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Di potere, soldi e crudeltà credo si possa parlare a ogni latitudine e in ogni epoca. Deepti Kapoor sceglie l’India, casa sua – anche se vive in Portogallo e scrive in inglese -, per molla “morale” e per esperienza maturata sul campo, da giornalista che di Delhi ha visto sia i salotti dorati che i cantucci che difficilmente finirebbero in una presentazione istituzionale sull’ascesa di una nuova potenza del mondo globalizzato. Prima uscita di una saga già ambiziosissima (e in avanzata fase di adattamento televisivo/cinematografico, pare), L’età del male – tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile Libero – è un romanzo sul crimine come compromesso, come rivalsa e sogno vendicativo. È anche una storia dove non è previsto che si vinca o si perda, perché il gioco è truccato in partenza e gli abissi sociali, economici e culturali che separano le pedine in campo sono talmente macroscopici da deformare il concetto stesso di giustizia. Kapoor disegna un sistema che demolisce (o ha perso) i punti cardinali dei Grandi Ideali per rimpiazzarli con nuove divinità tentacolari: il male patito e subito diventa un credito nei confronti del mondo, la base “teorica” che giustifica il male che si infligge per riportare la bilancia in equilibrio.

Kapoor ci butta nell’orbita di una famiglia malavitosa all’apparenza onnipotente – intrallazzi politici, monopoli economici, devastazioni urbanistiche e via così – in via di “legittimazione”. Il più pulito dei Wadia ha la rogna, ma il sistema che hanno messo in piedi a partire dai due patriarchi – Bunty, quello di città che fa affari, e Vicky, quello di “campagna” che fa paura – ha generato una tale quantità di soldi da rendere la famiglia non solo intoccabile ma anche inserita nel tessuto governativo e finanziario della gente che conta e che decide. È come se tutti fossero alle loro dipendenze, dalla stampa alla polizia, perché conviene mangiare da quel piatto e a fare gli eroi o i difensori dei deboli si campa poco. L’anello “debole” è Sunny, unico figlio di Bunty, erede teorico dell’impero e pure un po’ rampollo mezzo coglione che nessuno sa bene dove piazzare perché dove lo metti fa danni e nemmeno lui ha capito con granitiche certezze chi essere o cosa ci si aspetta da lui. Sunny non è identico agli altri Wadia ma sa far schifo a modo suo, ha dei sogni che somigliano a quelli di un colonialista straniero (che cortocircuito strabiliante) e un invalidante bisogno – destinato all’eterna frustrazione – di essere approvato dal suo temibile papà. Come ogni pagliaccio, Sunny è triste. E questa sua ambivalenza, queste numerose identità che prova ad assumere nella speranza di trovarne una che attecchisca e lo trasformi in una persona degna di rispetto – ecco, è il dramma di questo bambinone crudele e fondamentalmente patetico a mandare avanti la narrazione. Attorno a Sunny gravitano Ajay – se c’è al mondo un povero Cristo è lui – e Neda, giornalista in erba che si lascia lì per lì abbagliare e che il fosso non lo scansa.

Il romanzo racconta la parabola di Sunny e dei suoi riluttanti satelliti in un’alternanza di punti di vista e di momenti diversi. Si salta qua e là beneficiando di informazioni astutamente incomplete che producono uno svelamento progressivo del quadro generale e che collocano ogni azione in quell’interessante zona grigia morale che penso sia l’anima vera di in una storia che indaga il male come compromesso o, come nella miglior tradizione, come “offerta che non si può rifiutare”. Succedono cose tremende, sbagliate, di un’ingiustizia che insulta ogni principio. E succedono in un labirinto con un difetto di progettazione intenzionale: non si può uscire, ma ci si illude di poter scegliere da che parte andare.

Padri! Figli! Sangue! Bei completi di sartoria! Dramma! Eredità! Ricatto! Tremenda vendetta! Disprezzo imperdonabile per la vita altrui! Macerie! Speculazione! Giornalisti prezzolati! Ubriachi! Ubriaconi! Ubriachi attaccabrighe! Altri ubriachi! Ubriachi armati di balestra! Rimpianto! Caste! Piscine! Delusione! Raccapriccio! Tirapiedi! Scrocconi! Ceffi tremendi! Imbecilli! Scalate sociali! Reietti! Conferenze stampa! Povertà nera! Feste dove non si capisce mai cosa ci sia da festeggiare! Prigioni! Colpa! Redenzione! Architettura! Schiavitù! Traffici abietti! Soprammobili carissimi! Santo cielo, c’è dentro di tutto e tutto contribuisce a tracciare un ritratto scoraggiante della disposizione dell’essere umano alla crudeltà. Cormac McCarthy a parte, non posso dire di avere una gran “esperienza” di epopee criminali, ma mi pare che Kapoor abbia messo insieme un congegno che funziona. Incalza al punto giusto, anche se non è sempre omogeneo a livello di ritmo e certe digressioni/parentesi mi son sembrate un po’ “troppo”, pur capendone la funzione nell’impianto generale del libro (e dei seguiti promessi). Insomma, è un polpettone di opportunissima complessità e di intriganti dilemmi – dotati anche di una rilevanza significativa, se li inquadriamo in un’ottica socio-economica che non può non tangerci e di cui inevitabilmente facciamo parte.

Dunque, William Sidis è esistito davvero. È nato nel 1898 a New York da una coppia di ucraini emigrati (entrambi brillanti medici dal passato impervio se non invalidante) e pare conservi ancora il primato di Persona Più Intelligente Del Pianeta – almeno secondo alcuni criteri “consolidati” di misurazione. Mai capiti, i test del QI, ma utilizziamoli come dato storico che molto dice anche del contesto in cui sono stati architettati. COMUNQUE. Morten Brask trasforma la vita di Sidis in un romanzo – tradotto da Ingrid Basso per Iperborea –, facendo il possibile per renderci partecipi dell’intima visione del mondo di una mente ineguagliabile. Anzi, il binario è doppio. C’è il cervello di Sidis e poi c’è l’individuo Sidis. E il treno deraglia.

Perché un bambino di dieci anni che tiene una conferenza ad Harvard sulla quarta dimensione non ha vie e piazze intitolate al suo genio e alle sue scoperte? Dove sono le aziende, le invenzioni, i teoremi? Perché una mente simile non ha scalfito il corso della storia? Perché – in sintesi – Sidis ha fatto la stessa fine di noialtri scemi?

La vita perfetta di William Sidis non è un libro memorabile, se dobbiamo dirci “com’è il libro”, ma appartiene alla categoria per me felicissima dei libri che suscitano interrogativi e che utilizzano un “caso” per farci riflettere sulla storia e sulla mutevolezza della fede che epoca dopo epoca decidiamo di riporre in entità più o meno astratte o costrutti disparatissimi.
Per tutta la vita Sidis è stato trattato come una sorta di fenomeno da baraccone e sulle sue prodezze matematiche, linguistiche e nozionistiche sono stati rovesciati fiumi di inchiostro, ma le rotative che tanto aveva alimentato da piccolo con i suoi traguardi fuori dal comune hanno poi finito per triturarlo per la vicinanza e l’attiva adesione, in età meno tenera, alle idee socialiste e al pacifismo. È passato un secolo, ma Sidis è ancora uno degli incubi peggiori del sentire comune: è un talento “sprecato”, un’intelligenza fuori scala che ha scelto deliberatamente di non partecipare, di non lucrare sul suo genio, di non costruirsi un monumento. Sidis potrebbe, ma preferisce di no.

In un mondo – come è ancora il nostro – in cui si trasforma l’assoluta banalità dell’ordinario in qualcosa che dovrebbe ambire alla memorabilità, Sidis zoppica verso una normalità “privata” che gli è sempre stata preclusa. A che serve sapere tutto se è così faticoso esistere in mezzo agli altri? Cosa possiamo aspettarci da un bambino che si trasferisce in un dormitorio di Harvard? Che cos’è l’intelligenza? Immagazzinare all’infinito o sapersi muovere in un piano di realtà?
Brask non ha la più vaga idea – così come non possiamo averla noi – di come “funzionava” davvero Sidis, ma l’onore che gli rende è quello di lasciar affiorare il fardello impossibile di una responsabilità imposta: migliorare un mondo in cui non ci è stato possibile (o concesso) trovare uno specchio o un’isola rassicurante. Sidis è forse percepibile ancora oggi come eroe tragico perché ribalta i nostri assunti radicatissimi sull’ambizione, sull’eccellenza come puntello per l’individualismo, sul “fare” per potersi comunicare migliori e degni, per non svanire senza lasciare traccia del nostro passaggio. Che peccato, direbbero i sempre rumorosi paladini del “se le avessi avute io le tue possibilità!”. Che pace, risponderebbe probabilmente Sidis. Ma che possiamo mai saperne noi, in fondo.

È bellissimo. Leggetelo.
L’udienza è tolta.
Potrebbe bastare, ma vi attaccherò comunque un piccolo pippone d’incoraggiamento. Gabrielle Zevin e il suo Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow – che trovate in libreria per Nord con la traduzione di Elisa Banfi – se lo meritano.

Nel 1995, Sam e Sadie si incontrano per caso in metropolitana. Sono entrambi arrivati a Boston dalla California per studiare – MIT e Harvard, per non smentire il percorso da bambini prodigio già ben consolidato. Si conoscono già da un’infanzia più tenera (e nel caso di Sam anche molto più impervia) ma non si parlano da anni e, senza quella zampata del destino e qualche decisione deliberata presa al momento giusto, resterebbero probabilmente degli estranei, privando il mondo di alcuni videogiochi straordinari. Giocare insieme è stato il cemento della loro amicizia, uno spazio in cui entrambi hanno accantonato maschere e paure per immaginare un posto sicuro e deporre le armi. I loro cervelli si completano, ma è sui loro cuori che si può fare meno affidamento.

Il romanzo parte da questo riavvicinamento fortuito per accompagnarci nei mondi di Sam e Sadie, quelli che hanno inventato e programmato insieme – invitando al gioco una vastissima moltitudine di altri gamer in erba – e quelli che hanno attraversato fianco a fianco vivendo, accapigliandosi e cercando di fare a meno l’uno dell’altra – fallendo sempre, come in un livello particolarmente frustrante di Donkey Kong. In mezzo troviamo genealogie che non bastano a definire un’identità, seconde generazioni di “nuovi” americani, mentori viscidi e magnetici, amicizie che sono famiglia, dispute lavorative, testardaggini creative, rivalità, bolle tecnologiche non ancora scoppiate, dilemmi etici mascherati da gioco, un piede inaffidabile – e mai accettato, nella sua fallibilità -, pizzerie coreane, attrici e attori, Macbeth e l’Iliade, successi clamorosi e cantonate.
C’è, con decisione, un impianto filosofico che unisce il gioco alla fiducia nel domani. Perché giochiamo? Per sconfiggere la morte, per convincerci che si possa sempre ricominciare da capo e fare meglio, anche se sappiamo fin troppo bene che non ci è mai davvero concesso.

“Cos’è un gioco? È domani, e domani, e domani. È la possibilità dell’eterna rinascita, dell’eterna redenzione. L’idea che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre”.

Non c’è Game Over che regga, in un universo costruito per stupirti e per farti continuare a giocare: quell’infinita e inesauribile possibilità di afferrare un altro “domani”, indipendentemente da quanto tu possa aver fatto schifo nell’oggi, è una corazza confortante. Non ripara dal male, dal caso, dal caos e dal dolore – come Sam e Sadie ben sanno -, ma è un orizzonte che mantiene intatta quell’idea di potenzialità infinita, di “nessuna strada mi è ancora preclusa” che è la magia vera della giovinezza. Forse si gioca da “piccoli” con così tanta convinzione proprio perché ci si rispecchia in quell’attitudine da pioniere libero di scovare percorsi non ancora bruciati dal fallimento, dalla paura, dalle aspettative disattese. Non è una metafora d’originalità devastante, ma qua dentro funziona e trova un’anima degna – anche se le produzioni universitarie di Shakespeare non possono vantare un budget faraonico.

Ribadisco: è bellissimo.
È necessaria una vasta cultura videoludica? Secondo me no. Aiuta che v’interessi? Penso di sì. Ma non precludetevi un romanzo così meritevole e “vivo” (nonostante le ovvie licenze) per ipotetici deficit sul fronte dei giochi, specialmente se siete stati adolescenti nel primo decennio del Duemila. E se vi intrigano le storie aziendali (eccomi!), ancora meglio. Altra nota: siete da sempre team-Achille? Ne riparleremo a fine lettura. Tornate a dirmelo. 🙂

 

Leggo Hamid sempre con grande interesse – Exit West, il romanzo precedente, credo sia un libro importantissimo e avevo aspettative assai vispe anche per questa novità. In L’ultimo uomo bianco – in libreria per Einaudi nella traduzione di Norman Gobettinon ci si sposta nello spazio utilizzando porte “magiche” (passatemi la semplificazione) ma al centro della storia c’è un altro fenomeno insolito, rivoluzionario, pronto a sovvertire l’ordine costituito e pure inspiegabile: i bianchi cominciano all’improvviso a diventare neri. Lo scopriamo insieme al protagonista, che un bel giorno si sveglia, si specchia e scopre di avere la pelle marrone. Così, sbam. È sempre lui, ma non è più un uomo bianco.

Quello di Anders è un caso isolato? Giammai. Tutti attorno a lui cominciano gradualmente a cambiare, in un crescendo di sconvolgimenti identitari che il tessuto del mondo non può che metabolizzare in maniera conflittuale, farraginosa, imperfetta e faticosa. Seguiamo la parabola di questo mutamento rimbalzando dal punto di vista di Anders a quello di Oona, la ragazza (anche lei bianca) che stava frequentando alla vigilia di questo immane cambio di paradigma.

Anders e Oona non sono due antropologi e nemmeno due col dottorato in sociologia, quindi non ci offriranno effetti speciali “concettuali” di portata sconvolgente, ma accompagnandoli nella loro quotidianità ci faremo strada in questo grande WHAT IF constatandone l’impatto su un orizzonte di ordinarietà che potrebbe somigliare a quello di chiunque. Questa normalità che incarnano penso sia al contempo una scelta utile, ma anche una fragilità di fondo. O, almeno, è così che ho provato a spiegarmi la sensazione di “ma tutto qui?” che ho spesso provato leggendo.
È un romanzo che parte da una premessa ricchissima di implicazioni e, sebbene sia delicato, profondo e splendidamente eseguito, lascia comunque una certa insoddisfazione – e non di sicuro per carenza di conflitto che emerge nel mondo “nuovo”. Sono personaggi che sembrano svuotarsi col procedere della storia, come se l’aver vissuto un fenomeno così portentoso li riguardasse alla lontana. Non so se è Hamid che vuol dirci che possiamo superare egregiamente anche il più inedito e potenzialmente destabilizzante dei fenomeni – e che nessun preconcetto regge di fronte al vivere davvero nei panni di qualcun altro – o se son solo Anders e Oona ad avermi “dato” un po’ meno di quel che volevo sapere.

Dato che il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è bellissimo, ho deciso che la butterò in caciara.
È trascorso un discreto numero di anni dalla pubblicazione della sua ultima creatura e, nonostante i numerosi “non voglio più scrivere narrativa” qua e là pronunziati, Ammaniti è tornato. Ho letto Anna e ho visto la serie – ricavandone parziale consolazione – ma in fondo al cuore mi sono sempre rifiutata di credere alle dichiarazioni di auto-pensionamento dal mestiere di romanziere. Preferivo immaginarmi Ammaniti alle prese con la sindrome di George R.R. Martin, una situazione che visualizzo così, avvalendomi della pubblicità del digestivo Brioschi.

Fai la televisione, Niccolò. Segui i tuoi interessi. Mettici il tempo che ci vuole. Anzi, falli aspettare. Maledetti, sempre lì a chiedere dei libri nuovi. Un assillo. Escono trendordicimila romanzi l’anno, ma loro no, non possono leggere uno di quelli, il nostro vogliono leggere. E INVECE NO, TIÈ, DOVETE ATTENDERE. Quanto? Non si sa. Non dare spiegazioni, allontanali con un bastone nerboruto.

Maria Cristina Palma, la protagonista di La vita intima – inevitabilmente in libreria per Einaudi Stile Libero -, divide con noi solo la stupidità assoluta che ci assale quando andiamo dal parrucchiere a chiedere “qualcosa di nuovo”. Stavamo così bene prima. Ci riconoscevamo. E invece no, dobbiamo farci del male e uscire azzoppate da un nuovo cruccio. La gente che ti ama, per pietà, ti dirà che stai bene e che il nuovo taglio è molto francese ma, grazie al cielo, i nostri scempi non avranno il potere di far vacillare il governo. I capelli di Maria Cristina Palma sì.

Perché? Perché Maria Cristina è la moglie del presidente del consiglio, è dotata di una bellezza fuori scala rispetto alle altre femmine della nostra specie – certificata, per altro, dallo studio di una remota università americana che dopo calcoli estenuanti l’ha ufficialmente individuata come DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO, facendo la gioia di ogni testata giornalistica che sfrutta spudoratamente il clickbaiting  e non può muovere un passo senza che i suoi comportamenti vengano analizzati, sezionati e aggiunti al mosaico infinito di un’immagine pubblica che ha conquistato vita propria, allontanandosi a grandi falcate dalla Maria Cristina originaria. Che poi è questa – l’impietoso ritratto è curato dalla sua mamma, comparsa memorabile e dalla lucidità tombale:

Ricorda che questa bellezza non te la sei conquistata. È un dono che ti abbiamo fatto io e tuo padre e devi saperla portare, proprio come il vestito da reginetta. Oggi, se fossi stata spiritosa, te ne saresti fregata degli altri e avresti fatto vedere a tutti chi era la regina della festa. La bellezza, senza coraggio, è un guaio. Proprio perché sei bella non verrai presa sul serio e ti dovrai impegnare cento volte di più delle altre per dimostrare che sei intelligente, profonda, per non essere usata e trattata come una scema dagli uomini. Tuo nonno è il primo che ha portato dall’America il latte detergente in Italia e la nonna sa prendere al lazo i buoi. Tuo fratello sa tuffarsi di testa dallo Zingaro. E tu che sai fare? Sai piangere e scappare come Gina Mangano, la figlia del panettiere? Noi che abbiamo il sangue dei Sangermano, dobbiamo fottercene del giudizio della gente. Persino tuo padre, che è uno stronzo, ha scalato l’Everest. Tu, gioia, non emergi per carattere, ma almeno impara a portare la bellezza come una regina. Capito, amore mio?

Son solo le sfighe a schiacciarci o possono pensarci anche le fortune? Maria Cristina è un magnifico vaso di coccio in mezzo a tantissimi recipienti molto meno gradevoli alla vista ma più coriacei – e forse pure pieni di qualcosa, più capaci di orientarsi nel mondo, più duttili e scafati. Accusata spessissimo e volentieri di sapere di poco, percepita quasi universalmente come appendice muta e gradevole a vedersi di uomini importanti – dal primo marito scrittore al premier in carica – e cronicamente in cerca di un punto di riferimento che non la abbandoni in circostanze tragiche, Maria Cristina cerca di limitare i danni e di tenere in piedi le apparenze, ma avrà mai la possibilità di raccontare davvero una storia che sia sua? Il domandone si fa ineludibile quando, per un fortuito incrocio di antiche traiettorie, Maria Cristina si imbatte in una fiamma di gioventù che le gira un video “d’archivio” potenzialmente in grado di devastarle la vita. Barcollando – anche grazie a un alluce tumefatto – sul filo sottile dell’accettabilità, Maria Cristina andrà di fatto alla ricerca del suo nucleo reale, spogliandosi come una favolosa cipolla di tutte le stratificazioni, le preoccupazioni e le sovrastrutture che la spingono automaticamente a mettersi in posa per una schiera di fotografi ipotetici anche quando è da sola in mezzo a un bosco. Chi diventiamo, quando smettiamo di volercelo far dire dal riflesso che produciamo sugli altri? Che cosa serve davvero per sentirci in pace?   

Come da tradizione, Ammaniti ci accompagna a passo di carica e con un’allegria tragica e incontenibile verso un orizzonte minaccioso. Maria Cristina è un gorgo di paradossi che affondano le radici nel presente delle nostre piccolezze, mentre attorno a lei si affollano schiere di comprimari miseri, strambi e stupendi. Ho riso come non mi capitava da Ti prendo e ti porto via e, tra lampi grotteschi e sprazzi illuminanti, ne sono uscita pure più speranzosa. Dal Bruco – evanescente spin-doctor e guru eccentrico della comunicazione – ai custodi astiosi delle decadute terre di famiglia, dai fantasmi dell’adolescenza ai santoni della creatività perduta, dai personal trainer agli hair-sculptor delle ricche signore, dai cani zoppi alle molte comparse della politica nostrana, dal giornalismo ruffiano alla mondanità opportunistica c’è poco da stare allegri… ma forse dipende solo da come la si prende. “Portare la bellezza come una regina”? Forse vale anche per il resto… soprattutto per le miserie troppo vere, troppo cattive e dolorose per essere confezionate, mascherate e riconvertite in intrattenimento per una platea famelica e incontentabile. A chi dobbiamo la verità? Al nostro cuore, prima di tutto. 
Grazie, signor Ammaniti. Che gioia rivederla in giro.

Di Marie de France si sa poco, sempre che la sua persona letteraria si possa far combaciare a un personaggio storicamente documentato. A Marie si attribuisce una raccolta di lai amoroso-cortesi risalenti al XII secolo e, forse, il governo di un’abbazia inglese. Tanto basta a Lauren Groff, che in Matrix – in libreria per Bompiani nella bella traduzione di Tommaso Pincio – crea per Marie una genealogia nobile fatta di guerriere crociate discendenti dalla fata Melusina – troppo rozze per abitare con la necessaria svenevolezza a corte – e una paternità illustre ma illecita. Figlia bastarda di un Plantageneto, Marie verrà di fatto esiliata da Eleonora d’Aquitania e spedita in un convento allo sfascio in Inghilterra. Altissima, grossolana e indocile com’è, per Marie non funzionerebbe neanche un matrimonio combinato e prendere i voti è l’unico destino che la regina (che vuol pure levarsela di torno) intravede per lei.

Poco maritabile ma molto istruita e risoluta, Marie deciderà di puntare i piedi nell’unico modo che ha a disposizione: facendo prosperare la stamberga malsana e poverissima dove Eleonora – fulcro di ogni suo amore, nonostante tutto – l’ha relegata. Quale migliore rivincita nei confronti di chi vuol farti sparire può esserci, se non diventare un caso eccezionale di successo? Marie si applica, anno dopo anno, per trasformare l’abbazia in un’utopia di donne, un’isola protetta (più dalla mano implacabile della badessa che da quella del Signore) dove coltivare una forma di paradossale indipendenza: celate da un labirinto e separate dal mondo dal velo monacale, ma libere di studiare, lavorare e abbracciare le risorse della natura, contrastando anche i soprusi del clero e dei signorotti locali che hanno assorbito senza ritegno le ricchezze delle monache, riducendole all’indigenza.

Tutto questo è peccato? Senz’altro. Ma Marie ha già perso tutto in tenera età e, tra visioni mistiche che molto sanno di scaltra manovra politica e sincero amore – non estraneo alla carnalità – per le consorelle di cui è responsabile, la badessa sarà “matrix” – madre e artefice – di un destino inedito e insospettabilmente radioso, date le circostanze di partenza. Groff ci racconta con un presente da presa diretta l’intero arco “biografico” di questa versione ipotetica dell’evanescente Marie-storica, documentando con puntiglio le giornate dell’abbazia e le relazioni diplomatico-amministrative che il regno chiuso della badessa intrattiene col vicinato e i potenti d’Europa. Marie trasforma una pietraia in un prospero Eden, servendosi solo della sua mente e delle mani di una schiera di consorelle che – fortunatamente per lei – non sono uniformemente dotate del suo stesso amore per il libero arbitrio.

È un romanzo affascinante per la minuziosità dell’affresco storico che traccia e, allo stesso tempo, soffre alla lunga di quello stesso puntiglio. Di Marie si finisce per sapere poco lo stesso, perché il grande manto di una fede faticosamente costruita sembra pian piano deformare nel misticismo quelle che sono sacrosante ambizioni pratiche. C’è un potere… ma non possiamo fare a meno di osservarlo con amarezza. La conquista di Marie non è una conquista di tutte. È un potere che non si trasporta sul futuro, nemmeno il più prossimo, lasciandoci una storia che ci travolge nelle prime battute e si smussa dopo la conquista. Forse è solo di vanità che si parla, perché la vanità è l’unico peccato che ha davvero bisogno del riflesso che ci offrono gli altri. E Marie sceglie – un po’ come l’angelo caduto di Milton – di dominare una frazione di mondo perché il mondo “vero”, intero, vasto, le resta precluso e mai le sarà offerto.

Una nave si accosta a un mondo nuovo. Non ne conosciamo nei dettagli la missione e apprendiamo solo a grandi linee le mansioni dell’equipaggio, formato da umani che ricordano la Terra e da umanoidi che sulla Terra non sono nati, anche se sono programmati per somigliare alle persone “vere” e per collaborare con loro. Misteriosi oggetti dalla bizzarra vitalità minerale soggiornano muti in stanze apposite, luoghi sospesi che un po’ somigliano a sacrari privati e un po’ a un limbo onirico-sensoriale dove sia gli umani che gli umanoidi si recano con assiduità per trovare conforto o per lasciarsi attraversare da una forma di trascendenza.

I dipendenti di Olga Ravn – in libreria per Il Saggiatore con la traduzione di Eva Kampmann – è costruito per accumulazione di testimonianze rese dall’equipaggio a una “commissione” inviata dall’organizzazione-madre che, nominalmente, ha l’incarico di studiare gli effetti di questi oggetti enigmatici sugli occupanti della nave. Le testimonianze sono un diario di bordo collettivo, una cronaca a più voci del graduale collasso di un sistema che illude i suoi partecipanti di avere un compito da svolgere, mentre l’unica “cosa” che si produce davvero è il loro perdurare in quel microcosmo chiuso. Ed è proprio l’illusione di contribuire a una causa superiore – in un contesto dove gli unici compiti che davvero ci vengono resi noti sono quelli destinati a far “funzionare” la forza lavoro, umana o umanoide – che diventa il nucleo inesorabile di un esperimento in cui le cavie soccombono, si arrendono o si ribellano per eccesso di consapevolezza, deviando dal programma o sprofondando nei ricordi di una casa ormai irraggiungibile.

È un libro opaco e snervante da leggere, ma di certo animato da una sottigliezza affascinante. Dona poche soddisfazioni perché è rarefatto e fumoso, ma pone domande intriganti, specialmente quando si indaga la relazione tra vita “biologica” e vita simulata da una programmazione che sfugge ai parametri originari per produrre qualcosa che, in un contesto completamente sgombro dall’umano, diventa un territorio inedito d’azione. Cosa ci rende umani? È l’accumulo dell’esperienza, delle relazioni e dell’emotività o la presa di coscienza di esistere e di “sentire”, scrivendo un codice nuovo, facendo qualcosa che non dovrebbe essere possibile?
Quel che accomuna tutti – umani e umanoidi – sembra essere la ricerca di un appiglio, di qualcosa che vada oltre il mero esserci per assolvere a una funzione e il rifiuto di essere costretti a un’unica dimensione che fa coincidere il ruolo “produttivo” con l’identità. Accorgersene, su una nave che si nutre dei suoi figli per continuare a esistere immutata, è forse la scintilla d’anima che tanto cerchiamo – e che ci porterà a camminare sulla superficie di un mondo sconosciuto.

Parlare di come è strutturato questo libro credo produca più disservizi che chiarezza. Lidia Yukanavitch sceglie la metafora dell’acqua proprio per lasciar scorrere i ricordi, creare gorghi, lanciarci giù per una cascata o imprigionarci nella fanghiglia stagnante dei momenti più cupi. La struttura che sceglie – o da cui si fa trasportare – è fluida come la memoria, deformata dalle rifrazioni della luce e condizionata dalla profondità degli eventi che man mano riguadagnano la superficie.

Insomma, La cronologia dell’acqua – in libreria per Nottetempo con la traduzione di Alessandra Castellazzi – diventa lineare solo dopo averne preso le distanze e dopo averlo considerato “tutto insieme”. E mentre si legge ci si aggrappa a quello che fluttua. Ci aggrapperemo a bottiglie vuote, a mostri sacri della letteratura, a mariti perduti, a percorsi accademici tortuosi, a elaborati sex-toy, a una bicicletta nuova, a una collezione di ciocche di capelli… tutti questi detriti viaggiano verso alcune isole “stabili” che ospitano dolori imperdonabili, incorreggibili.

Grossolanamente, potremmo dire che la storia di Yukanavitch è quella di una bambina cresciuta in una famiglia disfuzionalissima e violenta. Di un precoce prodigio del nuoto che non ha mai raggiunto orizzonti eclatanti. Di un corpo portato al limite e consegnato a un disordine vertiginoso. Di una ricerca per spogliare la lingua e la scrittura dal gesso dell’accettabilità e del garbo. Di una madre che perde la sua bambina e sceglie di non rimettere insieme i pezzi.
Pare la cronaca di quel che resta all’indomani di un susseguirsi di disastri naturali, se là fuori esistessero disastri naturali circoscrivibili a una singola persona. C’è il trauma come tema portante – già, anche qui… ben giunte e ben giunti nella Grande Era del Trauma Letterario, movimento collettivo che ha forse contribuito a mantenere vivo e a costruire un ulteriore seguito per un libro originariamente pubblicato nel 2011 -, ma c’è anche una grande vitalità rabbiosa, una volontà di persistere che non sfida tanto le circostanze avverse o il destino, ma diventa sfida contro il proprio stesso buio.

Non è un libro gradevole da leggere, penso. Ha guizzi di grazia estrema e frequentissime ruvidità. Le parti legate al sesso e alle dipendenze non sono particolarmente scioccanti, secondo me – per quanto trattate con esplicita disinvoltura -, ma credo risultino depotenziate dalla nostra ormai crescente assuefazione al tema. E la scrittura che viene a galla in questi capitoli m’è parsa molto didascalica, molto apparecchiata per ottenere un effetto, molto più banale dell’auspicato. L’aspetto positivo è che in questo libro ci sono così tante Yukanavitch che di rado si rimane ancorati a un unico vascello espressivo e ci sta che le pulsioni più incontenibili vengano descritte col metro espressivo che corrisponde a un tempo preciso, che si tratti di adolescenza o di qualsiasi altro momento di violenta liberazione.

Non so se La cronologia dell’acqua abbia voglia di sottoporsi a un “mi è piaciuto”/”non mi è piaciuto”. Ha davvero poco senso domandarselo. É un libro tremendo, crudo, violento. Ma è un libro che persiste e ci riconcilia con i mostri, i rancori, le furie irrimediabili, gli abbandoni e le sconfitte. Fa speranza anche quando fa più schifo. Prova a fare arte per mostrarci come far crescere una pelle nuova. Prova a raccontare che si può ambire alla felicità anche se ci sentiremo per sempre danneggiati. Prova a descriverci uno spazio eterno – liquido – di trasformazione.

Alcune fonti sono inaffidabili per scelta, perché ci vuole fin troppo coraggio per ritagliarsi un ruolo marginale nella storia della propria vita. Quella di Andrew Bevel, leggendario finanziere degli anni ruggenti pre-crisi del ’29 sul quale pare gravitare l’intero impianto narrativo di Trust di Hernan Diaz (uscito per Feltrinelli nella traduzione di Ada Arduini), è una superba parabola di demolizione di un mito meticolosamente edificato e alimentato dall’omissione. Soldi, potere, vita “pubblica”, speculazione, eredità, bene comune, eroismi imprenditoriali, fiuto, predestinazione, mecenatismo… tutto converge in quella che a prima vista potrebbe apparire come una delle più canoniche figure monumentali di Wall Street. Il genio visionario, il lavoratore indefesso, l’uomo che ha elevato la riservatezza a valore morale, il profeta delle contrattazioni, il ricco la cui frugalità desta persino sospetti… Bevel è tutto questo. O forse no? Dipende da chi si prende la briga di documentare le sue gesta.

Per offrirci un notevole saggio del potenziale di manipolazione narrativa della realtà  che poi qua è una realtà romanzesca E VIA COSÌ… INCEPTION -, Diaz gioca con la struttura. Trust contiene quattro generi letterari e quattro punti di vista diversi, che si intrecciano come un grosso enigma – telefonato ma pur sempre molto godibile proprio perché il libro è fatto così – per mostrarci finalmente un quadro più accurato della situazione.

  1. FORTUNE | Harold Vanner
    Un romanzo a chiave – parla male (almeno secondo Bevel) di Bevel e di sua moglie Mildred, inventandosi due personaggi immaginari che però sono palesemente loro.
  2. LA MIA VITA | Andrew Bevel
    L’autobiografia riparatrice di Bevel scritta da Ida Partenza – ghostwriter tenuta a riportare fedelmente la versione dettata dal suo datore di lavoro negli anni ’50.
  3. MEMORIE NEL RICORDO | Ida Partenza
    L’ormai ex-ghostwriter, diventata scrittrice di successo, torna a casa Bevel “da vecchia” e ci spiega com’è stato lavorare col titano di Wall Street, cercando di far luce sui molti punti nebulosi che già aveva subodorato.
  4. FONDAZIONE | Mildred Bevel
    I diari superstiti di Mildred, che finalmente prende la parola per raccontarsi senza filtri altrui.

Insomma, esce questo romanzo che Bevel trova diffamatorio. Per ristrutturarsi la reputazione e fornire al pubblico un ritratto “corretto” di Mildred, Bevel assume la talentuosa figlia di un anarchico italiano per scrivere la sua versione dei fatti. Ida Partenza comincia, ma Bevel crepa d’infarto all’improvviso e il lavoro resta incompiuto. Bevel dipinge Mildred come una specie di soave rimbambita ed è quell’immagine che intende tramandare ai posteri. Ida Partenza non se la beve, ma solo decenni dopo avrà modo di tornare dove tutto è cominciato per trovare un riflesso autentico di Mildred, il mistero vero di tutto il carrozzone.

Suona molto più contorto di quel che è. Leggendo funziona a meraviglia, anche se non avete una laurea in finanzia. In sintesi, è un bellissimo marchingegno che esplora l’ambizione umana, i confini dell’autoinganno e le molteplici forme (spesso mostruose) grazie a cui l’intelligenza può piegare la realtà – a volte per il puro gusto di farlo. Il potere vero, sembrano dirci i Bevel, è nella mano che disegna le linee del campo da gioco. E quella sì che è una “mano invisibile”, con buona pace del mercato.

 

La casa dei delfini di Audrey Schulman – in libreria per E/O con la traduzione di Silvia Montisè la rielaborazione romanzata di una vicenda reale… una di quelle cose che tenderemmo a bollare con l’etichetta STRANGER THAN FICTION.
Nel 1965, la NASA finanziò un progetto di ricerca che aveva l’obiettivo di misurare le capacità linguistiche dei delfini. In un’epoca in cui ancora poco si conosceva del funzionamento del cervello (che fosse il nostro o quello dei mammiferi ritenuti spannometricamente “intelligenti”) e in cui la disinvoltura sperimentale consentiva pratiche che oggi riteremmo estreme o poco etiche, una donna traslocò insieme a un delfino di nome Peter in una sorta di casa-acquario, allo scopo di insegnarli a parlare come già era stato tentato con i grandi primati o con gli uccelli.
Sarà stato l’LSD o sarà stata un’erronea valutazione iniziale del potenziale fisico-emotivo di un rapporto quasi simbiotico tra un’umana e un delfino, ma non finì benissimo… se vi va di approfondire, vi rimando a uno dei tanti pezzi che hanno ricostruito la storia di Margaret Howe e Peter – con la consueta enfasi sensazionalistica sui risvolti più pruriginosi.

La vicenda reale viene ripercorsa da Schulman nelle sue tappe sperimentali, mettendo però in campo personaggi fittizi. La protagonista, Cora, è un liberissimo calco della Margaret originaria, con una sfumatura significativa in più. Un esperimento che mira a far vocalizzare i delfini e a farli “parlare” nella maniera più umana possibile viene affidato – in maniera piuttosto accidentale – a una ragazza quasi completamente sorda. Cora perde l’udito da piccola, dopo un’otite. Nuotando con i quattro delfini del centro di ricerca si rende conto di riuscire a percepire meglio il paesaggio sonoro subacqueo di quello degli ambienti umani “asciutti”, spesso cacofonici o irriguardosi rispetto alle sue necessità. Se con le persone è complesso relazionarsi – e il fatto che lei non senta bene la declassa spesso, agli occhi altrui, a intellettualmente menomata -, nei delfini trova un universo in cui è in grado di comunicare utilizzando uno spettro ampio di interpretazione dei comportamenti e di un linguaggio fatto di suoni ricchissimi. Tratta i delfini come creature con una personalità definita e non come mere cavie a cui trapanare il cranio, insomma. Verrà capita? Non quando sarebbe più servito, nostro malgrado.

Il romanzo segue col puntiglio di una cronaca scientifica il percorso di avvicinamento di Cora ai delfini e la quotidianità del centro di ricerca. Outsider nel mondo “esterno” così come nel contesto della laguna, la parabola di Cora è anche – se non soprattutto – una riflessione sul potere. I delfini sono in balia quanto la loro alleata umana dei tre docenti a capo del progetto e non c’è istante in cui Cora si conceda di abbassare la guardia. È una ragazza che si avventura in un territorio dove la sua presenza non è prevista, concepibile o auspicata. Per spuntarla dovrà vedere quello che gli uomini non vedono – cercando pure di farsi guardare dagli uomini il meno possibile -, dimostrando molto più di quanto mai verrà richiesto a un ricercatore “canonico”.

Come possiamo sperare di capirci – che si tratti di una relazione tra esseri umani o tra umani e animali – se non ci mettiamo mai in discussione? A cosa si riduce la comunicazione, se una parte si rifiuta di mettersi in ascolto ma si aspetta soltanto che ci si uniformi a uno standard arbitrario dettato da chi ha il coltello dalla parte del manico? Come si misura l’intelligenza? Sia da Cora – cavia fra le cavie – che dai delfini ci si aspetta un docile allineamento a un’idea di intelligenza che ha più punti in comune con l’ammaestramento che con un’architettura complessa di pensiero. E non c’è da stupirsene: pensare tende a sposarsi bene con la ricerca della libertà – il peggior risultato sperimentale possibile.