Dunque, se avete in mente la Yasmina Reza taglientissima, spietata e sarcastica di Felici i felici, per esempio, conviene ricalibrare le aspettative – e anche lasciarle la possibilità di portarci da un’altra parte. In tribunale, molto spesso. O in mezzo a ricordi popolati di persone che non ci sono più. La vita normale – in libreria per Adelphi con la traduzione di Davide Tortorella – è una collezione di impressioni brevi e di quadri umani autoconclusivi, dove resta vivissima l’attitudine a scartare di lato per guadagnare un punto d’osservazione meno battuto.
Dove saremmo portati a invocare grandi punizioni, Reza dipinge quotidianità senza vie d’uscita e immagina uno spazio dove le voci che potrebbero sembrare indegne d’attenzione trovano uno spiraglio di pietà. Non so cosa si impari di “utile” dai casi di cronaca che Reza frequenta da spettatrice processuale, ma il suo laboratorio sembra voler misurare il nostro grado di umanità partendo proprio dall’ombra che ci lasciano addosso le storie di disperazione e impotenza minima. Le brave persone che sopravvivono solo nei suoi ricordi si affiancano, sulla pagina, a una cattiveria inaudita e quasi inconsapevole, alla presenza sorda dell’abitudine a contare così poco che anche quello che si fa perde peso, perde realtà, perde bussole morali o punti di riferimento ideali, condivisibili da una comunità di riferimento.
I morti “buoni” di Reza accompagnano questi zombie che siedono al banco degli imputati senza quasi capire perché sono lì. Sono persone che per noi acquistano consistenza e realtà solo in questa occasione estrema, irreparabile… ma da qualche posto arrivano, anche loro. Una storia ce l’hanno, anche loro. Noi, ora come prima, preferiremmo forse guardare altrove. Reza, però, ci obbliga finalmente a prestare attenzione.