta di racconti che bramo da tempo, e Smoke and  Mirrors, il suo debutto.
Gradita apparizione – per scalatori e non – è sicuramente Paolo Cognetti con Le otto montagne Senza mai arrivare in cima. Se, invece, vi va di addentrarvi in una maestosa saga familiare, procedete spediti con Stirpe di Marcello Fois (che legge anche), il primo capitolo della saga degli sventurati ma coriacei Chironi. Per affilare l’ironia e ridere amaramente del presente, invece, c’è Superficie di Diego De Silva – narrato dall’autore e da Luciana Littizzetto. Non se la prendano gli altri, ma la mia novità “preferita” è senza dubbio L’arminuta di Donatella Di Pietrantonio, interpretato qui da Jasmine Trinca.
E un classico? Che problema c’è: La luna e i falò di Cesare Pavese.

Personalissime curiosità

Dopo molteplici e attente consultazioni, nella mia libreria sono arrivati Il tunnel di Abraham B. Yehoshua, La misura eroica di Andrea Marcolongo – gli Argonauti! Giasone! Medea! -, Hotel Silence dell’islandese Audur Ava Ólafsdóttir – che avevo già trovato godibilissima con Rosa candida – e Gli immortalisti di Benjamin Chole – quattro fratelli, nell’estate del 1969, decidono di farsi rivelare da una veggente l’anno in cui moriranno, imprimendo una deformazione definitiva sui rispettivi futuri. Poi, ho scoperto che Bird Box – che vorrei finire di vedere su Netflix, dato che al primo tentativo abbiamo interrotto per il sopraggiungere di un’eccessiva angoscia – nasce da un libro di Josh Malerman che potrò comodamente sentirmi senza l’ausilio di Sandra Bullock. Visto che siamo in tema serie tv, c’è anche Killing Eve di Luke Jennings – prima lo ascolto e poi me lo guardo, a questo punto. Per concludere, direi di gettarci a capofitto nella divulgazione con Le mie risposte alle grandi domande di Stephen Hawking.

Non vi siete ancora cimentati con gli audiolibri? È un’abitudine assai piacevole e opportuna. Se vi va, cliccando qui si può collaudare Storytel per un mese senza cacciare una lira. 
Vi siete già cimentati con gli audiolibri? Spero vivamente che questa ricognizione possa rimpinguare le vostre librerie e intrattenere le vostre voraci menti – più o meno recluse.

 

A Life’s Work, in italiano, si chiama Puoi dire addio al sonno ed è uscito per Mondadori (con la traduzione di Micol Toffanin) nel 2009, nell’ormai lontana era pre-Resoconto/Transiti/Onori. Il titolo che è toccato a noi è decisamente meno denso di significato. E di certo strizza l’occhio alla longeva tendenza a classificare i racconti incentrati sulla maternità (autobiografici – come in questo caso – e non) in due grandi categorie piuttosto polarizzate: da una parte ci sono quelle che te la mettono giù durissima e, dall’altra, le pasticcione piene d’entusiasmo, quelle che tra mille peripezie e goffaggini cercano di venderti una versione rassicurante e spensierata del diventare madri.

[EDIT per aggiornarci sugli avvenimenti più recenti: nel 2021, A Life’s Work è transitato nel catalogo Einaudi con un titolo che trasporta esattamente quello originale: Il lavoro di una vita.]

Quelle che te la mettono giù durissima vengono solitamente accusate di voler terrorizzare le loro simili o di dipingere a tinte eccessivamente fosche un’esperienza indiscutibilmente sacra e meravigliosa. Anzi, si continua ancora a colpevolizzare, perché se una ti viene a raccontare – ad esempio – una depressione post-partum diventa quasi automaticamente una donna da guardare con sospetto, una persona che deve avere per forza qualche tara pesante, visto che non partecipa alle gioie dell’avvenuta procreazione e sembra tirarsi indietro di fronte alla sua grande missione biologica – e poi diciamocelo, signora mia, se non voleva i figli doveva pensarci prima.
Le allegre pasticcione sono pronte a fornirci speranza. Dai, se ce l’ha fatta questa rincoglionita posso farcela anch’io. Dimmi che andrà tutto bene. Raccontami di sederini morbidi, di piedini piccolissimi, di tutine, di passeggiate al parco, di sensazioni di infinito appagamento e di “finalmente ho capito qual è la mia vera vocazione”.

Il problema con le due estremizzazioni non è di poco conto. Le narrazioni che te la mettono giù dura tendono a far venire a galla il brutto, lo sporco, l’emotivamente disturbante e il difficile. Per quanto tutto ciò possa rispondere a verità, sono inevitabilmente respingenti. Le tribolazioni altrui, soprattutto in tema di maternità, scatenano i sensi di colpa, innescano una reazione di difesa che porta all’istante a dichiarare che tu no, tu non sei mica un mostro del genere. Perché? Perché la “madre” non è un concetto neutro. Anzi, è uno dei concetti più connotati e più zavorrati dalle aspettative collettive. Sguazziamo in uno stereotipo resistentissimo che stabilisce come dovrebbe essere una “buona madre” – e poco importa se lo stereotipo sia datato, figlio prediletto di una cultura che santifica la donna solo se fa la madre (e basta) e assolutamente scollato dalla realtà socioeconomica che abitiamo. Il fatto è che esiste anche quello che ci spaventa. Esistono anche situazioni che non ci somigliano o nelle quali preferiremmo non ritrovarci. Il fatto che una narrazione sia respingente – secondo certi canoni o private sensibilità – non la rende meno autentica o meno degna di essere ascoltata, capita, accolta. Non è che leggendo un’esperienza “negativa” della maternità e prestando orecchio anche alle campane meno entusiastiche ci si esponga a un qualche genere di contagio. Non è che empatizzando con chi ha avuto una partenza in salita – o con chi continua ad arrancare – finiremo per sabotarci. Chiaro, poi… quello che scegliamo di incamerare nelle nostre riflessioni risponde anche a un bisogno, a una ricerca di senso che può portarci a cercare conforto in peripezie simili alle nostre o a trovare quello che ci serve in racconti più spensierati, più edulcorati, più “positivi”. Ed eccoci arrivati al polo opposto.

Sì, ma il libro?

Il polpettone introduttivo mi sembrava rilevante, in questo caso, perché A Life’s Work non ha ricevuto un’accoglienza particolarmente tenera. Come racconta anche Cusk nell’introduzione alla nuova edizione del volume, tanto si è detto e scritto di lei come madre, di quello che avrebbe pensato sua figlia – non sia mai! – leggendo, da grande, questa cronaca dei suoi primi mesi di vita.
Cusk è incoraggiante? Fornisce risposte? Ha scritto un manuale per la gestione del neonato? Ha cercato di convertirci a una corrente pedagogica? Ci vuole imporre un punto di vista? Per niente.

Cusk si è domandata, in estrema sintesi, che fine faccio io – madre – quando metto al mondo un figlio. Che cosa succede al corpo, alla vita interiore e alla struttura del mondo di una donna che, a un certo punto, partorisce e piomba in un paradigma completamente nuovo. Che cosa accade alla coscienza individuale quando si trova legata a un altro essere umano che è stato per nove mesi parte di te e che, separandosi, manifesta una volontà, dei bisogni primari che non sono negoziabili, delle esigenze e dei comportamenti che non si adattano alle norme e al funzionamento della realtà che conosciamo.
E non sono domande che trovano risposta nel semplicistico “eh, ti è nato un figlio che cosa ti aspettavi, mica è tutto uguale poi”.
Pur sapendo che le cose cambieranno, non c’è nessuno che viene a farti un bel disegnino. Così come non c’è nessuno che può dirti come cambieranno per te. Per la madre standardizzata dell’immaginario collettivo c’è un percorso assai chiaro – e anche una serie di traguardi emotivi da raggiungere, accompagnati da una tabella dei sentimenti autorizzati e degli obiettivi che la prole deve centrare per potersi ritenere “normale”. Certo, sarà difficile, ma ci hanno insegnato che lo spirito di sacrificio è il motore di ogni madre che si rispetti. Suvvia, che sarà mai.

A Life’s Work non la mette giù dura. Non è nemmeno stato scritto per il gusto di provocare, turbare o scandalizzare – non che poi contenga chissà quale vicenda provocatoria, disturbante o scandalosa. Tira semplicemente fuori delle domande eretiche rispetto al paradigma della madre esemplare. Perché al centro dell’attenzione – somma stranezza – c’è la madre, non c’è il bambino. È un libro che parla di ruoli e di equilibri. Chi ero e chi sono? Non c’è un interruttore che ci fa passare dalla “modalità io” che ci ha accompagnato per tutta la vita alla “modalità madre” in maniera automatica. E chiedersi che cosa resta di te – specialmente nei primi mesi – è un quesito perfettamente legittimo, indipendentemente da quanto tu sia felice, triste, sola, supportata, disperata, sostenuta, euforica, convinta, preoccupata, assonnata, energica. È un libro che si interroga sull’identità femminile in un momento cruciale, ma senza cancellare o ignorare le altre spinte che costituiscono, nel loro complesso, quel “chi siamo”. Diventare madri non è obbligatorio ma, quando succede, è senza dubbio un’esperienza di trasformazione. Perché diventando madri diventeremo altro, ma se siamo qui vuol dire che abbiamo macinato storie, idee, sogni, relazioni, punti di riferimento, passioni, abitudini. Sovrascriverli completamente ci renderebbe madri migliori? Rachel Cusk non ha stilato per noi un decalogo su come disinnescare le coliche o un vademecum per selezionare la babysitter perfetta. Non è una madre “pratica”. Non è la madre saggia che pretende di spiegarti come si vive, di mostrarti un modello d’eccellenza, di pungolarti affinché tu sia radiosa, euforica, appagata e… innocua per il tuo prossimo. Cusk è una persona che si sta domandando insieme a noi che cosa sia, alla fin fine, una delle molti madri possibili. Quello che le accomuna tutte è la portata di un compito che non si esaurisce mai, finché si sta al mondo. A Life’s Work? Credo proprio di sì. È un tragitto fluido, un susseguirsi di abissi anomali. E può capitare, affacciandosi sull’orlo del baratro, di percepire la vertigine e di perdere l’equilibrio… ma anche di trovarsi di fronte, molto spesso, a un paesaggio meraviglioso.

A gennaio siamo tutti più propositivi. E intendo approfittarne per fare qualcosa di bello in vasta compagnia (si spera), prima che la crudezza della realtà spazzi via ogni slancio di auto-miglioramento che tentiamo di imporci all’alba di ogni nuovo anno.

Ebbene, dopo il successo planetario di #LibriniMarzolini e di #LibriniRegalini, eccoci qua con #LibriniRitrattini – la challenge libresca che commuoverà il web. Come da tradizione, c’è una specie di CONCEPT.

Perché #LibriniRitrattini?
Perché essere una lettrice fa parte della mia identità. Come il migliore degli amori duraturi – e ricambiati -, la lettura è diventata parte di me e, negli anni, i libri che ho letto si sono trasformati in un bagaglio prezioso che contribuisce a raccontare chi sono. Quella del lettore è un’identità che non manca di spirito d’adattamento. Diventiamo “altro” quando scopriamo qualcosa che riesce a spalancarci un terreno non ancora battuto. Quel che già conosciamo ci rassicura, ma l’immaginazione di chi crea storie per noi è refrattaria ai confini… e spesso finisce per trascinarci felicemente lontano. E tutto quello che raccogliamo lungo la strada diventa un nuovo reperto da aggiungere alla nostra mappa. Domandarsi com’è fatta questa mappa equivale al chiedersi “ma che lettore sono, alla fin fine?”.
Ecco.
Con i #LibriniRitrattini vorrei provare a scoprirlo.
Non ci sono troppe domande filosofiche, anzi. La lettura è fatta di pagine che incontriamo, ma anche di abitudini, di attaccamenti, di luoghi, di gesti, di porti sicuri e di distanze che preferiamo prenderci.

Prima di perseguitarvi con le necessarie informazioni pratiche, ecco qua i temi dei volenterosi #LibriniRitrattini.


INFORMAZIONI PRATICHE DI SCONFINATA IMPORTANZA

– #LibriniRitrattini è composto da 24 “temi” che, nelle mie migliori intenzioni, dovrebbero aiutarci a comporre il nostro magico identikit di lettori.

– Un tema al giorno. Si comincia l’8 gennaio e si finisce il 31 gennaio.
Fino al 6 c’è la gente in ferie e il 7 è il classico giorno-cuscinetto in cui non ci ricordiamo manco la password del PC dell’ufficio. L’8 mi sembrava un momento ragionevole per cominciare davvero a fare qualcosa.

– Il canale da utilizzare per partecipare attivamente (pubblicando i vostri contributi) o consultare quello che succede (navigando gli #) è Instagram.

– Come si fa? Molto banalmente, pubblicate sul vostro profilo Instagram un contenuto che vi sembra possa ben rispondere al tema della giornata. Se avete il profilo privato non risulterete “visitabili” nell’archivio generale, ma chi sono io per costringervi a levare i lucchetti.

– Che vuole dire “contenuto“? Una foto o un video nella gallery (o una IGTV).

– Posso pubblicare i miei contenuti su Stories invece che nella mia gallery? Potete, ma forse ha meno senso. L’idea è quella di creare un archivio “stabile”, che rimanga disponibile a tutti per i prossimi mille anni. Nel raccontare che lettori siamo, infatti, diventeremo anche una potenziale fonte d’ispirazione e di spunti per gli altri.

– È obbligatorio partecipare tutti i giorni? No.

– E se arrivate in ritardo? Pazienza. Usando gli # giusti si può recuperare, se vi va.

– E quali sarebbero questi #?
Ogni foto dovrà essere accompagnata da due #: #LibriniRitrattini (per raccogliere TUTTO quello che produciamo) e #LibriniRitrattiniNUMERETTO (dove NUMERETTO sta per la giornata. Che ne so #LibriniRitrattini12).
In questo modo, avremo a disposizione l’archivio completo del progetto ma ogni categoria risulterà anche consultabile per conto suo, in tutta comodità.

– Cosa devo scrivere nella caption?
Oltre ai due #, consiglio di indicare il tema della giornata (per rendere più chiaro a chi vi segue a che cosa si riferisce la foto) e, se vi va, due parole sul perché avete scelto un determinato titolo o, per dire, amate frequentare una certa libreria. Ogni approfondimento sarà accolto con gioia.
Esempio.
#LibriniRitrattini1 – Ah, quanti ricordi! Il primo libro che ho letto per conto mio.
[Quel che vi va di dire].
#LibriniRitrattini 

– Si vince qualcosa? No. Ma a questo giro vorrei almeno ri-diffondere nelle Stories i contenuti più cuorosi che vedrò spuntare ogni giorno.

– Ma ci sono specifiche di “genere”, formato, lallallero e lallallà? Non ci sono. Sono i vostri libri e le vostre abitudini. Può partecipare chi legge solo fumetti come chi legge solo saggistica universitaria. Fate quel che volete, non c’è una commissione d’esame.

– Non vi sentite fotografi provetti? La cosa è del tutto irrilevante. Non è un concorso per art director ma un progetto collettivo che punta a diffondere l’amore libresco, a fornire idee meravigliose al nostro prossimo e a chiacchierare di libri.

– Vedete dello spam o delle foto non pertinenti? Siate educati, ma fatelo notare – spiegando magari che cosa stiamo facendo. Dedichiamoci insieme a mantenere l’ordine e l’armonia, insomma.

*

RISORSE ULTERIORI

Qua si può scaricare l’agile PDF stampabile del calendario.

Qua si può scaricare una lista stampabile ancor più agile, con tanto di spazietto per le note.

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Mi sarò di certo scordata qualcosa di molto importante, ma ce la faremo. Anzi, spero vi cimenterete con gioia. Molti abbracci e felici #LibriniRitrattini!

Dunque, questo post può essere utilizzato in due modi.
Uno. Può fungere da fonte di ispirazione per rimpolpare il vostro scaffale di illustrati di raro pregio e ricchezza tematica – con utili sconfinamenti nel campo narrativo, anche.
Due. Può fungere da mini-passaporto per cominciare ad esplorare le vaste praterie di Zalando Privé, spin-off di Zalando che ospita offerte “a tempo” per abbigliamento, accessori e casa – a prezzi particolarmente scontati.
Perché ho scelto i libri con le figure? Perché li amo profondamente e perché rendono le contaminazioni visive molto più immediate. Vero, è un approccio un po’ Pinterest… ma l’esercizio si è dimostrato istruttivo e anche spassoso. Che cosa troverete, quindi? Libere associazioni tra il letterario, il visivo e lo spendaccionesco. In coda, qualche appunto pratico su come funziona Zalando Privé – che ringrazio già per avermi lasciata divertire.

Partiamo!

*

Ai Yazawa
I cortili del cuore
(Deluxe)
Panini Comics

Lo so, Ai Yazawa forse merita un po’ del nostro rancore per non aver mai finito Nana, ma che devo fare… l’ho amata in gioventù e il suo tratto ricchissimo e insolito ha a lungo sostenuto la mia passione per lo strambo, la moda e l’invenzione. Ritrovare sugli scaffali un’autrice che mi ha accompagnata così tenacemente – forse contribuendo in maniera significativa anche al mio inquietante Periodo Borchiato Della Tarda Adolescenza – è fonte di gioia. Da qualche mese, Panini ha sfornato queste nuove edizioni (con numerose pagine a colori) dei Cortili del cuore, riportandoci nel microcosmo – invecchiato benissimo – della premiata ditta Happy Berry.
Che si metterebbe Mikako Koda – quando non si disegna da sola le sue favolosità? Ecco un’ipotesi.

Coach | Patrizia Pepe | Calvin Klein

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Emil Ferris
La mia cosa preferita sono i mostri
(Bao Publishing)

Parlo spesso di questo libro e le cose non faranno che peggiorare alla comparsa del secondo volume – Amazon indica settembre 2020 come data di uscita, ma non sono mai molto bravi con i metadati, quindi tenderei a non fidarmi. Emil Ferris è appena stata a Lucca Comics, con tanto di mostra delle sue strabilianti tavole a penna, e mi auguro che qualcuno abbia sollecitato con veemenza Bao al grido di DATECI I MOSTRI DUE. La mia cosa preferita sono i mostri è ambientato nella Chicago del ’68 e affronta con una sensibilità rara e un raggio d’azione sterminato il lato oscuro dell’essere umano, sia dal punto di vista storico – una grande porzione del libro racconta le vicissitudini di una transfuga della Germania nazista – che quotidiano. Anche chi amiamo di più può trasformarsi in un’entità terrificante? Perché gli altri temono quello che non conoscono e non controllano? Quanti rischi siamo disposti a correre per restare fedeli a quel che riteniamo giusto?

Insieme a Karen, una bambina di 11 anni che sceglie di mostrarsi con le fattezze di un lupo mannaro, esploreremo un universo fatto di mostri benevoli – come quelli dei b-movie e dei fumetti horror da pochi spiccioli – e di mostri ben più temibili. Al cuore di ogni snodo narrativo, l’indagine clandestina che Karen sceglie di condurre per far luce sulla morte misteriosa della sua vicina di casa.
E cosa si metterebbe Karen? Lo sappiamo già. Karen porta con fierezza – quasi come una corazza o un mantello dell’invisibilità – un impermeabile da perfetto investigatore privato. Che le sta un po’ troppo grande.

Bristol Textiles | Karen 🙂 | Moves

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Tim Anderson
Tokyo Stories. Storie e ricette giapponesi
(EDT)

L’immagine non rende giustizia al metallico splendore della copertina – e non ci permette di intravedere nemmeno il rosa fotonico delle pagine. Dovrete fidarvi di me, abbiamo poche alternative. Tokyo Stories è un felice ibrido tra un diario di viaggio e un ricettario. In entrambe le sue accezioni, è un tributo alla multiforme cucina giapponese e all’infinita varietà di spunti mangerecci che Tokyo può offrire ai suoi visitatori e ai suoi residenti. Insomma, è una guida allo street-food da scovare “sul campo” – grazie alla brillante aneddotica e alle fotografie di Tim Anderson – ma anche un manuale di istruzioni per riprodurre i piatti più rappresentativi, amati e ricchi di storia (e di sapore), senza rinunciare a una doverosa componente pop.

Che ci mettiamo? Uno squalo che Hokusai disapproverebbe, uno scenografico kimono e un abitino che somiglia a uno stagno di pesci koi.

Topman | Free People | Foxiedox

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Jonathan Hickman, Tomm Coker
Black Monday
(Mondadori)

Un’altra delle mie fissazioni è Black Monday, un noir esoterico ambientato nel mondo di Wall Street. Ne avevo parlato anche qui, ma l’ossessione non mi abbandona e sto attendendo con discreta trepidazione l’uscita della terza raccoltona italiana. Il disegno è superbo, quasi cinematografico. E la trama è un magnifico groviglio di dinastie, scranni rituali da occupare, equilibri di potere e voragini oscure. Il grande assunto di fondo è che, dietro al funzionamento della finanza e delle grandi correnti di pensiero che regolano la vita economica del pianeta, ci sia – e ci sia sempre stato – Mammona, in una delle sue plurime emanazioni. Dalla crisi del ’29 a quella più recente dei subprime, l’avidità ha sempre avuto un prezzo… e non esiste conoscenza che si possa ottenere senza offrire qualcosa in cambio.

Chi ha venduto l’anima al diavolo ci ha guadagnato anche un servitore sovrannaturale e non dovrà più sporcarsi le mani – almeno materialmente. Georgia Rotschild e la sua fantasmatica controparte combattono, nei primi due volumi, per riemergere dall’esilio in cui erano state relegate e tornare a sedersi nel cerchio dei potenti, sfoderando anche un più che discreto senso del teatro.
E che ci vogliamo mettere, mentre pesiamo il cuore dei nostri nemici su una bilancia d’oro?

Roberto Cavalli | Patrizia Pepe | Zac Posen

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Fedrica Magrin & Laura Brenlla
Atlante dei mostri e dei fantasmi più spaventosi
(White Star)

Avere un figlio di tre anni mi autorizza ad accumulare senza il minimo ritegno tomi illustrati che affrontano qualsiasi argomento dello scibile umano. Vogliamo forse trascurare i mostri e i terrori del mondo? Giammai! Cesare DEVE conoscere le insidie di Scilla e Cariddi! Questo atlantone illustrato chiama a raccolta le creature fantastiche delle latitudini più disparate, costruendo una grande mappa delle belve leggendarie più emblematiche del mondo. Il libro è diviso per aree geografiche, con l’aggiunta di sezioni tematiche (la mitologia greca è fondamentale, Cesare!) e paginoni doppi per i mostri che hanno saputo invadere con grande capillarità il nostro immaginario, dalla viverna al kraken.

Cosa si metterebbe una fattucchiera come si deve? Parecchie cose.

Keepsake | Coach | Patrizia Pepe

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Virginie Aladjidi – Emmanuelle Tchoukriel
Inventario della natura
(L’Ippocampo)

L’Ippocampo ha sfornato, negli anni, un ventaglio davvero ampio di Inventari illustrati. Quelli “specializzati” sono numerosi e ben possono rispondere alle curiosità più sfaccettate, dagli insetti agli animali dell’oceano, passando per fiori, alberi, creature di montagna e dinosauri. L’inventario della natura è un compendio che ambisce a radunare le piante e le bestie che meglio rappresentano – per rilevanza, diffusione e presenza nel nostro immaginario – le grandi famiglie di riferimento. È pensato per essere sfogliato come un album e, in 500 pagine, ci porta a spasso per mari, terre emerse e continenti lontani. Le illustrazioni sono intuitive, meticolose e degne del più nobile degli atlanti naturalistici. Potenziali applicazioni: bambini curiosi che vogliono orientarsi meglio tra vegetali, fiori e animali, senza trascurare la vasta schiera di “grandi” che non hanno mai smesso di guardare con gioia e autentico trasporto i documentari. Perché la famiglia Angela sarà sempre un faro nella notte.

I pattern naturalistici sono un classico intramontabile. Potevo marciarci per circa sei anni, ma ho fatto del mio meglio per restringere il campo.
Un tributo alla flora? Eccoci.

Etro | Stella McCartney | Sister Jane

E la fauna? Non possiamo di certo ignorarla.

River Island | Melvin & Hamilton | Lost Ink

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Mi sono auto-imposta un traguardo, perché le associazioni da inventare e i potenziali libri da consigliare sono virtualmente infiniti. Andremo avanti con l’esperimento? Sarebbe bello. Per ora, però, fingo di ritenermi soddisfatta e, mentre attendo che i miei acquisti arrivino a destinazione, ecco qualche informazione su Zalando Privé.

Come funziona? Zalando Privé è un fratellino di Zalando e raccoglie, quotidianamente, una gran quantità di offerte a tempo. Ogni giorno, infatti, vengono attivate delle sezioni nuove, che rimarranno “accese” per un periodo più o meno breve per poi tornare a inabissarsi, trascinando nelle profondità dello shopping on-line i loro sconti molto succosi. Ecco, quello è un aspetto rilevante… insieme alla varietà delle proposte. Ci sono solo marchi IPER esosi? No, c’è un po’ di tutto. Troviamo abbigliamento da donna, uomo e bambino, ma anche accessori per la casa, cancelleria, gioielli, articoli sportivi e, ovviamente, borse e scarpe. Si possono trovare offerte “per brand” – ciao, ecco qua tutto Missoni / ciao, ecco qua tutte le Adidas del mondo – o per “tema” – ciao, ecco qua un sacco di idee per vestirsi in ufficio / ciao, ecco qua tutti i trench – e anche per “velocità” di consegna. Al fondo della home, per gli acquirenti più organizzati, ci sono pure i trailer delle offerte in arrivo, inseribili con gran comodità nel vostro Calendar per scongiurare le dimenticanze. Come accennavo all’inizio, i grandi marchi convivono con designer meno conosciuti o con linee molto accessibili, il che rende anche interessante l’esplorazione quotidiana.
Un consiglio pratico? Fateci un giro. È tutto particolarmente auto-esplicativo e fruibile, nonostante la mia lenzuolata di indicazioni.
Vi lascio il link, che fa sempre comodo.

Buone ricerche e, come al solito, buone letture.

Spero che nessuno mi affidi mai un gregge di pecore. Sarei in grado di accudirne una manciata, lasciando sprofondare le altre in un crepaccio senza fondo. Ecco, con gli audiolibri è un po’ la stessa cosa. Ne finisco parecchi ma non per tutti imbastisco un discorso. E non perché non si tratti di ascolti meritevoli d’attenzione, ma perché le mie giornate stanno diventando un susseguirsi di treni metaforici che lasciano la stazione prima che io riesca a salirci sopra. Si rende dunque necessario, di tanto in tanto, un sano e confortante recap di quello che imparo, apprezzo e assimilo lungo la strada – perché poi vado a piedi, visto che perdo i treni.
Un altro fenomeno consolante? La “gente” ama le liste. E anch’io devo riconoscerne l’indubbia funzionalità.
Ecco qua, quindi, un piccolo gregge di ascolti recenti scovati su Storytel che mi sento di applaudire e di diffondere con gioia.

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Grazia Deledda – Canne al vento
Letto da Michela Murgia
(7h 9m)
Gli audiolibri stanno innescando un fenomeno curioso – almeno nel mio cervello. Ci sono classici che non ho letto da piccola o classici che non ho apprezzato/compreso quando me li hanno ficcati in gola durante la scuola dell’obbligo. Solo in rari casi ho trovato la spinta per prendere in mano il libro e recuperare il tempo perso, ma mi sto accorgendo che l’ascolto può essere una soluzione preziosa per colmare le vaste lacune che ancora mi affliggono. Ecco, Canne al vento appartiene all’insieme dei romanzi mai letti – e pure di quelli che in classe non sono mai entrati. Perché? Chi lo sa. Da quello che racconta Michela Murgia nella preziosa introduzione al romanzo (perché sì, legge Canne al vento e ha curato anche l’introduzione), la mia professoressa di italiano non è stata l’unica a dribblare con disinvoltura la Deledda e, da quanto ho scoperto, un intero mondo. Canne al vento – come ho ascoltato da un’altra parte, forse in una chiacchierata tra la Murgia e Chiara Valerio – è quasi un romanzo gotico, ma alla luce del sole. Il buio è popolato di fantasmi e spiriti catalogati con precisione dalla tradizione sarda, ma è il sole implacabile delle giornate caldissime d’estate che sconvolge le menti e fa tremare di febbre i corpi. È al sole che si smaltiscono le conseguenze dei gesti estremi notturni e che si cerca di trovare, invano, la pace.
Per approfondire – e capire perché vale la pena fare amicizia con la Deledda – ecco qua l’introduzione di Michela Murgia.

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Chimamanda Ngozi Adichie – The Arrangements
Letto da January LaVoy
(31m)
Un esperimento narrativo che tenta di rispondere alla seguente domanda: ma cosa succede nella testa di Melania Trump? Il New York Times ha commissionato alla Adichie, nel 2016, un pezzo sulla campagna presidenziale. Il risultato è questo racconto di taglio “domestico”, che attinge dai ben noti manierismi di Donald e da quello che possiamo concretamente “vedere” (anche se preferiremmo farne a meno) per ipotizzare quello che si nasconde sotto la superficie e per provare a dare una voce a una donna che ci viene solitamente presentata come un’entità da osservare e non una persona da ascoltare.
[L’inglese di January LaVoy è altamente comprensibile e la sua “resa” delle battute di Trump è terrificante nella sua accuratezza].

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Philip Roth – La macchia umana
Letto da Paolo Pierobon
(15h 35m)

Non c’è di sicuro bisogno che lo faccia notare io, ma Roth è stato un impareggiabile esploratore della mente umana. I suoi personaggi sono sconfinati, si propagano in tutte le direzioni temporali e diventano a ogni riga più ricchi, veri, complicati e memorabili. La macchia umana è la storia di un fardello portato per una vita intera, di un segreto così ben nascosto da trasformarsi (accidentalmente) in un’accusa paradossale. Coleman Silk, stimato e temuto professore di Lettere Classiche all’Athena College, viene allontanato dall’università in seguito a un’accusa pretestuosa di razzismo. La cacciata (con disonore) e la sua relazione con una donna analfabeta molto più giovane di lui (e “socialmente” inadatta per un personaggio del suo calibro) sono due emblematici punti di ingresso che ci permetteranno di esplorare il “continente Silk” e l’architettura di una menzogna così vasta da fagocitare un’esistenza intera, senza risparmiare chi si incontra lungo in cammino. Ogni personaggio è una digressione nella digressione, un ingranaggio vivo che contribuisce a reggere (o a sgretolare) le tante maschere che portiamo.
[Non me ne voglia Luca Marinelli, mirabile lettore del Lamento di Portnoy… ma Paolo Pierobon è un Roth perfetto].

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Annie Ernaux – Il posto
Letto da Sonia Bergamasco
(2h
13m)
Una figlia “lontana” torna a casa per seppellire il padre. Quel che dissotterra, nel mentre, è il microcosmo della provincia francese dopo la Seconda Guerra Mondiale, il percorso di una famiglia che arranca per affrancarsi dal mondo operaio in un piccolo paese fatto di spacci e botteghe, di linguaggi condivisi e di goffi tentativi di avvicinamento a un benessere borghese che non potrà mai essere compreso e assimilato del tutto. È un racconto a metà tra l’autobiografia e l’indagine sociologica, una collezione di scorci di storia materiale e di gesti emblematici, tra il fiero e il patetico, tra franchezza e nostalgia per le distanze mai colmate. Splendido.
[All’inizio il tono di Sonia Bergamasco potrebbe sembrarvi un po’ troppo dolente, ma non ci metterete molto a rendervi conto che ha ragione lei].

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Andrea Camilleri – Ora dimmi di te. Lettera a Matilda
Letto da Rosario Lisma
(2h 18m)
Cosa si può lasciare in eredità a un’amatissima pronipote, quando la scrittura fa parte del tuo essere e sai anche che non avrai il tempo di vederla crescere? Ora dimmi di te è una lettera affettuosa e limpida che ripercorre le tappe fondamentali della vita di un autore amatissimo e di un uomo poco incline al compromesso. Si apre quasi con una lezione di storia – per aiutare i futuri adulti a riconoscere il male, mi è venuto da pensare – e prosegue con una carrellata di avventure professionali e personali narrate con ben poca autoindulgenza e una schietta autoironia. È davvero il tempo e la volontà di riflettere su quello che ci capita a renderci più saggi? Dopo aver ascoltato Camilleri tenderei a propendere per il sì.
[Sono passata da Storytel quando Rosario Lisma stava registrando questo libro… e l’ho pure disturbato. Ascoltando percepirete quello che ho visto io, sbirciando in cabina: una persona che legge sorridendo].

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Ilaria Bernardini – Faremo foresta
Letto da Ilaria Bernardini
(5h 2m)
La prima parte del libro è un susseguirsi di catastrofi ospedaliere, ma tenete duro. Il fatto che il corpo possa tradirci e poi tornare pian piano a funzionare è uno dei tanti fattori che contribuiscono a far crescere una foresta rigogliosa. La metafora vegetale sostiene l’intero romanzo che, di fatto, è la storia di una famiglia che si disgrega e che impara gradualmente a riconfigurarsi per ospitare identità nuove, case nuove, amori nuovi, ricordi nuovi. C’è una mamma che scrive e c’è un figlio che assimila il cambiamento e c’è, in generale, una coppia che affronta la fine naturale di un sentimento – che forse è anche la più difficile, perché non implica eventi catastrofici contro cui accanirsi o nemici da detestare, ma il terribile orizzonte piatto di un amore che si spegne. Ma la siccità finisce e i terrazzi tornano a fiorire. Ci vuole aiuto, ci vuole del tempo, ci vuole fiducia. Ma si fa – e si racconta anche.
[A meno di eclatanti eccezioni, gli autori sono i lettori che apprezzo di più. Perché è roba loro. Conoscono il ritmo, sanno quel che volevano dire, non devono ipotizzare intonazioni o acrobazie. Ecco, Ilaria Bernardini è piacevolissima da leggere e anche da sentire].

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Utili postille di servizio. Se vi va di collaudare Storytel, ecco qua il link per i 30 giorni di prova gratuita.

Tra gli autori che, in questi anni, meglio hanno saputo raccontare la storia e le radici del pregiudizio razziale negli Stati Uniti troviamo sicuramente Colson WhiteheadLa ferrovia sotterranea era – e continua ad essere – un romanzo sconfinato e complesso che ha saputo dare tangibilità, anima e concretezza alla leggendaria rete clandestina destinata ad accogliere e “redistribuire” gli schiavi di colore che fuggivano dalle piantagioni del Sud. Il nuovo romanzo di Whitehead, I ragazzi della Nickel, ha una diversa collocazione temporale, ma torna a prendere ispirazione da una vicenda che, questa volta, è malauguratamente reale. La Nickel è, infatti, il calco letterario della Dozier School for Boys, un riformatorio per minorenni gestito dallo stato della Florida e rimasto operativo dal 1900 al 2011. Analisi assai articolate hanno portato alla luce l’atroce passato di abusi perpetrati dall’istituzione “rieducativa” ai danni dei giovani detenuti, con tanto di cimitero clandestino dove venivano fatti scomparire i cadaveri dei ragazzi uccisi o morti in seguito a maltrattamenti, isolamento e violenze.

Domande?
Molte.
Temi?
Complessi e numerosi.
E con chi ne parliamo?
Con l’autore, incontrato agli inizi di settembre durante la tappa milanese del suo tour per la presentazione del libro. I virgolettati di Whitehead scaturiscono da un paio di giri di domande collettivi – perché sì, ero in numerosa e ottima compagnia.

Ma ci vuole un po’ di introduzione.
Il personaggio che, suo malgrado, ci farà oltrepassare i cancelli della Nickel è un ragazzo di colore di Tallahassee – Florida. Elwood, abbandonato dalla madre alle cure della nonna, è uno studente molto promettente, che inizia a muovere i primi passi nel movimento dei diritti civili. L’idealismo di Elwood è fervido. È un ragazzo serio, che studia e lavora, in attesa di cominciare a frequentare l’università. In che anni siamo?

La Dozier – modello per la Nickel – è stata chiusa nel 2011. Potevo scegliere di ambientare il romanzo in un anno qualsiasi, ma ho scelto il 1963 perché è l’anno in cui il movimento per i diritti civili raggiunge una certa massa critica e una vera risonanza. Allo stesso tempo, anche la segregazione, nel ’63, arriva al suo apice. Elwood sceglie Martin Luther King come paladino. L’ottimismo e la fiducia di Elwood, contrapposti al pessimismo e allo scetticismo di Turner – l’amico che conoscerà alla Nickel -, rispecchiano la condizione del panorama politico del tempo, sospeso tra possibilità di cambiamento e disillusione.

La nonna di Elwood lavora in un albergo della città e, in mancanza di alternative, lascia il nipote in cucina durante i suoi turni. Tra i lavapiatti e i camerieri, il piccolo Elwood intravede un potenziale spaccato di futuro, ma sceglie di immaginare una strada diversa. Un giorno, vince una scommessa e si porta a casa un’enciclopedia, dimenticata da qualcuno – un commesso viaggiatore, magari – in una delle stanze dell’albergo. Ma la sorpresa sarà amara. I volumi sono bianchi, ad eccezione del primo, che veniva forse usato come campione da esibire ai potenziali acquirenti. È un episodio crudele, ma emblematico.

È sempre importante trovare un gancio che mi permetta, all’inizio, di capire meglio i miei personaggi. L’enciclopedia rappresenta tutto quel mondo di possibilità che, nel ’63, sono precluse a un ragazzo di colore. Sarà un episodio cruciale per Elwood, ma non lo danneggerà nella costruzione idealistica della sua personalità.

La storia si muove su due piani temporali. C’è l’approdo di Elwood alla Nickel e la sua permanenza in riformatorio, ma c’è anche uno spaccato di futuro.

Sì, i capitoli degli anni successivi sono un tentativo di indagare come si può sopravvivere a un’esperienza traumatica, ricostruendo un’identità coerente.

Elwood finisce alla Nickel per una sfortunata fatalità – e sua nonna non può permettersi di pagare un avvocato valido che sbrogli la questione. Il destino gioca a suo sfavore, insomma, ma pare che il destino tenda ad essere meno clemente con chi è più povero, più svantaggiato e con la pelle più scura rispetto alla classe dominante.

Alla Nickel ci sono anche degli “studenti” bianchi. Il fattore determinante che accomuna tutti è proprio la povertà, anche se l’attitudine al pregiudizio della polizia statunitense è riscontrabile anche nell’epoca contemporanea. Anch’io sono stato fermato e ammanettato senza ragione, mentre ero in giro per i fatti miei. Non si può mai sapere. Svolti l’angolo e puoi ritrovarti in un universo completamente diverso, come è capitato a Elwood.

Chi vince, negli Stati Uniti di oggi, tra la fiducia di Elwood e il disincanto di Turner?

Turner, di certo. Ci ritroviamo con un presidente che vorrebbe colpire un tornado con delle bombe atomiche. I migliori ideali della nazione si stanno deteriorando e ci troviamo di fronte a una continua umiliazione dello spirito umano. È difficile mantenere un atteggiamento come quello di Elwood. Ne usciremo… e Trump non sarà presidente per sempre, anche se è stata proprio la situazione politica attuale a spingermi a scrivere questo romanzo. Mi sono sempre misurato con generi molto diversi fra loro. Parlo di razza e di razzismo, ma anche di città e di cultura pop. Il prossimo libro sarà un crime ambientato ad Harlem negli anni ’60. I miei ultimi due lavori [La ferrovia sotterraneaI ragazzi della Nickelsono quelli che contengono il minor numero di battute in assoluto. Nel prossimo romanzo non ci saranno così tanti personaggi brutalizzati una pagina sì e l’altra pure. [Ride]

Come è possibile che la Dozier sia stata chiusa solo nel 2011?

Ho sentito parlare per la prima volta della Dozier nel 2014, durante gli scavi che hanno riportato alla luce i cimiteri. Per un giorno se n’è occupata anche la stampa nazionale, a parte le emittenti della Florida. La Dozier ha aperto i battenti nel 1900 e la prima denuncia è arrivata nel 1903. Per farla chiudere, però, sono serviti 111 anni. È successo perché a nessuno interessano i ragazzi poveri o i ragazzi di colore. Non sono stati i politici a commettere direttamente degli abusi, ma li hanno coperti, voltandosi dall’altra parte per non ostacolare il profitto – perché queste scuole ne generano, grazie a fabbriche di mattoni, lavori di tipografia, agricoltura… Vicende come questa diventano possibili quando chi detiene il potere ha la facoltà di vessare chi di potere non ne ha.

Sia La ferrovia sotterranea che I ragazzi della Nickel si basano su una solida ricostruzione storica. Qual è il metodo di lavoro?

Per La ferrovia sotterranea sono partito da una struttura astratta – le basi erano la ferrovia e gli stati ad essa collegati. Poi ha preso vita Cora. Ho voluto che la protagonista fosse una donna, perché nel caso della schiavitù il genere ha implicazioni fortissime. Dopo aver delineato una trama inizia il lavoro di ricerca. Per I ragazzi della Nickel ho utilizzato alcuni diari, degli articoli e una ricerca della South Florida University. Ho immaginato Elwood prima di Turner… un personaggio come Elwood richiedeva in modo piuttosto naturale la presenza del suo opposto.

E cosa succede quando i romanzi passano in traduzione all’estero? [Il libro, per l’Italia, è stato tradotto dalla meravigliosa Silvia Pareschi].

Non so valutare le traduzioni, ma sono sempre molto felice di dare una mano, se serve. Per La ferrovia sotterranea, che è molto complesso dal punto di vista lessicale, avevo creato un documento in condivisione con i traduttori di tutti i paesi. Silvia, durante il lavoro, mi ha fatto alcune domande e le ho risposto volentieri. Spesso si rivela necessario, perché uso di frequente slang di altre epoche e anche termini specifici relativi a un ambiente particolare, come la piantagione nel caso della Ferrovia.

I ragazzi della Nickel è un romanzo “breve”, rispetto alla grande mole della Ferrovia. È stato più facile o più difficile?

Per questo libro ho cercato ispirazione nel lavoro di Mohsin Hamid e Julie Otsuka, nella loro capacità di condensare una storia vasta in un romanzo stringato. Cosa metti? Cosa togli? Te lo domandi continuamente… e la loro tecnica è stata di grande aiuto.

Un romanzo può essere un buon modo per innescare il cambiamento, per spingere le persone ad agire?

So che ho deciso di scrivere I ragazzi della Nickel per elaborare questo mio sentimento di impotenza. Avevo bisogno di capire meglio che cosa era successo ai ragazzi rinchiusi là dentro, soprattutto a quelli di colore. Forse dedicarsi alla beneficienza e alle donazioni – due attività che svolgo – sono un modo più efficiente di contribuire alla causa rispetto allo scrivere romanzi. [Ride]

Whitehead non è stato tenero nei confronti dell’amministrazione statunitense – e ci mancherebbe altro -, ma gli abbiamo chiesto anche come vede l’Europa…

L’Europa è malmessa come il resto del mondo. I governi di estrema destra stanno salendo al potere ovunque. E tutti affrontano il tema dell’immigrazione con strategie quasi sempre crudeli e inefficienti.

Un film che descrive bene gli USA di oggi?

Mad Max. Fury Road. 

Impeccabile, direi. 🙂

***

Ecco qualche pensierino sulla Ferrovia sotterranea, per completare l’opera.

Qui, invece, I ragazzi della Nickel.

Orbene, eccoci di nuovo qua. La listona dei finalisti per l’edizione 2019 dei Macchianera Internet Awards – che Pippo Baudo definirebbe senza esitazioni “gli Oscar italiani della rete” – è uscita qualche giorno fa. E ci sono anch’io.
La storia di Tegamini – come entità social e contenutistica, oltre che come estensione della mia sconclusionata persona – ai MIA si sta facendo lunga e felice. È dal 2016 che approdiamo alla finale come “Miglior sito letterario”. Nel 2016 ho vinto per Snapchat – categoria poi abolita, anche sensatamente – e, lo scorso anno, è andata di ultra lusso e ci siamo portati a casa il premio libresco. Uso il plurale perché il merito è condiviso con chi ha proposto la mia candidatura e ha continuato a sostenermi anche nelle perigliose fasi conclusive. Persevero nel sentirmi onoratissima, molto fortunata e anche sorpresa. E no, non è uno sfoggio di finta modestia. Il mondo dei libri e dell’editoria online è vasto e vivace. Ci sono portali, riviste, redazioni, sitoni grandi. Non è scontato arrivarci, figuriamoci vincere. Quest’anno sono anche più agitata del solito, perché in finale ci arriviamo da detentori del titolo e, in estrema sintesi, si tratta di difendere l’agognato piazzamento. NO PRESSURE, proprio.

Ma non dilunghiamoci orrendamente.

Qua sotto, per chi avrà voglia di fare il tifo (GRAZIE, PERBACCO!), c’è l’ipertrofico form per la votazione finale. Il “Miglior sito letterario” è la categoria 20 ma, affinché il vostro voto venga democraticamente registrato, bisogna esprimersi in almeno 9 categorie. Non credo faticherete, ma lo dico. Per votare c’è tempo fino al 5 novembre.

Ci riproviamo?
Se voi ci credete ricomincio a crederci anch’io. 🙂
Grazie, di tutto. Sempre e comunque.

VOLEVO EMBEDDARE IL FORM DI VOTAZIONE MA, COME LO SCORSO ANNO, MI ESCE UN RIQUADRO INSERVIBILE. UN SEGNO DI BUON AUSPICIO? CHI PUÒ DIRLO. ECCO DUNQUE UN BEL MURO DI TESTO GIGANTE CHE È ANCHE UN LINK ALLA SCHEDA DI VOTO. GRAZIE, SCUSATE. SE VINCO MI CERCO UN WEBMASTER.

 

Le liste estive sono una tradizione ormai intramontabile. L’ottimismo con cui affrontiamo le settimane vacanziere non smette mai di commuovermi: finalmente potrò dedicarmi a tutti i libri che ho trascurato quest’anno! Nessuno mi fermerà! Sto a pancia per aria e guai a chi mi importuna! Serenità! Letteratura!
Non sarò di certo io a farvi smettere di sognare. Anzi, sono qui per fomentarvi all’ascolto multiplo dei più disparati prodotti narrativi (e saggistici) partoriti dall’ingegno umano.

Ecco qua un po’ di titoli che ho amato in questi mesi, più un paio di candidati che vorrei ospitare nella mia nutrita playlist.

Caro Michele di Natalia Ginzburg
Letto da Nanni Moretti

Natalia Ginzburg fa parte del mio programma di riascolto di testi letti in gioventù. Nanni Moretti – così come Margherita Buy per Lessico famigliare – è un interprete che si adatta alla perfezione al ritmo della Ginzburg, alle sue osservazioni minute, alla sua prosa schietta e “pratica” che spalanca finestre su orizzonti sconosciuti o, più spesso, sulle profondità ignote che chi è più vicino a noi custodisce con cura, per i motivi più disparati. Il Michele del titolo è un figlio randagio, il centro di gravità di un turbine di personaggi (più o meno vicini alla sua orbita) che si struggono per lui o si arrabattano per conto proprio. Michele, con il suo destino nefasto che pian piano va delineandosi, si trascina dietro un mondo di case, incontri, lotta politica, rancori, vecchie ruggini, amori storti ed esseri umani testardi e veri, che si impegnano per far combaciare i propri spigoli, fallendo splendidamente.

Heidi di Francesco Muzzopappa
Letto da Tamara Fagnocchi

Un impiego surreale e massacrante come direttrice dei casting per un’azienda che sforna format televisivi demenziali, un’insonnia invalidante, un curriculum sentimentale disastrato e un anziano padre (convinto di vivere sulle Alpi svizzere in compagnia del cane Nebbia e della nipotina Heidi) espulso per direttissima dalla casa di riposo. La protagonista di questa commedia di Muzzopappa – punto di riferimento ormai granitico quando si tratta di scegliere qualcosa di spensierato da ascoltare – ha abbondantemente oltrepassato la soglia dell’esaurimento nervoso, ma le cose possono sempre peggiorare…

Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità di Francesco Piccolo
Letti dall’autore

Ho consigliato e riconsigliato questi libri e sono contenta, ora, di ritrovarli anche qui – letti da Piccolo, poi. Entrambi i Momenti sono un gioco serissimo e una riflessione arguta sulle nostre nevrosi, sulla curiosità umana e sulla preoccupazione continua di risultare all’altezza della situazione. No, non siamo all’altezza della situazione. E rendercene conto è liberatorio, di tanto in tanto. Può regalarci attimi luminosissimi di gioia e può anche permetterci, per una volta, di contemplare con franchezza la possibilità di fallire. In santa pace.

Mancarsi di Diego De Silva
Letto dall’autore

Ho conosciuto De Silva, come molti, grazie all’avvocato Malinconico e alle sue sconclusionate ma illuminanti divagazioni filosofiche. Poi ho esplorato quello che era arrivato prima e ormai tendo a non volermi più perdere niente di suo. Mancarsi è una sorta di intermezzo, un romanzo fulmineo che contiene un piccolo universo amoroso. Anzi, due universi paralleli che, involontariamente, fanno di tutto per non incontrarsi mai. È un’analisi toccante (ma ben ancorata a terra) sui primi passi di un sentimento che nasce e sugli ostacoli, più o meno fortuiti, che ci troviamo a superare.

Addio fantasmi di Nadia Terranova
Letto da Elena Radonicich

Possiamo capire il dolore altrui, quando il danno che ci ha arrecato è troppo vasto per essere misurato? Ida torna a Messina nella casa “infestata” della sua infanzia e della sua adolescenza per aiutare la madre con i lavori. Ventitré anni prima, il padre – dopo una lunga depressione – era scomparso nel nulla, lasciandole sole con un rompicapo che non concede riposo. Addio fantasmi è stato uno dei libri in cinquina al Premio Strega di quest’anno e, in versione audiolibresca, acquista una dimensione ancora più preziosa. I luoghi, in questo romanzo, sono fondamentali. Ed è suggestivo ritrovarli anche nella voce di chi narra.

Non mi diffonderò troppo perché ne ho già parlato spesso, ma non posso astenermi dal ricordarvi dell’esistenza di Luca Marinelli che legge Lamento di Portnoy di Philip Roth, di Toni Servillo che legge Hanno tutti ragione di Sorrentino (e sempre letto da Servillo c’è anche Il gattopardo, festa grande!) e di Margherita Buy che legge Mal di pietre della Agus. 

E i podcast? Team Francesco Costa. In catalogo possiamo trovare il suo ormai “storico” reportage sull’attualità americana (Da costa a costa), ma anche Milano, Europa, indagine recentissima sull’evoluzione urbanistica, sociale ed economica della città.

Aspirazioni personali per il futuro?
Vorrei ascoltare Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi (letto da lei medesima), Canne al vento di Grazia Deledda (letto da Michela Murgia), La straniera di Claudia Durastanti (letto da Tamara Fagnocchi) e Mythos di Stephen Fry (letto da lui medesimo).
Come ambiziosa nota finale, una saga che prima o poi gradirei affrontare: I Melrose di Edward St. Aubyn. 
Prendo ferie fino a Natale? 
Non sarebbe male.

Per il momento, però, buona estate… e felicissimi ascolti!

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