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Che c’è di vero nei ricordi di famiglia?
Forse niente – ed è un niente molto più tentacolare di quello che accompagna i ricordi “normali”. Quel che c’è di vero sono le tracce che ci rimangono addosso e le spiegazioni che proviamo a darci, ma è una verità che associamo a un sentire sanguigno e non è raro che differisca di parecchio dalla cronaca imparziale e scientifica dei fatti.
Che possiamo saperne degli altri, poi?
Registriamo l’urto che generano su di noi, ma mai capiremo sul serio il perché profondo di quelle collisioni: si cresce compensando con l’invenzione i misteri imperscrutabili di casa propria e si cresce scegliendo cosa omettere o cosa infiorettare per cavarsela. Si cresce inventandosi una vita d’uscita e barando con tutta la gaiezza che possiamo chiamare a raccolta.

Vi ho quasi certamente attaccato una pippa superflua, però. Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), non è uno di quei cronaconi formativi dolenti, ma somiglia di più a un’allegrissima operazione di esorcismo del gettonatissimo POVERA ME GUARDA CHE MI È TOCCATO.
Una madre capace di localizzarti a casa di chiunque – esteri compresi – in un’epoca priva di cellulari. Un padre che tira su tramezzi in casa trasformando un appartamento di 60 metri quadri in una sorta di alveare labirintico. Vestaglie, emicranie e Radio3. Vacanze che vanno a rotoli. Diffidenze ginecologiche strutturali e fidanzati che non ti vogliono mai al momento giusto – e poi trovano pure Gesù. Cofani fracassati. Ragazzine mummificate nello Scottex per non farle sudare. Zie pugliesi che ti infamano perché sei l’unica senza tette. Randagismo e case altrui. Lettere piene di frottole e scarponi in spiaggia perché ci sono i vetri. Rompersi le palle – anche grazie ai libri -, fratelli prodigio, clamorose truffe artistiche, bidelli coglioni, maniaci con l’impermeabile e nonne che parlano con la televisione.
La mitologia domestica di Veronica Raimo è una collezione di pessimi esempi, un esperimento di fuga continua, di adattamento tragicomico, di costruzione storta ma efficiente di un orizzonte sgombro dalle menate che ci buttano addosso. Anzi, è una rivendicazione surreale e molto divertente del diritto di fabbricarci le nostre personalissime menate, perché almeno in quello sarebbe bello poter fare di testa propria.

Perché scriviamo? Non posso rispondere per Raimo, ma forse lo facciamo per inventarci un posto più abitabile, per vendicare una versione più antica di noi, per dimostrarci di aver scansato l’ennesimo sabotaggio, per sincerarci di aver scendo, per non concedere a un male di svanire col tempo o per vincere ridendoci su. Scriviamo sulle ingessature che ci toccano in sorte mentre aspettiamo che le nostre ossa tornino a saldarsi. Ne usciamo più storte e di certo diverse da un ipotetico “prima”, ma quel che conta è come decidiamo di ricomporci. Che sia osso o memoria poco conta: restano comunque pezzi strutturali di noi.

Quanto mi sono arrabbiata per Oliva. Quanto mi sarebbe piaciuto materializzarmi a casa sua con una macchina del tempo. Ma mi è anche venuto da pensare che l’epoca che avrei potuto offrirle era sì relativamente migliore rispetto alla sua, ma di certo non ancora perfetta. Vero, si progredisce per gradini incrementali – e il nostro oggi, per Oliva, sarebbe stato fonte di stupore e di fantascientifica meraviglia -, ma quanta sofferenza è passata sotto traccia? Quanti destini deformati senza rimedio sono stati dimenticati? Quante vittime delle “circostanze” sono rimaste silenziosamente sepolte? Quante possibilità negate e compromessi ignobili?

Come parecchie lettrici e lettori, ho fatto amicizia con Viola Ardone grazie al Treno dei bambini e sono stata felice – al netto del legittimo furore suscitatomi dal popolo di Martorana – di ritrovarla qui.
Oliva Denaro è un romanzo che personifica un problema antico
. Ardone lo fa aprendoci le porte di una casa povera e onesta, una casa con un campicello e qualche gallina. Si raccolgono lumache da vendere al mercato, si ricamano corredi, si va a scuola ma senza esagerare – soprattutto le femmine. Le femmine con delle idee finiscono zitelle… e poi chi le mantiene? Siamo in Sicilia, sono gli anni Sessanta, il paese è così piccolo da occupare tutto l’orizzonte del possibile. Sembra un paradosso, ma ci sta. I mondi chiusi fanno quell’effetto: le regole sono queste, non si scappa perché si sa così poco di quel che c’è “fuori” che non si saprebbe dove andare, come comportarsi, dove mettere i piedi. È un posto che impedisce di concepire un’alternativa e, di madre in figlia, ci si tramanda una subordinazione strutturale. Padrone di quattro mattonelle di casa, dominatrici indiscusse delle proprie cucine (se va bene), officianti di rosari velenosi, le donne di Martorana si vessano a vicenda perché sono abituate a farsi carico anche delle colpe non loro.
Ci sono delle regole.
C’è un prezzo da pagare per la pace della famiglia, per la rispettabilità.
Dal padre di una svergognata non si vanno a comprare le lumache. E dire “no” quando non navighi nell’oro è da ingrate e da presuntuose. Modeste e prudenti, silenziose e al di sopra di ogni sospetto.
Se c’è chi si prende certe libertà è perché sei stata troppo disinvolta.
Se c’è chi si approfitta di te non c’è da sorprendersene: l’uomo è cacciatore, ha delle esigenze. Sta a te non provocare, sta a te preservare l’unico bene prezioso che hai.
Nessuno si prende una brocca rotta… tranne chi l’ha rotta, forse. E in quel caso bisogna pure ringraziare.

Oliva cresce in un mondo in cui il matrimonio riparatore è un istituto legislativo ammissibilissimo, un artificio asimmetrico che permette a tutti di salvare la faccia e alle ragazze “rovinate” di raggiungere l’unico scopo plausibile per una giovane: passare dalla casa governata dal padre alla casa governata da un marito. Come si fa ad avere sedici anni in un contesto simile? Si cresce nello spazio di una notte, senza averlo chiesto.
Ardone ci trasporta con immediatezza nell’universo interiore di Oliva. È una voce che ruzzola con candore dall’infanzia a un’adolescenza costellata di trappole potenzialmente irreparabili. Con uno sguardo semplice e testardo, questo romanzo è una sorta di risarcimento per le molte Oliva che ci hanno precedute, innumerevoli donne triturate o cancellate da una cultura sfavorevole che è stata la nostra e che, per certi versi, non ha cessato di esserlo. È un libro di un’immediatezza cristallina, privo di retorica – per quanto a tratti comprensibilmente didascalico -, toccante e combattivo. Non ci sono intenti consolatori, perché per tante è troppo tardi e tante non hanno nemmeno avuto gli strumenti per percepire un’ingiustizia di fondo. C’è la volontà, però, di dare un senso al male subito, di mostrarci uno spiraglio di sacrosanta rivalsa: una che ha avuto la forza di tentare… anzi, di sopportare le conseguenze di una scelta controcorrente. Un altro romanzo in cui il grigio dell’umano, delle cattive intenzioni portate a compimento e delle belle speranze disattese si fanno narrazione, perché i modelli che ci tramandiamo non contribuiscano a restringere gli orizzonti ma ci avvicinino costantemente a un futuro che potremo valutare come “migliore” di quello di Oliva… e anche del nostro.

 

Ogni tanto saltano fuori quegli articoli coi consigli di viaggio a tema, con le stanze d’albergo ispirate ai grandi capolavori della letteratura o con la mappetta delle residenze-museo di scrittori e scrittrici che ogni bibliofilo degno di rispetto dovrebbe visitare. Ecco, in queste occasioni non posso fare a meno di pensare a Shirley Jackson. Un po’ perché, oltre a scrivere, Jackson mandava avanti il tran tran domestico praticamente da sola – con numerosi figli irruenti in un’epoca che non ancora poteva fregiarsi di Dyson superpotenti e infallibili sgrassatori universali – e un po’ perché tanta della sua abbondante produzione letteraria fa dello spazio domestico il teatro ombroso di un abisso strisciante. Le case di Shirley Jackson sono edificate sulla promessa di una minaccia costante e spesso inafferrabile: sono posti in cui ci si illude di essere al sicuro, labirinti relazionali che nascondono il terrore di un “fuori” dal quale difendersi, ambienti di conflitto mentale e personificazioni di un’instabilità individuale in bilico tra pazzia e rituali rassicuranti.

Insomma, il focolare domestico di Shirley Jackson somiglia più al falò di un sabba in grado di evocare incubi, diffidenze che intaccano la trama stessa del reale e, in questo specifico caso, un’apocalisse conclamata.
“La meridiana” potrebbe essere il degno gradino preparatorio per Hill House – la residenza stregata per eccellenza, nella vasta fantasmagonia di Jackson – ma ha anche i tratti di una partita di Cluedo disputata da giocatori svagatissimi e inclini agli esperimenti divinatori, per quanto amatoriali.

Il palcoscenico della vicenda è questo villone inaccessibile ai cittadini “comuni”, abitato dai superstiti della famiglia Halloran e da un manipolo di scrocconi che fungono da dame e damerini di compagnia – sono lì pure loro, ma nessuno pare davvero ricordarsi quale dovrebbe essere la funzione che svolgono, sempre che ci sia. La villa, con i rispettivi terreni e giardini di rappresentanza e un impenetrabile muro perimetrale, è stata progettata da un estroso patriarca a testimonianza imperitura della posizione raggiunta, per fungere da ipotetica isola felice per una stirpe di eletti rivelatasi poi scarsamente all’altezza delle aspettative. Attorno alla villa orbita una cittadina come tante – per quanto dotata di una ex scena del crimine trasformatasi in attrazione turistica -, che gli Halloran osservano con condiscendenza e che onorano di tanto in tanto ordinando provviste all’emporio locale, mantenendo però il doveroso distacco che immaginano debba ammantare una classe superiore.

Che succede? Succede che zia Fanny, figlia del costruttore della villa e relegata dalla “vera” padrona di casa – la tirannica moglie del fratello – al ruolo ancillare di vecchia bisbetica, riceve una visione mistica: il mondo sta per finire, me l’ha detto mio padre! Mi è apparso mentre vagavo nel labirinto! Nessuno si salverà, soltanto noi! Dobbiamo restare qui dentro, solo in casa nostra saremo al sicuro!
Stranamente, tutti sembrano prendere sul serio zia Fanny – un evento che già di per sé ha dell’eccezionale, dato il poco peso che le viene di solito attribuito. La prendono sul serio perché, forse, il suo vaticinio pare confermare in maniera finalmente “ufficiale” – cosa può esserci di più importante di una profezia? – il destino di prescelti che gli Halloran si attribuiscono sin dalla costruzione di quella casa eccessiva e surreale. Solo noi verremo risparmiati, perché solo noi siamo speciali e meritevoli. Ci faremo carico del reset della civiltà e da noi dipenderà la nascita di un mondo nuovo! ANDIAMO BENE.

Il libro, di fatto, copre con diabolica ironia ed esplorazioni di interiorità minate da vanaglorie e fissazioni l’arco temporale che separa la famiglia dall’arrivo di questo ipotetico armageddon. Non occorre precisare che non c’è un solo abitante di casa Halloran che non scaraventerei in una fossa colma di furetti mannari, ma nel loro insopportabile snobismo e nella loro insensibilità patologica – tratto caratteriale che non esitano a scatenare anche nei più basilari rapporti di convivenza, con esiti spesso esilaranti e godibilissimi per chi legge – si intravede un interrogativo tragico, che poi ci accomuna tutti quanti: che diamine ci facciamo qui? Perché siamo vivi? Che cosa mai ci si aspetta da noi? Possiamo ambire alla felicità?

Gli Halloran accolgono la prospettiva dell’apocalisse quasi come un diversivo, un avvincente passatempo, un grande evento che finalmente donerà loro la prospettiva dell’attesa: anche noi ora abbiamo un traguardo da raggiungere, una promessa (per quanto potenzialmente orrenda per il resto degli abitanti del pianeta) di rilevanza e futuro. Non si agitano più di tanto perché vivono già in un dramma conclamato fatto di tangibilissima inutilità e mancanza di scopo. Nemmeno l’apocalisse farà la differenza, perché l’insoddisfazione meschina che provano nell’oggi – tra screzi futili e nessun vero interlocutore che possa farli sentire realizzati nella loro presunta superiorità – è la maledizione che si trascineranno in qualsiasi altra emanazione del mondo.

Il futuro apparterrà davvero a questo manipolo di personaggi spregevoli, opportunisti e sprezzanti, che fondamentalmente si sono inventati di essere più “su” degli altri per risparmiarsi la fatica di un confronto vero con una realtà che indubbiamente li smentirebbe? Shirley Jackson – che nell’edizione Adelphi trova magnifico specchio nella traduzione di Silvia Pareschi – ci lascia liberi di immaginarlo, avendo già ben tessuto la sua trappola. Che può esserci di peggio del continuare ad abitare nella villa degli Halloran, potendo contare solo sulla compagnia di altri Halloran, con i loro dispetti e le loro manie? Lasciatemi fuori, buttatemi oltre il muro – sempre che si possa davvero scappare: la vera apocalisse è un’eternità insieme a voi. Insomma, in uno splendido ribaltamento di prospettiva – che somiglia di più a una restituzione d’equilibrio all’ordine delle cose – non sono gli Halloran che si arroccano in una villa per sfuggire alla “gente”, ma la “gente” che ha trovato il modo di confinarli là dove possono nuocere il meno possibile – e auspicabilmente estinguersi, una buona volta. Shirley Jackson, signore e signori: regina del karma a lento rilascio e della più sublime cattiveria dialogica. Tiè!

 

Mentre l’umidità ci assedia, la pioggia battente ci flagella e cerchiamo di venire a patti con l’oscurità incombente – giuro, mai capirò che cosa diamine dovremmo farcene di un’ora in più di luce fioca al mattino quando potremmo beneficiare di pomeriggi più lunghi E INVECE NO TRASFORMEREMO LE VOSTRE GIORNATE IN UNA TOMBA UMIDA DI BUIO ALLE 15.23 SCUSATE PATISCO MOLTISSIMO IL MESE DI NOVEMBRE -, dicevamo, mentre il panorama attorno a noi si fa desolante e la speranza ci abbandona a poco a poco, Stefania Bertola appare per restituirci un po’ di gaiezza.
Sono persuasa da tempo immemore del valore quasi balsamico dei romanzi di Stefania Bertola. Non parlerò di “intrattenimento intelligente” – anche se è vero -, perché poi pare sempre che si debba creare una gerarchia antropologico-meritoria dell’umano impulso al divertimento e all’alleggerimento del cuore, ma è innegabile che la sana leggerezza di cui la nostra autrice è ormai portabandiera autorevolissima sia anche foderata della migliore arguzia e di un occhio acuto per il dettaglio minuto e quotidiano che molto contribuisce a fotografarci come un agglomerato collettivo di fissazioni, nevrosi e tran tran relazionali, dalle mura di casa allo scaffale dei preparati in scatola per far finta di aver prodotto una pizza regolamentare.

Con Le cure della casa (Einaudi), Bertola ci presenta una nuova schiera di protagoniste variamente alla ricerca di una casellina dignitosa da occupare nel mondo.
Lilli veleggia verso i cinquanta, la sua lunga carriera in azienda si è conclusa – AKA l’hanno congedata senza troppe remore – ed è naufragato anche l’improbabile progetto imprenditoriale che aveva deciso di avviare con un’amica – il business delle borsette fatte di cerniere non si è rivelato eccessivamente redditizio… chi l’avrebbe mai detto. Con una figlia migrata a Venezia per l’università, una colf dimissionaria che finalmente è riuscita a farsi assegnare l’ambito incarico di portinaia e una rendita immobiliare cortesemente piovutale tra le mani grazie alla dipartita di una zia ricca, Lilli si appresta ad affrontare un capitolo del tutto inedito della sua vita: farà la casalinga. Nonostante il biasimo della madre – femminista militante della prima ora -, le perplessità del marito e attitudini non proprio spiccatissime, Lilli si arma di Cif, panno in microfibra e tessera punti di Acqua & Sapone per far sfolgorare le superfici che la circondano e provare a riprendere il controllo dell’unico universo che può dire di padroneggiare davvero: il suo appartamento.
Dagli effetti devastanti di Pinterest alle virtù del purè Pfanni, Lilli farà del suo meglio per aderire al mito dell’impeccabile donna di casa, scoprendosi all’improvviso padrona del suo tempo e anche assai più avventurosa del previsto. Perché nella sua vita c’è stata almeno una casalinga perfetta che le piacerebbe prendere a modello, un’amica d’infanzia che già in tenerissima età pareva fregiarsi di virtù muliebri che Lilli ammirava come si ammirano le qualità altrui che mai saremo in grado di replicare. Ripensando a Noemi, che da decenni si è volatilizzata dalla sua vita – così come dalle vite di chiunque altro l’abbia conosciuta -, Lilli si mette in testa di ritrovarla, innescando una reazione a catena di incontri improbabili, misteri, menzogne e colpi di testa.

Le cure della casa è un delizioso plurilocale che contiene almeno tre ambienti: la storia di una donna che si confronta volontariamente con una scelta identitaria diventata impopolare tra le sue simili, un’indagine che mira a stanare una persona scomparsa, un manuale di economia domestica.
Che c’è di male nel voler fare le casalinghe?
Dove diamine è finita Noemi e perché nessuno l’ha mai più sentita?
Di quanti ammorbidenti ha davvero bisogno l’umanità?
Quello che Lilli cerca di fare, nello sgangherato percorso tracciato da questo libro spassoso e pungente, è abitare la zona disordinata della scelta individuale, concedendosi la libertà del tentativo e dell’esperimento. Lilli trasloca in quel margine di dubbio che spesso non ci concediamo di sviscerare e, facendoci divertire mentre spedisce mail ampollose al servizio clienti della Barilla o compila un quaderno pieno di indicazioni pratiche – per quanto approssimative – per sua figlia Iris, credo cerchi di dirci una cosa importante: nessuno è autorizzato a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non so neanche come si accende un ferro da stiro, non possiedo argenteria da lucidare e mi auguro vivamente che le fughe delle mie piastrelle trovino il modo di detergersi da sole, ma Lilli ci offre  un paradosso eloquente: anche decidere di trasformarsi nel prototipo di una donna “obsoleta” è una forma di libertà che presuppone una possibilità di scelta. Ed è proprio per ampliare quella possibilità di decidere – senza mai darla per scontata, perché scontata non è ancora – che vale la pena continuare a intestardirsi.
Lilli mi ha convinta a imbracciare secchio e mocio a tempo pieno? Zero. Ma sarò pronta a sostenerla strenuamente nella sua lotta impari contro gli aspirabriciole che NON ASPIRANO.

Vorrei esordire con una personalissima constatazione: Paolo Cognetti mi infonde serenità.  Non c’è romanzo o cronaca del suo filone “d’alta quota” – da Le otto montagneSenza mai arrivare in cima – che non mi abbia avvolta in questa specie di sacco a pelo imbottito di calma, orizzonti sgombri e moti essenziali dell’animo. In un presente dove ogni minimo dettaglio si trasforma in un labirinto ipertrofico di cavillosità, incombenze invasive ed erosione inesorabile del tempo, Cognetti sfronda e ci offre uno spiraglio alternativo di mondo, senza però provare a venderci il sogno della vita semplice e della natura che salva. Nemmeno i suoi personaggi vagano per boschi e vette con l’adamantina certezza di sapercisi stabilire e di trovare fra le frasche tutte le risposte ai loro dilemmi, ed è proprio questa ricerca a renderli preziosi: si concedono lo spazio per pensarci, sono disposti a deviare dalla rotta che conoscono per mettersi alla prova in un ritmo nuovo. Tendiamo ad attribuire una valenza estremamente positiva all’imposizione della nostra volontà sul mondo che ci circonda, ma quanto possiamo dire di controllare davvero il nostro angolino di realtà? Che cosa succede quando ci spostiamo in un ambiente non addomesticato, in un posto dove la natura prevale ancora sulle nostre incursioni? Che cosa rimane di quell’ambizione di controllo, quando il paesaggio muta radicalmente di stagione in stagione e ci comunica la nostra sostanziale irrilevanza?

La felicità del lupo è un tentativo corale di riposizionamento e ricerca. Fausto, a quarant’anni, si separa dalla moglie e decide di tornare a schiarirsi le idee a Fontana Fredda, il paesino di montagna che conosce fin da bambino. Il fatto che il suo matrimonio si disgreghi senza particolari scenate o clamori è di certo il segnale eloquente di una fiammella ormai estinta da tempo, ma non semplifica le cose. Perché Fausto in montagna scappava già da un pezzo e Veronica non manca di rinfacciargli una frattura di fondo, che forse è sempre dipesa più da lui che da loro:

Ci pensi mai agli altri, mentre fai la tua decrescita felice?

A Fontana Fredda, una manciata di case attorno a una pista da sci, ci sono signore novantenni che raccolgono le erbe selvatiche nei campi, case da affittare a sparuti turisti, aste comunali per assegnare cataste imponenti di legname, “local” che si conoscono tutti e un unico ristorante aperto da una ex-ragazza di città che in montagna doveva rimanere poco ma che poi s’è lasciata convincere dall’amore. Babette offre a Fausto un lavoro in cucina per la stagione e Fausto, che ha più buona volontà che alternative a disposizione, si lascia reclutare volentieri. Babette smista sciatori, addetti al gatto delle nevi e manovratori di seggiovie mentre Fausto prepara da mangiare e Silvia serve ai tavoli. Silvia ha finito di studiare e sta inanellando una serie di esperimenti. Nel suo personale multiverso di tentativi c’è il ristorante di Babette, c’è l’idea di passare un altro pezzo della stagione “calda” ad accudire gli alpinisti che esplorano i ghiacciai del Rosa o a raccogliere le mele. Fausto diventa una fonte di tepore che potrebbe spegnersi o accompagnarla lungo la strada, ma per scoprirlo serve un tempo fatto di gesti essenziali e istintivi, che somigliano a ogni altra manifestazione della natura. La montagna si rivelerà gentile coi suoi nuovi e vecchi abitanti? Fontana Fredda diventerà il posto in cui si trovano finalmente le risposte che cerchiamo o il campo-base per scarpinare verso le domande veramente necessarie?

Se vi è garbato Le otto montagne, qua ritroverete una versione – forse ancora più essenziale – di “quel” Cognetti. È un romanzo che culla e avvolge, nonostante ci porti in paesaggi poco clementi e lungo crinali che franano tritandoci le mani. Ci sono corpi che faticano, che guariscono, che si spostano in uno spazio selvatico come molti pensieri che cerchiamo di non far riaffiorare. Essenzialmente, è un libro che molto indaga l’idea di cura – per gli altri, per la propria solitudine, per i legami col posto che ci scegliamo, per il bosco e le vette, per la semplicità dei gesti che ci assicurano le basi della sopravvivenza, per la ricerca (individuale) di una forma più abitabile di futuro. Si finisce per somigliare al luogo in cui decidiamo di stabilirci? Forse dipende da quanto fiato abbiamo: tendiamo a usarlo per continuare a ripeterci che serve troppo coraggio per cambiare e un po’ meno per sostenere i nostri passi verso alternative nuove. Non serve scalare una montagna per andare a cercarci, ma è anche molto vero che più si sale più diventa importante non limitarsi a camminare con le gambe: per non mettere un piede in fallo, per evitare i crepacci nascosti e per non accasciarsi stremati alla prima asperità ci vogliono una testa saldissima e la disposizione ad accogliere ogni appiglio che può esserci fornito. E coltivare certi appigli, molto umani e molto adatti al nostro cuore, è un atto di semplice fede che protegge anche dall’inverno più inclemente.

Quel che sappiamo del “mondo” di Biglietto blu è essenziale (e all’apparenza semplicissimo, nel suo funzionamento): alla prima mestruazione, tutte le ragazze vengono accompagnate in un edificio governativo per l’assegnazione del biglietto che determinerà il loro futuro. Biglietto bianco: avranno una famiglia e dei figli. Biglietto blu: lavoreranno, non saranno obbligate a stringere legami duraturi e dovranno obbedire all’imperativo di non riprodursi. Dopo l’estrazione, le biglietto-bianco saranno caricate su un’auto che le accompagnerà al loro nuovo nido, mentre le biglietto-blu, tempestivamente dotate di spirale, dovranno cavarsela da sole per raggiungere “la città”, abbandonando su due piedi la famiglia d’origine e affrontando un viaggio assai poco rassicurante. Hai fame? Nessun problema, cattura un bel coniglio selvatico e scuoiatelo a mani nude. Hai freddo? Peggio per te. Ti si sono sfondate le scarpe? Rubale a qualche altra ragazzina che vaga sulla statale.
Il biglietto si può cambiare? No, il “sistema” decide, provvede, traccia la rotta e, soprattutto, non sbaglia. Non ci si appella all’assegnazione del biglietto così come non si mettono in discussione le grandi certezze della natura: il sole sorge e tramonta, le biglietto-bianco accudiranno i loro figli e le biglietto-blu saranno produttive, indipendenti e “libere”. Le biglietto-bianco non frequentano le biglietto-blu e nessuna sa più di quello che le occorre sapere. A ogni donna è assegnato un dottore che, a cadenza serrata, si prenderà cura della sua mente e del suo corpo. I dottori sono figure ibride, un po’ psicanalisti, un po’ medici generalisti e un po’ funzionari pubblici, controllori e guardiani. Ti misuro la pressione e mi assicuro che anche questa settimana non ti siano venute le piattole, ti parlo e ti ricordo immancabilmente qual è il tuo posto e che cosa ci si aspetta da te, ti racconto che il sistema ti conosce e che il biglietto che hai è proprio quello che asseconda la tua indole più profonda. Ma fila sempre tutto liscio? Ogni donna obbedisce e si allinea al ruolo che le toccato in sorte? Dipende. Questo romanzo esiste perché esiste una ribelle. 

In tutta sincerità, ero in apprensione per la tenuta di questo libro. Nel recente passato, sono spuntati parecchi romanzi che hanno cercato di esplorare i margini di manovra delle femmine all’interno di società e contesti più o meno normati, mondi alternativi che portano all’estremo i germi non sempre benevoli del presente che abitiamo per provare a farci intravedere un fosco orizzonte incombente – o per farci più che motivatamente incazzare. Alcuni libri hanno assegnato alle donne poteri in grado di sovvertire lo status quo – penso a Ragazze elettriche, tanto per citarne uno molto fortunato e credo pure piuttosto riuscito – mentre altri sono partiti da premesse “croccanti” (e forse anche un po’ furbette) per risolversi poi in pasticci che poco aggiungono alla consapevolezza collettiva o si trasformano, più semplicemente, in occasioni sprecate. Insomma, un Racconto dell’ancella non può materializzarsi in libreria tutti i giorni, ma quel che possiamo augurarci è di imbatterci, di tanto in tanto, in un romanzo che non si sfilacci sotto al peso di una premessa forse troppo ambiziosa, per quanto significativa e stimolante. Ecco, Sophie Mackintosh non ci tradisce. Ci tratta un po’ come i medici di Biglietto blu – uscito nei Supercoralli Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti – trattano le loro pazienti: ci fornisce l’impianto basilare del mondo e lascia che sia Calla, la biglietto-blu che ci farà da portabandiera, a tratteggiare per noi il paesaggio interiore delle non-allineate. È il tocco di un’accorta stratega, ma è anche molto efficace, “vivo”. Un po’ funziona perché l’isolamento di Calla rispecchia i compartimenti stagni che separano forzosamente le detentrici dei due tipi di biglietto, ma anche perché l’imperativo a cui Calla finirà per rispondere è intimo, slegato dalle circostanze e dalle lecite possibilità che le spettano e, soprattutto, nasce da una presa di coscienza che demolisce i limiti per esplorare il cuore vero della questione: la possibilità di scegliere.

Siamo forse più abituate a lottare per il riconoscimento del nostro sacrosanto diritto a non diventare madri. Mackintosh assegna alla sua protagonista un imperativo diametralmente opposto: in una società che non prevede per le biglietto-blu la possibilità di fare figli (e che con ogni mezzo cerca di convincere le biglietto-blu che quella sia la strada più adatta a loro), Calla cerca di tenere a bada un grumo inammissibile di desiderio, finendo poi per accettare questo “sentimento oscuro” e passare consapevolmente all’azione, preparandosi ad affrontare le poco rosee conseguenze della sua scelta. Lottare per diventare madri o per non diventare madri? In realtà, stiamo parlando della stessa cosa. La gravidanza clandestina di Calla sfonda i confini del lecito per abbattere una barriera che intrappola sia le biglietto-blu che le biglietto-bianco: non ci sarà libero arbitrio per nessuna, finché un sistema senza volto (e forse anche governato da caso) continuerà a stabilire il destino biologico delle sue pedine. Lo status riproduttivo dell’una o dell’altra categoria è solo il tassello iniziale di un’estensione capillare del controllo: nel mondo di Calla viene accettato come fatto inconfutabile che lavoro e cura della famiglia non possano coesistere, che una vivace attività sessuale non possa accompagnarsi alla gestione del focolare domestico, che l’ambizione all’indipendenza economica non possa riguardare anche le madri. Da ambo le parti, le donne vengono catechizzate sistematicamente e strumentalmente. Guarda come sei fortunata, puoi uscire la sera, scopare con chi ti pare, fare carriera e coltivare la tua individualità. Guarda come sei fortunata, puoi coccolare un bebè e vivere in una bella casa, sei al sicuro, là fuori ci si affanna ma tu non devi preoccuparti di nulla. Calla avanza, giorno dopo giorno, con la convinzione di essere difettosa, di non aver meritato il biglietto-bianco, di essere carente su qualche fronte decisivo. Le viene ripetuto che non dipende da lei, che quello che le è stato assegnato è esattamente quello che merita e che le si addice di più, perché il sistema le conosce tutte e sa che cosa è meglio per ciascuna. Non è tutto più semplice, alla fin fine, quando qualcuno traccia già il sentiero per noi? Perché affannarsi tra decisioni, scelte e cantonate inevitabili, quando possiamo riconoscerci nel ruolo che ci è stato assegnato e risparmiarci un sacco di fatiche e di sofferenze? Calla si renderà presto conto, però, che per quanto un carceriere possa apparirci benevolo, sempre un carceriere resta.

Per non rovinarvi avvenimenti e colpi di scena non mi addentrerò nel viaggio di Calla – ormai smascherata da una pancia prominente, verrà magnanimamente invitata a lasciare il contesto civile di cui non può più dirsi parte – ma quel che mi sento di dire è che sì, regge fino alla fine. Anzi, il finale è un bel treno che vi investirà. Giuro, sono dilaniata.
Mackintosh è asciutta, diretta, essenziale. Calla esordisce con reticenza, perché molto del suo cuore è abituata a nascondere per poter continuare a esistere “libera”, ma quello che si concede di provare cresce gradualmente col venire meno delle impalcature che da sempre la ingabbiano. È un romanzo che rifugge ogni approccio impositivo all’identità, che rivendica un territorio dove sentirci alleate, dove poterci evolvere e riconoscere. È un romanzo che parla di corpo, di strutture di controllo e di indipendenza – che non deriva semplicemente dal poter esercitare un individualismo “produttivo”, ma dalla possibilità di costruire uno spazio di scelta che non dipenda da legittimazioni esterne o dall’imposizione di un modello. È un libro, anche, che demolisce l’illusione confortante di una deresponsabilizzazione sistematica: vogliamo prenderci cura di te, vogliamo toglierti un peso, ti vogliamo semplificare la vita… ecco perché decidiamo per te. Tu non ne sei capace, è chiaro, ma siamo pronti a farci carico anche di questo tuo limite. Ci sta a cuore il tuo bene, davvero, compenseremo noi le imperfezioni che ti impediscono di affrontare l’universo in autonomia. Ma cosa stiamo al mondo a fare, se non per tentare con le nostre migliori forze di far combaciare la realtà esterna con la realtà che ci portiamo dentro? Cosa ci resta, se non veniamo manco ritenute in grado di sapere chi siamo o di scoprire, col tempo, che cosa desideriamo davvero? Un biglietto colorato, forse. Assegnato per caso.

Claudia e Francesco condividono un legame antico. Un po’ dipende dalla fascinazione di lui e un po’ dalle circostanze: la madre di Francesco e il padre di Claudia sono amanti. Quando, ancora ragazzini, si trovano a dover imparare a convivere con questa realtà parallela – che sgretola famiglie “ufficiali” ma spalanca uno spazio di sentimento libero, nonostante tutto – diventano un punto di riferimento l’una per l’altro. In comune hanno più di quanto si potrebbe sospettare e, negli anni, nemmeno la distanza li separerà, perché quello che davvero li fonde è l’essere perennemente spostati rispetto al contesto a cui appartengono.
I ritmi del distacco sono diversi. Claudia sceglie di andarsene dalla Puglia appena può, prima per studiare a Milano e poi per lavorare all’estero. Francesco resta, ma la sua vita “reale” è nel contatto assiduo che mantiene con Claudia, in quello che capita a lei molto lontano – amori compresi. Quel che si dicono, le poesie che si leggono, la musica che si scambiano sono da sempre una rete di salvataggio e il muro di cinta del loro universo privato. Ma per quanto potranno continuare a sorreggersi “da lontano”?

Spatriati di Mario Desiati è un romanzo che si allontana dalla narrazione di relazioni “lineari” e dall’utilizzo dei luoghi come cornici neutre o mero sfondo. Claudia e Francesco abitano un limbo fluido che si apre a un’idea di famiglia come spazio interiore, di ricerca di identità e di sperimentazione sessuale. Racconta anche di una generazione che osa immaginare l’altrove e che colleziona sconfitte, facendo della possibilità di mutare la sua unica vera arma. Si va alla deriva e si accetta quest’estraneità strutturale, senza mai smettere di cercare. Quel che salva, quel che fa “casa” è chi ci vede per quel che siamo e che nel tempo ci ha permesso di scoprirlo.

Per buttarla in metafora astronomica, Claudia e Francesco sono una specie di sistema binario che funziona con una gravità tutta sua, accogliendo nella sua orbita erratica parecchie meteore – più o meno destinate alla permanenza. In realtà, però, quel che davvero si cerca è una stella polare – che ritroviamo sempre anche se cambiamo latitudine. E c’è chi nella sua latitudine non si amalgama mai, ma ha avuto l’occhio lungo di scegliersi una stella polare molto brillante.

Qua ci sono io che arrivo in ritardo di un anno buono sulla vittoria dello Strega Giovani e ancora più in ritardo rispetto al tempo di reazione canonico che si riserva alle novità, ma pazienza. L’importante è arrivare. Che potenza, Tutto chiede salvezza. Mencarelli regala ossa e un passo più lungo alla sua poesia e, qui, compone il diario di una permanenza in un posto dove non si approda mai per volontà e consapevolezza, un luogo di mezzo che può rappresentare un momento di passaggio o un buco in cui si sprofonda in via definitiva.

A vent’anni, nell’estate del 1994 – quella dei primi mondiali che pure io mi ricordo bene – Daniele viene sottoposto a TSO per un episodio di furore violento. Demolisce casa, fa venire un mezzo coccolone a suo padre e riacquista lucidità solo in ospedale, nel reparto “dei matti”. La prima cosa che si ricorda è il suo vicino di letto – uno che parla con la Madonna e basta, ripetendo sempre la medesima formula – che cerca di dargli fuoco ai capelli.
Questo libro è il diario quotidiano della settimana che Daniele trascorrerà rinchiuso con altri cinque pazienti che, come lui, hanno smesso ad un certo punto della loro vita di “funzionare” correttamente – almeno in base agli standard di normalità in cui tendiamo a classificarci e in base al grado di sofferenza “privata” che siamo capaci di sopportare prima di sfaldarci.
Tutti quelli in grado di sostenere una conversazione vivono il TSO con un misto di sconfitta e di sollievo, come una bolla in cui potersi rapportare agli unici che capiscono davvero – gli altri “matti” – e staccarsi da una realtà che periodicamente li destabilizza, li rifiuta, li ferisce. Il mondo vero è dove si vuole stare, ma il mondo vero è anche capace di scatenare quello che vorrebbero tenere sepolto. Gran parte dello star male, si raccontano i compagni di stanza, è convivere con il timore che la pazzia torni, senza più riuscire a scacciarla.

Daniele è già stato in cura e ha sperimentato una nutrita sfilza di farmaci, ma continua a non digerire l’indifferenza con cui il mondo distribuisce sofferenza, assurdità arbitrarie, accidenti e disastri. È come se gli mancasse la pelle, quel minimo di scorza che rende sopportabile l’immagine del futuro. Vorrebbe proteggere chi ama, vorrebbe trovare un angolo di pace dove rifugiarsi quando riaffiora il pensiero che sforzarsi è inutile, perché tutto è destinato a sbriciolarsi e a svanire. Come si può gestire il presente se non vediamo altro che la polvere che resterà di noi?

Nella settimana di TSO, conosceremo con Daniele medici, approcci terapeutici, porte chiuse, padri che imboccano e pettinano figli catatonici, infermieri spavaldi e spaventati. Impareremo a orientarci insieme a lui in un reparto dove non c’è nulla da fare, a parte provare a star tranquilli in attesa della seduta giornaliera con lo psichiatra, che ben di rado si rivela risolutiva. Sarà un’incursione in un microcosmo inconcepibile anche a chi ci si ritrova ricoverato, perché nessuno ha chiesto davvero di starci, così come nessuno ha chiesto di star male o di rimanere congelato all’improvviso con lo sguardo fisso nel vuoto.
È un posto dove si cercano le motivazioni di una sofferenza che spesso non ha nome, che si palesa acquisendo la forma di quello che distruggiamo quando si impadronisce di noi. È un posto dove si lotta per continuare ad essere percepiti come persone e dove la scienza prova a ricomporre il caos, facendosi spesso scudo con una scorza ispida di cinismo difensivo.

Insomma, è un libro magnifico.
Mencarelli riesce a raccontare delle enormità con la grazia che nasce da una consapevolezza e da un rispetto profondi. Credo venga da lì anche la scelta linguistica di far parlare le persone come davvero parlano le persone – con le loro sfumature geografiche e gergali, senza ripulire i dialoghi uniformando ogni voce a un italiano asettico “da libro”. In un reparto dove si finisce perché si perdono i punti di riferimento, mi è parso opportuno, corretto e “giusto” lasciare a chi ci transita la possibilità di farsi sentire per quel che è. C’è chi perde anche la voce e, se è rimasta, Mencarelli sceglie di restituircela così com’è.

Per provare a tirare le fila, è un libro magnifico, ma è anche un libro che fa paura, perché quello che si intravede incessantemente è la porosità del confine. Non si scegliere se stare dentro o fuori. Non dipende dalla volontà, dall’impegno o da quanto pensiamo di essere in credito col mondo, perché anche noi – con intensità diverse – cerchiamo ogni giorno di venire a patti con la grande paura definitiva di Daniele: il terrore che, in fondo, nulla di tutto questo abbia senso. Che quell’angolo in cui siamo salvi, al sicuro, sia solo una delle tante storie che ci raccontiamo.

Dunque, sono sempre molto avvinta dai libri che usano la struttura come un elemento “strategico” che contribuisce a costruire la narrazione. In Tre piani di Eshkol Nevo, il gioco di prestigio si esplicita su diversi livelli. La base “architettonica” è una palazzina di tre piani in un quartiere residenziale di Tel Aviv. Il romanzo dedica una sezione a ogni piano, addentrandosi nelle vite, nei tormenti e nelle ripartenze di chi abita lì.

La suddivisione materiale del palazzo diventa anche la base per una metafora ulteriore: ogni piano rappresenta una componente freudiana della personalità e mette in scena, con le storie delle famiglie che occupano quei piani, l’idea di Es, Io e Super-io.
I piani, proprio come accade tra vicini di casa in un contesto non particolarmente vasto, presentano punti di frattura e di permeabilità: le persone si incontrano, si sfiorano ed esercitano un’influenza più o meno marcata sulle esistenze degli altri condomini, così come gli “scomparti” della nostra personalità non esistono nel vuoto, ma contribuiscono a un “chi siamo” complessivo.

Serve una laurea in psicologia per approcciarsi a questo romanzo? Direi di no. Anzi, la suddivisione dei piani scandisce il ritmo delle storie, che restano umanissime, vive e complesse, senza il rischio di farci scivolare nel pippone indigeribile. Nevo ha un indiscutibile talento per il dettaglio rivelatore e per la narrazione del quotidiano – tanti minuscoli accidenti dell’ordinario, tanti sfondoni istintivi e tradimenti silenziosi diventano, insieme a quanto di positivo possiamo ricavare dalla vicinanza, un ritratto formidabile di come ci relazioniamo con gli altri e di come proteggiamo noi stessi dal male e dal disastro, non sempre vincendo.

Nota di fruizione: ho ascoltato Tre piani su Storytel. L’audiolibro affida ogni piano a un lettore diverso – come mi pare anche appropriato, dato che tre sono le diverse prospettive e i tre mondi in cui Nevo ci trascina. La scelta del terzetto è quantomai felice: Adriano Giannini, Alba Rohrwacher e Margherita Buy.
Se vi va di ascoltarlo, rammento sempre che a questo link c’è un mese di prova gratuita per collaudare Storytel.

Sulle coppie felici si scrivono meno libri? È probabile. Il conflitto è molto più avvincente e ricco da raccontare rispetto al sereno decorrere delle cose. La felicità (sia coniugale che intesa come raggiungimento di un equilibrio personale) è il traguardo che non necessita di ulteriori precisazioni. “E vissero tutti felici e contenti”, che altro mai ti serve sapere? I libri sui matrimoni che si sfasciano, invece, sono una schiera foltissima, varia e riottosa. Barbara Frandino, con questo breve romanzo spigoloso, ci offre un altro spaccato di disastro e caparbi tentativi di raddrizzare una situazione che forse ha ormai superato il salvabile. Il nucleo apparente del contendere – non vi spoilero nulla che non si trovi già nelle prime pagine – è il marito che, oltre a cornificare la moglie, finisce per fare un figlio con l’amante.

Ma questo “niente, sai… è successo che ho fatto un figlio con un’altra”, si innesta su un’irrequietezza coniugale che ha radici profonde. Finiamo per domandarci dov’è che inizia davvero la catastrofe, perché due persone che stanno insieme da vent’anni si ritrovano a una distanza così fredda e siderale. Vale la pena di riprovarci? Avremo la forza e la volontà di rimettere insieme i cocci? Perché rimetterli insieme, poi? La risposta scoppia in faccia a entrambi mentre il marito è in cima a una scala per curare un albero, in giardino, e all’improvviso rovina a terra privo di sensi. La reazione della moglie diventa il segreto indigeribile che segnerà – più o meno consapevolmente – il corse delle schermaglie e dei tentativi futuri di rattoppare le cose, così come si cerca di rattoppare un cuore malandato.

Quanto siamo equipaggiati ad affrontare l’indesiderato? Quanto siamo disposti ad ammettere la fine di quello che ci sostiene e ci ha sostenuto per tanto tempo? Ha più peso la felicità che ricordiamo o il vuoto che viviamo nel presente? Senza fronzoli o svolazzi, Frandino esplora il pantano coniugale (e la maternità, mancata o compiuta), fa squagliare caffettiere e scompagina costantemente le carte, mostrandoci che è dalle apparenti minuzie che in realtà si prepara il campo di battaglia per l’indifferenza più bellicosa.