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Di primo acchito, Clara legge Proust di Stéphane Carlier – tradotto da Ilaria Gaspari per i Supercoralli Einaudi – potrebbe sembrare un romanzo dell’ormai consolidato filone “piccola bottega in cui si approda un po’ a caso finendo però per trovarci il senso della vita grazie alle gioie sincere delle cose semplici e della gente tanto carina e piuttosto eccentrica che fa avanti e indietro” ma non siamo in Giappone e Clara, la protagonista, si è quasi già rotta le palle della piccola bottega in cui lavora. Le francesi di 23 anni funzionano diversamente dalle coetanee giapponesi che tanto volentieri importiamo, forse. La piccola bottega di Clara è un saloncino da parrucchiera di una cittadina come tante e lei passa le giornate ad acconciare chiome con discreta maestria ma senza particolare emozione o slancio. Tutta la sua esistenza gira un po’ così: un sereno tran tran che potrebbe proseguire immutato fino alla tomba – e nulla di male ci sarebbe, a patto di soffocare qua e là gli sbadigli. Clara intuisce un vago baratro esistenziale, ma tutto sommato le pare di cavarsela bene e non trova concrete ragioni per lamentarsi o per ambire a chissà quali sterzate nell’avventuroso ignoto.

Serpeggia insomma un’insoddisfazione blanda ma caparbia e le giornate si srotolano sempre uguali, con le chiacchiere tra una permanente e l’altra e le storie minute delle clienti. Un bel giorno, però, uno sconosciuto entra per farsi tagliare i capelli e si dimentica al salone il primo volume della Recherche di Proust. Clara non è una gran lettrice, ma si mette il libro in borsa e lo lascia a stagionare su uno scaffale di casa per qualche mese, senza badarci. JB, il suo aitantissimo fidanzato – per giunta pompiere -, è lì lì per usarlo come fermaporte, ma pure quella pare una decisione troppo ardita nel sonnecchioso ménage domestico. Un bel giorno 2, però, Clara piglia il libro e comincia a leggere… e MAGIA DELLA LETTERATURA tutto cambierà per sempre.

Il “risveglio” di Clara passa attraverso la lettura di un tomo multiforme, vasto e di difficile descrizione. Alla ricerca del tempo perduto credo sia in cima alle classifiche delle opere che fingiamo d’aver letto per darci un tono e per posizionarci fra i colti e i sapienti, ma l’unico moto di vera sincerità di Carlier – in un romanzo altrimenti MOLTO volpino – è l’assenza assoluta di barriere all’ingresso all’opera di Proust. Clara non si domanda se sarà capace di leggerlo, non si preoccupa di confrontarsi col Mostro Sacro, non ha nessuno da impressionare o nessuna prova d’intelligenza che le preme superare. Si siede lì e comincia a leggere, saltando probabilmente anche le 54 prefazioni che di solito accompagnano ogni edizione della Ricerca. Legge di gusto e per il gusto di percepire i personaggi come esseri umani suoi pari, in una bolla che per lei si dimostrerà rivelatoria e lontanissima da sovrastrutture o ansie da proiezione.

Io non ho ancora letto Proust e non so quanto Clara abbia scatenato in me desideri di emulazione. Ma sono contenta per lei, perché il suo approccio – anche al libro “difficile” per definizione – è molto sano. Clara legge Proust è una storia breve e piacevole, che forse si contraddice anche un po’, nonostante Clara non sia affatto spocchiosa: c’è un intento edificante, c’è l’idea antica della lettura che nobilita… e quest’idea “migliorativa” della lettura sottintende una certa gerarchia. O magari sono io, che non ho letto Proust e continuo a sentirmi in difetto… senza essere nemmeno capace di farmi la piega con disinvoltura.

[Segnalazioni pratiche di fruizione: su Storytel – dove l’ho ascoltato io – la lettrice che legge a voi Clara che legge Proust è Ilaria Gaspari, che ha tradotto il romanzo].

In città si crepa di caldo, in campagna anche… ma almeno ci si augura che il cambio di scenario aiuti la creatività a fluire un po’ meglio. I dipendenti di Bomba Agency si riuniscono prima della chiusura ufficiale delle ostilità e dei “ci pensiamo a settembre” per mettere insieme una proposta di gara. Non conosciamo il cliente, non sappiamo che cosa vada in concreto inventato, ma in fondo non è necessario. Le gare sono tutte uguali e sono anche il simbolo perfetto di come gira il mondo: si lavora in uno scenario incerto con la speranza che quel lavoro lì produca in futuro altro lavoro, ma lievemente più solido. Nel frattempo gli orari si allungano, i confini tra vita professionale e vita privata si sfumano, tutto è urgente, fondamentale e indispensabile… ma non stiamo mica salvando vite umane, non scordiamocelo. Ironia, mi raccomando! Una birretta?

La casa di campagna che fa da sfondo vivo e presentissimo a Estate caldissima di Gabriella Dal Lago – in libreria per 66thand2nd – accoglierà per una settimana di lavoro e stretta convivenza i sette componenti di Bomba, più una gatta e un bambino di otto anni. È figlio di Gian, il padrone della casa e pure dell’agenzia – anche se quasi si vergogna a farsi trattare da capo – e della sua ex compagna. La compagna attuale è una collega che, prima ancora, era stata una sua studentessa. Le relazioni degli altri (e con gli altri) si sveleranno man mano, mentre si suda copiosamente, si prova a mettere insieme qualcosa di dignitoso da presentare all’ipotetico cliente e ci si rimbalza addosso con diversi gradi di intensità. La casa accoglie e nasconde, forse perché conosce già il futuro e sa rassegnarsi alla rovina. Non piove da un’eternità… ma pioverà e nessuno sarà pronto.

Di millennial impantanati e prigionieri delle proprie contraddizioni si sta cominciando a narrare con buona lena, di solito raccontandoli in preda a una rassegnazione statica o, a volte, facendoli proprio rinunciare a partecipare. Son strade reali, ma ce ne sono altre. Dal Lago non affligge ogni suo personaggio col medesimo dilemma “generazionale”, anzi, dosa il pesante e il leggero con occhio e sensibilità. Alcuni sono alle prese con delusioni senza tempo, altri si scoprono più flessibili del previsto, una vuol salvare l’universo intero ma è indifferente a chi le sta a un metro, un’altra sa che non avrà mai il coraggio di scappare. È una confusione ben orchestrata e soprattutto “attiva”, ci si scorge una forma di resistenza e un margine di manovra ancora accessibile. E probabilmente è questo che rende amara sul serio la sorte di Bomba.

La casa potrebbe essere l’ultimo rifugio prima di una catastrofe, ma si dimostra un crocevia decisivo che nessuno riconosce. E i disastri più grandi di noi – che arriviamo col nostro valigino di panni sporchi, dilemmi, compromessi e programmi a brevissimo termine da portare avanti con le persone che accettiamo come inevitabili – guadagnano terreno, si addensano all’orizzonte e si preparano a spazzare via quello che conosciamo… e che non siamo stati capaci di aggiustare. Come fai a salvare TUTTO, quando ti tieni a malapena a galla e ti è stato insegnato che conta far vincere un IO che restringe ogni confine? Come si fa a sentirsi abbastanza “potenti”, se non ci fidiamo nemmeno di noi stessi? Meglio lasciarsi dimenticare o imparare a vivere “nel mezzo”, perché il passato ci sconfigge per definizione e il futuro va costruito… ma i progetti li abbiamo persi.

Book cover

La gente di pianura diventa cattiva perché non ha niente da guardare: non c’è un ostacolo naturale capace di creare un limite ai desideri ma la vastità monotona di quello che ti circonda scoraggia l’iniziativa. Insomma, vuoi andare chissà dove perché il paesaggio appare “facile” – e pensi che l’orizzonte ti sia dovuto – ma per strada non ti ci metti perché il potenziale percorso è semplicemente eccessivo. Marta Cai esordisce per Einaudi con Centomilioni allestendo il suo teatro proprio in un’evanescente cittadina di pianura, affidando alle sue “vittime” di finzione il compito di raccontarci l’insoddisfazione, lo stallo perenne di chi molto vuole ma pochissimo crede di poter fare, la claustrofobia assoluta delle radici, della meschinità fatta passare per affetto, della cura come ricatto.

L’unica cosa che Teresa e Alessandro hanno in comune è forse la necessità viscerale di scappare. Lei non concepisce nemmeno la possibilità di comprare un vestito senza la supervisione della famiglia tutta, lui si piace da impazzire e non ritiene che serva altro. Lei ha ben superato i 40, lui ne ha poco più di 20. Lei è una via di mezzo tra una bambina decrepita e una zitella prigioniera, lui non ha mai trovato il modo di farsi prendere sul serio. Entrambi coltivano una sorta di esistenza parassitaria: lei ostaggio dei genitori anziani – “con tutto quello che abbiamo fatto per te non vorrai mica abbandonarci?” – e lui come zavorra per il Vecchio Porco che mantiene la madre. Lei lo ama come ci si innamora di un cantante alle medie… e lui l’ha capito.

Son poche pagine, ma il rancore che ci troverete dentro penso vi basterà per lungo tempo. Più che Teresa – che è una creatura paradossale che può far pena come rabbia – quel che colpisce è l’accuratezza della ricostruzione di quella miriade di grettezze quotidiane, abitudini impermeabili al cambiamento e superbie imbecilli che fanno “paese”… e che sono fin troppo vere. A tenere insieme tutto è l’eterno tema dei soldi: chi ne ha, chi se li merita, chi li butta, chi ne vuole di più, chi fa progetti senza averne, chi non ha nemmeno l’immaginazione per spenderli e chi li conta in tasca agli altri, incessantemente. Cento milioni, pensati in lire per farli sembrare di più – anche perché andranno divisi in tre: ecco il premio per il più mesto degli inganni. Sono pochi? Sono tanti? Non si sa, dipende da com’è il paesaggio di casa vostra. Teresa e Alessandro vivono in pianura. E vivere, per loro, è un debito insormontabile.

Ogni famiglia è infelice a modo suo, abbiamo collettivamente metabolizzato. Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde – in libreria per Neri Pozza – è la cronaca secca e precisissima dell’insoddisfazione di una specifica famiglia, di un vuoto civilissimo e agiato, di una diminuzione perenne dell’amore che finisce poi per “personificarsi” in una figlia che sceglie di farsi spettatrice, topolino che si aggira ai margini dei crucci altrui – sempre silenziosi, sempre segreti, sempre senza speranza.

Nipote e figlia di femmine scandalose, troppo vive per essere opportune, “pazze” e nemmeno troppo tacitamente disapprovate dalla brava cittadinanza, Annetta diminuisce di pagina in pagina – un po’ perché non cresce, un po’ perché quello che pensa le spetti è poco e un po’ perché sua madre non c’è mai quando dovrebbe, non la ripara dalle ingiustizie più stupide e grette, non le lascia nemmeno immaginare un paesaggio in cui correre da sola (su gambe lunghe e forti).

È un esordio insolito e molto ben eseguito, misuratissimo e pieno di crudeltà tristi. Somiglia a un pezzo di musica da camera che si ascolta bene ma da studiare è un baratro di difficoltà o a un quadro piccolissimo ma zeppo di dettagli che in mezzo centimetro di tela lasciano intravedere un “oltre” sconfinato – ma noi siamo prigionieri di quella cornice, come Annetta, come sua madre.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

Un nuovo esperimento sul fronte “millennial tristi e piene di menate”? Eccoci qua con La nuova me di Halle Butler – in libreria per Neri Pozza con la traduzione di Annalisa Di Liddo.

Millie ha trent’anni e vive a Chicago. L’agenzia interinale che cerca a ripetizione di impiegarla le ha trovato un lavoro da assistente alla reception in uno showroom che coltiva con grande attenzione un’aura sofisticata. Le mansioni non sembrano troppo complicate: deve rispondere al telefono, pinzare delle brochure, tritare dei documenti e fare il possibile per attenuare la dissonanza che sembra separarla costantemente dai membri “funzionanti” di ogni contesto in cui le capita di inserirsi. C’è qualcosa che stride, sempre. Millie non sa quando tacere, non sa come vestirsi, disprezza quasi tutto (e analizza quel che le capita con un astio triste e desolato) ma vorrebbe scivolare leggera verso un futuro che sente di meritarsi ma che continua a respingerla, finendo soltanto per rendere ancora più palesi le sue mancanze.

I genitori le hanno fornito una rete di salvataggio – le pagano l’affitto e, da misura temporanea in vista di un lavoro che l’avrebbe aiutata a stare in piedi da sola, è diventata una scorciatoia strutturale. Millie un po’ se ne vergogna e un po’ si rifiuta di pensarci e ogni ufficio in cui ricomincia da capo è una nuova speranza, che si tira dietro una lunga lista di nobili aspirazioni. Mangiare meglio, lavarsi di più, tenere in ordine, arredare con gusto, fare sport, leggere, bere meno, volersi bene. Ma è dura costruire un castello splendente quando le fondamenta traballano di continuo e Millie tira avanti rabbiosa, sfidando il tedio in una polarizzazione di desideri: vorrebbe un contratto “vero”, ma chi è che vorrebbe fare per sempre un lavoro così mesto? E che senso ha tirare a lucido una casa piena di cianfrusaglie da quattro soldi?  Da un lato, Millie ha il lusso relativo di poter scegliere – e un minimo di spalle coperte – ma, dall’altro, le alternative a disposizione sono misere e di certo incompatibili con sogni di gloria e realizzazioni conclamate.

Dunque, pensavo meglio. Mi rendo conto che ci sia una forma di ripetitività che serve a infilarci nel vicolo cieco che intrappola anche Millie, a farci percepire in maniera viva l’estrema futilità di quello che le tocca (e alla sua – e mia – generazione tocca) per campare, ma per quanto lo stratagemma sia efficace risulta anche un po’ pesante. Millie è interessante perché è sgradevolissima. È sciatta, vendicativa, meschina e a suo modo vanesia, ma è anche un’architetta di illusioni e autoinganni molto potenti da leggere. La vuoi menare ma ti fa anche tenerezza, percepisci la sua difficoltà ma senti anche che è troppa per fartene carico, la percepisci come lo specchio deformante di un’attrazione del luna park che ti ha messo più ansia che divertimento – e non sai perché ci sei salita o perché Millie faccia così fatica a uscire. Millie è uno dei tanti “peggio” che ci sono capitati o che continuano a capitarci. Ci ricorda che siamo di una debolezza disarmante, ma anche che non è più necessario fallire con grazia. Anzi. Dovremmo cominciare a farlo rovinando la festa a tutti.

Ah, se i muri potessero parlare! Nel caso di Adattarsi di Clara Dupont-Monod – in libreria per Clichy con la traduzione di Tommaso Gurrieri – lo fanno… e con grande garbo e sapiente delicatezza. Le “narratrici” poco invadenti di questo libro – che è un romanzo malinconico ma anche animato dalla forza cocciuta di un tempo che aggiusta, in qualche modo – sono le pietre di un cortile. Nella casa di montagna abita una famiglia che accoglie un bambino nuovo. C’è un fratello maggiore e c’è una sorella minore. Il bambino nuovo è bellissimo e tranquillo, ma dopo qualche mese tutti insieme appare fin troppo chiaro che non parlerà mai, non vedrà mai niente e non sarà mai capace di camminare o di relazionarsi con gli altri. Il suo è un “male” poco evidente e per nulla plateale, una staticità che pare accontentarsi di poco ma che devierà irrimediabilmente il corso della famiglia.

Il libro è diviso in tre parti, che corrispondono a quel che succede ad altrettanti abitanti della casa dopo la comparsa di quel bambino che resterà bambino per sempre… o almeno finché reggerà – e la medicina stabilisce subito che l’orizzonte da attendersi non è lungo.
I tre testimoni – più o meno sincroni rispetto all’esistenza del bambino – sono il fratello maggiore, la sorella minore e l’ultimo figlio. Un custode, una ribelle e uno spirito antico. Tutti e tre misurano differenze tra il prima e il dopo, tra loro e il bambino, tra il futuro che immaginavano e quello di cui dispongono, tra come pensavano di reagire e come di fatto agiscono, affaccendandosi o metabolizzando quella forza immobile ma presentissima, cambiando per non soccombere, trasformando quello che si sentono abbastanza forti da governare. Sono tre approcci molto diversi, che di certo sono solo alcuni degli innumerevoli possibili: spezzano il cuore perché sono tutti legittimi e nessuno sa di resa.

Chissà cosa sentiva davvero, il bambino di questa storia. Come sarebbe stato prezioso saperlo. Dividere l’inadatto dall’adatto è una libertà che nessuno in questo libro si prende, perché prevalgono le reazioni viscerali e istintive. Ci sono protezione, repulsione, curiosità e tutte sono forme di ribellione a un destino strano, espressioni tenaci di una volontà di conservarsi in una tempesta che non risparmia nessuno, perché il passo lento (o assente) di qualcuno significa rivalutare l’ampiezza del proprio. C’è chi trova un centro rallentandosi e chi scalpita per correre lontano e chi, dopo, deve inserirsi in un ritmo che ha subito scossoni impossibili da conoscere ma di cui si ereditano le vibrazioni. È una storia triste e gentile, paziente e inesorabile. Somiglia alle pietre che la raccontano: levigata ma dura, pronta a resistere alla natura.

Forse salterà fuori che il nostro unico e autentico pregio è stato quello di aver tenuto i piedi in due epoche, di aver visto arrivare un orizzonte nuovo e di essere stati testimoni di un cambiamento mastodontico, incomparabilmente più grande delle nostre capacità di governarlo o di renderlo un fattore di indubbio e generalizzato progresso. Custodiamo i nostri ricordi con la tenerezza ossessiva e un po’ stucchevole di chi ha lasciato perdere, di chi ha decretato che quel che poteva andare male è già andato male e che mai ci si imbatterà di nuovo in un tempo “facile”, relativamente più prospero e privo di responsabilità come l’infanzia. Quei ricordi ce li teniamo volentieri, insomma, a costo di fare la figura degli stupidi e dei piagnucoloni. Ogni generazione sarà la barzelletta di quella successiva, ma è possibile che la mia – quella dei Millennial – sia l’unica che tende ad accanirsi più volentieri su sé stessa che sulle compagini anagrafiche limitrofe. Abbiamo combattuto strenuamente per il ritorno del Winner Taco e, quando ce lo siamo finalmente potuto ricomprare, ci siamo accorti che era piccolissimo. Ecco, Doveva essere il nostro momento di Eleonora C. Caruso – in libreria per Mondadori – esplora quello spazio di delusione lì, quell’operazione sistematica di ridimensionamento delle aspettative che si scontra col “rimanerci male” lo stesso. Non possiamo farne a meno, perché barcolliamo da sempre su una sabbia mobile fatta di pupazzoni, benesseri promessi e perentori “sforzati, l’impegno verrà ripagato”. Ma quel che c’era a disposizione è rimasto dov’era e noi non abbiamo capito come prendercelo, come farci valere, come farci vedere. E ci incazziamo per il Winner Taco, perché incazzarci a livello “macro” è difficile, se alla coscienza collettiva siamo stati abituati a preferire rarissime punte di straordinarietà individuale che la realtà spazza puntualmente via.

Caruso si appoggia alla struttura “classica” del viaggio per produrre un’avventura ideale che, qua e là, si trasforma con grande naturalezza in una specie di atlantone sociologico che riesce a tenere insieme il confronto generazionale, l’impatto del web su ogni sfera delle nostre relazioni e quella condizione di incertezza traballante e precaria – nel lavoro, nei sentimenti, nel legame con la famiglia d’origine, nella costruzione del futuro, nelle condizioni “materiali” di vita – che ha cessato di scomparire all’affacciarsi dell’età “adulta”. Caruso prende tutto questo magma ribollente di menate, maldestre rivendicazioni, riflessioni sul “ma che abbiamo che non va” e lo colloca in un luogo narrativo capace di trasformarlo in un impianto teorico dotato di coerenza interna, regole e principi. Insomma, fonda una “setta” e la usa come laboratorio.

La setta romanzesca di Caruso dimora in un baglio – una masseria – in rovina nelle campagne del catanese. Ospita una gioventù (più o meno fresca) usurata dal mondo esterno e spremuta o ormai rifiutata dal mondi virtuali. È una capsula del tempo di raro potere evocativo, perché l’idea di base è che il mondo in cui valeva la pena soggiornare è finito nel 2001 e che tutto quello che è arrivato dopo sia maceria, rovina, tabù innominabile. Insomma, gli adepti di Zan – fondatore e responsabile dell’impresa – vivono negli anni Novanta. La moneta corrente delle comunità sono i ciucci di plastica, si guardano i Duck Tales in videocassetta, Cesare Cremonini sgasa sui colli bolognesi, i Tamagotchi pigolano con insistenza per essere nutriti e Pippo Baudo salva un aspirante suicida dalla balconata del teatro Ariston. Chi ha effettivamente vissuto gli anni Novanta è un Ritornato, chi mai ne ha fatto esperienza diretta è un Non Nato – e viene educato di conseguenza. Non sono ammessi smartphone, si comunica con l’esterno per lettera e non ci si connette a un bel niente.
La storia comincia quando Leo, trentaquattrenne che vive a Milano su un divano-letto in una casa che condivide con un numero imprecisato di coinquilini antipatici come la sabbia nelle mutande, parte alla volta della comunità di Zan per recuperare il suo amico Simone, che era andato a visitare quella sorta di utopia anni Novanta con l’intento di tirarci fuori un articolo succoso e auspicabilmente sarcastico. Ma passano i mesi e Simone non torna. Leo si presenta lì con l’intento di fermarsi giusto il tempo necessario a “salvare” il suo amico, ma anche lui finisce per trattenersi e per partecipare alla vita di quel microcosmo disancorato dal presente con un trasporto del tutto inaspettato.
Il libro si biforca qui – da una parte seguiremo quel che succede quando Leo fa effettivamente i bagagli e, dall’altra, scopriremo come è stato il suo soggiorno al baglio. Caruso dosa con grande abilità il racconto del viaggio verso nord e i flashback della “setta”, che si mescolano a tutto quello che è funzionale a farci conoscere meglio i personaggi. Simone un po’ ce lo possiamo dimenticare – è stato un utile pretesto -, perché il suo posto in macchina verrà occupato in maniera inattesa ma fatidica da Clorofrilla – o Cloro, per follower e conoscenti -, celeberrima youtuber dalla chioma rosa caduta quasi irrimediabilmente in disgrazia dopo un pionieristico passato da bambina prodigio. Cloro e Leo appartengono a due generazioni diverse, non si sono quasi mai parlati al baglio e hanno all’apparenza molto poco in comune, a parte un legame più “intenso” della media con Zan. Arriveranno indenni a Milano? Cosa scopriranno lungo la strada? Cosa scopriremo di noi durante il loro accidentato percorso?

Questo romanzo mi ha suscitato una calorosa ammirazione e spero verrà letto tanto e in tutte le sue matte stratificazioni. Lo si può leggere perché ci interessano gli ingarbugli fra i personaggi, lo si può leggere da incattiviti o da romantici, con l’occhio clinico di chi vuole capire il presente e con l’occhio pesto di chi pensa al presente con un disincanto che rasenta il disgusto. Mi sono sentita – a livello “anagrafico” – ritratta con una lucidità rara e trattata al contempo con una severità complessa e ben radicata in una visione consapevole. Diamine, Caruso sa di che parla e rivolta i nostri Pisoloni infeltriti – sempre che qualcuno ce l’abbia mai comprato PERCHÉ IO A SANTA LUCIA L’HO SEMPRE CHIESTO MA NON È ARRIVATO – per fotografare quel che resta di noi e cosa cerchiamo di mascherare con la nostalgia. Il riflesso che inseguiamo è molteplice, perché tantissime sono diventate le superfici riflettenti e le piazze di auto-rappresentazione in cui ci cimentiamo, sperando ci restituiscano rassicurazioni e validazione. È una storia che prova a riedificare i confini di tante identità prive di centro ma disperatamente in cerca di uno scopo, di una promessa in cui credere davvero, su cui ci sentiremo capaci di costruire finalmente qualcosa. 

L’ho tirata in lungo, ma quel che vi serve sapere è che è proprio un bel libro e Caruso scrive come se Zan, Leo e Cloro fossero persone con cui ha appena finito di parlare al telefono. Di tatuaggi brutti, probabilmente. O di chi ha appena sbroccato su Instagram. O di quanto è diventato piccolo il Winner Taco, porca miseria.

 

Sono in difficoltà. Anzi, fatico ad elaborare un parere razionale PERCHÉ SONO TUTTI INTOLLERABILI. Mi capita raramente, ma ogni tanto capita. Un personaggio solo si salva – e ho a più riprese cercato di gridargli SCAPPA ANIMA BELLA TU PUOI FARCELA ALTROVE, pur sapendo che non poteva sentirmi. Il tema è spinoso ma non sconosciuto da queste parti: Quello che non sai di Susy Galluzzo – che ho ascoltato su Storytel ma che trovate anche in libreria per Fazi Editore – è una storia di maternità e di assimilazione difficoltosa del ruolo. Ci sono responsabilità enormi che andrebbero rette insieme ma che finiscono solo per alimentare dei grandi dossier immaginari del “te l’avevo detto”, c’è il tema di un distacco impossibile perché c’è la paura di non servire più, c’è l’adolescenza e c’è l’abitudine orrenda di misurare col bilancino quanto ci si vuole bene, quanto si fa per la famiglia e a quanto si rinuncia – e non perché ci fa felici, ma per avere abbastanza elementi da rinfacciare alla controparte.

Il nostro punto di vista è quello di Michela, ex cardiochirurga di sopraffino talento che ora fa la mamma quasi a tempo pieno e deve gestire sostanzialmente per conto suo – perché suo marito Aurelio è ancora un medico impegnatissimo – una figlia protoadolescente “difficile”. Leggiamo quello che Michela sceglie di affidare a una specie di diario scritto per la madre, ormai scomparsa da una quindicina d’anni ma ancora ben viva nella memoria e snodo fondamentale della vicenda.

Tutti, qua, vivono gestendo un rancore invalidante.
Michela e sua figlia sono intrappolate in una simbiosi che soffoca entrambe e che si incrina sul tramontare dell’infanzia, lasciando la madre alle prese col vuoto e con una serie di gelosie meschine e la figlia sempre più avviluppata in rituali compulsivi e scatti d’ira. Michela non ne pare consapevole, ma sta facendo penitenza. Ilaria paga altrettanto involontariamente il fatto di non corrispondere alle aspettative, trasformandosi anche nel ricordo perenne di un grande abisso.L’evento che scatena una reazione a catena di scenate, aggressività e ostilità asfissianti è una macchina che arriva e sta per mettere sotto Ilaria, mentre Michela resta a guardare senza muovere un muscolo – pur avendo ampio margine per intervenire. Da lì e tutto finito, non c’è meschinità o colpo basso che si risparmino.

È un romanzo davvero indigesto ma potente – sarà anche l’ottima lettura di Teresa Saponangelo, che resta espressiva ma ben calibrata – da cui si riemerge quasi con disgusto, perché contrasta ogni immagine felicemente stereotipata e ci proietta invece in una dinamica basata sul risentimento e sull’impotenza, sul senso di colpa e sul bisogno asfittico di controllare tutto per non rischiare di tornare più in un angolo molto buio. Non lo so, forse funzionerebbe meglio se le circostanze di Michela non fossero così estreme, peculiari e fin troppo ben apparecchiate per utilizzare il trauma come spiegazione “plausibile”. Nell’essere tremendo e claustrofobico, però, è anche un romanzo spericolato e pieno di pietà, nonostante le numerose ruvidezze e la generosa distribuzione di situazioni iperboliche.

Ho bisogno di servirmi di un potente stereotipo che mi risparmierà mille preamboli anche se l’uso stesso di uno stereotipo dovrebbe spingermi a dire che no, non dovremmo approcciarci alla realtà avvalendoci del mezzuccio dello stereotipo perché possiamo fare molto meglio di così e tutto questo discorso è di fatto un preambolo esasperante che spero mi aiuti a non farmi prendere a sassate MA bisogna dire che Janice Hallett – tradotta da Manuela Francescon per Einaudi Stile Libero – ha scelto di scrivere un giallo con una struttura atipica, una forma epistolare “moderna” e una quantità devastante di asimmetrie informative perché, sotto sotto, è alla nostra portinaia interiore che vuol parlare.

Credendomi saggia e illuminata ho spesso esclamato HALLETT A ME NON LA FAI, NON MI LASCERÒ IRRETIRE DA QUESTO IPERTROFICO INNO AL VOYEURISMO ma poi m’è anche venuta voglia di suonare tutti i campanelli per scovare il condomino che questa settimana non ha chiamato l’AMSA ma ha mollato in cortile vicino ai bidoni un trolley, due ventilatori industriali e una batteria di pentoloni. Quindi no, non mi credevo pettegola ma sono comunque sprofondata nell’abile trappola, trovando anche piuttosto liberatorio impicciarmi degli affari di questo manipolo di gente ben educata, ancor meglio intenzionata e irrimediabilmente disastrata.

Non spoilero, giuro. L’assassino è tra le righe gravita attorno a una compagnia di teatro amatoriale. La nipotina di 2 anni della coppia dei “fondatori” – che sono anche un po’ la Famiglia Alpha del microcosmo cittadino – va curata per una rara forma di tumore al cervello e bisogna raccogliere una barca di soldi per far arrivare delle medicine sperimentali, esosissime e miracolose dagli USA. Per buon vicinato e umana creanza, tutti si sbattono come matti in questa raccolta fondi che promette di salvare la vita alla piccola Polly e una persona ci lascia le penne. Chi è stato davvero? Il nostro punto di vista è quello di due tirocinanti di uno studio legale che ricevono man mano dal loro capo la documentazione processuale. Stanno preparando l’appello e la convinzione dello studio è che in galera non ci sia chi dovrebbe invece starci. Insomma, nulla è come appare e la vita della provincia inglese è un gran teatrino, uno spettacolo di certo migliore di quelli periodicamente messi in scena sotto l’autorevole supervisione dei coniugi Hayward.

Quello che ci ritroveremo a gestire insieme alle volenterose praticanti è un gran malloppo di e-mail,  messaggini e articoli che nel loro disordinato accumulo nascondono una verità dimostrabile. È divertente da leggere perché ci si sente al contempo più consci delle dinamiche “vere” del gruppo – negli scambi privati si svela spesso quello che a tutti non si può dire – ma anche estremamente azzoppati da una calibratissima opacità di fondo. Chi ci perde? Chi ci guadagna? Contano più i soldi o il prestigio sociale? Tra vergogna, rancore, opportunismo, manie di protagonismo, provincia asfittica e bugie bianche che diventano nerissime,
Hallett mette in scena – e con il fattore-teatro guadagna anche 1000 punti meta-narrativi – un godibile congegno investigativo che seguiremo con voracità, moti d’esasperazione e la sacrosanta indignazione che ogni Cittadino Rispettabile sente di dover periodicamente sfogare su Facebook… cosa che le portinaie professioniste non fanno, perché loro stanno lavorando sul serio.

Nota ulteriore, di non scarsa rilevanza: sì, c’è una soluzione. Hallett non vi congeda con un “e ora tocca a te scoprire chi è stato!”. Insomma, magari troverete altre motivazioni per scagliare il tomo contro al muro, ma dell’inconcludenza o dell’eccessiva interattività non servirà preoccuparsi.