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tegamini

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A me, dello zumba, non me ne frega una mazza di niente. Anzi, non è vero. Se dello zumba non me ne fregasse davvero niente, non mi starebbe così sulle balle. La mia non è semplice indifferenza, è proprio antipatia manifesta. Odio lo zumba, la cardio-capoeira, lo spinning, la fit-boxe, lo step e anche il pilates. Odio, ma proprio a livello ontologico, i corsi della palestra. L’idea di trovarmi rinchiusa in uno stanzino di venti metri quadri insieme ad altri esseri umani che ansimano a ritmo di reggaeton mi terrorizza. Istruttori iperattivi e ottimisti che ti incitano a gran voce, gente che si arrotola i pantaloni al ginocchio – ma solo una gamba -, fenomeni che non riescono manco a salire sulla cyclette ma indossano completini sportivi da seimila euro, tacchini ripieni che fanno i pesi allo specchio, asciugamanini bagnaticci, attrezzi incomprensibili, centrifugati detox alla frutta, magliette pezzate. PIUTTOSTO LA MORTE.
Sarò all’antica, ma il fitness non lo capisco. In palestra ci andavo quando giocavo a tennis, perché faceva parte della preparazione atletica. Sai com’è, puoi colpire la palla benissimo, ma se non ci arrivi vicino hai poco da colpire. E quindi niente, ci si allenava in campo, si correva come cammelli derelitti sull’argine di Po per migliaia di chilometri e si facevano gli esercizi in palestra. Lo scopo complessivo, però, era molto chiaro: giocare meglio a tennis, posticipando il più possibile il momento in cui, durante la partita, vorresti solo stramazzare a terra e morire. Idem per lo sci. Si sciava in montagna e ci si squartava in palestra. Anzi, per lo sci avevo anche il pomeriggio dedicato al pattinaggio di velocità. Ci andavo subito dopo solfeggio, pervasa da una furia senza nome. Insomma, tra sci e tennis avevo due gambe così, ma mi servivano a qualcosa. C’erano dei benefici ludici, oltre che agonistici. A tennis ci puoi giocare coi tuoi amici, ci puoi giocare al mare in una bella sera d’estate. Anche a sciare ci puoi andare con i tuoi amici. Sono attività che generano spasso e hanno anche un preciso obiettivo – fare punto (nel caso del tennis), non sfracellarti contro a un pino (nel caso dello sci).
Insomma, quello che vorrei comunicare a chi s’inventa i corsi della palestra è la roba seguente: creatori di corsi per la palestra, quello che ci proponete non è adatto a soddisfare le profonde necessità delle nostre bellicosissime anime. Ci serve qualcosa di alto, nobile, arrogante e scenografico. Ci serve un addestramento da supereroe.
Ecco, in estrema sintesi, che cosa sarebbe davvero utile imparare.

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Tramortire i nostri nemici, calzando con infinita spocchia un elmo col pennacchio.

 

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Affettare orde di demoni con un’ascia magica – dotata di pratico paletto all’estremità inferiore -, senza rovinarci la piega.

 

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Cavalcare maestosi destrieri, manovrare uno spadone e gestire con successo un falcone – possibilmente senza fidanzarcisi.

 

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Prendere acrobaticamente a calci sui denti chi se lo merita, indossando una tutina molto aderente. E, in generale, primeggiare nello spumeggiante mondo dello spionaggio.

 

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Gestire con successo una katana giapponese lunga quattro metri.

 

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Gestire con successo una katana giapponese di dimensioni standard, trionfando – però – nella nobilissima arte della vendetta.

 

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Usare una frusta, anche quando a casa abbiamo finito il balsamo e la maschera disciplinante all’argan.

 

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Trionfare – con tracotanza – anche nelle situazioni più intricate. Vedi accerchiamenti, inferiorità numerica e disparità in fatto di armamenti.

 

Ispirare puro terrore.

 

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Prendere al volo le frecce. Senza manco metterci dell’impegno.

 

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Domandare se, per caso, c’è qualcun altro che se la sente.

 

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Padroneggiare una mossa che l’universo ha concepito precisamente per noi.

 

E non ci servirebbe saper fare tutto questo perché, in qualche modo, saremo chiamati a salvare il mondo. Ci farebbe comodo proprio a livello di equilibrio psicofisico. Imparare roba del genere, care palestre, non solo scolpirebbe i nostri sederi, ma ci renderebbe anche incredibilmente più autorevoli. Macché autorevoli, SPLENDIDI e devastanti.
E voi là, con lo zumba e il cardio-total-body. Dove sono i pugnali. Dove sono i lanciafiamme. Dov’è l’ambizione! Mettetemi in groppa a un velociraptor, con un’alabarda in mano. Insegnatemi a rompere femori, con il solo ausilio di una spinacina Aia. Fatemi diventare il T1000.
Possibile che, là fuori, non ci sia una palestra pronta a trasformarmi in Ezio Auditore?

 

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Joss Whedon, poverone, si è scelto un mestiere difficile. Joss Whedon è un uomo che si sveglia, beve il caffè ed esce di casa con la consapevolezza di doverci traghettare tutti quanti verso le Infinity Wars. Io, alla mattina, sto dieci minuti ad analizzare il cassetto delle mutande – che se scegli quelle con l’elastico molle finisce che ad ogni passo te le ritrovi in mezzo alle chiappe. Joss Whedon si alza dal letto e, da anni, ha il sacro compito di trovare le mutande giuste per un intero universo CINEMATICO.
Mettetele voi, le mutande a Groot, santo il cielo.
Nonostante queste palesi e comprensibili difficoltà, Joss Whedon – chissà poi come – è riuscito a sfornare un nuovo film degli Avengers, conservando addirittura il senno. A parte un candido “Sono un po’ stanchino”, l’ho visto piuttosto in sagoma. E il film? Partendo dal presupposto che è impossibile prendersi male davanti un’impresa degli Avengers, non posso fare finta che Age of Ultron sia una fulgida meraviglia. Anzi, è un film pieno di problemi. Somiglia un po’ a quei libri d’avventura in cui l’autore si impegna tantissimo a descrivere nel dettaglio ogni movimento dei suoi personaggi, dimenticando – spesso e volentieri – di piazzarli su una seggiola a dire due cose. Come ti senti, trafelato e tumefattissimo personaggio? Scommetto che ne hai pieni i coglioni di vagare da un continente all’altro senza un’anima che ti domandi come va. Tieni, bevi una birra e conversiamo come delle persone normali. Se poi non hai voglia di star qua con me, puoi sempre scambiare due parole coi tuoi compagni supereroi. Non vi farà male, giuro.
E invece niente.
Age of Ultron è un film ponte, suo malgrado. E sappiamo tutti che fine ha fatto il Bifrost. Manca un po’ di cuore, insomma. Non c’è l’alchimia bella-bella in modo assurdo del primo Avengers, non c’è la stessa tensione e, nonostante alcuni sporadici tentativi, questa gente non ha un mazza da dirsi. Quello che ne esce meglio, a livello di “perbacco, che personaggio interessante” è un arrabbiatissimo burattino alto tre metri che, guarda un po’ l’originalità, vuole distruggere il mondo.
Io mi chiedo, ma tutti questi qua che vogliono distruggere il mondo… ma dov’è che s’immaginano di vivere, dopo?
Comunque.
Quello che possiamo fare, per divertirci un po’, è parlare di che combinano i nostri beneamati supereroi, analizzandone baldanzosamente le gesta, le prodezze sentimentali, le sfighe e i fattacci loro. Che tanto si sa, siete venuti qui per perdere tel tempo, mica per fare un master in cinematografia.

CI SONO GLI SPOILER.
CI SONO GLI SPOILER.
CI SONO GLI SPOILER.

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IRON MAN

Tony Stark, profondamente segnato dalla battaglia di Manhattan e dal bordello infame accaduto in Iron Man 3, prosegue nella sua parabola discendente. C’è chi parla di introspezione, crescita, presa di coscienza, consapevolezza, senso di responsabilità, saggezza e illuminazione. C’è chi, invece, lo guarda e pensa a un Mocio Vileda volante. Tony Stark, incredibile ma vero, non ci regala uno straccio – LOL! – di soddisfazione, ma neanche quando indossa una specie di armatura frigorifero e picchia molto forte quel sacco di patate di Hulk. La roba che mi è piaciuta, di Iron-Frigo VS Hulk, è la faccenda del satellite pazzo. Quella roba è bellissima. È una specie di prigione telecomandata. E tutto funzionerebbe alla perfezione, se solo Hulk non fosse in grado di scavare. E se Iron Man ci regalasse, di tanto in tanto, un briciolo del suo sarcasmo.
Comunque.
L’unico “merito” di Tony Stark, in questo particolare frangente cinematografico, è l’accidentale creazione di Ultron. Travolto da un eccesso di zelo – e dimenticando quanto bene erano andate le cose l’ultima volta che aveva esagerato con l’assemblaggio di armature pazze che pensano da sole -, il buon Tony decide di costruirne una capace di proteggere tutta quanta la terra. Nonostante il saggio Banner passi ben il 23% dell’intero monte-dialoghi del film a spiegargli che è una solenne cazzata, Iron Man sbologna a Jarvis l’ingrato compito di concludere l’elaborazione-dati più importante della storia dell’umanità e si va a bere un Margarita.
Geppetto, almeno, era rimasto a carteggiare il suo pezzo di legno fino alla fine.

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ULTRON

Non ho avuto la fortuna di sentire Ultron che vaneggia con la voce di James Spader, ma mi è sembrato comunque un personaggio fascinosissimo. Certo, se avesse dichiarato all’improvviso di poter aprire uno Stargate mi sarei sentita molto meglio, ma ci faremo andar bene quel che c’è.
Ultron risponde, involontariamente, a una grande domanda: anche le intelligenze artificiali vivono malissimo l’adolescenza? Brufoli e ascelle pezzate a parte, Ultron è un teenager da manuale. Teatrale, rabbioso, irascibile e rissoso, Ultron detesta i suoi – Tony Stark e Jarvis -, si sente sommamente incompreso – MUORI, GENERE UMANO! -, frequenta cattive compagnie – ciao, giovani fenomeni da baraccone dell’Hydra, ci andiamo a pigliare un gelato? – e reagisce alle sfighe con plateale, sincero e autentico disappunto – OH, NO, ANCORA VOI!
La roba che avvantaggia Ultron, rispetto al sedicenne medio, è la capacità di mandare in orbita una città. Ma anche, lasciatemelo dire, l’incomprensibile necessità di procurarsi un corpo vero. Quella faccenda lì, devo essere sincera, non l’ho mandata giù. Per il resto, Ultron ha il mio benestare. Anche perché, con tutti i posti che ci sono al mondo, ha scelto di sedersi a blaterare sull’altare di una chiesa diroccata. Con una gloriosa coperta sulla testa.
Che qualcuno porti Ultron in vacanza a Formentera. È il momento giusto.

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THOR

Non riesco mai a capire se Thor vada regolarmente a trovare la sua fidanzata o se scelga deliberatamente di ignorarla per mesi interi, senza ragione. Sentimenti a parte, Thor sembra essersi ambientato un po’ meglio sul nostro pianeta… perdendo, dunque, l’unico aspetto che lo rendeva interessante: il fatto di essere un biondissimo e gigantesco pesce fuor d’acqua. Thor, che dal nulla blatera di pentapalmi e frantuma tazze di caffè sul pavimento. Thor, che non ha vestiti normali… ma in fondo gli va bene così. Un uomo grosso e grezzissimo, che si esprime come un monaco cistercense e si fa delle treccine stupende. Qua, tanto per integrarlo ancora meglio con la fauna terrestre, riescono anche a fargli dire un tragico “Si parla che…” – abbiamo capito, è un errore di doppiaggio, ma non posso fare a meno di costruirci su una gloriosa metafora.
E niente.
Nonostante io trovi Thor uno degli spettacoli più belli che la natura sarà mai in grado di regalarci, il suo principale Age of Ultron-merito è quello di innescare l’unica gag davvero carina del film… il mirabile gioco-aperitivo del “Martello nella roccia”. Va bene, è bello e imponente, scaglia fulmini e volta… ma dateci qualcosa in più, qualcosa che ci faccia seriamente felici, qualcosa di strabiliante. Dateci suo fratello, per dire.

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CAPTAIN AMERICA

Il buon Steve Rogers sta migliorando. The Winter Soldier, contro ogni pronostico, mi era assai garbato. Qui in Age of Ultron, nonostante la tracotanza dei superpoteri altrui, Joss-Mutandatore-di-Universi-Whedon trova anche il modo di fargli sfoderare un paio di prodezze assai pregevoli. A coronare questo incredibile filone positivo, Captain America – grazie alla sua anima pura e generosa – riesce anche a smuovere il benedetto Mjölnir di ben 2 micron. Non potendosi manco sbronzare, non mi sembra una gran soddisfazione… ma pazienza.
Nonostante i passi da gigante, però, il finale del film riesce quasi a ricordarci perché Captain America, in fondo in fondo, ci sta un po’ sull’anima. Sono tutti là, bloccati su questa città-asteroide pronta a schiantarsi al suolo. Sono là per aria, e hanno un mucchio di problemi. Il mondo sta per finire, ma Captain America non vuole sentire ragioni. DOBBIAMO SALVARE ANCHE L’ULTIMO SCOIATTOLO DI QUESTO TERRIFICANTE AGGLOMERATO URBANO. Prima salviamo questa gente – inclusi i loro animali da compagnia… i criceti, le cocorite, le tartarughe di terra, le cavie, i cincillà… TUTTI, DEVONO FARCELA TUTTI -, insomma, prima salviamo questa gente – blatte incluse – e poi, se ci resta tempo, salviamo il mondo. Che diamine, saremo supereroi, ma abbiamo pur sempre due mani. L’onore! La giustizia! Mica come quegli sconsiderati della DC, che radono al suolo Metropolis senza battere ciglio. Superman, vergognati! Qua alla Marvel c’è dell’etica, qua si distrugge con criterio! Stolti! E niente. Captain America vaga casa per casa, porgendo panini al prosciutto e bottigliette di minerale a grandi e piccini. Prego, accomodatevi sulla scialuppa. Fino a venti minuti fa, l’Hellcarrier di scialuppe non ne aveva, ma adesso ce ne sono in abbondanza. Mica come quei bastardi del Titanic! W la terza classe! Democrazia! Aiuti umanitari! Giustizia sociale! Rettitudine!
Che qualcuno gli trovi una fidanzata, prima che scateni una Civil War.

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OCCHIO DI FALCO

Per me, Occhio di Falco è un mistero. Sarò una persona poco sensibile, sarò un cuore di pietra… che vi devo dire. Per me, che Occhio di Falco ci sia o non ci sia, non fa alcuna differenza. Molti lo amano perché è un po’ lo Xander del gruppo. Anche Xander – pur non avendo alcun genere di potere sovrannaturale – era un fidato alleato di Buffy e passava le sue giornate ad aiutarla a combattere il male. Occhio di Falco, in più di Xander, ha un’ottima mira, sa guidare gli aerei, riesce ad ammazzarti con un foglio A4 stropicciato e ha dei riflessi fantastici. Chiaro, sono dei grandissimi meriti. Roba che schifo non ci fa. Ma lasciatemi protestare un attimo. Perché, tra tutti i personaggi che ci sarebbe piaciuto conoscere ancora meglio, Occhio di Falco è veramente l’ultimo della lista. Fantastico, Occhio di Falco ha una moglie gravida, tredici figli e una fantastica casetta nella prateria! La Vedova Nera non è la sua ragazza, è la sua migliore amica! Occhio di Falco, zitto zitto, è un animo sensibile! Fine osservatore delle dinamiche che stravolgono, frullano e scompigliano il fragile equilibrio degli Avengers, Occhio di Falco è un ingranaggio imprescindibile… senza di lui, i nostri adorati paladini si sarebbero già sfanculati da un pezzo!
Bravo.
Bene.
Bis.
…ma quindi, fatemi capire. Queste storie super interessanti. Ce le avete raccontate per farci capire che, in fondo in fondo, anche lui serve a qualcosa?

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LA VEDOVA NERA

La Vedova Nera si è ritrovata, suo malgrado, al centro di una spiacevole controversia. Durante il press-tour di presentazione del film, infatti, Jeremy Renner e Chris Evans si sono lasciati scappare una battuta non proprio argutissima, che si è presto trasformata in un caso interplanetario. Alla domanda “che ne pensate della Vedova Nera?”, infatti, i due brillanti attori hanno risposto come risponderebbe il vostro panettiere al secondo vodka-lemon: “LA VEDOVA NERA È UNA ZOCCOLA”.
Apriti cielo – con annessi CHITAURI.
E il sessismo. E vi pare il modo di parlare dell’unica ragazza del film. Zoticoni. Retrogradi. Maschilisti.
Mentre giornalisti di ogni latitudine si impegnavano al massimo per difendere il suo buon nome, Natasha Romanoff sfrecciava in motocicletta verso il più fulgido dei tramonti – raccattando, di tanto in tanto, uno scudo di purissimo vibranio dal centro esatto della carreggiata. Pure Natasha non ha superpoteri, ma nessuno si sognerebbe mai di considerarla uno Xander qualsiasi.
Mi piace tantissimo, la Vedova Nera.
Mi piace il fatto che scelga, ogni volta, da che parte stare. Mi piace molto la schiettezza assoluta che è capace di dimostrare a chi se lo merita… e il talento infinito con cui finge di essere un’altra persona, quando è necessario. Doma gli Hulk, non si spettina, non le manda a dire e riesce a indossare una tutina di pelle palesemente scomodissima senza perdere un briciolo di mobilità.
La verità è che le ragazze di ogni continente tifano per Natasha Romanoff, ma come se non ci fosse un domani. Possono darle della mignotta finché vogliono, ma se riuscisse veramente a sdraiarseli tutti a noi farebbe solo un gran piacere.
SPOLPALI, NATASHA, SPOLPALI!
La faccenda più bella, però, è che Natasha sa benissimo di non averne alcun bisogno.

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HULK

Bruce Banner è qui per ricordarci che il mondo è complicato. Sul fronte anger-management, il dottor Banner sembra starci un po’ più dentro… almeno fino al minuto venti del film. Funziona così. Gli Avengers liberano Hulk. Hulk spacca il nemico. Hulk mastica alberi, si sfonda montagne sul cranio, abbatte edifici e sputa pallottole. Al momento della ritirata, qualcuno spedisce la Vedova Nera a un metro da Hulk e, contravvenendo ad ogni buonsenso e legge naturale, Hulk si tranquillizza. Che vi devo dire, il mondo è strano. La storia d’amore tra Banner e Natasha è una faccenda che mi garba, a livello concettuale. Hanno un casino di problemi in comune. Entrambi, tanto per cominciare, cercano di stare al mondo nascondendo chi sono davvero. Non sono due personcine che si lasciano andare facilmente. E sanno per esperienza che gli errori non si dimenticano. Mi piace, la loro storia. E la troverei addirittura sensata e commovente, se solo non ci fosse piovuta in testa all’improvviso. Quando mai la Vedova Nera e Banner si sono parlati, nel resto del Marvel-universo? State cercando di farmi credere che “Bruce! Bruce! Ascoltami! Andrà tutto bene!” nella stiva dell’Hellcarrier possa creare un precedente sufficientemente solido per raccontare uno affetto che sboccia tra mille difficoltà? Ma che è. Ah, dimenticavo, è la Vedova Nera che ha reclutato Banner in India! Deve pur significare qualcosa!
Bah.
IL CUORE. DATECI DEL CUORE, BESTIE!
Nonostante lo scetticismo, però, sto dalla loro parte. Sarebbe bellissimo, se Banner e Natasha riuscissero a volersi bene in santa pace. Dove sarà atterrato, lo stramaledetto aereo di Hulk? Tornerà mai? Si sarà portato i calzoncini di ricambio?
Ci scommetto i mignoli che, per puro caso, Hulk si è schiantato su una Gemma dell’Infinito. Ma così, mentre cercava un tabaccaio.

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I GEMELLI DEL DESTINO

Quicksilver e Scarlet Witch, in questo universo, sono figli dell’Hydra. Prima che gli Avengers facessero irruzione – grazie alla scena d’azione più confusa di sempre – nella ridente base surgelata del barone Von Strucker, Pietro e Wanda passavano le loro giornate a bisbigliare abbracciati dietro agli stipiti delle porte. Come il 79% dei personaggi di questo film, i gemelli ce l’hanno a morte con Tony Stark. A parte quello, non sanno una mazza di niente. Uno corre velocissimo – sentendosi perciò in dovere di vivere in tuta -, l’altra genera incubi, campi di forza e altra roba rossiccia incredibilmente devastante – soffrendo, come ogni supereroe con quelle magiche capacità, di una pesantissima sindrome di Jean Grey. Inserendosi a casaccio nell’intreccio narrativo, i Maximoff prendono circa un migliaio di decisioni – contraddicendosi ogni quindici minuti, fino a schierarsi dalla parte dei buoni. Verso la fine, Pietro crepa e a nessuno frega niente – …cioè, tipo, lo conoscevamo appena, che cosa dovremmo dire? Wanda e le sue manine a uncino, in compenso, strappano il cuore a Ultron, ci regalano un classico grido di dolore – NOOOOOOOOOOOOOHHHHHHHHHH! – e marciano con decisione verso la nuova base degli Avengers, una specie di stabilimento Ferrari da qualche parte in mezzo ai prati.
Su di me, in tutta franchezza, Pietro e Wanda hanno generato lo stesso impatto emotivo della cassiera del supermercato. Wanda m’è piaciuta un po’ di più, però. Facciamo che Wanda è la cassiera del supermercato che si dimentica accidentalmente di batterti un filetto.

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VISIONE

Rendendosi improvvisamente conto che Paul Bettany è troppo bravo e bello per limitarsi a fare la vocetta di Jarvis, Joss Whedon ha improvvisamente deciso di dipingerlo di rosso e di regalarci Visione. Non ho ben capito come sia nato e nemmeno che cosa possa fare di preciso, ma Visione è una meraviglia. Mi piacerebbe legargli un filo alla caviglia e tirarmelo dietro come un palloncino. I personaggi completamente “alieni”, legnosissimi, mantellati e dotati di eccellenti zigomi con me funzionano sempre. Spero che lo caccino in ogni scena dei prossimi ennemila film. Fate fare tutto a lui. Fategli dire delle cose. Fateci capire che cos’è. Visione mangia? Può cambiare colore a piacimento? Gli garbano i gattini? Dove abita? Thanos gli spaccherà il cranio? Fa la pipì? Ha bisogno di una fidanzata?
CHE DIAMINE, VISIONE HA ANCHE VINTO IL GIOCO-APERITIVO DI THOR, È IL CAPO DEI GALLI! Mettetegli un fiocco in testa e recapitatemelo sulla porta di casa!
VISIONE PER LA PRESIDENZA DELL’UNIVERSO!
SCONFIGGI L’INSENSATEZZA: VOTA VISIONE!

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E niente, questo è quanto.
Age of Ultron è un solenne pastrocchione strombazzante.
Le scene d’azione sono un bordello. Ogni cosa succede troppo in fretta. Non ci sono procioni che parlano. Tony Stark è diventato un tristone. Captain America è riuscito a regredire. Loki non s’è visto, ma ci siamo dovuti sorbire suo fratello per due ore e passa. Qualsiasi tentativo d’infondere un po’ d’anima a questa gente non ha fatto che accrescere il già poderoso fattore-WTF dell’intera vicenda. La Vedova Nera riesce a malapena a limonare, Occhio di Falco finisce sempre le frecce e l’angoscia infinita di Joss Whedon – COME FACCIO A CACCIARCI DENTRO TUTTA QUESTA ROBA, È IMPENSABILE! STO MALE. STO SOFFRENDO. MA PERCHÉ A ME? VOGLIO ANDARE IN VACANZA PER IL RESTO DELLA MIA VITA! TEAM-THANOS! SAPETE COSA VI DICO? NON GIRO NEMMENO LA SCENA POST-CREDITS, COSÌ IMPARATE, STRONZONI! – è percepibile ad ogni scena. Ultron, in compenso, vuole il Booster rosso.
Age of Ultron è un gran casino, ma ho nove anni e me lo andrei a rivedere domani.

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NN
è una casa editrice nuova-nuova
. Hanno cominciato a marzo, proprio con questo titolo – tradotto da Francesca Novajra -, e spero di vederli trionfare abbondantemente. Nelle schede-libro c’è anche il backstage, per dire. Super gioia – e ottima idea!

Sembrava una felicità di Jenny Offill somiglia a una raccolta di pensierini, tutti estremamente bizzarri. Ogni frammento, in maniera indiretta e imprevedibile, ci fa fare un passettino in avanti nella testa della protagonista. Comincia senza chiamarsi in nessun modo e prosegue diventando Moglie, un personaggio che si racconta mentre cerca di venire a patti con una nuova vita che non avrebbe mai pensato di potersi conquistare. La testa della protagonista, infatti, non è mica un luogo ospitale. Anzi, è un posto spigoloso, pieno di vicoli ciechi, sabotatori invisibili e trappole pazze.
Con i pensieri di Moglie, la Offill racconta i primi passi di una famiglia, dalle difficoltà quotidiane – BED BUGS! BED BUGS DELLA MALORA! – ai traumi piccoli e grandi che potrebbero far crollare la felicità costruita pian piano. C’è una bambina che nasce, piange moltissimo per parecchio tempo e cresce, fino a diventare una personcina serissima che corre nei boschi e dice cose spiazzanti e portentose. C’è l’analisi precisa dell’amore, dei compromessi che siamo disposti ad accettare e della paura assoluta che tutto quello che conosciamo vada in pezzi. Più di ogni altra cosa, però, c’è il dubbio. Di non essere mai abbastanza bravi da meritarci di combinare davvero qualcosa. E, ancora peggio, di non riuscire mai ad essere sufficientemente facili da amare.
La Offill, insomma, ci mette di fronte a una gran quantità di sentimenti complicati, piccole gioie e diffuso scoramento, affrontando ogni frammento del puzzle con uno sguardo obliquo, quasi scientifico. È pieno di citazioni e di riferimenti imprevedibili, questo libro. Da un lato, somiglia a una cronaca in presa diretta. Dall’altro, è una collezione di ricordi, momenti, letture e metafore, dallo yoga all’esplorazione spaziale, dagli animali strani ai terrificanti tipi-umani che ci si trova di fronte quando si manda un marmocchio all’asilo.
E basta, mi è proprio piaciuto.

In bocca al lupo, NN editore! <3

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Allora. Entro Natale, in teoria, avrei dovuto produrre un mezzo libro. Ma non “mezzo” nel senso di porcheria buttata lì mentre ti fai i piedi dai cinesi. “Mezzo” nel senso di quantità. Che divertente la roba che ci hai fatto leggere, riesci a riordinare un po’ le idee e mandarcene metà prima delle vacanze? Prova a fare così e così e poi vediamo cosa succede. Ma certo, non c’è problema. Facciamo che consegno la traduzione che devo finire per ottobre e poi mi ci metto. Capirai, mezzo libro lo metto insieme, in un paio di mesi. E che ci vuole.
Che ci vuole?
Ci vuole una piscina di Redbull. Ci vuole un frullato mela-banana-anfetamine ogni ventidue minuti. Ci vuole una cameriera a tempo pieno. Un cuoco. Della servitù. Dei professionisti che si occupino del tuo trasloco. Della gente seria da mandare in ufficio al posto tuo. Una macchina del tempo. Degli scemi da spedire all’IKEA a comprarti le seggiole. Degli gnomi che stiano le mezz’ore al telefono per farti le volture del gas e della luce. Uno stagista che non dorme mai. L’autista. Un dottore che si candidi spontaneamente per diventare il tuo medico della mutua. Qualcuno che capisca dove devi mettere il TFR quando cambi azienda. Una squadra di paggi. Uno psicologo che ti aiuti ad adattarti ai ritmi e ai costumi del nuovo posto di lavoro. La spesa a domicilio. Un cucciolo di foca da tenere in borsa, per superare i momenti difficili.
Voi fate, che io scrivo mezzo libro.

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Il problema è che questa cosa buffa devo assolutamente finirla. Ma proprio per orgoglio personale. Perché potrebbe essere divertente – e assai confortante – anche per gli altri. E perché, quando riesco a mettermici, fa gioia anche a me. Che mi sembra anche un po’ la ragione più valida, se proprio devo annichilirvi con un rigurgito di sincerità.
Nel tentativo di razionalizzare le mie difficoltà – al fine di superarle con un agilissimo Fosbury e/o di imbastire scuse sempre più sostanziose e plausibili – ho deciso di costruire una solida mappona cognitiva degli intoppi contingenti, psicologici e psicosomatici che mi stanno impedendo di mettere insieme un mezzo libro in relativa velocità. Il domandone che ci guiderà è il seguente. Che cosa succede a una persona normale e mediamente disorganizzata quando prova a scrivere qualcosa? Come sempre, ci faremo aiutare da un manipolo di volenterose bestiole.

N. B. Per offrirvi una riproduzione quanto più autentica e accurata possibile, i nostri fidi animaletti appariranno a caso, manifestando le più diverse emozioni senza alcun rispetto per le più basilari norme di causa ed effetto. Perché nulla è coerente e lineare, quando ci si imbarca in un’impresa del genere.

***

Ti è venuta un’idea. E, per una volta, è un’idea plausibile. Tutto è meraviglioso. Non vedi l’ora di iniziare. Sarà fantastico. Sarà divertente.
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Le muse sono dalla tua parte, lo senti. Le muse tifano per te. Pure quelle cieche, storpie e deformi. Soprattutto loro, probabilmente.
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Mezz’ora a smanettare e hai addirittura prodotto un indice. Vittoria imperitura! Vulcani che eruttano cuccioli! Parate e pasticcini! C’è l’indice… hai praticamente finito! Cioè, una volta che c’è la struttura sei a posto, devi solo metterti lì e scrivere i fatti tuoi in bell’ordine. Che sarà mai. L’indice esiste, la salvezza è tua!
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Che facciamo, la buttiamo giù l’introduzione? Insomma, lo sanno tutti che l’introduzione bisogna farla alla fine. Però è anche vero che senza introduzione non si capisce niente… c’è gente che dovrà leggere la bozza, come si fa senza introduzione. Ma servirà? Cioè, a livello narrativo? La diamine di introduzione ha un’effettiva utilità nell’economia del racconto che ci accingiamo a sviluppare? Farne una zoppa potrebbe essere peggio che non farla affatto. Non è che si può sempre dire “eh, ma poi la metto a posto, non vi preoccupate che arriva”… (per comodità, troncheremo qui le riflessioni sull’introduzione. Ma aggiungete un 4 giorni di ritardo al GANTT del vostro libro).
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Cos’è che suona. Cos’è. Che c’è ancora. Non sarà mica la lavatrice?
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Eh, è la lavatrice. Niente. Stendo e vado a letto, che è già mezzanotte e mezza. E domani è pure lunedì. L’indice, ho fatto. L’indice e basta.
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Ma ha senso che io ci perda del tempo? Voglio dire, non ci farò mai un soldo, scrivendo delle cose… né ora né mai. E ho fame. Vorrei una pizza con le olive. Per comprare le pizze ci vogliono delle risorse economiche, delle entrate stabili. Ma chi me lo fa fare? Mi attende un destino di povertà, frustrazioni e stenti. Se voglio piantare lì, questo è il momento giusto. Cioè, al massimo butto nel cesso un misero indice… capirai.
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…c’è anche da dire una cosa, però. Che mi frega. Sono ereditiera dentro. Dentro, sono una nobile rampolla che porta la 38. Suono l’arpa, ricamo, dipingo e scrivo. Procediamo, tanto ho una rendita annuale di 47 mila franchi!
Ah, la meraviglia dell’ispirazione ritrovata! Ah, l’entusiasmo di una storia che germoglia! Cielo, l’impetuoso potere di un animo saldo!
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Però fuori c’è il sole. C’è caldino. Fuori c’è il mercatino dell’antiquariato che sono sei mesi che ci voglio andare. E dovrei pure fare la spesa. Perché mi sono messa in testa di scrivere questa roba. Ma chi me lo fa fare. Ho ancora tutta la vita davanti.
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Ho tutta la vita davanti… ma che cosa ci farò? Ho trent’anni. Ormai non sono più una bambina prodigio. Sono un relitto. Non ho combinato niente. Non sto combinando niente. E non combinerò mai niente. Che scoramento. Ed è pure finito il Braulio.
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Che cretina! Sto scrivendo un libro, non sto mica fondando Google! È tutta un’altra faccenda! Anche a cinquant’anni compiuti, sarò comunque una GIOVANE SCRITTRICE! Ma è bellissimo! Sono praticamente una neonata! Dove sono i miei minipony! Portatemi un saccottino all’albicocca!
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Esultate, genti del mondo, ho finito un altro capitolo! Inchinatevi alla sfolgorante magnificenza della mia arte!
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Dai, questa qui è proprio una bella frase. Chissà come m’è uscita. Non ne ho memoria. Sono evidentemente posseduta da un irrefrenabile afflato d’ispirazione.
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Perché. Perché ogni volta che apro il file – specialmente se è passato qualche giorno dall’ultimo DECISIVO intervento – mi sento il dovere di rileggere sempre tutto da capo. Perché. Che qualcuno ci metta delle password.
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Non importa, non importa. Nulla mi scalfirà. Tutto questo è ridicolo, ma non fa niente. Ho perso un po’ di tempo… ma ho un piano corazzatissimo. Ed è il piano che conta. Lo vedo, è solido. Anzi, tridimensionale. Basta procedere un pezzettino alla volta, con pazienza.
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Mai. Non finirò mai. Solitudine e patimento.
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Puoi abbassare la TV, gentilmente? Qui c’è gente che CREA.
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Flavia, hai voglia di leggere il capitolo nuovo? Niente di che, non pigliarti male. Tanto per capire se ridi o se ti vengono le convulsioni. Senza rancori, davvero. No ma solo se vuoi, non voglio mica farti ansia, ci mancherebbe. Ti piglio il computer, ti metti lì sul divano e io finisco di preparare la pasta. Vado di là, ok? Così non ti disturbo…
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Cioè. La Flavia ride. Ma anche con una certa spontaneità. Che vorrà dire. Che devo pensare. Va bene, no? È una scoperta positiva… è un segno della benevolenza dei cieli. O magari ride perché è gentile. E sa che la sto spiando da dietro lo stipite della porta.
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Forse ci sono un po’ troppi neologismi. Non ne ho la certezza, ma il sospetto è assai fondato. Non sono mica Michele Mari… se vedono un altro “POFFOSO” mi mandano a stendere.
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Smettetela di invitarmi agli aperitivi. Dimenticatemi.
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Smettetela di invitarmi alle cene. In posti buonissimi. Che costano poco. E dove si mangia un botto. Smettetela e basta.
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Io ho sonno, capite? Ho bisogno di dormire, di riposarmi. Non invitatemi al Plastic. Questi weekend sono importanti. Mi serve TEMPO. Non posso sprecare le mie domeniche a boccheggiare sul divano, nel remoto tentativo di ripigliarmi da orrori, disavventure e panini pesantissimi ingurgitati alle sei del mattino.
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Scusami. Pensavo di avere qualcosa da mandarti, ma sono ancora troppo indietro. Non dimenticarmi, però. Io sono qui. Che m’impegno. Con scarsi risultati, ma m’impegno davvero. Non lasciarmi. Non abbandonarmi. Trattami come se fossi una persona seria. Con le traduzioni sono puntualissima… puoi chiederlo a chi ti pare. Giuro. Ce la farò, te lo prometto.
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“Cara Francesca, ci servirebbe la traduzione di questo nuovo romanzo per ragazzi. È un libro molto divertente e per noi si tratterà di un lancio importante. Sei libera? Pensi di farcela in un mese e mezzo? Ti ringrazio moltissimo”.
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HANNO BISOGNO DEI MIEI SERVIGI. E VOGLIONO PURE PAGARMI (A 60 GIORNI DALLA CONSEGNA DEL LAVORO). NON TEMERE, VALOROSO EDITOR, STO ARRIVANDO!
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Le vacanze… mi pagherò le vacanze senza andare in rovina. E in vacanza, finalmente, avrò un sacco di tempo da dedicare al mio libro. Che bel piano. Andrà tutto fantasticamente bene.
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Molto bene… sono passati due mesi. Dove eravamo rimasti?
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Non lo so. Non lo so più. È come se mi fossi appena svegliata da dieci anni di coma. Chissà come volevo andare avanti. Chissà quante idee MIRABILI si sono dissolte. Come lacrime nella pioggia. Come peli nello scarico.
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Ed eccoci qua. A ricominciare da capo per la ventesima volta.

 

Se mai ce la farò, sarete i primi a saperlo.

 

 

MADRE non crede nei surgelati. Anzi, se proprio devo dirla tutta, MADRE non si fida dei surgelati. Sono troppo semplici, troppo immediati. Deve per forza esserci sotto qualcosa. Una roba che la butti in padella e dopo sei minuti è pronta? Stregoneria! Veleno! La Findus vuole annientare l’umanità! Presto, facciamo i bagagli e ritiriamoci in campagna! Zapperemo la terra e ci nutriremo di bacche, radici e ortiche. E buttiamo anche il forno a microonde! MADRE, alla fin fine, non crede neanche nei condimenti. Cucina molto bene, ma l’unto la terrorizza. Così come il fritto. E il burro. Se deve fare una torta che richiede l’utilizzo di 200 grammi di burro, MADRE – borbottando stizzita – ce ne mette 50. E le sembrano pure un’esagerazione. Nessuno ha ben capito come facciano a stare insieme, le sue torte. Il burro ci vuole anche per legare gli ingredienti, per rendere il dolce più morbido. A MADRE non interessa. Pur di evitare i canonici 200 grammi di burro, passa il pomeriggio ad accanirsi sull’impasto. Impasta furiosamente fino ad arrivare dove nessun Bimby è mai giunto prima. La forza bruta come sostitutivo del burro. A casa mia si può. E guai a chi si lamenta. La roba soffice è per gli scemi. A noi non interessa, noi siamo in grado di masticare anche i sassi.
Comunque, ieri – che era Pasqua – siamo andati a pranzo da MADRE e dal mio papà. E abbiamo scoperto una nuova, strabiliante sfumatura dell’ascetismo culinario di MADRE.

TEGAMINI – MADRE, l’arrosto è buonissimo.
MADRE – Ci credo, è filetto di vitello…
AMORE DEL CUORE – È vero, Valeria, è proprio buono. Ce n’è ancora?
MADRE – Francesca, posso dargliene un’altra fetta? Ne ha già mangiate quattro…
TEGAMINI – Non sono mica la sua dietologa. Dagli l’arrosto, santo Dio.
IL MIO PAPÀ – Francesca, prendigli anche due patate.
TEGAMINI – Ecco cosa volevo dirti, MADRE. Anche le patate sono molto meglio del solito. Cioè, lo sai che hai problemi con le patate, no?
IL MIO PAPÀ – Durissime. Asciutte. Secche.
TEGAMINI – Infatti. Queste qua sono quasi morbide. Sono un po’ insipidine, ma non c’è paragone.
MADRE – Sai che conquista. Tuo padre mi ha obbligata a comprare quelle surgelate.
AMORE DEL CUORE – Le Patate Saporite! Noi le mangiamo sempre.
TEGAMINI – Per forza. Cosa faccio? Sto lì cent’anni a pelare patate? E poi le tagli, le cuoci, le inforni, le condisci… ciao. Non sono mica in pensione. Non sono mica il mozzo della nave.
IL MIO PAPÀ – Quello che le ho detto io. Hai già cucinato tutta questa roba, Valeria, piglia due patate surgelate e siamo a posto. Sono anche buone.
MADRE – …sarà.
AMORE DEL CUORE – Ma quali sono? Quelle della Findus? Non mi sembra. Sono un po’ diverse da quelle che abbiamo provato noi.
TEGAMINI – E le abbiamo provate TUTTE.
MADRE – …
IL MIO PAPÀ – Sono diverse?
TEGAMINI – Direi.
IL MIO PAPÀ – Tua madre ha aperto la busta, ha versato le patate nella padella e poi s’è accorta che c’erano quelle mattonelline lì, quelle un po’ verdine.
MADRE – Che schifezza. Chissà che cos’erano.
TEGAMINI – Il condimento, MADRE. Che altro doveva essere.
IL MIO PAPÀ – Eh. Lei ha preso le mattonelline e le ha buttate via.

 

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Dunque. Siete andati a vivere da soli, finalmente. Ed è tutto bellissimo. Mangiate tonno in scatola cinque giorni a settimana (ricavando le vitamine necessarie al vostro sostentamento dal pomodoro che c’è sulle molteplici pizze che ingurgitate nel weekend insieme ai vostri amichetti), sperate che non vi caschi un bottone perché non ve lo sapete riattaccare e tornate a casa quando vi pare, senza dover fronteggiare vostra madre che, alle quattro e cinquanta del mattino, vi aspetta in camicia da notte al tavolo della cucina. Con una falce in mano.

Ma che cos’è che voglio dire.

I giovani virgulti che si levano dai piedi, tipicamente, sono costretti a lasciare a casa buona parte dei libri con cui sono cresciuti. In certi casi è meglio così. Spesso, però, è un gran peccato. Ma che ci volete fare. Col vostro stipendio vi potete permettere uno sgabuzzino per le scope, che libri volete portarvi. Pace, andrete all’Ikea, comprerete una di quelle mini-librerie da 22 euro e 90 e la ficcherete nell’unico angolo libero. E ci metterete i libri nuovi, quelli che vi accompagneranno trionfalmente in questa fase super avventurosa della vostra esistenza. I libri nuovi, dopo qualche mese, cominceranno ad invadere il pavimento. Si ammucchieranno sul comodino. Si impossesseranno di una porzione piuttosto rilevante del tavolo dove consumate frugalmente le vostre Spinacine. Vi sveglierete di notte per fare la pipì e, nonostante iTorcia, ne butterete in terra una pila. Ma sarete contenti, perché tutti quei nuovi libri li avete letti voi. E pazienza se non avete un posto decente dove immagazzinarli. Nel vostro disordine c’è comunque del criterio. Voi lo sapete. E che gli altri si attacchino al tram.

All’improvviso, se vi andrà particolarmente di culo, potreste innamorarvi a tal punto da decidere di traslocare, scegliendo consapevolmente di vivere con un altro essere umano. Una persona importante, la persona che potrebbe stare al vostro fianco per tutta la vita… o almeno così vi sembra. Farete il bucato, per questa persona. Mangerete negli stessi piatti. Vi scambierete fluidi corporei, a più riprese – e con una certa veemenza. Condividerete un bagno, delle lenzuola, la bottiglia d’acqua che sta vicino al letto per quando vi svegliate col mal di gola e non avete voglia di trascinarvi fino in cucina. Con questa persona programmerete delle vacanze, acquisterete un gatto anallergico e addobberete l’albero di Natale. Proprio voi, che immaginavate di invecchiare da sole – in una cantina buia piena di ratti scontrosissimi -, con questa persona riuscirete ad immaginare un futuro. Siete così felici e in pace che non litigate neanche. Vi verrà voglia di preparare delle torte. Maneggerete il terribile contenuto di una borsa del tennis piena di calzini sudati senza fare una piega. Per sbaglio, poi, una sera vi laverete i denti con lo spazzolino del vostro consorte. E, con vostra grande sorpresa, non verrete assaliti dall’irrefrenabile necessità di strapparvi la faccia.
Accadrà tutto questo. E anche qualcosa in più. La vostra gioia sarà così potente da condensarsi in una forma solida, sfaccettata e scintillante, che sventolerete con grande soddisfazione – e una certa tracotanza – in faccia alle vostre amiche. Ma nemmeno dopo aver ricevuto un anello di fidanzamento riuscirete a fare qualcosa di apparentemente semplicissimo. Nemmeno dopo aver tagliato una torta multistrato con sopra due improbabili dinosauri di ceramica riuscirete ad accettare l’idea mostruosa di disperdere e incasinare i vostri libri. Quelli vecchi, quelli nuovi, quelli che ancora dovete leggere. Sono vostri. Vi appartengono. Li avete portati in giro, vi hanno fatto compagnia, ci avete trovato dentro una quantità sterminata di cose. Vi piace girarvi e dire “Insomma, ho letto tutti questi libri. Vuol dire che qualcosa di buono l’ho combinato, alla fin fine”. E vi dispiacerà molto, ma non ce la farete proprio. Alla domanda “Gallina, ma nella casa nuova le possiamo unire le librerie?” risponderete ancora una volta con un risolutissimo NO. Le librerie no. Le librerie non si toccano, non si uniscono, non si ingarbugliano. Zero. Né ora, né mai.

 

Il regno è in festa! Abbiamo la libreria, finalmente! Vittoria! Saltini! Pioggia di cuccioli!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

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Ottone von Testimonial, lo Zoolander del mondo felino.

 

Il sogno di una vita.
Un’utopia che diventa realtà.
Un miracolo.
Un evento di portata interplanetaria.
Giuro, sono commossa. E vorrei anche un po’ piangere. Vorrei piangere tantissimo perché il mio gatto – lo stesso felino che mi ha squartato innumerevoli carichini del telefono, che ha devastato ogni pianta mai entrata in casa, che ha abbattuto alberi di Natale e sfondato vasi di vetro giganti, sconvolgendo la mia esistenza con potentissimi tifoni a base di palle di pelo -, il mio gatto – Ottone von Accidenti, flagello poffoso delle costellazioni – è diventato testimonial Gourmet.

MA VI RENDETE CONTO.

Dopo aver passato quasi tre anni a nutrirlo con considerevoli quantità di Gourmet Perle – avvincente ammasso di proteiniche ciccionate tritate, che lui ama con tutta l’anima (anche più di quanto mai amerà noialtri) -, la Gourmet si è accorta di Ottone von Accidenti. Proprio loro. Quelli che fanno le pubblicità con questi gatti bianchi pettinatissimi, gonfi come nuvole, eleganti ed estremamente garbati. Gatti leggiadri, che non si trascinano i pezzi di tonno in soggiorno e che hanno capito come si usa la porticina per uscire sul balcone. Gatti che sanno leggere in latino e attraversano con la massima serenità immense distese – minate – ricoperte di soprammobili in fine porcellana dipinta a mano. Gatti che suonano l’arpa e declamano versi di Catullo al sorgere del sole. Ottone, al sorgere del sole, ci corre fortissimo sulla pancia, svegliandoci di soprassalto in preda ai terrori più imprevedibili. E pesa sette chili.
Nonostante questi inconvenienti comportamentali – in fondo è ancora un felino adolescente… e temiamo che presto ci chiederà il motorino, oltre al permesso di tatuarsi le gattine nude sul petto -, Ottone è una creatura quasi celestiale. E proprio perché è un irrecuperabile e tenerissimo imbecille. Date le premesse, ho affrontato l’unboxing dello scatolozzo di Gourmet Soup – il nuovo cibino per gatti che ci hanno adorabilmente chiesto di collaudare – con una certa apprensione. E se gli fa schifo? Se si ritrae terrorizzato? E se non dimostra un sufficiente entusiasmo?
Mille paranoie. Per niente.

 

Un luminoso successo. Una voracità senza pari. Mille linguine rosa che guizzano felici. Fortissime miagolate di apprezzamento – volevo trovare il modo di aggiungere dell’audio (una di quelle musichette felici tutte trillose), ma un po’ non sono in grado e un po’ mi spiaceva coprire i versi di Ottone. È come vivere con uno di quei giocattoli che fanno SQUIK quando li schiacci. Solo che lui si schiaccia da solo. Ogni tre minuti. Insomma, Gourmet Soup è Ottone-approved. E, a quanto pare, è in ottima compagnia. Gourmet – ho scoperto – ha una sezione sul sito piena zeppa di gatti che si abbioccano felici dopo aver assaltato una ciotola dei loro mangiarini. Noi, ho già deciso, contribuiremo con questo impagabile ritratto. Ottone von Testimonial, in modalità FOCA MONACA.

 

Ottone von Testimonial paciosamente adagiato – come una foca monaca – in mezzo agli amatissimi #GourmetSoup. Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

Perché un gatto a pancia all’aria vale più di mille parole.

Grazie, valorosi produttori di cibo felino. Ci siamo divertiti un sacco, abbiamo imparato come si montano i video – Steven Spielberg, stiamo arrivando – e abbiamo anche scoperto che, quando si tratta di buttarla sulla telegenia, Ottone è molto più efficace di me. Ottone è nato per essere scandalosamente avvenente, adorabile e tondeggiante. Beato lui. E anche buon per me. Con tutti i brodini-mangiarini che c’erano nella scatola, non dovrò più frequentare la corsia del cibo per animali per almeno un mese. Dopo, però, sarò per sempre condannata a tornare a casa con tonnellate di Gourmet Soup. Tonnellate. Montagne. Cordigliere. Continenti.
Per sempre.

 

Ora ho capito perché le pubblicità le fanno coi gatti bianchi. #GourmetSoup

Un video pubblicato da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

Un tratto di costa disabitato da trent’anni.
Un confine invisibile che delimita una zona dove la natura è tornata a regnare indisturbata, generando un’anomalia capace di sovvertire le leggi della materia, del tempo e del ricordo.
Un’organizzazione governativa top-secret.
Quattro donne – una biologa, una psicologa, un’antropologa e una topografa – pronte a lasciare il “nostro” mondo per decifrare definitivamente il mistero dell’AreaX – nonostante il fallimento delle dodici spedizioni precedenti.
Un faro.
Un tunnel.
E voi lettori, che vi prenderete proprio benissimo.

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Per questo libro ho provato un amore istantaneo. Ne ho sentito parlare per la prima volta in casa editrice, lo scorso anno. C’è una riunione, ad un certo punto, che serve a spiegare a tutti quanti che libri usciranno in un certo periodo. Arrivano gli editor, distribuiscono un mucchio di fogli di carta e raccontano – a quelli che fanno un lavoro decisamente meno bello del loro – che cosa vogliono pubblicare. Sulla Trilogia dell’AreaX di Jeff VanderMeer si sono dovuti impegnare un casino. Un po’ perché VanderMeer, con la sua sterminata produzione di romanzi fantasy e fantascientifici, non è proprio un classico personaggio da Supercoralli, e un po’ perché la Trilogia è, senza dubbio, un serpeggiante oggetto non identificato. Vivo. Anzi, mutante. Nei mesi successivi, un po’ alla volta, mi sono letta tutti e tre i romanzi, stupendomi moltissimo per la costruzione icredibilmente precisa, per le complicatissime e grandiose stratificazioni della narrazione, per i millemila piani temporali e per la vasta e diffusa stramberia del mistero che mi ero trovata ad esplorare.

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L’edizione americana della Trilogia. Mi sembrava sufficientemente arrogante, ma ancora non avevo visto il Supercorallo.

Sono proprio superfelice, dunque, che Annientamento sia finalmente arrivato in libreria, devastando le gabbie grafiche einaudiane con un bombardamento di stelle marine fosforescenti, piante striscianti, conigli bianchi e faldoni pieni zeppi di documenti segreti. Il primo volume della Trilogia è uscito questa settimana, mentre AutoritàAccettazione si potranno leggere a giugno e a settembre. Non sono abbastanza colta per lanciarmi in dissertazioni sul New Weird – genere ibrido “inventato” da VanderMeer medesimo – o per produrre una saggia carrellata di illustri paragoni letterari, ma posso provare a trasmettervi tutto lo stupore e la gioia che ho provato nel trovarmi davanti a una storia così profondamente bizzarra e tentacolare. Annientamento è un romanzo fatto di metamorfosi inspiegabili e, allo stesso tempo, perfettamente plausibili – almeno all’interno di un mondo naturale che fagocita e “digerisce” tutto quello che incontra. È un romanzo in cui il senso di minaccia è costante, quasi come il bisogno fortissimo di scoprire la verità. È un libro in cui ogni personaggio diventa parte integrante del grande enigma dell’AreaX, dove ogni elemento – anche il più comune – diventa qualcosa di “altro”, incomprensibile e lontanissimo. Vi imbatterete in condizionamenti psicologici, menzogne, scienziati quasi pazzi, mariti perduti, taccuini e costruzioni sotterranee che compaiono all’improvviso sulla mappa. VanderMeer, particolare dopo particolare, costruisce un intero mondo, governato da leggi complesse e destinato a stravolgere la realtà che conosciamo.
Cioè, mica bricioline.

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Le copertine dei tre romanzi – tutti tradotti da Cristiana Mennella – sono state magicamente disegnate da Lorenzo Ceccotti. Se volete sentire che lavoraccio è stato, qua c’è il video-discorsone che Lorenzo ha preparato per me e per gli altri fortunati blogger e giornalisti gitanti (più Michela Murgia) che si sono precipitati alla presentazione della Trilogia in casa editrice, con tanto di Jeff VanderMeer (sommerso da gatti incredibilmente affettuosi ed espansivi) in collegamento Skype.

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Avevamo un maxischermo, milioni di cose interessanti da ascoltare e tutti i comfort possibili e immaginabili, ma uno dei momenti più memorabili ci è stato regalato dagli Annali della Storia d’Italia, trasformati in un versatile e sapiente tavolino.

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Se, invece, la faccenda del PVC trasparente vi ha dato dei pensieri e non siete troppo sicuri di aver capito bene, non vi resta che dare un’occhiata ad Annientamento. A denudarvelo ci ho pensato io.

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Per concludere – e per facilitare il vostro avvicinamento all’Area X, mentre aspettiamo che la Trilogia arrivi al cinema (come ci ha anticipato il buon VanderMeer) – mi sono sentita in dovere di compilare una breve lista di tutto quello che potrebbe spaventarvi a morte dopo aver terminato la lettura di Annientamento:
– i delfini
– i bruchi
– i vasi di fiori e la vegetazione nel suo complesso
– i vostri amici che han studiato psicologia e vi rivelano che l’ipnosi è una roba interessantissima
– il vostro analista
– le agende Moleskine
– la gente che grida e si lamenta (soprattutto se non potete vederla)
– la predica in chiesa (se già non vi fa paura)
– la burocrazia
– X-Files
– il giardiniere
– i funghi
– le spore
– il muschio
– le pareti umide
– la muffa
– i fari abbandonati
– il direttore generale del posto dove lavorate
– i sotterranei
– le scale
– l’orizzonte
– le grandi distese d’acqua
– tutto quello che al mondo c’è di fosforescente.

Spassatevela, caroni. E non preoccupatevi troppo: finché la spia rossa sul vostro scatolino non si accende, siete al sicuro.

***

Grazie di cuore ad Einaudi per avermi fatta tornare a casa… almeno per una giornata.
Grazie a Canon per avermi permesso, ancora una volta, di fare delle foto sensate con la G7X.
E grazie ai librai che capiranno dove esporre Annientamento. Non mettetelo nella sezione del fantasy. Non mettetelo nella sezione fantascienza e nemmeno in mezzo ai romanzi per ragazzi. Pigliatene una pila alta così e piazzatelo davanti alla porta. Perché è lì che deve stare. 

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A Parigi, si sa, c’è Chanel che ci tiene a fare bella figura. Un anno sì e l’altro pure, Chanel s’inventa la sfilatona a tema. Han fatto il supermercato, han fatto l’iceberg gigante e, stavolta, c’era la brasserie. Modelle che si bevono le tazzette di tè, Anna Wintour con un tovagliolo sulle ginocchia, camerieri col grembiulone. Il supermercato, devo ammetterlo, ci ha regalato momenti bellissimi. Alla fine della sfilata, giornaliste e fashion blogger si sono avventate sugli scaffali finti per fottere a Karl Lagerfeld i detersivi di scena. C’era di tutto. Prosciutti Chanel, formaggini Chanel, cereali Chanel. La sicurezza, ad un certo punto, è dovuta intervenire sparando sulla folla un sedici tonnellate buone di lacrimogeni Chanel. La gatta Choupette, nel frattempo, ordinava al suo maggiordomo personale un’altro chupito di latte d’asina.
E Valentino?
Mentre personaggi improbabili cercavano di portarsi a casa la cartaigienica Chanel, da Valentino si trovavano modi per far stare l’intero sistema solare su una gonna. Ci sono voluti anni, ma questa gonna galattica sono addirittura riusciti a finirla. C’è un ricamo per ogni stella del cielo. E mai nell’universo ricapiterà una simile meraviglia.

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E oggi, con il garbo dell’arte e la grazia di una principessa che sconfigge la tisi, Valentino ha fatto sfilare Derek Zoolander e Hansel. Come se fosse la cosa più normale del mondo.
Iperventiliamo insieme.

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Ora, questa roba non l’ho messa qui perché avevo voglia di fare dell’informazione. Lo sapete già tutti che l’anno prossimo esce Zoolander 2 (febbraio, amici, febbraio), che lo girano a Roma, che Mugatu ha inventato la cravatta a tastiera e che questo edificio deve essere almeno due volte più grande. L’ho messa qui perché non sapevo più come contenere la mia gioia. Anche perché i secoli passano e i manisti invecchiano, ma Zoolander non ha ancora imparato a girare a sinistra.

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Applausi e bravi tutti. Le meta-cose mi fanno impazzire. Un po’ come il maglione di Mugatu che desidero da ormai due lustri. Se conoscete una sartina che abbia voglia di fabbricarmene una replica, sapete dove trovarmi. Vi ripagherò con un Orange-Mocha-Frappuccino. E due galloni di benzina.
E ricordate sempre: siete dei sirenetti.
E ciao Chanel, ciao. Tieniti pure le tue baguette.
E grazie, Ben Stiller. Ci hai finalmente dato retta.

https://instagram.com/p/0DoUSjPt3x

 

 

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Amore del Cuore.
Eh.
C’è una roba che non ho mai capito.
..ma in che ambito?
Jurassic Park.
Ah, ok. Tipo?
Tipo la faccenda del tirannosauro guercio. Ogni volta che c’è in giro un tirannosauro, il professor Grant tappa la bocca di un nipotino di Hammond a caso e grida – sottovoce, però – STATE FERMI! SE NON CI MUOVIAMO NON CI VEDE! Ma come non vi vede. È un tirannosauro alto sei metri, come fa a non vedervi. È un predatore, vederti è il suo lavoro. Capisco che uno possa anche annusarti tantissimo, ma mi rifiuto di credere che il tirannosauro abbia dominato la terra per milioni di anni senza vedere un cazzo di niente. Da dove viene questa teoria del tirannosauro che non ti può vedere? Chi l’ha deciso? Com’è possibile?
Stai forse mettendo in dubbio l’autorevolezza del professor Grant? Anni di ricerche. Di scavi. Di devozione alla paleontologia. Di amore per i velociraptor. Quello che dice il professor Grant è DOGMA!
Ma come fanno ad esserne sicuri! Come l’hanno scoperto? Cioè, che cos’hanno trovato del tirannosauro? Il teschio. Un po’ di ossa. Un nido, magari. Dei dentoni. Delle orme. Com’è che, da un testone fossile, si arriva alla certezza dogmatica del tirannosauro che non ti vede se stai fermo? Non ci sono più neanche gli occhi, in quei teschi lì! Che ne sanno. Non capiamo neanche come funzionano le balene, che cosa vogliamo saperne di come ci vedeva il tirannosauro? E le balene sono ancora vive! Nuotano! Fanno quei versi lì a trombone, si spiaggiano. Ecco! Manco capiamo perché le balene si spiaggiano, e siamo qui a fare i fenomeni con i tirannosauri!
Avranno studiato gli scheletri, com’erano messi. I branchi. Le prede. Il territorio. La composizione delle ossa. Si capirà dalle dimensioni del cervello, dalla conformazione delle orbite, dalla struttura cranica…
Ma chi se ne frega! Non può essere vero! Con tutto il rispetto per la struttura cranica, ma proviamo un attimo a generalizzare… il tirannosauro vede solo la roba che si muove. Cos’è, se c’è un albero non se ne accorge? Come fa con il paesaggio? Mica si sposta. Tirannosauri che sbattono contro le montagne, che inciampano nei massi, che si sfracellano contro le piante. Tirannosauri che non capiscono dove si trovano, che vagano ciechi in una pianura desolata agitando forsennatamente le braccine! Ma è una solenne stronzata! È questo che vogliono farci credere? Io mi rifiuto categoricamente di ritenere anche solo accettabile questa-
Stai tranquilla, va tutto bene. Non preoccuparti. Vado a fare una camomilla…