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Ogni famiglia è infelice a modo suo, abbiamo collettivamente metabolizzato. Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde – in libreria per Neri Pozza – è la cronaca secca e precisissima dell’insoddisfazione di una specifica famiglia, di un vuoto civilissimo e agiato, di una diminuzione perenne dell’amore che finisce poi per “personificarsi” in una figlia che sceglie di farsi spettatrice, topolino che si aggira ai margini dei crucci altrui – sempre silenziosi, sempre segreti, sempre senza speranza.

Nipote e figlia di femmine scandalose, troppo vive per essere opportune, “pazze” e nemmeno troppo tacitamente disapprovate dalla brava cittadinanza, Annetta diminuisce di pagina in pagina – un po’ perché non cresce, un po’ perché quello che pensa le spetti è poco e un po’ perché sua madre non c’è mai quando dovrebbe, non la ripara dalle ingiustizie più stupide e grette, non le lascia nemmeno immaginare un paesaggio in cui correre da sola (su gambe lunghe e forti).

È un esordio insolito e molto ben eseguito, misuratissimo e pieno di crudeltà tristi. Somiglia a un pezzo di musica da camera che si ascolta bene ma da studiare è un baratro di difficoltà o a un quadro piccolissimo ma zeppo di dettagli che in mezzo centimetro di tela lasciano intravedere un “oltre” sconfinato – ma noi siamo prigionieri di quella cornice, come Annetta, come sua madre.

Un nuovo esperimento sul fronte “millennial tristi e piene di menate”? Eccoci qua con La nuova me di Halle Butler – in libreria per Neri Pozza con la traduzione di Annalisa Di Liddo.

Millie ha trent’anni e vive a Chicago. L’agenzia interinale che cerca a ripetizione di impiegarla le ha trovato un lavoro da assistente alla reception in uno showroom che coltiva con grande attenzione un’aura sofisticata. Le mansioni non sembrano troppo complicate: deve rispondere al telefono, pinzare delle brochure, tritare dei documenti e fare il possibile per attenuare la dissonanza che sembra separarla costantemente dai membri “funzionanti” di ogni contesto in cui le capita di inserirsi. C’è qualcosa che stride, sempre. Millie non sa quando tacere, non sa come vestirsi, disprezza quasi tutto (e analizza quel che le capita con un astio triste e desolato) ma vorrebbe scivolare leggera verso un futuro che sente di meritarsi ma che continua a respingerla, finendo soltanto per rendere ancora più palesi le sue mancanze.

I genitori le hanno fornito una rete di salvataggio – le pagano l’affitto e, da misura temporanea in vista di un lavoro che l’avrebbe aiutata a stare in piedi da sola, è diventata una scorciatoia strutturale. Millie un po’ se ne vergogna e un po’ si rifiuta di pensarci e ogni ufficio in cui ricomincia da capo è una nuova speranza, che si tira dietro una lunga lista di nobili aspirazioni. Mangiare meglio, lavarsi di più, tenere in ordine, arredare con gusto, fare sport, leggere, bere meno, volersi bene. Ma è dura costruire un castello splendente quando le fondamenta traballano di continuo e Millie tira avanti rabbiosa, sfidando il tedio in una polarizzazione di desideri: vorrebbe un contratto “vero”, ma chi è che vorrebbe fare per sempre un lavoro così mesto? E che senso ha tirare a lucido una casa piena di cianfrusaglie da quattro soldi?  Da un lato, Millie ha il lusso relativo di poter scegliere – e un minimo di spalle coperte – ma, dall’altro, le alternative a disposizione sono misere e di certo incompatibili con sogni di gloria e realizzazioni conclamate.

Dunque, pensavo meglio. Mi rendo conto che ci sia una forma di ripetitività che serve a infilarci nel vicolo cieco che intrappola anche Millie, a farci percepire in maniera viva l’estrema futilità di quello che le tocca (e alla sua – e mia – generazione tocca) per campare, ma per quanto lo stratagemma sia efficace risulta anche un po’ pesante. Millie è interessante perché è sgradevolissima. È sciatta, vendicativa, meschina e a suo modo vanesia, ma è anche un’architetta di illusioni e autoinganni molto potenti da leggere. La vuoi menare ma ti fa anche tenerezza, percepisci la sua difficoltà ma senti anche che è troppa per fartene carico, la percepisci come lo specchio deformante di un’attrazione del luna park che ti ha messo più ansia che divertimento – e non sai perché ci sei salita o perché Millie faccia così fatica a uscire. Millie è uno dei tanti “peggio” che ci sono capitati o che continuano a capitarci. Ci ricorda che siamo di una debolezza disarmante, ma anche che non è più necessario fallire con grazia. Anzi. Dovremmo cominciare a farlo rovinando la festa a tutti.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

Cora Seaborne entra a far parte a pieno titolo della schiera di signore rispettabili che iniziano a campare meglio all’indomani della dipartita dei loro coniugi. Lo sforzo vero, per la protagonista del Serpente dell’Essex così come per le vedove sue colleghe di fine Ottocento, consiste nel continuare proiettare per un tempo ritenuto decoroso quel dolore e quella contrizione che il lutto richiede, industriandosi però clandestinamente per trovare un nuovo scopo e un modo per impiegare al meglio la libertà fortuitamente conquistata.
Per Cora – che ha perso l’uomo rivelatosi crudelissimo che ha sposato sull’onda di una fisiologica inconsapevolezza giovanile -, questa libertà consiste nel recupero di una sua personalità più antica, “selvatica” e rozza, almeno per gli standard londinesi.
Per ritrovarsi, cambiare finalmente aria e ricominciare, Cora inizia col trasferirsi con figlio e bambinaia-confidente a Colchester, nell’Essex, con l’unica ambizione di rivoltare pietre in cerca di reperti preistorici e di infangarsi il più possibile gli scarponi.

Il punto di riferimento di Cora è Mary Anning, pioniera della paleontologia del Regno Unito (e del mondo intero) e scopritrice di fossili che hanno fatto la storia. Anning, armata di cestino, martello e scopettini, setacciò la costa di Lyme Regis – poi ribattezzata Jurassic Coast – rinvenendo scheletri di ittiosauri, plesiosauri e rettili marini.
In un’epoca in cui le scienze naturali potevano godere di diffusione accademica ma anche dell’apporto di un nutrito movimento “dilettantistico”, Anning rimase una sorta di felice eccezione in un panorama irrimediabilmente dominatissimo da studiosi maschi, ma di certo rappresentò un esempio di caparbia intraprendenza, reale autorevolezza e disinteresse per le convenzioni. Il valore del suo lavoro e delle sue scoperte furono riconosciuti – un traguardo non scontato, data l’agguerrita competizione – e i suoi reperti più significativi sono ancora esposti al British Museum.

Già, credo che il canetto di Mary Anning stia cercando di fare la cacca. Su un fossile di plesiosauro, probabilmente.

Ma rimettiamoci in carreggiata.
Che succede a Colchester e nel contiguo bacino del Blackwater? Si direbbe poco, perché son posti pittoreschi e ameni ma di certo molto diversi dal frenetico ribollire della grande città. Cora, però, riceve una provvidenziale soffiata: annegamenti sospetti, villici che perdono il senno e pecore disperse si moltiplicano… che sia tornata la bestia leggendaria che infesta il fiume? Cora decide di vestire i panni della studiosa razionale e di cominciare a indagare con oggettività sul fenomeno. Psicosi collettiva, antiche superstizioni riemerse in un momento di scalogna o autentica opportunità per rivenire un fossile vivente?
Pur con intenti diversi – placare una congregazione sempre più inquieta e riportare la serenità nel villaggio – anche il reverendo Ransome sta cercando di far luce sul caso del presunto mostro del fiume. La sua traiettoria e quella di Cora sono destinate a incrociarsi e a generare ripercussioni insospettabilmente vaste, tra status quo turbati e massimi sistemi che precipitano, condensandosi, nel rapporto tra due persone che sperano di scovare un litorale clemente su cui approdare.

Se amate i romanzi storici – con tanto di scambi epistolari -, il moto inesorabile delle maree e le narrazioni che nelle tribolazioni minute provano a mettere in scena i grandi dilemmi – dal conflitto tra fede e ragione a quello tra classi sociali, dalla rettitudine del buon padre di famiglia agli albori delle rivendicazioni di indipendenza delle donne, dalla superstizione al senso di colpa, dalla purezza dell’anima che lotta per non farsi “contaminare” dalle pulsioni del corpo -, Il serpente dell’Essex è un bel posto dove sguazzare: scrittura ricca (e ben tradotta da Chiara Brovelli per Neri Pozza), ricostruzione accurata e colpi di scena gestiti con elegante aplomb, per quanto i drammi e le inquietudini non manchino. Che siate più inclini a soccombere a mistiche atmosfere minacciose o a tifare per “poligoni” affettivi variamente ingarbugliati, è di certo un bel congegno romanzesco. Ma ci sarà davvero, questo serpente? Tutto dipende dalla rete che vi andrà di gettare in acqua…


Segnalazioni televisivo-cinematografiche

Dal romanzo di Sarah Perry è stata recentissimamente tratta una serie TV con Tom Hiddleston – SCARSA FANDOM QUI – e Claire Danes.
Ho scoperto che esiste anche un film su Mary Anning. Si chiama Ammonite e Kate Winslet interpreta la nostra indefessa paleontologa.
Ho già visto qualcosa? Figuriamoci, ma segnalo comunque volentieri. E allungo la mia lista delle cose da recuperare.

 

Paulina Bren – docente al al Vassar, aspetto assai suggestivo in questo frangente – ricostruisce in Barbizon Hotel la lunga storia di un luogo simbolo della Manhattan novecentesca. Il Barbizon, fondato nel 1927 nell’Upper East Side e definitivamente trasformato nel 2007 in un condominio di lusso, è nato e a lungo ha prosperato come albergo-residence per sole donne.
Concepito come luogo sicuro per le giovani (più o meno provinciali ma immancabilmente referenziate e benestanti) che sbarcavano a New York per studiare o lavorare, il Barbizon ha attraversato decenni di stravolgimenti socio-economici arroccandosi in una sorta di bolla ideale che si è spesso dimostrata emblematica nella descrizione di “come se la cavavano le donne” in un determinato momento storico, dall’istruzione al mondo del lavoro, dai canoni di bellezza alla sessualità.

Il libro è un meticoloso resoconto di rifacimenti strutturali e organizzazione interna, ma procede soprattutto come cronaca sociale, per quanto incipriata e a volte un po’ stucchevole nella reverenza tributata alla “fama” delle non poche illustri residenti. Al Barbizon hanno infatti mosso i primi passi personalità destinate a entrare nell’immaginario collettivo – Joan Didion, Grace Kelly, Sylvia Plath… -, ma anche una schiera di Signorine Nessuno che cercavano a New York uno spazio d’indipendenza e autoaffermazione, staccandosi da contesti più periferici in cui il matrimonio era ancora l’unica strada percorribile e decorosa per una ragazza perbene. Quindi sì, il Barbizon – con tutti i suoi annessi e connessi cittadini – come specchio aspirazionale, ma non di certo simbolo universale del destino alla portata di ogni ragazza americana. Anche in questo baratro che separa realtà e proiezioni da sogno si agita la complessità simbolica dell’albergo.

La parabola del Barbizon è indissolubilmente legata a quella del sogno americano – e di Manhattan come centro sperimentale alimentato da potere e soldi “nuovi” – e ampio spazio è dedicato al programma per tirocinanti organizzato annualmente dalla rivista Mademoiselle e che per tante studentesse del tempo rappresentava un traguardo quasi utopico, tanta era la carica di promesse che custodiva. Le tirocinanti alloggiavano ovviamente al Barbizon, che garantiva sia “rispettabilità” che il giusto grado di glamour universalmente attribuito a un magazine di moda di quel calibro. Il Barbizon, insomma, contribuiva a vendere il sogno promesso da Mademoiselle e, per molte, la rivista si è effettivamente dimostrata un vero trampolino di lancio. La vita di redazione e le scelte editoriali che si sono succedute negli anni sono, al pari dell’albergo, un’efficace chiave di lettura per inquadrare le contraddizioni onnipresenti che in ogni tempo ci hanno condizionate. Un magazine nato per rappresentare la “ragazza moderna” è stato sia specchio per l’esistente che precursore di un modo nuovo di raccontare la quotidianità delle donne, in un continuo gioco di rimandi e nuovi modelli comportamentali da inseguire o commentare in presa diretta.

Al di là degli aneddoti sulle residenti “famose”, insomma, quel che di prezioso possiamo rilevare è questa sorta di ritratto in movimento di una moltitudine di ragazze alle prese con tentativi di emancipazione – più o meno favoriti dal contesto, come sempre -, soldi, conformità a modelli comportamentali e indipendenza, dalla flapper fieramente scandalosa ed eccessiva alla “modella-operaia” che cerca di massimizzare le risorse a sua disposizione, dall’emergere di un’economia di guerra che esorta le donne a contribuire allo sforzo produttivo collettivo fino al ritorno forzato alle faccende di casa dopo la fine del conflitto – perché i posti di lavoro spettano di diritto agli uomini, ora che sono tornati dal fronte.

Tra copriletti trapuntati, un dress-code non particolarmente progressista e una caparbia e prolungata segregazione razziale – per quanto mai dichiarata apertamente -, il Barbizon è stato un microcosmo che nel bene e nel male ha sintetizzato i confini realistici di quello che alle donne era consentito immaginare in termini di identità e ambizione. E, come abbiamo già scoperto con La campana di vetro – la rivisitazione romanzata del tirocinio a Mademoiselle e della permanenza al Barbizon di Sylvia Plath – non è detto che se ne esca indenni, realizzate, integre… o che le promesse vegano mantenute.

[Hotel Barbizon si può leggere nell’edizione di Neri Pozza – con la traduzione di Maddalena Togliani – o si può ascoltare su Storytel, come ho fatto io. La lettura è di Cristina Del Sordo.
Se volete collaudare Storytel, ecco un link per usufruire di un periodo di prova gratuito di 30 giorni, invece delle canoniche due settimane.]

Dunque, sono sempre molto avvinta dai libri che usano la struttura come un elemento “strategico” che contribuisce a costruire la narrazione. In Tre piani di Eshkol Nevo, il gioco di prestigio si esplicita su diversi livelli. La base “architettonica” è una palazzina di tre piani in un quartiere residenziale di Tel Aviv. Il romanzo dedica una sezione a ogni piano, addentrandosi nelle vite, nei tormenti e nelle ripartenze di chi abita lì.

La suddivisione materiale del palazzo diventa anche la base per una metafora ulteriore: ogni piano rappresenta una componente freudiana della personalità e mette in scena, con le storie delle famiglie che occupano quei piani, l’idea di Es, Io e Super-io.
I piani, proprio come accade tra vicini di casa in un contesto non particolarmente vasto, presentano punti di frattura e di permeabilità: le persone si incontrano, si sfiorano ed esercitano un’influenza più o meno marcata sulle esistenze degli altri condomini, così come gli “scomparti” della nostra personalità non esistono nel vuoto, ma contribuiscono a un “chi siamo” complessivo.

Serve una laurea in psicologia per approcciarsi a questo romanzo? Direi di no. Anzi, la suddivisione dei piani scandisce il ritmo delle storie, che restano umanissime, vive e complesse, senza il rischio di farci scivolare nel pippone indigeribile. Nevo ha un indiscutibile talento per il dettaglio rivelatore e per la narrazione del quotidiano – tanti minuscoli accidenti dell’ordinario, tanti sfondoni istintivi e tradimenti silenziosi diventano, insieme a quanto di positivo possiamo ricavare dalla vicinanza, un ritratto formidabile di come ci relazioniamo con gli altri e di come proteggiamo noi stessi dal male e dal disastro, non sempre vincendo.

Nota di fruizione: ho ascoltato Tre piani su Storytel. L’audiolibro affida ogni piano a un lettore diverso – come mi pare anche appropriato, dato che tre sono le diverse prospettive e i tre mondi in cui Nevo ci trascina. La scelta del terzetto è quantomai felice: Adriano Giannini, Alba Rohrwacher e Margherita Buy.
Se vi va di ascoltarlo, rammento sempre che a questo link c’è un mese di prova gratuita per collaudare Storytel.