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Di Marie de France si sa poco, sempre che la sua persona letteraria si possa far combaciare a un personaggio storicamente documentato. A Marie si attribuisce una raccolta di lai amoroso-cortesi risalenti al XII secolo e, forse, il governo di un’abbazia inglese. Tanto basta a Lauren Groff, che in Matrix – in libreria per Bompiani nella bella traduzione di Tommaso Pincio – crea per Marie una genealogia nobile fatta di guerriere crociate discendenti dalla fata Melusina – troppo rozze per abitare con la necessaria svenevolezza a corte – e una paternità illustre ma illecita. Figlia bastarda di un Plantageneto, Marie verrà di fatto esiliata da Eleonora d’Aquitania e spedita in un convento allo sfascio in Inghilterra. Altissima, grossolana e indocile com’è, per Marie non funzionerebbe neanche un matrimonio combinato e prendere i voti è l’unico destino che la regina (che vuol pure levarsela di torno) intravede per lei.

Poco maritabile ma molto istruita e risoluta, Marie deciderà di puntare i piedi nell’unico modo che ha a disposizione: facendo prosperare la stamberga malsana e poverissima dove Eleonora – fulcro di ogni suo amore, nonostante tutto – l’ha relegata. Quale migliore rivincita nei confronti di chi vuol farti sparire può esserci, se non diventare un caso eccezionale di successo? Marie si applica, anno dopo anno, per trasformare l’abbazia in un’utopia di donne, un’isola protetta (più dalla mano implacabile della badessa che da quella del Signore) dove coltivare una forma di paradossale indipendenza: celate da un labirinto e separate dal mondo dal velo monacale, ma libere di studiare, lavorare e abbracciare le risorse della natura, contrastando anche i soprusi del clero e dei signorotti locali che hanno assorbito senza ritegno le ricchezze delle monache, riducendole all’indigenza.

Tutto questo è peccato? Senz’altro. Ma Marie ha già perso tutto in tenera età e, tra visioni mistiche che molto sanno di scaltra manovra politica e sincero amore – non estraneo alla carnalità – per le consorelle di cui è responsabile, la badessa sarà “matrix” – madre e artefice – di un destino inedito e insospettabilmente radioso, date le circostanze di partenza. Groff ci racconta con un presente da presa diretta l’intero arco “biografico” di questa versione ipotetica dell’evanescente Marie-storica, documentando con puntiglio le giornate dell’abbazia e le relazioni diplomatico-amministrative che il regno chiuso della badessa intrattiene col vicinato e i potenti d’Europa. Marie trasforma una pietraia in un prospero Eden, servendosi solo della sua mente e delle mani di una schiera di consorelle che – fortunatamente per lei – non sono uniformemente dotate del suo stesso amore per il libero arbitrio.

È un romanzo affascinante per la minuziosità dell’affresco storico che traccia e, allo stesso tempo, soffre alla lunga di quello stesso puntiglio. Di Marie si finisce per sapere poco lo stesso, perché il grande manto di una fede faticosamente costruita sembra pian piano deformare nel misticismo quelle che sono sacrosante ambizioni pratiche. C’è un potere… ma non possiamo fare a meno di osservarlo con amarezza. La conquista di Marie non è una conquista di tutte. È un potere che non si trasporta sul futuro, nemmeno il più prossimo, lasciandoci una storia che ci travolge nelle prime battute e si smussa dopo la conquista. Forse è solo di vanità che si parla, perché la vanità è l’unico peccato che ha davvero bisogno del riflesso che ci offrono gli altri. E Marie sceglie – un po’ come l’angelo caduto di Milton – di dominare una frazione di mondo perché il mondo “vero”, intero, vasto, le resta precluso e mai le sarà offerto.

Una nave si accosta a un mondo nuovo. Non ne conosciamo nei dettagli la missione e apprendiamo solo a grandi linee le mansioni dell’equipaggio, formato da umani che ricordano la Terra e da umanoidi che sulla Terra non sono nati, anche se sono programmati per somigliare alle persone “vere” e per collaborare con loro. Misteriosi oggetti dalla bizzarra vitalità minerale soggiornano muti in stanze apposite, luoghi sospesi che un po’ somigliano a sacrari privati e un po’ a un limbo onirico-sensoriale dove sia gli umani che gli umanoidi si recano con assiduità per trovare conforto o per lasciarsi attraversare da una forma di trascendenza.

I dipendenti di Olga Ravn – in libreria per Il Saggiatore con la traduzione di Eva Kampmann – è costruito per accumulazione di testimonianze rese dall’equipaggio a una “commissione” inviata dall’organizzazione-madre che, nominalmente, ha l’incarico di studiare gli effetti di questi oggetti enigmatici sugli occupanti della nave. Le testimonianze sono un diario di bordo collettivo, una cronaca a più voci del graduale collasso di un sistema che illude i suoi partecipanti di avere un compito da svolgere, mentre l’unica “cosa” che si produce davvero è il loro perdurare in quel microcosmo chiuso. Ed è proprio l’illusione di contribuire a una causa superiore – in un contesto dove gli unici compiti che davvero ci vengono resi noti sono quelli destinati a far “funzionare” la forza lavoro, umana o umanoide – che diventa il nucleo inesorabile di un esperimento in cui le cavie soccombono, si arrendono o si ribellano per eccesso di consapevolezza, deviando dal programma o sprofondando nei ricordi di una casa ormai irraggiungibile.

È un libro opaco e snervante da leggere, ma di certo animato da una sottigliezza affascinante. Dona poche soddisfazioni perché è rarefatto e fumoso, ma pone domande intriganti, specialmente quando si indaga la relazione tra vita “biologica” e vita simulata da una programmazione che sfugge ai parametri originari per produrre qualcosa che, in un contesto completamente sgombro dall’umano, diventa un territorio inedito d’azione. Cosa ci rende umani? È l’accumulo dell’esperienza, delle relazioni e dell’emotività o la presa di coscienza di esistere e di “sentire”, scrivendo un codice nuovo, facendo qualcosa che non dovrebbe essere possibile?
Quel che accomuna tutti – umani e umanoidi – sembra essere la ricerca di un appiglio, di qualcosa che vada oltre il mero esserci per assolvere a una funzione e il rifiuto di essere costretti a un’unica dimensione che fa coincidere il ruolo “produttivo” con l’identità. Accorgersene, su una nave che si nutre dei suoi figli per continuare a esistere immutata, è forse la scintilla d’anima che tanto cerchiamo – e che ci porterà a camminare sulla superficie di un mondo sconosciuto.

Parlare di come è strutturato questo libro credo produca più disservizi che chiarezza. Lidia Yukanavitch sceglie la metafora dell’acqua proprio per lasciar scorrere i ricordi, creare gorghi, lanciarci giù per una cascata o imprigionarci nella fanghiglia stagnante dei momenti più cupi. La struttura che sceglie – o da cui si fa trasportare – è fluida come la memoria, deformata dalle rifrazioni della luce e condizionata dalla profondità degli eventi che man mano riguadagnano la superficie.

Insomma, La cronologia dell’acqua – in libreria per Nottetempo con la traduzione di Alessandra Castellazzi – diventa lineare solo dopo averne preso le distanze e dopo averlo considerato “tutto insieme”. E mentre si legge ci si aggrappa a quello che fluttua. Ci aggrapperemo a bottiglie vuote, a mostri sacri della letteratura, a mariti perduti, a percorsi accademici tortuosi, a elaborati sex-toy, a una bicicletta nuova, a una collezione di ciocche di capelli… tutti questi detriti viaggiano verso alcune isole “stabili” che ospitano dolori imperdonabili, incorreggibili.

Grossolanamente, potremmo dire che la storia di Yukanavitch è quella di una bambina cresciuta in una famiglia disfuzionalissima e violenta. Di un precoce prodigio del nuoto che non ha mai raggiunto orizzonti eclatanti. Di un corpo portato al limite e consegnato a un disordine vertiginoso. Di una ricerca per spogliare la lingua e la scrittura dal gesso dell’accettabilità e del garbo. Di una madre che perde la sua bambina e sceglie di non rimettere insieme i pezzi.
Pare la cronaca di quel che resta all’indomani di un susseguirsi di disastri naturali, se là fuori esistessero disastri naturali circoscrivibili a una singola persona. C’è il trauma come tema portante – già, anche qui… ben giunte e ben giunti nella Grande Era del Trauma Letterario, movimento collettivo che ha forse contribuito a mantenere vivo e a costruire un ulteriore seguito per un libro originariamente pubblicato nel 2011 -, ma c’è anche una grande vitalità rabbiosa, una volontà di persistere che non sfida tanto le circostanze avverse o il destino, ma diventa sfida contro il proprio stesso buio.

Non è un libro gradevole da leggere, penso. Ha guizzi di grazia estrema e frequentissime ruvidità. Le parti legate al sesso e alle dipendenze non sono particolarmente scioccanti, secondo me – per quanto trattate con esplicita disinvoltura -, ma credo risultino depotenziate dalla nostra ormai crescente assuefazione al tema. E la scrittura che viene a galla in questi capitoli m’è parsa molto didascalica, molto apparecchiata per ottenere un effetto, molto più banale dell’auspicato. L’aspetto positivo è che in questo libro ci sono così tante Yukanavitch che di rado si rimane ancorati a un unico vascello espressivo e ci sta che le pulsioni più incontenibili vengano descritte col metro espressivo che corrisponde a un tempo preciso, che si tratti di adolescenza o di qualsiasi altro momento di violenta liberazione.

Non so se La cronologia dell’acqua abbia voglia di sottoporsi a un “mi è piaciuto”/”non mi è piaciuto”. Ha davvero poco senso domandarselo. É un libro tremendo, crudo, violento. Ma è un libro che persiste e ci riconcilia con i mostri, i rancori, le furie irrimediabili, gli abbandoni e le sconfitte. Fa speranza anche quando fa più schifo. Prova a fare arte per mostrarci come far crescere una pelle nuova. Prova a raccontare che si può ambire alla felicità anche se ci sentiremo per sempre danneggiati. Prova a descriverci uno spazio eterno – liquido – di trasformazione.

Alcune fonti sono inaffidabili per scelta, perché ci vuole fin troppo coraggio per ritagliarsi un ruolo marginale nella storia della propria vita. Quella di Andrew Bevel, leggendario finanziere degli anni ruggenti pre-crisi del ’29 sul quale pare gravitare l’intero impianto narrativo di Trust di Hernan Diaz (uscito per Feltrinelli nella traduzione di Ada Arduini), è una superba parabola di demolizione di un mito meticolosamente edificato e alimentato dall’omissione. Soldi, potere, vita “pubblica”, speculazione, eredità, bene comune, eroismi imprenditoriali, fiuto, predestinazione, mecenatismo… tutto converge in quella che a prima vista potrebbe apparire come una delle più canoniche figure monumentali di Wall Street. Il genio visionario, il lavoratore indefesso, l’uomo che ha elevato la riservatezza a valore morale, il profeta delle contrattazioni, il ricco la cui frugalità desta persino sospetti… Bevel è tutto questo. O forse no? Dipende da chi si prende la briga di documentare le sue gesta.

Per offrirci un notevole saggio del potenziale di manipolazione narrativa della realtà  che poi qua è una realtà romanzesca E VIA COSÌ… INCEPTION -, Diaz gioca con la struttura. Trust contiene quattro generi letterari e quattro punti di vista diversi, che si intrecciano come un grosso enigma – telefonato ma pur sempre molto godibile proprio perché il libro è fatto così – per mostrarci finalmente un quadro più accurato della situazione.

  1. FORTUNE | Harold Vanner
    Un romanzo a chiave – parla male (almeno secondo Bevel) di Bevel e di sua moglie Mildred, inventandosi due personaggi immaginari che però sono palesemente loro.
  2. LA MIA VITA | Andrew Bevel
    L’autobiografia riparatrice di Bevel scritta da Ida Partenza – ghostwriter tenuta a riportare fedelmente la versione dettata dal suo datore di lavoro negli anni ’50.
  3. MEMORIE NEL RICORDO | Ida Partenza
    L’ormai ex-ghostwriter, diventata scrittrice di successo, torna a casa Bevel “da vecchia” e ci spiega com’è stato lavorare col titano di Wall Street, cercando di far luce sui molti punti nebulosi che già aveva subodorato.
  4. FONDAZIONE | Mildred Bevel
    I diari superstiti di Mildred, che finalmente prende la parola per raccontarsi senza filtri altrui.

Insomma, esce questo romanzo che Bevel trova diffamatorio. Per ristrutturarsi la reputazione e fornire al pubblico un ritratto “corretto” di Mildred, Bevel assume la talentuosa figlia di un anarchico italiano per scrivere la sua versione dei fatti. Ida Partenza comincia, ma Bevel crepa d’infarto all’improvviso e il lavoro resta incompiuto. Bevel dipinge Mildred come una specie di soave rimbambita ed è quell’immagine che intende tramandare ai posteri. Ida Partenza non se la beve, ma solo decenni dopo avrà modo di tornare dove tutto è cominciato per trovare un riflesso autentico di Mildred, il mistero vero di tutto il carrozzone.

Suona molto più contorto di quel che è. Leggendo funziona a meraviglia, anche se non avete una laurea in finanzia. In sintesi, è un bellissimo marchingegno che esplora l’ambizione umana, i confini dell’autoinganno e le molteplici forme (spesso mostruose) grazie a cui l’intelligenza può piegare la realtà – a volte per il puro gusto di farlo. Il potere vero, sembrano dirci i Bevel, è nella mano che disegna le linee del campo da gioco. E quella sì che è una “mano invisibile”, con buona pace del mercato.

 

La casa dei delfini di Audrey Schulman – in libreria per E/O con la traduzione di Silvia Montisè la rielaborazione romanzata di una vicenda reale… una di quelle cose che tenderemmo a bollare con l’etichetta STRANGER THAN FICTION.
Nel 1965, la NASA finanziò un progetto di ricerca che aveva l’obiettivo di misurare le capacità linguistiche dei delfini. In un’epoca in cui ancora poco si conosceva del funzionamento del cervello (che fosse il nostro o quello dei mammiferi ritenuti spannometricamente “intelligenti”) e in cui la disinvoltura sperimentale consentiva pratiche che oggi riteremmo estreme o poco etiche, una donna traslocò insieme a un delfino di nome Peter in una sorta di casa-acquario, allo scopo di insegnarli a parlare come già era stato tentato con i grandi primati o con gli uccelli.
Sarà stato l’LSD o sarà stata un’erronea valutazione iniziale del potenziale fisico-emotivo di un rapporto quasi simbiotico tra un’umana e un delfino, ma non finì benissimo… se vi va di approfondire, vi rimando a uno dei tanti pezzi che hanno ricostruito la storia di Margaret Howe e Peter – con la consueta enfasi sensazionalistica sui risvolti più pruriginosi.

La vicenda reale viene ripercorsa da Schulman nelle sue tappe sperimentali, mettendo però in campo personaggi fittizi. La protagonista, Cora, è un liberissimo calco della Margaret originaria, con una sfumatura significativa in più. Un esperimento che mira a far vocalizzare i delfini e a farli “parlare” nella maniera più umana possibile viene affidato – in maniera piuttosto accidentale – a una ragazza quasi completamente sorda. Cora perde l’udito da piccola, dopo un’otite. Nuotando con i quattro delfini del centro di ricerca si rende conto di riuscire a percepire meglio il paesaggio sonoro subacqueo di quello degli ambienti umani “asciutti”, spesso cacofonici o irriguardosi rispetto alle sue necessità. Se con le persone è complesso relazionarsi – e il fatto che lei non senta bene la declassa spesso, agli occhi altrui, a intellettualmente menomata -, nei delfini trova un universo in cui è in grado di comunicare utilizzando uno spettro ampio di interpretazione dei comportamenti e di un linguaggio fatto di suoni ricchissimi. Tratta i delfini come creature con una personalità definita e non come mere cavie a cui trapanare il cranio, insomma. Verrà capita? Non quando sarebbe più servito, nostro malgrado.

Il romanzo segue col puntiglio di una cronaca scientifica il percorso di avvicinamento di Cora ai delfini e la quotidianità del centro di ricerca. Outsider nel mondo “esterno” così come nel contesto della laguna, la parabola di Cora è anche – se non soprattutto – una riflessione sul potere. I delfini sono in balia quanto la loro alleata umana dei tre docenti a capo del progetto e non c’è istante in cui Cora si conceda di abbassare la guardia. È una ragazza che si avventura in un territorio dove la sua presenza non è prevista, concepibile o auspicata. Per spuntarla dovrà vedere quello che gli uomini non vedono – cercando pure di farsi guardare dagli uomini il meno possibile -, dimostrando molto più di quanto mai verrà richiesto a un ricercatore “canonico”.

Come possiamo sperare di capirci – che si tratti di una relazione tra esseri umani o tra umani e animali – se non ci mettiamo mai in discussione? A cosa si riduce la comunicazione, se una parte si rifiuta di mettersi in ascolto ma si aspetta soltanto che ci si uniformi a uno standard arbitrario dettato da chi ha il coltello dalla parte del manico? Come si misura l’intelligenza? Sia da Cora – cavia fra le cavie – che dai delfini ci si aspetta un docile allineamento a un’idea di intelligenza che ha più punti in comune con l’ammaestramento che con un’architettura complessa di pensiero. E non c’è da stupirsene: pensare tende a sposarsi bene con la ricerca della libertà – il peggior risultato sperimentale possibile.

 

 

Ridanciani romanzi di quell’appagante lunghezza contenuta che aiutano molto quando ci si pianta? Eccoci qua con la nuova impresa di Francesco Muzzopappa. Più che un romanzo canonico, Sarò breve è una storia corale in guisa di ultime volontà.

Ennio Rovere, proverbiale capitano d’industria che ha edificato la sua fortuna col sudore della fronte – impiastricciata di trucioli – e un’ossessione precoce per il mobilio Chippendale, trascorre i suoi ultimi mesi a comporre un testamento “epistolare”, qua ordinatamente raccolto. A ogni persona (o animale) che ha significato qualcosa per lui viene assegnato un lascito materiale e una missiva che un po’ funziona da ricordo e un po’ da rivincita a scoppio ritardato. Quanto affettuoso sia il ricordo e quanti sassolini il Rovere si tolga dalle scarpe dipendono, ovviamente, dal destinatario.

Mogli, collaboratrici domestiche, autisti, prole e impiegati si alternano sulla scena per farsene dire quattro dal caro estinto, che può finalmente permettersi il lusso di una sincerità senza conseguenze. Tra autoritratto impietoso e un sano gusto per la più umana delle commedie, Rovere dispensa carrettate di soldi e consigli spassionati – raramente richiesti, nel tentativo di lasciare in ordine sia i suoi beni che i suoi pensieri.
A noi Ennio Rovere non lascia conti aperti da Armani o un intero garage di auto di lusso – nonostante al volante fosse un pericolo – ma una parentesi di sereno intrattenimento, sostenuto da una struttura narrativa curiosa al punto giusto.

[Esplorazioni ulteriori nella galassia di Muzzopappa? Ecco qua Affari di famiglia, godibilissimo anche da ascoltare.]

 

Allora, se il vostro obiettivo è approcciarvi a una scrittura estrosa, guizzante, ricca e succulenta – ECCO, qua non gira esattamente così. Lo stile ragionieristico giapponese – iper funzionale, precisino e fondamentalmente anonimo – colpisce ancora… e devo confessare che un po’ patisco questa strutturale impossibilità di distinguere una voce dall’altra. Di buono c’è che non si sconfina nella pedanteria e nella ripetitività e che, forse proprio per l’atmosfera piana e per l’assenza di arzigogoli, I miei giorni alla libreria Morisaki – tradotto da Gala Maria Follaco per Feltrinelli – vi filerà via liscio e finirete per leggere con gran lena. Menate mie a parte, è un romanzo che come campo-base sceglie una libreria piacevolmente sgangherata di Tokyo, collocata nel quartiere con la più alta concentrazione di librerie al mondo – Jinbōchō.

Che succede? Takako, 25 anni, inaugura la sua crisi esistenziale grazie a una doppia rottura: il collega con cui credeva di far felicemente coppia fissa la informa serafico del suo imminente matrimonio e Takako, in preda a questa cocente delusione sentimentale, decide di licenziarsi per non trovarsi davanti tutti i santi giorni quella gran faccia di tolla. TAKAKO LASCIATELO DIRE PERÒ COI COLLEGHI NON È MAI IL CASO PERDIANA.
Comunque, dopo una parentesi di autocommiserazione e rancorosa letargia, uno zio con cui non si sente da una decina d’anni le tende provvidenzialmente la mano: ma vieni a stare nella stanzina al piano di sopra della mia libreria, mi dai una mano e non ti faccio pagare l’affitto. E Takako fa i bagagli e va a leccarsi le ferite alla libreria Morisaki, non senza un certo scetticismo. Lo zio Satoru non è esattamente un pilastro della sua vita adulta, ma non le è rimasta più una lira e, anche se non legge dalla scuola dell’obbligo, decide di fare un tentativo.

Come in ogni parabola di rinascita che si rispetti, Takako si riscuote con gradualità dal suo scontroso torpore e comincia a partecipare attivamente alla vispa vita di quartiere. Nei libri, a lungo utilizzati solo per far spessore sotto alle gambe traballanti dei tavoli, ritrova alleati preziosi e, una pagina dopo l’altra, il suo cuore malridotto si ringalluzzisce e risana. Alla sua storia si intreccia quella dello zio, che si affaccenda con passione nel negozio in attesa che la moglie fuggiasca si rifaccia viva – sempre che le vada, visto che è sparita da un lustro e nessuno sa dove sia finita. Takako e Satoru condividono civilmente la solitudine, ma insieme trovano il modo di immaginare tempi migliori e di tornare a far baluginare la fiammella della speranza.

Se vi va di leggere qualcosa di piacevole, lieve e rassicurante – con bonus “atmosfera giapponese”, roba che su di me esercita sempre il suo fascino – la libreria Morisaki sarà di certo una valida tappa. Poche pretese ma tutto sommato ben riposte. 

 

Ero quasi certissima che Il profilo dell’altra – il romanzo d’esordio di Irene Graziosi uscito per E/O – non fosse un pacco, ma data la mia indole solare e fiduciosa ho comunque tirato un appagante sospirone di sollievo. È andata bene, è un bel libro. E ne potremmo discutere per una settimana, perché è anche una di quelle storie stratificate e cangianti che contengono una marea assai poco placida di temi “vicini”, veri e nostri. Mi son sembrati fin troppi, ogni tanto, ma la scrittura ha quell’elasticità naturale che scongiura l’artefatto e il legnoso… e regge, tenendo insieme tutto. Ma di che parla? Di specchi, credo. E di scoprire chi siamo, indipendentemente dal riflesso che ci restituiscono gli altri o da quanto ci piaccia quel che vediamo.

La nostra narratrice è impantanata in un presente che non lascia spazio d’immaginazione concreta di un qualsiasi futuro. Dovrebbe andare avanti a studiare, ma dopo la morte della sorella si è trasferita da Parigi a Milano al seguito del suo ragazzo e, di base, sta sul divano a guardare Law&Order.
Per una serie di millanterie sfacciatissime e di incroci fortuiti che nemmeno lei sa se augurarsi o no, si ritrova assunta come “assistente” e grillo parlante di Gloria, influencer diciottenne dotata di una fanbase sterminata e di argomenti inesistenti. Maia accetta il lavoro con l’intenzione nemmeno troppo velata di fallire ma, un po’ per sfida e un po’ per sincera curiosità antropologica, si ritrova a orbitare stabilmente nella vita della sua protetta e, in parallelo al personaggio “pubblico” che tutti credono di conoscere, parte alla ricerca del nucleo reale di questa ragazza che appare spensieratamente vuota, fortunatissima e legittimo approdo dell’invidia generale. Chi è Gloria? E chi siamo noi che la seguiamo? Quanto solido e autentico sarà davvero il castello di carte che ha costruito?

C’è molta carne al fuoco e uno degli aspetti migliori, secondo me, è il tentativo di rappresentare in maniera credibile il paesaggio relazionale in cui siamo immersi. Quel parallelo di difficile gestione tra persona pubblica e privata, tra identità che si adattano ai contesti e ricerca autentica del nostro centro, al di là di come scegliamo di mostrarci. È una questione che appartiene intrinsecamente al crescere, credo, ma i tanti posti nuovi in cui il processo può oggi essere narrato, allestito e spettacolarizzato la rende un po’ più complicata che in passato. Non si sconfina nei due possibili estremi “facili” dell’“anche le influencer piangono” VS “IO PENZO KON LA MIA TESTA KE VADANO A ZAPPARE LA TERRA KUESTE MIRAKOLATE!!1!!1”… per me ci è anche andata giù leggera nel descrivere le molte possibili brutture del dietro le quinte delle dinamiche social-commerciali ma, pur non trovandoci niente di sconvolgente, è un quadro realistico. Il nodo vero non sta nemmeno troppo lì, probabilmente. È di margini di libertà che si parla. Di quanto “costa” scegliere di esserlo davvero. Di quanto siamo disposti ad accettare la compagnia costante di chi siamo quando nessuno ci guarda. Chi è il ventriloquo e chi è il pupazzo, tra Maia e Gloria? E, soprattutto, con che voce abbiamo deciso di parlare noi?

Cora Seaborne entra a far parte a pieno titolo della schiera di signore rispettabili che iniziano a campare meglio all’indomani della dipartita dei loro coniugi. Lo sforzo vero, per la protagonista del Serpente dell’Essex così come per le vedove sue colleghe di fine Ottocento, consiste nel continuare proiettare per un tempo ritenuto decoroso quel dolore e quella contrizione che il lutto richiede, industriandosi però clandestinamente per trovare un nuovo scopo e un modo per impiegare al meglio la libertà fortuitamente conquistata.
Per Cora – che ha perso l’uomo rivelatosi crudelissimo che ha sposato sull’onda di una fisiologica inconsapevolezza giovanile -, questa libertà consiste nel recupero di una sua personalità più antica, “selvatica” e rozza, almeno per gli standard londinesi.
Per ritrovarsi, cambiare finalmente aria e ricominciare, Cora inizia col trasferirsi con figlio e bambinaia-confidente a Colchester, nell’Essex, con l’unica ambizione di rivoltare pietre in cerca di reperti preistorici e di infangarsi il più possibile gli scarponi.

Il punto di riferimento di Cora è Mary Anning, pioniera della paleontologia del Regno Unito (e del mondo intero) e scopritrice di fossili che hanno fatto la storia. Anning, armata di cestino, martello e scopettini, setacciò la costa di Lyme Regis – poi ribattezzata Jurassic Coast – rinvenendo scheletri di ittiosauri, plesiosauri e rettili marini.
In un’epoca in cui le scienze naturali potevano godere di diffusione accademica ma anche dell’apporto di un nutrito movimento “dilettantistico”, Anning rimase una sorta di felice eccezione in un panorama irrimediabilmente dominatissimo da studiosi maschi, ma di certo rappresentò un esempio di caparbia intraprendenza, reale autorevolezza e disinteresse per le convenzioni. Il valore del suo lavoro e delle sue scoperte furono riconosciuti – un traguardo non scontato, data l’agguerrita competizione – e i suoi reperti più significativi sono ancora esposti al British Museum.

Già, credo che il canetto di Mary Anning stia cercando di fare la cacca. Su un fossile di plesiosauro, probabilmente.

Ma rimettiamoci in carreggiata.
Che succede a Colchester e nel contiguo bacino del Blackwater? Si direbbe poco, perché son posti pittoreschi e ameni ma di certo molto diversi dal frenetico ribollire della grande città. Cora, però, riceve una provvidenziale soffiata: annegamenti sospetti, villici che perdono il senno e pecore disperse si moltiplicano… che sia tornata la bestia leggendaria che infesta il fiume? Cora decide di vestire i panni della studiosa razionale e di cominciare a indagare con oggettività sul fenomeno. Psicosi collettiva, antiche superstizioni riemerse in un momento di scalogna o autentica opportunità per rivenire un fossile vivente?
Pur con intenti diversi – placare una congregazione sempre più inquieta e riportare la serenità nel villaggio – anche il reverendo Ransome sta cercando di far luce sul caso del presunto mostro del fiume. La sua traiettoria e quella di Cora sono destinate a incrociarsi e a generare ripercussioni insospettabilmente vaste, tra status quo turbati e massimi sistemi che precipitano, condensandosi, nel rapporto tra due persone che sperano di scovare un litorale clemente su cui approdare.

Se amate i romanzi storici – con tanto di scambi epistolari -, il moto inesorabile delle maree e le narrazioni che nelle tribolazioni minute provano a mettere in scena i grandi dilemmi – dal conflitto tra fede e ragione a quello tra classi sociali, dalla rettitudine del buon padre di famiglia agli albori delle rivendicazioni di indipendenza delle donne, dalla superstizione al senso di colpa, dalla purezza dell’anima che lotta per non farsi “contaminare” dalle pulsioni del corpo -, Il serpente dell’Essex è un bel posto dove sguazzare: scrittura ricca (e ben tradotta da Chiara Brovelli per Neri Pozza), ricostruzione accurata e colpi di scena gestiti con elegante aplomb, per quanto i drammi e le inquietudini non manchino. Che siate più inclini a soccombere a mistiche atmosfere minacciose o a tifare per “poligoni” affettivi variamente ingarbugliati, è di certo un bel congegno romanzesco. Ma ci sarà davvero, questo serpente? Tutto dipende dalla rete che vi andrà di gettare in acqua…


Segnalazioni televisivo-cinematografiche

Dal romanzo di Sarah Perry è stata recentissimamente tratta una serie TV con Tom Hiddleston – SCARSA FANDOM QUI – e Claire Danes.
Ho scoperto che esiste anche un film su Mary Anning. Si chiama Ammonite e Kate Winslet interpreta la nostra indefessa paleontologa.
Ho già visto qualcosa? Figuriamoci, ma segnalo comunque volentieri. E allungo la mia lista delle cose da recuperare.

 

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche.