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Ma dov’ero quando La canzone del mare è stato candidato all’Oscar come miglior film d’animazione? E che cosa avevo di così importante da fare due anni fa, quando strabiliava le genti al festival di Toronto?
Nel recinto delle capre, ecco dove stavo.
Meglio tardi che mai, però. Consoliamoci così.
La buona notizia è che questo splendido lungometraggio animato arriverà al cinema alla fine di giugno anche in Italia – perché il tempismo è sempre il nostro forte – grazie al provvidenziale intervento della Bolero Film.

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La canzone del mare di Tomm Moore (quante M può ragionevolmente contenere un cognome?) è una storia di onde, conchiglie, tristezza da sconfiggere, civette, storie da tramandare e giganti pietrificati. I protagonisti sono Ben, la sua sorellina Saoirse, un cane adorabile megapeloso e una solidissima impalcatura di miti irlandesi.
Saoirse, infatti, è una selkie, una bambina magica capace di trasformarsi in foca e di liberare, grazie al suo canto miracoloso, la scintilla delle emozioni dimenticate. Ma mica è facile, perbacco. Ogni selkie ha bisogno di un mantello e di una voce… e per Saoirse le cose saranno un po’ più complicate del previsto. Ad aiutarla ci sarà Ben e, insieme, si imbarcheranno in un’avventura fiabesca, un lungo viaggio che avrà il potere di ridare vita alle leggende che sonnecchiano sotto la superficie del mondo visibile.

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Era tanto che non mi capitava di scoprire qualcosa di così bello dal punto di vista visivo e di così toccante, delicato e ben orchestrato da quello narrativo.
Sarà il folklore irlandese, saranno le fochine, sarà la musica – la colonna sonora è un misto di composizioni originali e di motivi tradizionali interpretati dalla band Kila -, sarà che ogni tanto è bello vedere che la tristezza e la paura non possono vincere, sarà che non lo so – ma ho adorato profondamente questo film. E ho pianto come una pecora sgozzata per una mezz’ora buona. Pensavo di essermi rincoglionita – sei gravida e non sei più in grado di gestire la tua emotività -, ma all’improvviso ho scoperto di essere circondata da una vasta platea di giornalisti sessantenni che singhiozzavano fortissimo. E ho capito che per il mondo c’è speranza. E che le selkie, alla fine, cantano un po’ per tutti.
Trovate il modo di vedere La canzone del mare. È una meraviglia vera.

 

 

Questa ondata di remake, adattamenti con le persone vere e rilanci in live-action delle pietre miliari della mia felicissima infanzia sta cominciando ad agitarmi. Mentre attendo con un certo terrore il trailer della Sirenetta (perché sì, stanno manomettendo pure quello) e accendo un cero in vista dell’arrivo in sala del GGG, trovo più che doveroso condividere le prime immagini del nostro (potenziale) problema più imminente: La bella e la bestia.
Disney, parliamoci chiaro. Non potrei tollerare un disastro. Ho fisicamente bisogno che questo film sia fantastico. Lo desidero ardentemente. Ho ancora l’album di figurine di quando ero piccola –  l’UNICO mai completato. Volevo il bambolotto della Bestia, quello con la testa posticcia che se gliela staccavi scoprivi che sotto c’era il principe. PARLAVO CON GLI STRACCI DELLA POLVERE DI MIA MADRE, MALEDIZIONE. La situazione è critica.
Ma vediamo quel che c’è.
Il teaser, che trovate gloriosamente qua sotto, è una specie di visita guidata del castello della Bestia (e ben poco altro). Ora, non so se si tratti di una mia reazione pavloviana alla colonna sonora o se, in effetti, il castello sia bello veramente, ma mi pare tutto al posto giusto – cardini scricchiolanti compresi. Continuo a non avere idea di come Mrs Bric potrà interagire con Emma Watson – Belle -, ma affidiamoci alla provvidenza.

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Il film uscirà il 17 marzo 2017 e, oltre ad Emma Watson – palesemente scelta perché ad Hermione Granger la biblioteca della Bestia sarebbe piaciuta un casino – il cast comprende personaggi strabilianti.
Dan Stevens sarà la Bestia – per chi non ce l’avesse presente, Dan Stevens è Matthew Crawley di Downton Abbey… diventato inspiegabilmente figo subito dopo aver abbandonato gli agi della campagna inglese -, Luke Evans sarà Gaston – Amore del Cuore è arrivato all’ultima audizione, ma è stato scartato e deve ancora riprendersi dalla cocente delusione -, Ewan McGregor sarà Lumiere – ADORO! – e Ian McKellen sarà Tockins – IPERVENTILO.
Per non farci mancare niente, ci saranno pure Emma Thompson – nel ruolo della magnifica teiera parlante – e Stanley Tucci… che interpreterà un pianoforte a coda. Nel cartone non c’era un pianoforte, ma chi sono io per protestare. Anzi, un principino presuntuoso che studia pianoforte di malavoglia ci sta perfettamente.
L’angoscia rimane grande, almeno quanto la sala da ballo del castello. Teniamoci per mano.

Sono molto contenta. Questo film poteva essere una boiata terrificantetipo Batman v Supermanma, con mio grande sollievo, è un ottimo esempio di come centosei supereroi possano litigare con dignità, rispettando i nostri affaticatissimi cervelli. E, dopo innumerevoli MAI UNA GIOIA, finalmente ci meritavamo qualcosa di tollerabile.
Ma che succede? Perché Civil War è bello?
Parliamone.
Con spoiler.
Ripeto. SPOILER.

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Dopo aver praticamente sbriciolato un’immaginaria nazione est-europea in Age of Ultron – che non mi è garbato un granché… come non è garbato neanche al povero Joss Whedon, da quel che si è capito – gli Avengers si trovano nuovamente al centro di ogni genere di polemica. Il loro ultimo intervento in Africa, infatti, si è concluso nel consueto cumulo di calcinacci sanguinolenti e bambini martoriati. Le Nazioni Unite, all’improvviso, non sembrano più disposte a tollerare un tale scempio. Questa gente con i superpoteri deve smetterla di andarsene in giro a seminare distruzione nel nome di un ipotetico bene comune! Ah, signora mia, dove andremo a finire. Perché non prendono esempio da Dragonball? Qualcuno ha forse mai visto Goku e Vegeta pestarsi a Manhattan? Comunque. Il buon Tony Stark – che vive ormai intrappolato in una perenne condizione di rimorso e scarsa fiducia nelle proprie capacità di giudizio – si schiera a favore di una specie di Trattato Internazionale per il Controllo del Supereroe Eccessivamente Disinvolto, ed esorta il resto della ciurma ad imitare il suo luminoso esempio. Purtroppo, però, il sempre opportuno Bucky riemerge dopo un paio d’anni dalle tenebre per far APPARENTEMENTE saltare in aria un’aula piena zeppa di diplomatici e membri incazzati della famiglia reale wakandiana.
Apriti Bifrost.
Captain America, ben lo sappiamo, perde completamente la brocca ogni volta che all’orizzonte balena il braccione meccanico di Bucky. Fermamente intenzionato a sventarne la cattura – NON È STATO LUI, STOLTI! I MALVAGI STANNO NUOVAMENTE MANIPOLANDO LA SUA MENTE! L’ULTIMA VOLTA M’HA TIRATO FUORI DA UN RELITTO, C’È SPERANZA CHE SI RIPIGLI, M’HA RICONOSCIUTO, GUAI A CHI LO TOCCA! -, si precipita in suo soccorso sfanculando il mondo intero e inimicandosi in modo quasi del tutto irreparabile Tony Stark, ormai ridotto allo status di povero Cristo. Cioè, Pepper sembra averlo scaricato – per fondare Goop e suggerire a tutte quante di farci l’ossigenoterapia alla vagina. E Visione guarda sempre le tettone a Wanda. Nessuno lo degna più d’un briciolo d’attenzione e nemmeno le armature sono più arroganti come una volta. Insomma, una situazione drammatica. #TeamIronMan. #TeamTomFord.
In un crescente parapiglia – assai guardabile anche nelle sequenze d’azione, che tanto schifo ci avevano fatto nell’ultima uscita degli Avengers – e in un addensarsi di sospetti e piani obliqui, emerge la figura di un abile malvagio: Niki Lauda. Daniel Brühl, non so se sia per la faccia che ha o per la sua indiscutibile capacità di risultarti in ogni modo antipatico, sembra essere condannato ad interpretare gli stronzi, i viscidi e i reietti della terra. Daniel Brühl è l’esatto opposto di Martin Freeman, che in questo film fa Everett Ross, e che riesce a risultare amabile anche interpretando personaggi che non interessano a nessuno.
MA STIAMO DIVAGANDO, MALEDIZIONE.
Niki Lauda, dimostrando uno stile, una pazienza, una perseveranza e un’abilità che l’ultimo Lex Luthor manco è capace di sognarsi, riesce nell’impresa di riportare alla luce un terrificante scheletro nell’armadio, non prima d’aver però costretto gli Avengers a sputarsi vicendevolmente in faccia.

Ecco il folle pagellino dei due schieramenti. 

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STEVE ROGERS (giunto per l’occasione al secondo limone della sua vita – o forse… fermi tutti, giunto per l’occasione AL PRIMO LIMONE DELLA SUA VITA) è riuscito a tirarsi dietro:
BUCKY, il Winter Soldier dalla mano pesante > basta dirgli “vagone merci” in russo e riuscirete a convincerlo a commettere qualsiasi genere di enormità (e a venire a fare shopping con voi al centro commerciale di Arese il sabato pomeriggio). Lo trovo estremamente figo, ma il suo ostinato mutismo mi esaspera. E, seppur io capisca – razionalmente – perché Captain America lo ami così tanto, continuo a pensare che non valga la pena sbattersi a tal punto per lui.
WANDA, la strega con le parigine di lana > ancora vittima della sindrome di Jean Grey, combina un casino ogni volta che decide di uscire di casa. Potrebbe sbriciolare il mondo, ma cioè, tipo, raga… ho problemi.
FALCON, quel tuo cugino che si diverte a pilotare i droni > perdonatemi, ma Falcon è semplicemente troppo buffo per essere preso sul serio.
OCCHIO DI FALCO(N), quello che in pensione s’annoia > sempre caparbio e immancabilmente polemico, molla figli e famiglia per azzuffarsi improvvisamente con gli unici amici che ha mai avuto. E, ancora una volta, non finisce mai le frecce.
ANT MAN, il capo dei galli > non ho mai recensito Ant Man, ma mi è piaciuto tantissimo. Credo che, a livello di “tono” e di adorabile sbruffonaggine, Paul Rudd sia un po’ il nostro nuovo Iron Man. In questo film ci sono circa due battute argute e sei cose che possono farti ridere. E le dice tutte Paul Rudd. In questo film, dal punto di vista dell’azione, c’è un’unica cosa davvero assurda e stupefacente. E la fanno fare a Paul Rudd – subito dopo averlo spedito tra i circuiti di Tony Stark a svitare bulloncini, a bordo di una freccia volante. Dopo tutto ciò, LO FANNO DIVENTARE GIGANTE, SANTO IL CIELO. È UN MOMENTO BELLISSIMO. METTETE PAUL RUDD DA TUTTE LE PARTI! FATEGLI GETTARE I CAMION ADDOSSO AI CATTIVI! Amore imperituro per Ant Man.

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TONY STARK (sempre genio, sempre miliardario e sempre filantropo, ma decisamente non più playboy… e molto più amareggiato dalla vita) combatte con:
VEDOVA NERA, la donna che cambiava idea > di solito tifo moltissimo per la Vedova Nera. Questa volta, oltre ad apprezzare il modo saggissimo in cui il suo personaggio permette alla trama di progredire, non mi è sembrata in grande spolvero. Vero, come ti mena una donna intelligente non ti mena nessuno, ma mi è sembrata un po’ fuori dal gioco. Sarà la svolta diplomatica con tanto di tailleur. Sarà la ragionevolezza. Sarà che si sforza di essere una bella persona. Sono un po’ spiazzata. Ridatele Bruce Banner – e un po’ di senso dell’umorismo -, povera ragazza.
WAR MACHINE, l’uomo sbagliato nel posto sbagliato > più soldato di Captain America, Rhodey utilizza le armature di Tony Stark come se fossero trattori. O betoniere. O camion della spazzatura. Non mi sono mai affezionata a lui, ma vederlo precipitare come un menhir da tre chilometri d’altezza mi ha fatto decisamente impressione. Gli auguro di rimettersi presto.
VISIONE, una creatura onniveggente capace di apprezzare il cashmere > Visione è l’unico nell’universo che è stato capace di sollevare il martello di Thor. Nonostante ciò, non sa preparare una zuppa. Visione che prova a cucinare e, come noialtri, si domanda quanto sia – esattamente – un pizzico di qualcosa vale molto di più di Visione che si smaterializza quando cerchi di mollargli un cartone. Visione, nonostante le apparenze faticosamente celate, sta diventando più umano dell’umanità stessa… e la sua vulnerabilità nei confronti della scollatura di Wanda ne è la prova lampante. Ricordate, amici. Le tette fanno sbagliare mira anche ai migliori. Adoro comunque, anche in modalità pesciolone lesso.
BLACK PANTHER, una speranza per le monarchie di ogni latitudine > tra i nuovi arrivati nel club dei supereroi, il re di Wakanda è sicuramente degno di una parata. È animato da motivazioni plausibili e, anche se non c’è molto tempo per farci amicizia, riesce comunque a compiere un percorso  apprezzabile. In questa prima uscita fa esattamente quello che dovrebbe fare: farti venire voglia di vedere il suo film.
SPIDERMAN, finalmente in bolla > vederlo apparire nel trailer mi aveva messo addosso un malessere senza fine. Un po’ perché non avevo alcuna intenzione di sorbirmi l’ennesimo reboot del personaggio e un po’ perché, con tanta carne al fuoco, aggiungere anche lui al minestrone mi sembrava una decisione di difficile gestione. Sbagliarsi, ogni tanto, è bellissimo. Sebbene non riesca ad accettare la data di nascita di Tom Holland – 1996, ma vi pare corretto? -, il nuovo Spiderman mi è piaciuto molto. Amore del Cuore ha accolto la nuova zia May con un’entusiasmo che mai gli avevo visto sprigionare di fronte a una scena Marvel e io, mio malgrado, sono stata costretta ad ammettere che questo Spiderman merita una possibilità. Speriamo in bene.

Sono finiti?
Sono finiti.
Mamma mia, che sbattimento.

Far funzionare all’interno di una trama sensata una tale quantità di gente è un’impresa titanica. I fratelli Russo, non si sa bene come, riescono a governare la baracca con un ottimo ritmo… infilandoci un colpo di scena decisamente interessante. Bucky che trucida i genitori di Tony Stark, splendido! Cioè, orribile e terrificante – ma assolutamente ottimo dal punto di vista narrativo. In questo film c’è un cattivo “normale” che architetta in maniera straordinaria una vendetta assolutamente ordinaria – come del resto sono tutte le vendette. Insomma, ammettiamolo. È raro che il livello di esecuzione di una vendetta riesca a superare il tedio infinito di un cattivo che agisce per vendetta. Niki Lauda, però, se la cava alla grande. E le conseguenze del polverone che ha sollevato, fortunatamente per noi, non si risolveranno tanto presto.
Civil War è un film di supereroi con un intreccio degno di questo nome – che funziona senza ricorrere per forza alla consueta accozzaglia di azioni che si svolgono scriteriatamente in parallelo in vista del gigantesco BUM-BUM-SBADABENG finale. Ecco perché, forse, Civil War riesce a fare un passetto in più rispetto al resto del “genere”. Civil War è ben bilanciato, sempre motivato e sorprendentemente umano. Certo, non ci si sottrae a un’inevitabile dose di retorica e il senso dell’umorismo non è un cavallo di battaglia del film, ma Civil War è un film. Un film vero. E una delle cose che capitano in questo film, fra le tante, è che dei supereroi se la prendano in maniera virulenta gli uni con gli altri. Non ti schieri con una delle due parti perché, nel profondo del cuore, sei convinto della necessità di una costituzione sovranazionale che regoli l’operato dei supereroi, ti schieri perché questi personaggi – ormai – hanno un “vissuto” e una storia, anche per te.
Dai, questa volta è andata bene.
Rallegriamoci.
Verso le Infinity Wars e oltre!

Ci sono gli spoiler.
Anche se, in realtà, avete già visto praticamente tutto nei trailer… quindi non so bene nemmeno io perché mai dovremmo affannarci a questo modo, dato che la struttura fondamentale di questo film dovrebbe già esservi molto chiara. Francamente non so neanche perché siete venuti qui a leggere le mie perplessità ma, per correttezza e per non far arrabbiare nessuna senatrice americana, io vi avverto. Ci sono gli spoiler.

batman vs superman 1

Niente. C’è Bruce Wayne che se la prende un casino perché Superman gli sega a metà la Wayne Tower coi raggi fotonici. E poco gli frega che, pur devastando in lungo e in largo la città, Superman sia riuscito a salvare il mondo dal generale Zod e dalla sua meganave a forma di spremiagrumi dell’Alessi. Niente da fare, Bruce Wayne viene investito da una classica epifania post-traumatica e si arrabbia lo stesso. E i suoi dubbi, alla fin fine, sono legittimi. Bruce Wayne è l’esempio vivente di quanto sia difficile fare il supereroe. Ci vuole costanza, ci vuole dell’impegno. Bisogna allenarsi, fabbricarsi delle cose, imparare a menare la gente, vivere perennemente nell’angoscia che qualcuno ti scopra e spendere una barca di soldi. I cattivi ti prendono a calci in faccia, tutti hanno paura di te, non si dorme mai e c’è, in generale, un livello altissimo di sbattimento. Tutto questo sarebbe ancor più nobile se Bruce Wayne fosse un poveraccio con le calze bucate, ma perdoniamogli per un attimo la sua sfacciata ricchezza. Voglio dire, ce ne sono un casino di tizi ricchi al mondo, ma mica tutti decidono di utilizzare il proprio tempo libero per combattere per la salvezza di Gotham. C’è il golf. C’è la filantropia. C’è la lirica. E poi è orfano, maledizione. Non vedete quant’è triste?
COMUNQUE.

dawn of justice bruce wayne

Bruce Wayne è lì che vive la sua vita d’agio e tormento supereroistico autoinflitto quando, un bel giorno, arriva uno che vola e spara raggi laser dalle palle degli occhi. 
Cioè, è concorrenza sleale.
E c’è materiale per un concreto dilemma etico.
Che cos’è l’uomo. Dio esiste? Dio è fra noi? Sarà sempre dalla nostra parte? Un grande potere può darti il diritto di scegliere per tutti?
Insomma, Bruce Wayne se la prende, ma le sue preoccupazioni non sono infondate. Superman, a livello concettuale, non è facile da metabolizzare per l’essere umano (o il supereroe) medio.
E fin qui s’andava piuttosto bene. Bataffleck, pur gonfio come una zampogna, ci sta dentro. La storia, nei suoi vari pezzettini, poteva addirittura aver senso e decollare gradualmente con garbo e decoro.
Poi non so razionalmente spiegarmi com’è che succeda, ma va un po’ tutto a farsi benedire.
Perché Superman sviluppa quest’antipatia sdegnosa per Batman? Non ne ha veramente motivo. Ha già un casino di problemi per i fatti suoi, che gli frega di puntare il dito contro uno che, così a occhio, passa le giornate a menare degli scippatori derelitti? Perché si prende la briga d’acciaccargli la Batmobile e di andare addirittura a fargli brutto? Lex Luthor è visibilmente un viscido… e aver origliato un complotto ai suoi danni non dovrebbe darti il diritto di pensarne automaticamente male. Ma soprattutto, poi, prova a fargli una domanda. Atterragli sul cofano della macchina, va bene, ma chiedigli qualcosa. Fatti spiegare. Oh, Batman. Che storia è? Cosa succede? Ma è vero che ce l’hai con me? Che ci facevi in cantina da Lex Luthor? Ma non sembra assurdo anche a te che il mainframe dell’intero impero Lexcorp stia tra le cucine e la dispensa?
Zero, invece.
“La prossima volta che vedi il tuo segnale, accendi Netflix e stai a casa”.
Già gli stai sull’anima, a Batman. Non ti lamentare se dopo questa brillante incursione nei fatti suoi ti detesterà ancora di più. Gli sfondi di palazzi, gli strappi le portiere dalla macchina, lo minacci come uno di quei ciccioni prepotenti che pestano le bambine. Ma chi ti conosce, Superman. Stai nel tuo. Chi ti ha chiesto niente.

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Data la solidità delle motivazioni fondanti di questa mortale antipatia tra Batman e Superman, è stato necessario fomentarli ulteriormente. Di tanto in tanto, ad esempio, Batman viene risucchiato in sequenze oniriche che sembrano arrivare per direttissima dall’inferno delle peperonate mal digerite. Tombe materne che grondano sangue, scontri in un mondo desertico che somiglia al preoccupante incrocio tra Ant Man e Mad Max, pezzi di metaforica kryptonite che fungono goffamente da collante con quanto sta “realmente” accadendo. Visto che nemmeno gli incubi di Bruce Wayne e il fantasma di Kevin Costner che ammucchia pietre sulla cima dell’Everest possono assisterci fino in fondo, arriva pure Lex Luthor. E le nostre sventure si moltiplicano.
Lex Luthor, per me, è un mistero.

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Il che cosa gliene freghi davvero a lui di tutta la faccenda resta per me un enigma, al pari della recitazione fastidiosissima di Jesse Eisemberg e ai boccoli biondi uguali uguali a quelli che avevo io per la cresima. Che vuoi davvero, Lex Luthor? Che cosa te ne viene in tasca? Il tuo scopo è solo farti un giro nell’astronave di Zod? Superman ti sta semplicemente sui coglioni? Che tipo di scienziato sei, esattamente? Perché parli, gesticoli e saltelli in giro come un cocainomane a un corso d’improvvisazione teatrale? Come puoi affidare il destino delle tue macchinazioni a un timer per le uova sode? Ma, soprattutto, che razza di piano è “facciamo provare Batman e se non ce la vede dentro liberiamo un antico abominio di Krypton”?
Ma che diamine.
Ma perché.
E poi che facciamo?
In che modo questo scenario potrebbe mai giovarti, Lex Luthor?
Non mi pare che Doomsday ti dia un granché retta. O pensi forse di essere Natasha Romanoff?

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I problemi si affastellano, le preoccupazioni abbondano, le motivazioni latitano, i monumenti esplodono, i Lawrence Fishburne strillano, il populismo dilaga, gli Alfred bevono e le Lois Lane irritano. Fatto sta che Batman e Superman cominciano a prendersi a frigoriferi in faccia dopo un’eternità di tempo. Ma manco quello è riuscito a darmi un po’ di sollievo.
Nonostante Superman ami tantissimo la sua mamma e Batman sia incazzato nero – al punto da prendere ripetutamente a picconate la ruota di un trattore, soffiando come un cinghiale e sbatacchiando pesi giganteschi sul nudo cemento -, il loro scontro mi è sembrato del tutto privo di significato. Perché sappiamo perfettamente – anche senza aver visto il trailer -, che nella pancia di un rottame kryptoniano c’è un orrore indicibile che va pian piano maturando e che, per forza di cose, i due eroi dovranno affrontarlo insieme per il bene dell’umanità – e anche un po’ per presentarci quella gnocca atomica di Wonder Woman e far partire tutto il baraccone della Justice League. Lo spettatore sa che Doomsday sta arrivando. Come può dunque godersi col giusto abbandono una lotta all’ultimo sangue, se sa benissimo che non sarà una lotta all’ultimo sangue ma soltanto un momento puramente interlocutorio in cui due omoni giganteschi si gonfiano di legnate perché nessuno dei due è in grado di gestire un malinteso?
Lex Luthor, sei un babbo. Ci hai rovinato tutto il divertimento.

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Il combattimento (che, per la cronaca, Bataffleck vince alla grande nonostante abbia deciso di bardarsi come uno scaldabagno dell’Alto Medioevo) si interrompe con un pretesto che dovrebbe risultare profondo (e farci apprezzare tutte le benedette volte in cui Zach Snyder ha deciso di ricordarci che a Bruce Wayne hanno ammazzato i genitori… COME SE POTESSIMO SCORDARCELO) ma che, in realtà, fa abbastanza ridere. La mia mamma viva si chiama come la tua mamma morta! Potevo dirtelo subito e ci saremmo risparmiati un casino di seccature… ma non ci ho pensato, va bene? Le nostre mamme hanno un nome veramente meraviglioso. Fantastico. Siamo a posto, no? A posto. Perfetto. Andiamo a mangiarci un gelato.
Ma che diavolo vorrebbe dire? M’ammorbi per un’ora e mezza, tenti strenuamente di costruire dell’odio tra due perfetti estranei che nulla al mondo avrebbero da rimproverarsi e, quando finalmente ti sembra d’avercela fatta, la chiudi così? Ma che siamo, dei bambini?
E lasciatemi dire un’altra cosa. Cari Batman e Superman, scegliere il nome della propria mamma come safeword è veramente una roba poco garbata. Vergognatevi.

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Insomma, questo film mi è sembrato un gran casino. Sono felicissima di aver fatto finalmente la conoscenza di Wonder Woman – che trovo incantevole e che vorrei vedere in azione in maniera un po’ più sensata quanto prima – e posso capire perfettamente che Batman v Superman serva da trampolino di lancio per operazioni ancor più grandiose, ma trovo incredibile che qualcuno possa aver pensato che una battuta tipo “Siamo nel bagno degli uomini, cara Lois. Ma lei ha due coglioni così, quindi è la benvenuta” potesse risultare tollerabile. Nessuno ci restituirà più i tre secondi di vita che abbiamo sprecato ad ascoltare quest’assurdità. E nessuno riuscirà mai a farmi capire che cosa volessero veramente fare TUTTI i personaggi di Batman v Superman. E, così a spanne, temo che anche il povero Ben Affleck ne sia perfettamente conscio.

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Ci sono gli spoiler.
Fate voi.
Qua ce ne laveremo elegantemente le mani. Anzi, i moncherini.

deadpool

Pessimo Deadpool!

Detesto le mere storie di vendetta. Che vi devo dire, sono fatta così. Cominciano, finiscono e ti lasciano lì. Mi rendo conto che Wade Wilson abbia tutte le ragioni per avercela su moltissimo con Francis, sadico sbruffone (per nulla brutto), ma c’è comunque un vasto mondo che il nostro “eroe”, nella sua sacrosanta furia, finisce per ignorare. Certo, anche la solita solfa del mondo che sta per finire è un gran fracassamento di balle, ma una simile trama ha comunque il pregio di alzare la posta in gioco. Cielo, il destino dell’umanità! Insomma, Vanessa ci sta assai simpatica, ma mica è la mia fidanzata. Che farebbe Deadpool di fronte alla potenziale distruzione dell’universo? Per ora non ci è dato saperlo, anche se scoprirlo non sarebbe male. Dormirebbe, credo. O si gratterebbe il culo. Ma poco importa. È una questione di principio. Non se ne può più della gente che si vendica e basta. Rendiamo sterminati questi orizzonti. Anzi, sterminiamo questi orizzonti con la vastità delle nostre narrazioni!

Il fatto che Deadpool taccia raramente non sempre è positivo. Alcune GAGs sono riuscite a smuovere anche il mio cimiteriale senso dell’umorismo ma, per l’80% del tempo, mi sono sentita drammaticamente vecchia. C’è un limite al fascino che un insulto come SCOREGGIAMERDA può esercitare sulla mia antichissima corteccia cerebrale. E sentire quindici SCOREGGIAMERDATE al minuto non può che accrescere il mio senso di disagio. Non sarò Wittgenstein, va bene, ma non sono neanche una quindicenne piena di fiducia nel destino. E tu, scortesissimo Deadpool, non dovresti ricordarmelo con una tale spietatezza e caparbietà. E no, “avrò chiuso il gas” non è divertente… nemmeno se te lo domandi mentre cappotti una macchina. Che c’è da ridere. Che cosa. Spiegatemelo.

Ma la cosa più fastidiosa e invasiva è forse un’altra.
Deadpool, abbiamo ben compreso che il tuo film non è il solito film di supereroi. Ma credimi, puoi rilassarti. Non è necessario che ce lo ripeti ad ogni cambio di scena. Che vuoi, una pacca sulla spalla? Un posto all’ufficio marketing? Ti vogliamo bene, nostro malgrado. Non romperci l’anima continuando a puntualizzare l’ovvio. E non abusare della breccia nella quarta parete. Di tanto in tanto è piacevole, ma il film devi lasciarmelo vedere. Non ho bisogno dei sottotitoli. Ma neanche se ti guardassi in lingua originale – cosa che, per mia sfortuna, non è stato possibile fare.

deadpool different movie

I cattivi, che scoramento. Va bene, la versione britannica – e atletica – di Mengele dovrebbe inquietarci assai, ma il fatto che dichiari apertamente di non provare alcun genere di emozione è una brutta faccenda. Sai già che la scelta tra vivere e morire finirà per non tangerlo un granché… e come fai ad interessarti a un personaggio del tutto indifferente alla sua permanenza al mondo? Se non frega a te, Francis, figurati quanto frega a noi.
La manzona manesca che mastica i fiammiferi è praticamente un cartonato. Un cartonato 3D. Un modellino. Un’infrastruttura. Ha suscitato in me un vaghissimo fremito quando ho scoperto che è stata la fidanzata di Henry Superman Cavill, ma capirai. Era meglio se sfoderava anche la seconda mammella e scappava con Colosso. E buonanotte al secchio.
Insomma, cattivi approssimativi. Che ci sta, quando il protagonista è un chiacchierone megalomane immortale, ma è una roba che mette sempre un po’ di tristezza. Mi piacciono le lotte ad armi pari. O almeno un po’ difficili. Fatecelo penare, questo lieto fine. Anche ai quindicenni farebbe bene. Gli sbattimenti formano il carattere.

Ottimo Deadpool!

Sono positivamente impressionata dalla vivacità sessuale dei protagonisti di questo film. E anche dall’allegra e sconclusionata verosimiglianza della loro storia d’amore. Credo fermamente che i supereroi debbano accoppiarsi con disinvoltura e serenità, invece che ammazzarci di chiacchiere e fare bruscamente ritorno ad Asgard. O tediarci con problemi che non esistono ancor prima di andare a convivere – vedi Natasha Romanoff e Bruce Banner – o piangere come vitelli ogni venti minuti – vedi Spiderman e Gwen… “Cielo, non posso metterti in pericolo! Ti amo troppo per stare con te!”. L’approccio Deadpool è molto più sano: mi caccio in questo grosso guaio perché non posso vivere senza di te, Vanessa. Qualcuno ti minaccia? Che problema c’è. Sbudellerò i malvagi dal primo all’ultimo.
Cioè, c’è di che commuoversi.

Altrettanto corroborante è il furore assolutamente legittimo sprigionato dal buon Wade. Le cose vanno male? Ho tutto il diritto di incazzarmi come una locusta e inveire contro i santi. Siamo naturalmente portati ad aspettarci il peggio da Deadpool e, in una situazione simile, ogni azione sensata e “retta” diventa ancora più preziosa. Il fatto che, ogni volta, Deadpool decida se essere una persona spregevole o pestare a gratis un pizzaiolo stalker – agendo, di fatto, nel nome della giustizia più cruda – è molto interessante. E di certo aggiunge una sfumatura meravigliosa a un personaggio che sembra piacerci per i motivi sbagliati. Non deve piacerci perché manda a cagare tutti, trasforma la gente in kebab e si fa le seghe coccolando pupazzi a forma di unicorno. Deadpool dovrebbe piacerci perché ha deciso di essere libero. Tutto il resto è una conseguenza di questa scelta, nel bene e nel malissimo.

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Colosso e Testata Mutante Negasonica sono adorabili. Così come gli altri comprimari. Dalla vecchia cieca che monta a caso i mobili dell’Ikea al barista un po’ codardo, ho amato molto i personaggi secondari. Non finiscono per essere delle complete macchiette e, nel loro piccolo, hanno comunque una storia da raccontare. Chissà che fine ha fatto il tassista indiano, poveraccio. Sono un po’ in pena per lui.

Lo sfondamento della quarta parete ha anche dei vantaggi. Perché Deadpool può permettersi di vedere le cose come le vediamo noi. Il che, spesso, produce momenti di ottima autoironia – vedi le battute su Lanterna Verde, sulla bella faccia di Ryan Reynolds e sulla sparuta presenza del vasto contingente degli X-Men nel film – e spunti comici in grado di far ridere pure me. Un’altra conseguenza positiva della quarta parete fatta con la carta da forno è la flessibilità super divertente del racconto. Deadpool “manovra” gli SLOMO, i flashback, il ritmo e la sequenza di quello che stiamo vedendo, trovando il tempo di fare e dire quel che gli pare anche nei momenti più improbabili – tipo mandare cuorini a Vanessa… con un coltello piantato nel cranio e la morte che incombe. Il fatto che un “eroe” condivida i nostri stessi riferimenti pop – insultando generosamente i Limp Bizkit -, poi, non fa che aumentare il potenziale surreale di quello che stiamo vedendo. E non so cosa piace a voii, ma è molto raro che la roba surreale si riveli noiosa, banale e poco interessante.
Quindi. Quarta parete con Deadpool che mi ammorba facendosi i complimenti da solo: male! Quarta parete con Deadpool che invoca un atterraggio da supereroe: bene!

Insomma… cazzata o figata?
L’adolescente che è in me sta cucendo un costume da Deadpool. La rispettabile signora che avete di fronte, invece, conserva un certo scetticismo… pur amando fortissimo l’unicorno dei titoli di coda.

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Visto che mi agito in presenza di vasti assembramenti di persone e che, come ben sapete, sono molto disorganizzata – almeno per quanto riguarda la mia vita privata -, sono riuscita a vedere Star Wars soltanto domenica. CENT’ANNI DOPO L’USCITA! UNA VITA, È PASSATA. UNA VITA! Che vi devo dire. M’invitano alle anteprime dei film, ma è tutta roba super concettuale con proiezioni stampa alle undici e trenta della mattina. Registi dell’ex-DDR. Dialoghi in assiro. Orfani scalzi. Malati terminali. Flebo, lacrime, minoranze etniche e dialetti dimenticati. Quando esce Star Wars, invece, non c’è un’anima che si ricordi di me.
Ma non è finita.
Perché al cinema ci sono pure andata da sola. Amore del Cuore ha un sacco di straordinarie qualità, ma non c’è modo di fargli tollerare i cavalieri Jedi e C3PO. Di base, anzi, sopporta con rassegnazione i miei entusiasmi cinematografici. Mi accompagna e s’addormenta. O m’accompagna e polemizza. In questo specifico caso, poi, si è rifiutato di assistere al discutibile spettacolo di una persona adulta che si commuove sui titoli di testa di Star Wars. Perché mi sono commossa, va bene? Mi sono venuti i lucciconi. Anzi, si è sicuramente trattato di un bruscolino nell’occhio. Chi siete voi per giudicarmi? Andate a coltivare il riso su Tatooine!

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Comunque.
Tutto quello che dirò avrà ben poco senso, perché mi è bastato vedere lo spadone laser a croce nel primo trailer di Star Wars per decidere che questo film mi sarebbe piaciuto. Il Millennium Falcon che torna a volare… come una grossa pizza arrugginita! Han Solo e le sue rughe! Quell’assurdo robot a forma di palla medica che, non si sa come, riesce pure a fare i gradini! La colonna sonora! La principessa Leia con una nuova pettinatura! La Ribellione!
…gente, ma che altro volete? Date retta a Zerocalcare e non rompete l’anima.
In parecchi, in questi giorni, si sono lamentati a gran voce delle palesi analogie tra Il risveglio della strabenedetta forza Una nuova speranza. Se questo film fosse stato completamente diverso – tipo le tre sonore bestemmie cinematografiche che ci siamo sorbiti nel 1999, nel 2002 e pure nel 2005 -, invece, vi sareste incazzati da matti perché gli eroi della vostra infanzia erano stati mortalmente oltraggiati da J.J. Abrams, sgherro della Disney e mercenario asservito alle industrie di gadget. Va bene, l’uva di Yoda è parsa un tantino eccessiva pure a me, ma se facciamo un bel respiro tutti quanti insieme sono certa che riusciremo a superare anche questo ostacolo, abbandonando il banco della frutta con la coscienza linda e splendente.

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Quello che voglio dire – credo – è che Il risveglio della forza è un film intelligente. Non sputa in faccia a noi che siamo cresciuti con Star Wars e accoglie in una galassia lontana lontana anche la gente che, per ragioni anagrafiche o sacrosanto e legittimo menefreghismo, a Star Wars si avvicina per la prima volta. A me, sinceramente, che si corra dietro a un droide a palla esattamente come si correva dietro a un’unità C1 (ripiena di messaggi principeschi) non causa particolari scompensi tiroidei. Che ci sia una versione bombatissima della Morte Nera – che si distrugge pure allo stesso modo -, un Jedi che non sa di essere un Jedi, un Nuovo Ordine che è come l’Impero, un burattinaio mega-cattivo che fa il Palpatine della situazione – ma più olografico e con qualche evidente complesso legato alla statura – e un pesce bargiglioso che t’illustra dov’è che devi andare a silurare, ecco, a me questa roba non fa arrabbiare. Non è un reato di lesa originalità. È solo un investimento narrativo diversificato. In questo film c’è una base profondamente rassicurante – preziosa per chi, come me, non avrebbe tollerato un’altra paccata di stronzate sui midichlorian -, ma anche tanta roba pronta a lievitare per diventare una nuova storia.
E io voglio vedere che cosa succede.
Ma un sacco.
E i personaggi al debutto? Mi garbano. Va bene, il Comandante Phasma neanche si capisce che è Gwendoline Christie e del povero Finn non potrebbe stracciarmene di meno, ma Domhnall Gleeson è un ottimo generalino nevrastenico e Rey è una ragazza per cui fare il tifo. La principessa Leia – nonostante la sua fastidiosa sicumera – non era precisamente una rincoglionita, ma era ora che dessero una spada laser in mano a una femmina che pilota astronavi, smista rottami e fracassa di bastonate i malintenzionati.
Io, comunque, amo Kylo Ren. Ne ho lette di tutti i colori, ma me ne frego alla grandissima. Ah, si toglie la maschera ed è un babbo. Ma pensa te, ha ucciso Han Solo. Come ha potuto! Come faremo senza Han Solo! Kylo Ren ha le orecchie a sventola!

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Kylo Ren, quanto è vero Yoda, è l’unico alle prese con un dilemma devastante. E ha pure un bruttissimo carattere da gestire. Che devo fare, simpatizzo con i burberi. Tifo per quelli che, di fronte a una notizia non proprio positiva, disintegrano con uno spadone laser crociforme un’intera sala di controllo dall’astronave su cui viaggiano. Ira! Tormento! Problemi! Insicurezza! Rabbia! Aspettative eccessive! Paragoni impossibili con illustri parenti! Il Lato Oscuro vuole il motorino! Kylo Ren somiglierà all’incrocio tra Zlatan Ibrahimović e Severus Snape – riuscendo comunque ad avere un suo gran bel perché –, ma è una creatura super interessante. Ed è perfettamente normale che vada in giro con una maschera complicata e spaventosa. Come è molto ragionevole che sotto la maschera ci sia uno che non sa bene dove sbattere il cranio. Ho letto una fan-theory stupenda – che giustifica le atrocità di Kylo Ren in ottica di astuto doppiogiochismo, sacrificio supremo e bene che trionfa – ma, a dirla tutta, a me Kylo Ren andrebbe bene anche come puro cattivo in-training. Una sola cosa vi chiedo: non cambiategli spada laser. Dategliene una più grossa, al massimo.
Per tutto il resto, scelgo deliberatamente di non ascoltarvi. Non ho intenzione di sorbirmi polemiche, menate complottiste e brontolamenti vari. Sono felice come un coniglietto grasso e non riuscirete a scalfire la mia gioia. Abbiamo di nuovo Star Wars e…

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<3

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Il GGG è il secondo libro che ho letto. Ho cominciato con Le streghe e, visto che mi ero trovata bene con Roald Dahl, ho deciso di fidarmi della collana. Li avevo letti al mare, nella stessa estate. Avevo sette anni e una libreria di fiducia. Ci passavamo la sera, dopo aver finito il gelato. Coi gelati non ti fanno entrare, in libreria. C’era uno scaffale basso pieno di Istrici. Io sceglievo, MADRE pagava. E tutto funzionava molto bene. Una ventina d’anni dopo, Amore del Cuore mi ha regalato la nuova edizione del GGG. Sempre un Istrice, ma con la copertina rigida. L’avevo letto in mezzo pomeriggio, mentre aspettavo che tornasse dal lavoro. Rileggerlo è stato terapeutico. Mi sono sentita super fiera della piccola me. Con tutto quello che c’era nella libreria del mare, io ero riuscita a pescare i due libri per ragazzi (e per persone grandi) più belli mai scritti. La gente non ha a disposizione un numero illimitato di ottime decisioni, nella vita. Io me ne sono giocate due a sette anni nel budello di Loano, in provincia di Savona. E non credo di averne a disposizione molte altre. Cercheremo di farcele bastare.
Ma perché mai ci troviamo qui?
Siamo qui perché la Disney ha finalmente deciso di sfornare il teaser trailer del GGG, diretto da Steven Spielberg. E il mio cuore trabocca di timori e di vaghe speranze. E pure di una certa ilarità. Che ci devo fare. Il GGG, in inglese, si chiama The BFG. E io, accidenti a me, non riesco a vederci un innocente The Big Friendly Giant. Per me è un tragico THE BIG FUCKING GIANT. Per sempre. E senza rimedio. Addio poesia, addio meraviglia dell’infanzia. E millemila applausi alla delicatezza dell’acronimo italiano. Grande Gigante Gentile. Un titolo che è riuscito a preservare la mia innocenza fino a un’età francamente eccessiva.
Ma com’è questo benedetto trailer?
Beccatevelo qua.

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Trattandosi di un teaser, non è che si capisca un granché. La piccola Sofia ha un greve accento inglese e un taglio di capelli di un’inclemenza rara. L’orfanotrofio è un orfanotrofio regolamentare. E il GGG è sufficientemente grande da suscitare un legittimo timore. Non sappiamo se le sue orecchie saranno della dimensione giusta. Non c’è traccia della sua bizzarra sintassi. Non c’è ombra di cetrionzoli. Il procedimento di soffiaggio dei sogni non è stato ancora affrontato. Non ci sono giganti selvaggi e crudeli. La regina d’Inghilterra non ci ha ancora onorato della sua presenza – con o senza corgi. Insomma, ne sappiamo come prima. Ma possiamo cominciare a crederci. È un trailer incredibilmente cauto e guardingo. Il che, forse, può farci ben sperare. Perché la cautela e la circospezione possono anche essere sintomi di estremo rispetto – per un libro meraviglioso e per noi ex-mini persone che hanno imparato ad amare la lettura grazie a questa storia. Non nutro una fede cieca e assoluta nelle capacità di Steven Spielberg. Certo, mica è il primo cretino che s’incontra dal panettiere… è che, di base, non sono il tipo. Propendo per i presagi di sventura, così poi non ci rimango male. In questo caso, però, vorrei provare a sperarci. Spero che Spielberg non si sia dimenticato di noi. E che, in qualche modo, abbia provato a immaginare tutto quello che ho immaginato io da piccola, in spiaggia, con il mio Istrice in mano e MADRE che m’inseguiva per spalmarmi la crema solare. È un libro incredibilmente conciso, per la vastità di quello che racconta. Lo schermo del cinema sarà grande abbastanza? Vedremo. Intanto, proviamo a metterci un po’ di fiducia. Metti mai che, per una volta, finirà per andarci bene.

 

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Sono sconvolta.
Ma posso provare a razionalizzare la situazione.
Ho la sventura di dover gestire un’immaginazione ipertrofica. Questa faccenda ha degli indubbi vantaggi – non ho bisogno di drogarmi (anzi, partendo da un livello altissimo di follia, ho il sacro terrore delle sostanze stupefacenti dal potenziale psicotropo), ho sempre qualcosa da dire ai brainstorming e sono bravissima a inventare menzogne davvero credibili -, ma anche dei preoccupanti effetti collaterali. Ho difficoltà ad interagire con le persone in maniera razionale, mi convinco di essere capace di comunicare verbalmente con il mio gatto, ho paura del citofono e m’interesso al movimento circolare del cestello della lavatrice. Il primo problema, però, è che mi faccio i film. Non riesco a trattenermi. Succede qualcosa di assolutamente infinitesimale? Fantastico. Il mio cervello si impossesserà del particolare più insignificante del cosmo e lo trasformerà nella Cappella Sistina. Anzi, in una riproduzione della Cappella Sistina fatta di GIF animate fluo. A forma di labirinto. In un setting subacqueo. Con meduse veggenti che giocano a rubamazzo. E le Sibille che cantano le figlie noi siam di Tritone, i nostri bei nomi li ha scelti lui. E il Papa che percuote il kraken brandendo la carcassa di uno squalo bianco.
Ormai faccio anche fatica a dormire.
Perché il problema vero è che ad ogni moto ascendente della mia immaginazione corrisponde anche un corredo di aspettative irrealistiche nei confronti della vita, degli eventi, degli esseri umani e del mio tempo libero. E potrete ben capire che l’universo faccia una certa fatica a non deludermi, quando m’è venuto in mente il Papa che picchia il kraken con uno squalo. Indossando una muta da sub di un bianco abbagliante. E bombole dell’ossigeno a forma di tabernacolo.
Sono certa che la psichiatria sia già riuscita a spiegare il fenomeno, ma non ho abbastanza soldi per andare da una persona a farmi diagnosticare della roba.
Comunque.
I film, ovviamente, rientrano nella complicata infrastruttura del mio meccanismo di aspettativa e delusione. Soprattutto se mi prendo bene dopo il primo trailer e devo aspettare un paio d’anni prima di vedere il film.
Arlo prometteva benissimo. Il meteorite ha mancato la Terra! I dinosauri non si sono mai estinti! Che diamine, è il più grande WHAT IF dell’universo. Un gigantesco WHAT IF in mano alla Pixar, poi… mica al tipo che mi porta la pizza una volta la settimana e continua a sbagliare scala.
Sono andata a vedere Arlo appena è uscito al cinema. Ero felice. Ero un tripudio di gridolini e battimani.
E sono uscita con la morte nel cuore. E con la chiara sensazione di essere un mostro senza cuore. Perché le leggo, le critiche e le recensioni della gente che capisce davvero qualcosa di cinema. E tutti ci avevano visto del buono e del bello, in questo film. Chiaro, non è che si gridasse al capolavoro in maniera unanime, ma ogni singolo articolo è riuscito a mettere in luce qualcosa di poetico, struggente e apprezzabile.
E io là, a darmi in testa una padella antiaderente.
Ma analizziamo il mio scoramento.

CI SONO GLI SPOILER.
IO VE LO DICO.
CI SONO GLI SPOILER.

Anche se, capirai, che spoiler mai saranno.

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I dinosauri sono scampati al meteorite per trasformarsi in nuclei isolati di servi della gleba – gli erbivori -, allevatori di mammiferi lobotomizzati – i carnivori di grossa taglia -, sciacalli di dubbia moralità – i carnivori di piccola taglia –  e criminali sciroccati – gli onnivori volanti. I piccoli mammiferi popolano prati e boschi conducendo una vita priva di significato. Gli umani, pur avendo afferrato l’importanza dei legami affettivi che solo una famiglia può donare, sono ancora indietrissimo. Ululano alla luna, fanno la cacca nei cespugli e, con ogni evidenza, non sono ancora approdati al decisivo stadio della fabbricazione di utensili.
E fin qua, posso anche sentirmi in pace. È il tuo mondo, Pixar. Sei tu che stabilisci le regole. Fai quello che ti pare, basta che quello che decidi di creare sia un mondo ricco, vasto e interessante.
In quanto a vastità, il mondo di Arlo è vasto.
Solo che non succede una mazza.
Ho letto praticamente ovunque che questo film andrebbe amato anche solo per la minuziosa e magnifica ricostruzione dell’ambiente naturale. L’acqua che sembra vera. Il cielo che sembra più cielo del cielo. Il cielo che si riflette nell’acqua, creando miliardi di sfumature cangianti. Le foglie iridescenti. I raggi del sole che filtrano fra le fronde. E le foglie iridescenti che precipitano nell’acqua baciata dal sole producendo altre incredibili sfumature magiche un po’ ondulate e splendenti e ipnotiche.
Però.

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Certo, è un bellissimo mondo. Ma se avevo voglia di guardare il paesaggio andavo a farmi una gita sulla Pietra Parcellara. Che dopo un po’ di temporali, acqua che scorre e vento che soffia mi sono anche già rotta i coglioni. Perdonatemi, ma non ce la faccio. Il paesaggio deve aiutare. Il paesaggio è un attore non-protagonista. Ma non venitemi a dire che devo rimanere a bocca aperta per un ruscello. Ammiro il gesto tecnico e me ne rallegro, ma continuerò a domandarmi CHE ALTRO C’È.
Comunque. Nell’impossibilità di trovare conforto nello splendore dello scenario naturalistico, ho cercato di concentrarmi sulla trama e sugli avvenimenti. Non succede una mazza, si diceva. Ed è proprio così. Mi rendo conto che questo film non sia assolutamente rivolto a me. Questo film è per teneri frugoletti di otto anni che probabilmente non hanno ancora accumulato una significativa dose di cinismo. Il fatto che io mi sia posta questa domanda – “Ma Arlo è per me?” – è già un chiaro segnale di fallimento. Ho trent’anni. E me ne frego solennemente del pubblico potenziale di quello che guardo e leggo. Il mio libro preferito è Il GGG e sono fermamente convinta che se una cosa “per bambini” è bella davvero non potrà che piacere anche a gente di centomila anni. Ci sono storie che parlano a tutti. E, di solito, sono le storie che funzionano e che sopravviveranno al tempo. Arlo è una roba che se me lo facevi vedere da piccola ti tiravo dietro i Trudi. Gli stessi che mi metterei a lanciare dal balcone adesso, se solo non fossero i miei più cari ricordi d’infanzia. Arlo, in fin dei conti, è questa roba qui:
1. Ciao, ecco il nostro protagonista. È un giovane dinosauro inetto, insicuro, antipatico, codardo e scoordinato. Arlo, in pratica, è Bella di Twilight.
2. Ciao, ecco il papà di Arlo. È il classico papà benevolo. Lo uccidiamo con un pretesto, donando ad Arlo un bel senso di colpa. Lo facciamo anche morire come Mufasa, tanto la gente guarderà quanto abbiamo fatto bene il fiume in piena e non s’accorgerà di niente.
3. Ciao, Arlo ha bisogno di crescere e di riscattarsi. Il protagonista di una storia lo fa, di solito. Cambia, si evolve. Facciamogli fare un viaggio formativo. Il tema del viaggio funziona sempre. Specialmente se innescato da una causa completamente idiota – tipo Arlo che s’inciampa, casca nel fiume e si risveglia a un triliardo di anni luce di distanza da casa sua.
4. Ciao, al protagonista serve anche un amico. L’amico deve far ridere e, possibilmente, deve aiutarlo nel suo percorso di maturazione. Ovviamente non sono mica amici, all’inizio. Anzi, è colpa del comprimario se il nostro protagonista è orfano. Che se la sbrighino loro.
5. Ciao, dobbiamo allungare la minestra. Dobbiamo far finta che i due personaggi siano complessi. Ai personaggi complessi serve tempo per risolvere i loro problemi. Facciamoli smarrire, mettiamoli in pericolo, ispiriamoli grazie ad incontri edificanti, buttiamoci un paio di gag coi criceti e qualche momento-nostalgia con delle lucciole molto coreografiche.
6. Ciao, ora sono amici per davvero. Arlo sarà cresciuto, finalmente? Mettiamolo alla prova. Prendiamo il piccolo umano e piazziamolo in un tronco cavo al limitare di una cascata. In mezzo a uno stormo di pterodattili cocainomani.
7. Ciao, l’ordine del mondo va ripristinato. Facciamo tornare tutti a casa loro.
E vi giuro, mi sono emozionata di più a scrivere questo riassunto colmo di disprezzo e delusione che a sorbirmi quasi due ore di dinosauri che galoppano per i prati. Arlo non m’è diventato più simpatico di una virgola, nonostante gli sbattimenti e le prove di grande valore spirituale che riesce a superare. La sua crescita interiore, così caparbiamente guadagnata, non è riuscita ad accrescere la mia stima nei suoi confronti. Anzi. Mi sono anche incazzata. Quando torna a casa, dopo aver mollato la sua vecchia madre con l’intero raccolto sulla groppa, gli fanno pure mettere la sua impronta sul silos di pietroni. Ma vi pare che se lo sia meritato? Che è. Pensavamo che fossi morto! Ma non sei morto! METTI LA TUA IMPRONTA. Ma perché? Andate tutti ad arare la terra col naso, brontoscemi.
Sono diventata arida e senza cuore?
Mi aspetto troppo dai film?
Non riesco più ad apprezzare la semplicità e le buone intenzioni di una fiaba senza troppe pretese?
Che cos’ho che non va.
Come posso detestare anche le increspature dell’acqua.
Ho paura.
Ma ho il sospetto che la Pixar la pensi come me.
8. Ciao, ci siamo accorti che questo film è una loffa… ma ve lo facciamo uscire due mesi dopo Inside Out. Vediamo chi avrà il coraggio di lamentarsi. Che cavolo, quest’anno ne avete già visto uno bello. Che altro volete da noi?
Vorremmo la Pixar, cortesemente. Sempre e comunque.

Buongiorno, colleghini! Anche questa mattina sono riuscita a presentarmi in ufficio! Non sono particolarmente in orario, ma sono sicura che la giornata ci riserverà soddisfazioni incalcolabili. Sarà bellissimo ed emozionante. Impareremo tante cose e diventeremo dei professionisti ancora più straordinari!
Ecco.
Quando arrivo, sono così:

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Quando me ne vado, invece, sono così:

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Cioè, c’è una bella differenza.
Nel tentativo di razionalizzare quello che succede tra Hermione super-felice-di-vivere e la gelida salma putrescente di Cedric Diggory, ho provato a schematizzare il flusso di eventi che – tipicamente – sconvolge la mia serenità durante l’orario lavorativo.
Bene?
Bene.

Il primo caffè mi mette sempre di discreto umore. Anche se fa schifo. Arzilla come un mocio intriso di vodka-lemon, apro il computer e mi preparo a leggere le trentadue mail che, non si sa perché, i personaggi più disparati hanno deciso di mandarmi nel cuore della notte. È come se i miei clienti non dormissero mai, ma non importa. Perché io, a quell’ora del mattino, sono ancora una roccia. E nulla potrà scalfirmi.

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Visto che i miei clienti sono numerosi, bellicosissimi e anche un po’ allergici alla punteggiatura, capire che cosa vogliono – IMMEDIATAMENTE – da me è sempre piuttosto impervio. Uno può anche provare a decifrare una mail, ma se è scritta in urdu c’è poco da fare.

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Molto spesso, rendendomi conto della pochezza delle mie capacità esegetiche – di fronte all’enormità delle altrui esigenze -, chiedo aiuto ai miei Account Manager… complicandomi immediatamente l’esistenza – e gettando anche loro in un mortale guazzabuglio di perplessità.

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Per non scivolare immediatamente nello spleen più devastante, decido di cominciare da quello che posso sicuramente capire: il mio calendar.

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L’idea, in linea teorica, è di apparire dove la mia presenza è richiesta (possibilmente in orario, di buon umore e piena di idee rivoluzionarie). Sembra facile, ma non è vero niente. Verso le 15, infatti, dovrò materializzarmi in tre posti contemporaneamente.

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Decido che il calendar è ROTTO e che, se proprio non si potrà fare a meno di me, qualcuno si prenderà la briga di chiamarmi con un megafono.

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A questo punto, non mi resta che afferrare la lavagna formato A3 – dove appunto la lista delle cose da fare – e dedicarmi alla richiesta più urgente. Visto che è tutto importantissimo e che ho solo due mani, procedo in ordine casuale.

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In compenso, però, i grafici hanno finito la post-produzione su un trilione di foto. E sono fichissime.

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Mentre tento di mangiare una merendina, il Cliente Y chiede imperiosamente di organizzare una CALL per ALLINEARCI sui NEXT STEPS del progetto, facendo riferimento al piano d’azione condiviso via mail il giorno prima. E tu, da brava formichina, fissi la CALL… anche se il tuo consiglio professionale sarebbe un altro: leggi la mail. È tutto scritto lì.

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Per rimettermi in pace col mondo, decido di parlare un po’ con la mia community preferita. Ho una pagina di gente felice. Qualsiasi cosa accada, loro sono contenti. Posti un ratto imbalsamato? AMORE. Posti la Pietà di Michelangelo? AMORONE. Adorano tutto, rispondono con gioia a qualsiasi CALL-TO-ACTION, non scrivono parolacce e continuano a dirmi che sono Gianni Morandi. VI AMO ANCH’IO, MALEDIZIONE. VI AMO ANCH’IO!

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Otto minuti dopo, mi ritrovo al supermercato con un pezzo di carta in mano. Devo acquistare un vasetto di senape di Digione, due etti e mezzo di mortadella, sei vaschette di lamponi, un ananas, alcuni branzini, del pepe nero in grani, un termosifone, un vaso mostarda mantovana e una quantità imponderabile di chicchi di caffè. Visto che è roba da fotografare per un cliente FOOD, tutto quello che compro deve necessariamente essere di una bellezza sconvolgente. Passo quindici minuti ad esaminare ogni singola zucchina del supermercato. E mi sembrano tutte mostruose.

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Mentre torno in agenzia – trascinando sul pavimento dodici chili di derrate alimentari e oggetti assurdi (pardon, PROPS) -, l’OFFICE MANAGER mi informa che la fattura della spesa – insieme allo SPLIT dettagliato dei costi sostenuti – dovrà arrivare sulla sua scrivania entro fine giornata, pena la decurtazione dallo stipendio.

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Mi risiedo. Perché è arrivato il momento di rispondere ai messaggi privati dei “blogger” bisognosi di cibo. “CIAO, SONO GIRELLONI ANNAMARIA. SONO MAMMA, BLOGGER E APPASIONATA DI CUCINA. HO UNA PAGINA DI RECENZIONI SU CUI PUBBLICO I PRODOTTI DELLE MARCHE CHE ME LI MANDANO. SONO TANTO SEGUITA. HO 470 FAN. PER ME SAREBBE BELLISSIMO SCRIVERE DEL VOSTRO PRODOTTO, CHE A MIO FIGLIO PIACE TANTO E ANCHE A MIO MARITO SAVERIO. ANCHE PER VOI È UNA GRANDE OCASIONE DI FARVI CONOSCERE E COMPRARE DA TUTTI I MIEI FAN. NELLA SPERANZA DI INSTAURARE CON VOI UNA PROFICUA COLLABORAZIONE, PORGO DISTINTI SALUTI. PS. PER L’INVIO DEI PRODOTTI IL MIO INDIRIZZO È GIRELLONI ANNAMARIA, VIA DELLA POMPA 34, 20879 CAPOCOLLO DI SOPRA. SE NON CI SIAMO, CITOFONARE BETTY”.

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Passa una persona a caso e mi rifila centosei cose da scrivere. Prendo forsennatamente appunti su pezzi di carta molto stropicciati, sapendo benissimo che fra un quarto d’ora avrò comunque dimenticato tutti i dettagli importanti.

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Dobbiamo correre in CONFERENCE ROOM. C’è un TRAINING!

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Molto bene, molto bene. È stato spassoso. Ho anche appreso delle SKILL preziosissime. E c’erano delle gif adorabili! …ma che ore sono? L’UNA E MEZZA? Ma come diavolo è potuto succedere! È tardi! E i dodici piani editoriali che dovevo mandare in approvazione stamattina? E i testi pazzi per la piattaforma? E la bozza di lettera per i vincitori del CONTEST? E il CHECK sui REWORK del Cliente W?

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Mentre scendo a comprare tre focaccine dal panettiere – per ridurre il grado di incertezza e aletorietà della giornata, compro sempre le stesse maledette focaccine: focaccina con zucchine, focaccina con le olive verdi e focaccina con le olive impastate -, dicevamo… mentre scendo a comprare le SANTO DIO di focaccine, telefono a mia madre, nella speranza che invada la città e annienti chi ci vuole male.

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Mentre attendo che MADRE maledica chi se lo merita, torno a sedermi alla mia coccolosissima scrivania – presidiata da un gruppo di peluche incredibilmente incoraggianti – per ingurgitare le focaccette e, FINALMENTE, leggere quattro pagine di libro senza prendere in considerazione quello che sta accadendo nella mia casella di posta. O intorno a me. O nell’universo.

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Seppur lontana, MADRE riesce effettivamente a farmi del bene. Il Cliente W ci informa che la proposta editoriale va bene e che possiamo felicemente passare alla fase di realizzazione dei VISUAL. L’intero TEAM festeggia e si commuove.

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KEYNOTE SI È CHIUSO INASPETTATAMENTE.

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La CARD non è sponsorizzabile: il testo supera il limite del 20%.

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Ragazzi! È arrivato il cliente! Mi raccomando, non facciamo figure del cazzo!

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I clienti, non si perché, cambiano personalità a seconda di dove li metti. Mentre li accompagni in sala riunioni – o in qualsiasi momento che richieda la posizione eretta -, i clienti sono simpatici e affabili. Ma appena si siedono finisce tutto.

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Quando sono in riunione con un cliente, dunque, devo impegnarmi molto. Faccio sempre del mio meglio per apparire normale, educata, innocua, saggia, composta e per nulla permalosa. Invano.

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I clienti, in presentazione, perdono anche la capacità di produrre espressioni facciali. Nel vano tentativo di decifrare il loro stato d’animo – e, di conseguenza, anche il grado di apprezzamento nei confronti del progetto su cui sudate da una settimana -, li osserverete chirurgicamente per l’intera durata del MEETING, annotandovi su un blocco robe di questo tipo: impercettibile sorriso alla slide 45 (in concomitanza con l’intervento aggiuntivo di Bruno. Bruno piace al cliente. INVITARE SEMPRE BRUNO ALLE PROSSIME RIUNIONI), naso arricciato alla slide 57 (è colpa del VISUAL? Non va bene il COPY? Non siamo stati abbastanza chiari? Qual è il colore preferito del cliente? MORIREMO TUTTI), starnuto alla slide 75 (organizzare la prossima riunione in una camera iperbarica. Il cliente è allergico alla polvere). Vi angustierete e li guarderete fisso. Ma riuscirete ad elaborare solo vaghe congetture.

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L’analisi approfondita delle reazioni del cliente vi farà perdere completamente il filo del discorso. Quando toccherà a voi presentare, dunque, il vostro Account Manager sarà costretto a sfondarvi una costola a gomitate. O a lanciarvi brutalmente nella mischia gridando una roba tipo E ORA FRANCESCA – RIPETO, FRANCESCA! – CI PARLERÀ DEL PIANO EDITORIALE. Sarà come risvegliarsi dal coma, sul fondo di una trincea.

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Sopravvissuta alla riunione, mi chiudo in uno stanzino e trascorro mezz’ora della mia vita a parlare con il Cliente Y. Cioè, il Cliente Y tace e io gli declamo – con tutte l’espressività di cui sono capace -, la famosa mail che potevano leggersi da soli.

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Sarà che il mio stile di lettura è particolarmente rassicurante, sarà che il piano d’azione minuziosamente illustrato dalla mail andava già bene, sarà che non lo so, ma il Cliente Y conclude finalmente la CALL con un pacioso “Thank you, Francesca. We can proceed”.

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Il Cliente Z, dopo un’interminabile serie di REWORK, ci manda finalmente il suo FEEDBACK sui NAMING che ci siamo inventati per il CONTEST che lanceremo in un futuro eccessivamente prossimo. Il FEEDBACK è il seguente: “Non sono in linea con il brand”.

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Il capo dice che, per il momento, non possiamo avere uno stagista.

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Per recuperare un po’ di fiducia nel karma, vado a chiacchierare un po’ con la mia seconda community preferita. Incredibile ma vero, sono presi bene – anche se è una pagina di roba da mangiare. Il cibo è sempre una gran rottura di palle. E c’è il burro. E c’è l’olio di palma. E ci sono i fan di Report che insultano qualsiasi genere d’ingrediente. E ci sono quelli con le intolleranze che postano la loro intera cartella clinica.

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La migliore, comunque, è la frangia vegana militante: giornate trascorse a bestemmiare sotto ai post di ogni singola pagina FOOD d’Italia – senza aver ancora capito che, scrivendo “SMETTETELA DI MUNGERE LE PORCO D** DI MUCCHE!”, il loro commento viene automaticamente nascosto. Per tutto il resto, tocca a me.

Ma questo, sulla mia seconda pagina preferita, non accade. Perché anche loro sono animati da un entusiasmo assolutamente incomprensibile. La più semplice delle CTA è in grado di scatenare migliaia di commenti… gente che scrive temi, in pratica. Con emoji cuoricine e dichiarazioni sperticate d’eterna fedeltà. SCRIVETE, DIAMINE! SCRIVETE! SCONFIGGIAMO GLI SBATTIMENTI CON LE PROTEINE NOBILI DELL’AMORE PURO!

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Nel frattempo, persone che non si sono prese la briga di leggere le istruzioni del gioco-aperitivo sulla pagina del Cliente Y, protestano a gran voce denunciando presunti brogli nel conteggio dei voti. Voti che, per la cronaca, io e la mia volenterosa collega abbiamo spulciato per intere mattinate, registrandoli in un infallibile foglio Excel di 5000 righe. Voti che, per la cronaca II, non comportano in alcun modo l’assegnazione di un premio. In poche parole, che ti frega. È una roba in amicizia, per divertirsi. Non v’agitate. Cosa sono queste manie di persecuzione? Perché qualsiasi cosa deve diventare un’orrida cospirazione?

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Arriva una mail. Non è per me, ma sono in copia. Visto che la mia adorata account è imbottigliata in un’altra riunione – e non si sa bene quando ne uscirà -, mi prendo la libertà di rispondere al cliente ipotizzando una soluzione al problema insormontabile che li affligge. Nonostante sia un’idea del tutto sensata, plausibile, ragionevole e realizzabile, cinque secondi dopo aver schiacciato INVIA mi viene il dubbio di aver devastato mesi e mesi di delicatissimi rapporti diplomatici.

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Mentre cerco di dissimulare la preoccupazione, il nostro Account Director mi informa che, la prossima settimana, ci arriverà un BRIEF di gara per un cliente potenzialmente divertente, carino e spassoso. Gli piacerebbe che ci lavorassi io, visto che gli sembra nelle mie corde. Tanto non sei messa malissimo, no?

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Ah, il BRIEF arriva lunedì. Ma si presenta mercoledì. Saranno tre giorni molto intensi, ma so che ce la farete. Comincia a fissare le riunioni.

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Il Cliente Y avrà anche una community adorabile, ma il “thank you Francesca, you may proceed” copre solo una parte infinitesimale delle menate che abbiamo in ballo. Dove sono i miei FEEDBACK sul restante 95% delle attività? …dopo un breve conciliabolo con la mia biondissima account – al solo scopo di stabilire chi ha inviato il sollecito l’ultima volta – scopriamo che tocca a me rompere i coglioni. “Dear Y, would you be so kind to let us know if the editorial proposal is approved? We really need to brief Lady Gaga and Jon Bon Jovi, if we wish to meet the deadline and go online as planned. Many thanks, Francesca”. E spicciatevi, santo il cielo.

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Un collega viene trasformato in un meme. L’agenzia attraversa sette minuti di travolgente euforia.

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Ci sono un sacco di messaggi privati. Ma sono tutti complimenti ed emojine sorridentine.

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Passa una persona a caso e, con una certa preoccupazione, ci domanda se conosciamo qualche piatto tipico islandese.

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Mi rendo drammaticamente conto di aver dimenticato di comprare le radici di tapioca. Niente radici di tapioca, niente SHOOTING. Visto che ho già restituito i soldi – e le diamine di fatture -, sono costretta a chiedere un nuovo anticipo in contanti per la tapioca di stocazzo. Non so nemmeno che aspetto abbia, la tapioca.

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Sono le 18.30. Dovrei procurarmi del cibo (non del cibo da fotografare. Proprio cibo da mangiare. A casa mia), fare il bucato, annaffiare le piante, coccolare il gatto e depilarmi le gambe. In sintesi, vorrei andarmene. Ma non posso.

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Ah! Sai la gara di cui ti parlavo poco fa? Ecco, è un problema se mercoledì presenti tu? L’editor ha già un altro MEETING, quel giorno lì.

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Non si sa come, ma riesco a finire il piano editoriale mensile del Cliente W. I grafici hanno consegnato tutte le CARD, ho scritto tutti i COPY, la mia efficientissima account è pronta a programmare e sponsorizzare forsennatamente ogni post dell’universo. Siamo in orario. Siamo fantastiche. Siamo le regine dell’ENGAGEMENT. Possiamo mandare in approvazione al cliente.

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BASTA SFRUTTARE LE API DIO C***!

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Persone che non sento da circa dieci anni – e che, anche dieci anni fa, non è che mi stessero granché simpatiche – mi scrivono messaggi privati su Facebook, ricordandomi i bei tempi andati e appellandosi al valore della nostra antichissima e corroborante amicizia. Dopo papiri interminabili in cui mi descrivono le loro ambizioni e i loro sogni, mi girano il loro CV (in formato europeo) – pregandomi di inoltrarlo immediatamente alle risorse umane.

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Matteo mette le Spice Girls a bomba.

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La mia colleghina è costretta a risistemare per la quattordicesima volta un piano MEDIA.

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Il Cliente Z telefona (senza prima aver fissato una CALL) per informarci che tutta l’attività pianificata per il mese di ottobre – e già approvata – va ripensata. “Ci dispiace. Abbiamo cambiato idea”.

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…anzi, no.

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E arrivederci a domani.

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Insomma, tutti quanti amiamo insensatamente qualcosa. C’è chi adora la Juventus – anche se proprio non capisco come sia possibile – e chi impazzisce per i francobolli. Ci sono fanatici dei bonsai, di Wagner o della barca a vela. Qualcuno, là fuori, adora la fisica quantistica e si diverte a far parlare i pappagalli. Io ho i dinosauri. Sono cresciuta con le enciclopedie illustrate della preistoria, in quarta elementare ho letto Jurassic Park e, l’anno scorso, ho spedito centoventi partecipazioni di matrimonio con sopra un maestoso triceratopo corazzato. Steven Spielberg, un bel giorno, ha deciso che anche a lui piacevano un casino i dinosauri. Ed è stato così carino da buttare in piedi un film che permettesse a tutti quanti di capire com’è che funziona davvero un t-rex. Per i fortunati che, da piccoli, hanno potuto ammirare la perfetta cattiveria di un dilofosauro vendicatore, il mondo si è trasformato all’improvviso in un posto dove la giustizia era possibile. Perché, se c’è un dinosauro, tutto è più bello. Jurassic Park fa parte del mio immaginario. Ed è anche un po’ la prima cosa a cui penso quando devo cercare di descrivere la bellezza dell’universo. In sintesi, sono Alan Grant… quando vede per la prima volta un brachiosauro che va a spasso per una pacifica pianura erbosa.

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Quando ho scoperto che, dopo Il mondo perduto e quella disgrazia di Jurassic Park III, la nobile industria del cinema avrebbe sfornato Jurassic World, il terrore si è impadronito del mio animo.
E se fa schifo?
E se poi è una mastodontica stronzata tonante?
E se è una di quelle orribili minestre riscaldate che s’inventano di tanto in tanto – anzi, anche troppo spesso –  perché non riescono a farsi più venire in mente niente di nuovo?
E se poi è così brutto e improbabile da farmi dimenticare quanto ho amato il romanzo e il primo film?
Insomma, non è che ci fosse tutto questo ottimismo. Ho fatto del mio meglio per ridurre al minimo le aspettative e, in memoria dei vecchi tempi, ho ordinato ad Andres Diamond – il mio DJ di fiducia è meglio del vostro – di sparare il tema di Jurassic Park ad intervalli regolari durante la nostra cena di nozze. Vagare per i tavoli con John Williams a bomba e un vestito con lo strascico è un’esperienza che auguro a tutti, uomini compresi.
Nonostante i miei sforzi, però, Jurassic World sembrava promettere bene. Chiaro, dopo aver visto il primo trailer mi sono istintivamente ribellata all’idea che un velociraptor potesse essere addestrato come un pastore tedesco dell’arma dei Carabinieri. E anche tutta la faccenda degli ibridi geneticamente modificati mi sembrava una solenne minchiata. E lo scriteriatissimo romanticismo di John Hammond? E che fine ha fatto Ian Malcolm imbottito di mofina? Per farla breve, ero preoccupata come un suricato a un raduno delle Frecce Tricolori, ma cercavo di non farmi travolgere dal nichilismo. Perché, da qualche parte, splendeva un fioco barlume di senso. Il fatto, poi, che anche Chris Pratt la pensasse come me – I DINOSAURI SONO GIÀ WOW, stronza di una Bryce Dallas-Howard -, mi ha dato modo di riflettere. Quando ho scoperto che la colonna sonora sarebbe stata curata da Michael Giacchino e che il mesosauro si nutre di squali bianchi, ho cominciato a perdere il controllo del sistema limbico e mi sono sentita in dovere di aggiornare la cover di Facebook, sfoggiando un becero screenshot del trailer.

Colin Trevorrow, riuscirai a non profanare i ricordi più belli della mia gioventù?

La grande domanda ha finalmente trovato risposta l’altro giorno. Perché non mi avrete invitata all’anteprima di Age of Ultron, ma la preistoria sa apprezzarmi e mi accetta così come sono.

https://instagram.com/p/3ui8NcldIz

Jurassic World funziona.
Jurassic World fa felici.
Jurassic World, in sintesi, è un omaggio a tutto quello che di bello ci ricordavamo
.
Mi spiace per i bimbi di oggi – che sicuramente si divertiranno per un casino di altri motivi – ma Jurassic World è per noi. E scansatevi tutti.
Questo film, per costruzione, è fondamentalmente Jurassic Park. E fin qui, niente di nuovo. Quello che fa in grande, però, è realizzare – almeno per un po’ – il super sogno di John Hammond: mettere la gente di fronte alla meraviglia. La roba interessante è quello che succede dopo, quando il sogno – che stavolta sembra funzionare senza intoppi – deve misurarsi con il mondo vero… che non si accontenta mai e che, soprattutto, ha assunto un ambizioso ufficio marketing. Il parco è assolutamente affascinante. È come vedere gli Universal Studios, coi dinosauri al posto del rollercoaster della Mummia. O come fare un giro a Seaworldsolo che la tribuna sprofonda sott’acqua e le orche sono lunghe venticinque metri. C’è la gente che fa la coda e che s’incazza quando chiudono un’attrazione. Ci sono souvenir da tutte le parti, bibite che costano quanto un collier di Bulgari, fastidiose pubblicità e pass-VIP che ti fanno saltare la fila. C’È UN DIAMINE DI RECINTO DOVE SI POSSONO CAVALCARE I TRICERATOPI NEONATI E I BAMBINI ABBRACCIANO I BRONTOSAURINI, COI GALLIMIMUS CHE SFRECCIANO FELICI DI QUA E DI LÀ. Quella scena lì è un dono del Signore. Quando ho visto il baby-triceratopo con la sella volevo cavarmi gli occhi e darli da mangiare alle aquile.
Ma diamoci un contegno.
Come in Jurassic Park, anche Jurassic World si interroga su che cosa sia giusto fare. La vita trova sempre una strada… e non si può controllare quello che ci rifiutiamo di capire e rispettare. Siamo responsabili di quello che creiamo, soprattutto se decidiamo di inventarci un dinosauro grossissimo, cattivissimo e spaventosissimo per far felici gli investitori. L’Indominius Rex – non preoccupatevi, Chris Pratt si unirà ai vostri sbeffeggi – è il primo dinosauro sociopatico della storia. E avrà il nobile compito di mandare tutto in vacca, come da tradizione. Noterete con piacere che, in questo film, le tradizioni sono importanti. Vedrete milioni e milioni di strizzate d’occhio a Jurassic Park, roba che vi farà sentire meno soli nell’universo e vi farà agitare i pugnetti per aria come ragazzini delle medie.

Bene.
Adesso attacco con gli spoiler, quindi regolatevi.
SPOILER!
Ho detto SPOILER!
Qua sotto ci sarà roba che potrebbe divertirvi, ma vi conviene tornare dopo aver visto il film.
SPOILER!
…e poi non lamentatevi.

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Finalmente.
Io le recensioni non le scrivo per fare la persona che finge di capire qualcosa di cinema, io le scrivo perché non posso accettare che Bryce Dallas-Howard faccia i cento metri sui tacchi, e devo assolutamente lamentarmene con qualcuno. Trovo molto più plausibile che l’ingegneria genetica abbia capito come riportare in vita i dinosauri, piuttosto che Bryce Dallas-Howard che corre sul ghiaietto con le DECOLTÉ per due ore e mezza, scansando pterodattili e sfuggendo alla morte.
Ma passiamo a faccende più rilevanti.
I velociraptor sono sempre stati i miei preferiti, anche quando erano “cattivi”. Jurassic World ha provato a realizzare il prodigio dei prodigi: farci andare a spasso per la città con un velociraptor da compagnia. Darei un braccio – letteralmente, forse – per avere un velociraptor da compagnia. A questo punto, non possiamo che parlare di Chris Pratt. Chris Pratt è una specie di miracolo ambulante. Le mie colleghe, quando sono tristi, fanno un giro sull’account Instagram di Claudio Marchisio, ma io – pur apprezzando Claudio Marchisio, nonostante la squadra per cui milita – sono assolutamente sconvolta da Chris Pratt. Chris Pratt, solo il cielo sa come, è stato capace di addestrare quattro velociraptor. Ci sono i velociraptor che rincorrono un maiale e lo vogliono mangiare tantissimo, ma spunta Chris Pratt e si fermano di botto. NO, CHRIS. NON DIVOREREMO QUESTO MAIALE. NOI TI APPREZZIAMO. NOI TI STIMIAMO. NOI VOGLIAMO FARTI FELICE. IL MAIALE PUÒ VIVERE, SE TI FA PIACERE. SIAMO DEGLI INTELLIGENTISSIMI VELOCIRAPTOR ASSOLUTAMENTE LETALI, MA LA TUA FELICITÀ CONTA PIÙ DELLA NOSTRA. AMACI, CHRIS. AMACI, SIAMO DINOSAURI SENSIBILI.
I velociraptor di Chris Pratt sono tre femmine e un maschio.
Le tre femmine vogliono fidanzarsi con Chris Pratt.
Il quarto vuole essere Chris Pratt – ma in fondo sappiamo che la pensa come le femmine.

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Nonostante il finale sia assolutamente telefonato – perbacco, chi mai potrà mangiare l’Indominus Rex? Forse l’unico dinosauro più grande di lui, anche se sguazza felice nel mare? CORRECTAMUNDO! Avete vinto un giretto in groppa al triceratopino! -, sono impazzita per il ritorno in scena del tirannosauro. È stato un glorioso momento-Pacific-Rim. In mezzo a tutti quei recinti super tecnologici, ai dilofosauri olografici, ai dottor Wu – identici a com’erano vent’anni fa -, al vecchio centro visitatori che riemerge dalla giungla e agli anchilosauri che giocano a cricket con i nipoti di Bryce Dallas-Howard, Trevorrow è riuscito a farci dimenticare il t-rex. Ci ha regalato un’impareggiabile apparizione della capretta, ma – nel felice rincoglionimento generale – ci siamo scordati del t-rex. Quando l’adorabile nerd nostalgico della sala controllo – SEI COME UN FRATELLO PER ME! ANZI, SEI TUTTI NOI! – ha aperto il recinto, mi è venuta voglia di piangere. Continuo a non spiegarmi come Bryce Dallas-Howard sui tacchi possa correre più veloce di un tirannosauro, ma ho deciso di credere ciecamente anche alla più assurda delle puttanate. Ho gridato forte nel secchiello vuoto dei pop-corn e mi sono schierata con i carnivori ragionevoli. Certo, il fatto che un velociraptor dia retta a Chris Pratt è già piuttosto strambo… e forse è per quello che non ho battuto ciglio di fronte a un t-rex che decide amabilmente di collaborare con un velociraptor per annientare un incubo della genetica. Che vi devo dire, prenotatemi una vacanza in Costa Rica.
Per concludere, vorrei: ringraziare Giacchino per aver preservato la magia della colonna sonora originale, assumere un elicotterista a tempo pieno per il signor Masrani – altro grande esempio di rispetto delle tradizioni: tutti i propietari del parco devono essere un po’ suonati -, complimentarmi col parrucchiere di Bryce Dallas-Howard – lo so, vi sta sull’anima… ma è un bel personaggio e ha un caschetto superbo -, piangere un po’ perché nessun velociraptor dimostra di saper aprire le porte, singhiozzare un altro po’ per il maiasauro che spira tra le forti braccia di Chris Pratt – Alan Grant e la dottoressa Sattler sarebbero riusciti a salvarlo, anche senza frugare in una pila di cacca alta due metri – e, più di ogni altra cosa, ricordarvi una grande verità. Invitare i nipotini a visitare il vostro parco dei dinosauri porta una sfiga nera e irreparabile.

Nel prossimo post, visto che vado ancora alle medie, vi racconterò che cosa succede quando una persona di trent’anni incontra un album di figurine con i dinosauri. 

The park is open!
Andate a divertirvi… finché i dimorfodonti non vi strappano il fegato!
<3

ian gallimimus