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Dunque, l’universo costruito da Scott Alexander Howard per questo libro funziona così: nel cuore di una valle c’è una cittadina lambita da un grande lago e protetta dai monti. Non si hanno notizie di altri luoghi da raggiungere o di un mondo più vasto. Tutto quello che sappiamo è che alla “nostra” valle ne corrispondono altre, copie identiche traslate di vent’anni avanti o indietro nel tempo – e via così potenzialmente all’infinito, possiamo immaginare. Se dalla nostra valle “presente” ci spostiamo a ovest torniamo indietro di 20 anni – rivisitando il passato -, se ci spostiamo a est andiamo avanti di 20 anni – trovando il futuro. I confini tra le valli sono sorvegliatissimi dalla gendarmeria e le visite tra una valle e l’altra vengono autorizzate solo in casi eccezionali da un Consiglio che ha sia il compito di amministrare la cittadina che di salvaguardare il tessuto del tempo – come ci hanno insegnato Doc e Marty McFly, infatti, incontrare una propria versione passata/futura può produrre effetti devastanti e imprevedibili, così come provare ad alterare o cambiare il corso degli eventi.

La piccola comunità valligiana è organizzata secondo un sistema che sembra scoraggiare strutturalmente la mobilità sociale o i ripensamenti in corsa. Durante le superiori gli studenti sono chiamati a scegliere una “carriera” che li accompagnerà per tutta la vita. I panettieri saranno panettieri, i gendarmi saranno per sempre gendarmi e chi manifesta tendenze “antisociali” o una fondamentale incompatibilità con un compito preciso sarà relegato a vagabondare ai margini e reso teoricamente innocuo dall’indigenza e dall’invisibilità che ne consegue. Il Consiglio è l’unico organo che può sporadicamente permettere ai “meritevoli” di ascendere, con un programma didattico specifico che promette maggiori privilegi e anche un accesso ai meccanismi meno noti del tempo. La comunità sa il minimo indispensabile a mantenere l’ordine e si nutre di folclore e di moniti che paiono più adatti a tener buoni i bambini che a gestire un gruppo sociale consapevole.

La nostra protagonista è una studentessa poco appariscente, timida e taciturna. Di amici pare non averne e sua madre – che fa l’archivista per il Consiglio perché non è riuscita a superare le selezioni per sedersi al tavolo dei potenti – la sprona pesantemente a vendicare la sua sconfitta. Forza, Odile, provaci! So che saprai fare meglio di me! Riscattaci! E Odile ci prova, candidandosi per l’ambito programma speciale che dovrebbe garantire a lei – come a sua madre – una vita più confortevole e un destino diverso da quello di formichina muta e ignara che tocca alla maggior parte degli abitanti della valle.
I sedici anni di Odile saranno decisivi, perché quel tentativo di affacciarsi al mondo – che passa per la candidatura al Consiglio ma anche con la faticosa apertura a un piccolo gruppo di compagne e compagni di classe – coinciderà anche con la comparsa di un presagio e con una tragedia che cambierà per sempre il suo tempo “personale”… e forse anche quello delle valli in cui Odile esisterà.

Allora, le regole d’ingaggio e le condizioni di contesto/mondo che vengono apparecchiate per noi in L’altra valle – in libreria per la neonata casa editrice Mercurio con la traduzione di Veronica La Peccerella – sono di estremo fascino, credo. Meccanismo temporale a parte – che è fatto sfizioso senza ombra di dubbio -, c’è l’opacità del potere, l’asimmetria che si crea quando a decidere come una “massa” dovrà vivere sono solo alcune persone che si auto-proclamano migliori, illuminate, più adatte. Ci si chiede dove stia il confine tra bene comune e volontà pura di controllo e che cosa faremmo noi, trovandoci in un posto liminale che almeno in via teorica ci permette di vedere che cosa ne sarà di noi o di correggere quello che ci sembra di aver sbagliato. Per essere un romanzo che usa il tempo come tema centrale e dilemma etico, però, non c’è una gestione brillantissima del ritmo e il punto di vista di Odile non aiuta molto a “muovere” la narrazione. In un certo senso è un aspetto totalmente funzionale a trasmettere una certa idea di inesorabilità e di rassegnazione, di penitenza e di lento macerarsi tra rimorso o occasione sfumata, ma per quanto lo si possa motivare il risultato è a tratti frenato da una certa pesantezza di fondo. Ne riemergiamo con soddisfazione grazie a un buon finale e tanti sono gli interrogativi che ci aiutano a proseguire, ma spesso ci si ritrova a esaminare Odile, le valli e i suoi abitanti come farebbe uno scienziato gigantesco, molto efficiente e scarsamente empatico con un terrario pieno di cavie. E chissà che la natura autentica del paesaggio del romanzo non sia, in fondo, proprio quella…

Filippo II di Spagna non se la passa benissimo e ancora peggiori sono le prospettive del suo segretario particolare, Antonio Pérez, scacciato dal servizio attivo e prontissimo a tramare per rientrare nelle grazie del re. L’implacabile catena alimentare che governa la nobiltà di Madrid, nel frattempo, non contribuisce di certo a rasserenare il clima e, su tutti, sembra imperversare incontrastata l’Inquisizione. Chi può dirsi al sicuro? Nemmeno l’ultima delle sguattere, ci racconterà Leigh Bardugo in questo romanzo storico-fantastico – in libreria per Mondadori con la traduzione di Roberta Verde che sta perfettamente in piedi senza prometterci seguiti, prequel o spin-off.

Luzia è a servizio in una casa piuttosto scalcagnata, per gli standard di sfarzo della nobiltà “vera”. La sua padrona è una donna incattivita da un matrimonio senza amore e dalle scarsissime speranze di ascesa sociale. Mentre gli inviti a cena si fanno sempre più sporadici e le carrozze altrui continuano a sfilarle sotto al naso, donna Valentina scopre un tesoro in cucina: Luzia è una milagrera. Sporca, all’apparenza ignorante come una ciabatta, goffa e manco troppo avvenente, la serva ha il dono della magia e potrebbe trasformarsi nello strumento perfetto per dare finalmente il via a quell’ascesa impensabile che Valentina tanto brama. I prodigi di Luzia sono estremamente “pratici” e le hanno permesso di tirare avanti fino a quel momento senza soccombere alla fatica estrema della vita a servizio – l’unica “opportunità” concessa a una bambina dalla discendenza problematica.

L’Inquisizione non vede di certo di buon occhio l’eresia, il peccato e la fornicazione ma da temere sono anche i giudei “convertiti” – hanno davvero abbracciato la grazia del battesimo o si sono adeguati per puro opportunismo, nella speranza di rovesciarci? La magia di Luzia viene dalla lunga eredità della sua storia familiare e tenerla nascosta è una questione di sopravvivenza. Ma potrebbe diventare un’arma efficace per compiacere il re e il Dio degli inquisitori? Valentina lo spera, Pérez ne ha disperatamente bisogno e Victor de Paredes – l’uomo più ricco e fortunato di Madrid – non vuole lasciarsi sfuggire l’occasione. Si offrirà di “sponsorizzare” Luzia nella competizione magica organizzata da Pérez per consegnare al re il santo paladino (o la santa paladina) che potrebbe risollevare le sorti della Spagna. Luzia collaborerà? Sarà all’altezza? Verrà smascherata dall’Inquisizione? Perché a Victor de Paredes fila tutto così liscio? Chi è lo spilungone spettrale che lo accompagna ovunque?

Bardugo si dimostra ancora una volta abilissima nella gestione di una coralità di intrighi, macchinazioni e destini. Gli elementi magici si incastrano in maniera molto fluida con i numerosi altri pezzi di contesto storico, religioso e “politico”, senza svuotare i personaggi di motivazioni individuali credibili. C’è molta carne al fuoco, ma l’economia interna della narrazione è quasi sempre ben gestita e Luzia è un personaggio per cui tifare con poche riserve. È una storia che parla di potere – declinato nelle sue innumerevoli anime: il potere magico è quello più “appariscente”, ma è l’ambizione che lega davvero ogni impresa e modifica irrimediabilmente le anime di cui si impadronisce. Luzia cerca riscatto, indipendenza, libertà, un amore che può far somigliare di più la sua vita a quella di un essere umano, senza padroni e senza paura. Il potere non è mai neutro o innocuo: perché lo si possa esercitare deve esistere qualcuno da controllare, qualcuno che perde qualcosa per permettere a noi di farci arbitri del suo destino, di amministrare anche quello che non ci appartiene. Che lo si faccia in nome della fede, di un regno o dell’avidità non lo rende meno iniquo. E per rompere le catene, certe volte, ci vuole un miracolo…

Con gli audiolibri sono più propensa a fare esperimenti? Forse sì. Ho visto OVUNQUE Divini rivali di Rebecca Ross – tradotto da Stefano Andrea Cresti per Fazi – ma mi son poi decisa ad affrontare la faccenda quando è spuntato in catalogo su Storytel – e il fatto che leggano Martina Levato e Dario Sansalone ha aiutato, credo.
Vi infarino un attimo: Iris Winnow e Roman Kitt stanno facendo l’equivalente di uno stage malpagato nella redazione di un importante giornale. Il direttore ha un solo posto “fisso” da editorialista e se lo aggiudicherà chi tra i due ambiziosi virgulti produrrà i pezzi più strabilianti. Rivalità! Furiosi ticchettii di macchine da scrivere! Schermaglie! Che tra Iris e Roman debba divampare del sentimento è il tacito accordo di base di cui siamo inevitabilmente fin troppo consapevoli – e il trope procede con ineluttabile efficienza.

Come da canone, però, è previsto che subentrino difficoltà ulteriori rispetto a quella che potrebbe ridursi a un’antipatia professionale mista a VOGLIO FARTI LE SCARPE. Iris e Roman provengono da classi sociali agli antipodi – lei pezze al culo e lui rampollo facoltoso – e c’è pure la guerra. È ancora lontana dalla capitale ed è anche avvolta da una nebulosità piuttosto irritante. Sappiamo solo che due grandi divinità di un passato quasi mitologico – ma inspiegabilmente poco storicizzato o tramandato – hanno deciso di riesumare gli antichi rancori e di mettere insieme due eserciti. L’amatissimo fratello di Iris sceglie di arruolarsi per la dea Enva, fa fagotto e innesca una reazione a catena che di fatto demolirà la famiglia. E l’informazione? Il giornale di Iris e Roman tratta la guerra come una sorta di leggenda metropolitana. Che interessi giustificano questa linea editoriale? Non si sa.

Leggeremo mai un articolo di Iris o Roman? Macché. Leggeremo, in compenso, la loro corrispondenza privata. L’aspetto del romanzo epistolare è rilevantissimo nell’economia della storia e visto che è anche l’unico vero “colpo di scena” – telefonato come poche altre cose al mondo – non mi ci soffermo, ma ci arrivate. C’è un colpo di scena anche nell’ultima pagina, ma per il resto – e per quanto mi riguarda – si naviga in un mare di tedio. Loro due DEVONO detestarsi all’inizio per tenere in piedi la baracca, ma è una di quelle contrapposizioni basate su LO ODIO PERCHÉ È TROPPO PERFETTO e te sei lì che pensi MA SE VUOI TI PRESENTO I PAGLIACCI CHE HO CONOSCIUTO IO GUARDA. Dura poco, per fortuna, ma c’è comunque una gran flemma. I contesti sono sbozzati – sia del funzionamento di un giornale che di un fronte di guerra apprendiamo il minimo indispensabile e quel minimo è stereotipato – e ogni speranza di vedere le divinità fare qualcosa di spettacolare (almeno loro, perbacco) si inabissa all’istante. È scritto male? Ma no, ma nell’insieme è un po’ come guardare una lavatrice che gira.

Da giovane l’avrei amato? Forse sì, perché c’è questo cortese romanticismo di fondo – CORTESISSIMO – che un minimo fa il suo. Anche da piccola, però, mi sarei probabilmente aspettata più vivacità, più ricchezza di “mondo” e più ritmo. Pace, ci abbiamo provato.


[Se vi va di collaudare Storytel, vi rammento che qua si può attivare la prova gratuita “estesa” – 30 giorni invece delle canoniche due settimane.]

Dunque, Iron Flame è il secondo volume della saga dell’Empireo di Rebecca Yarros. Il primo si chiama Fourth Wing e ne ho parlato qua.
Iron Flame esce in italiano per Sperling & Kupfer a fine gennaio
– con la traduzione di Marta Lanfranco e Angela Ricci -, ma io ho scelto di avviarmi lungo il Parapetto con un po’ d’anticipo e l’ho letto in inglese, anche per la curiosità di comprendere com’è che gira in originale. E niente, anche in inglese è a tratti increscioso, quindi procedete un po’ come vi pare.
Visto poi che quest’introduzione è già un mescolone insopportabile, vi informo anche che i diritti per l’adattamento televisivo son già stati venduti ad Amazon Studios e alla casa di produzione di Michael B. Jordan, che spero ci grazierà con un cameo o anche solo con una timida apparizione. Da quel che si legge in giro, Yarros sarà coinvolta nella lavorazione – Rebecca ti va bene se mettiamo qua l’armadio di Violet o lo vuoi un po’ più accostato al muro? Rebecca vieni a berti un cappuccio, dai – ma non parteciperà alla sceneggiatura. Le parti più SPICY del copione verranno stampate su una particolare carta che aumenta di volume, nel pieno rispetto dei generosi turgori di Xaden Riorson.

Altra nota: nel primo post su Fourth Wing ho evitato spoiler, ma qua lasciatemi e lasciamoci reciprocamente vivere. No, non vi dirò come finisce Iron Flame e nemmeno starò qua a riassumere i fatti salienti, ma tutto quel che c’è in Fourth Wing lo diamo per assimilato

Ora, Fourth Wing è stato il mio primo tentativo col ROMANTASY… e non avevo capito bene le regole d’ingaggio, lì per lì. Non potendomi più ammantare di rossori come una vera educanda, mi sono rapidamente adeguata, anche se devo riconoscere di non riuscire a prendere molto sul serio le focose parentesi che ci vengono di tanto in tanto inflitte. Credo dipenda da come gestisco l’imbarazzo: io sono una di quelle persone che quando è in imbarazzo si mette a ridere e con Fourth Wing ho riso piuttosto spesso. Ridere, però, mi ha anche messa di buon umore e sono arrivata in fondo sentendomi assai intrattenuta. Ci sono i draghi, c’è questo posto nuovo, c’è questo amore fin troppo travolgente, ci sono delle menate geopolitiche, c’è la tragedia, c’è l’amicizia… insomma, presa bene. Il fatto che io mi sia divertita non fa chiaramente di Fourth Wing un capolavoro e di sicuro non fa di Iron Flame un seguito che può avvalersi di basi SOLIDERRIME. C’erano magagne e ce le ritroviamo anche qui, con una spolveratina di caos e di volponerie assortite.

Uno dei problemi di Fourth Wing – quello rilevante per quel che vorrei cercare d’esprimere adesso, almeno – è la struttura approssimativa del mondo. Scrivere un mondo “vago” è astuto e funzionale, perché puoi inventarti le regole strada facendo. Se il mondo che inventi naviga in questa conveniente opacità, tante “regole” e tanti fatti possono essere estratti dal cilindro a tempo debito per far procedere la narrazione senza spiacevoli intoppi. Le relazioni diplomatiche tra umani e draghi sono una gigantesca supercazzola – NOI DRAGHI NON SIAMO TENUTI A RENDER CONTO DI NULLA A VOI GRACILI UMANI NON IMPICCIATEVI E ANCHE VOI CHE LEGGETE FATEVI GLI AFFARACCI VOSTRI – e lo stesso vale per la gestione governativo/militare che tiene in piedi la baracca del regno. L’informazione è potere in entrambi i casi… e dona potere anche a chi racconta, perché lascia sempre aperta la possibilità di sparigliare le carte in tavola. La sensazione, con Iron Flame, è che ci siano un po’ troppi conigli che saltano fuori dal cilindro. Alcuni servono per puntellare colpi di scena ma tanti altri sono puri escamotage per colmare lacune o per allungare il brodo.

I secondi capitoli sono quasi sempre libri interlocutori, libri-ponte destinati ad apparecchiare per i capitoli successivi. Non godono dell’effetto sorpresa e della novità dei romanzi che aprono le saghe ma devono al contempo fornire combustibile alla storia, produrre conflitto e disarmonizzare gli equilibri, costruendo su quel che esiste per portarci verso sfide sconosciute. Fourth Wing aveva il suo buon carico di conti in sospeso da saldare – ed ecco perché sono andata avanti a leggere con sincera curiosità – e Iron Flame non manca di sorprese e sfiziosi momenti di svolta, ma ingrana tardi e risulta sia ridondante che confusionario.
La ridondanza un po’ dipende dal gran numero di cose già viste, già lette e già sentite che contribuiscono alla costruzione di Fourth Wing ma anche alla ripetitività “intrinseca” del secondo libro. C’è la sensazione ancora più palese che l’universo tirato in piedi qua sia una sintesi di tanti altri temi o situazioni che troviamo in storie già conosciute, ma a metterci il carico è che ciclicamente succedono le medesime cose. Dalle dinamiche tra Violet e Xaden alle manovre dell’accademia, dagli sforzi per gestire i “superpoteri” all’accoglienza del “diverso” – che si tratti di fanteria, marchiati o gente che cavalca i grifoni poco cambia -, dal pendolarismo a dorso di drago alla solfa devastante delle barriere anti-venin (che son lì da 600 anni ma nessuno pare avere la più pallida idea di come facciano a funzionare), il libro riesce ad essere densissimo di avvenimenti ma anche tedioso da matti. È inspiegabile, ma accade.

Un altro elemento di cui poco mi capacito è il gran casino che si percepisce. Non mi riferisco tanto alla meccanica di scontri e battaglie – per me risultano totalmente impenetrabili e assurdi, anche se ho tradotto due libri pieni di gente che si mena e si lancia raccapriccianti malefici necromantici estremamente barocchi -, ma alla disorganizzazione “gerarchica” di quello che succede. Roba che nell’economia generale finisce per contare poco occupa parecchio spazio, i personaggi si affastellano e si azzuffano per guadagnarsi una battuta qua e là, nessuno s’accorge di essere in classe col figlio del re ma dobbiamo vestirci di seta trasparente per presentarci a cena con una corte di sconosciuti doppiogiochisti che, dal nulla e senza un perché, custodiscono una fondamentale risorsa e sono importantissimi. Cosa vogliono i venin, a parte prosciugare la terra che loro stessi calpestano? Mi pare un obiettivo a lungo termine piuttosto imbecille, no? Non si sa. La loro è semplice e miope pulsione di conquista? L’avidità corrompe, ma c’è dell’altro? Chi erano? Son forse i cattivi più indefiniti di sempre? Sì. E la coppia d’oro? Xaden è via per lavoro. Spiace. Loro due vi interessano? Peccato. Li vedrete a sprazzi e ripeteranno la medesima schermaglia a intervalli regolari, ma eccovi tutta quest’altra paccottiglia riempitiva. E i draghi? Idem. Andarna? Dorme. Per sei mesi. Si potrebbe pensare che questa gestione della “scarsità” sia uno stratagemma ben architettato per tenere alta l’attenzione e per farci proseguire nella lettura – e in parte è verissimo – ma risulta innegabilmente frustrante e un po’ troppo evidente per risultare elegante e ben eseguito. 

Insomma, Iron Flame va letto? Ma che ne so, ho pescato questa saga proprio perché non voglio accollarmi ulteriori responsabilità. Sono io che mi impartisco una vacanza e grido MA LASCIATECI SVAGARE dalla cima di una rupe scoscesa. Posso provare a riassumere, però.
Pensavo meglio, ma si riprende a un quarto dalla fine e si chiude con un bel problema. Per certi versi è paradossalmente più moscio del primo – anche se Riorson MOSCIO MAI, lasciatemelo dire, lasciatemi buttare lì almeno un’allusione greve IL CONTESTO LO RICHIEDE – ma, fra un deficit strutturale e uno sbadiglio, ho scelto di continuare a crederci. È un peccato che si arrivi a quel buon finale corale dovendo zoppicare più di Violet dopo [inserisci attività fisica a caso, anche perché non si comprende più cosa possa concretamente nuocerle visto che pare in grado di sfondarsi il crociato scendendo dal letto ma anche di resistere per diciotto ore in groppa a un drago che vola alla velocità di un 747 senza rimediare manco una cervicalina] e mi auguro che Yarros s’approfitti un po’ di meno in futuro del nostro buon cuore e della nostra tolleranza, ma cucitemi pure sulla giubba un pataccone a scelta. Siamo in ballo, ormai. Se molli il tuo drago ci resti secca. Era improbabile, ma si è creato un solido legame. Coviamo queste uova. Difendiamo i confini – che fluttuano più della mia pazienza. Facciamo guizzare questi muscoli. Lanciamo pugnali! Quanti sono? Tantissimi. Dove diamine li tengono? Sospendiamo ancora una volta l’incredulità. E PRENDIAMOLA LA MIRA CON QUESTI FULMINI SANTO CIELO UNA COSA DEVI IMPARARE VIOLET UNA. Quando esce il terzo? Ci diamo una mossa?

Allora, farò del mio meglio, perché Fourth wing di Rebecca Yarros – tradotto da Marta Lanfranco per Sperling & Kupfer – mi ha fatto divertire tantissimo, ma a più riprese avrei davvero voluto cavarmi gli occhi e buttarli in una bacinella piena di trementina.

Violet Sorrengail arriva da un’illustre stirpe. Sua madre è la generalissima maxima del regno di Navarra e suo padre era uno scriba che nel nostro universo avrebbe vinto almeno un Nobel. Sia suo fratello – perito tragicamente in combattimento – che sua sorella Mira sono sopravvissuti all’Accademia Militare di Basgiath per diventare Cavalieri dei Draghi e han dimostrato di saper spaccare culi a destra e a sinistra. Violet, invece, ha sempre studiato da scriba perché è molto intelligente ma non può contare su una significativa prestanza fisica – nel senso che se starnutisce si incrina tre costole e se si spazzola i capelli troppo forte si lussa una spalla. MA MANDIAMO VIOLET NEL QUADRANTE DEI CAVALIERI DAI.
La generala Sorrengail non è interessata ai palesi deficit strutturali di sua figlia. La mia è una stirpe di guerrieri devastanti, cara la mia Violet, zitta e pedalare! Morirai dopo tre minuti? È possibile, ma almeno io non sarò disonorata! Una persona deliziosa, la generala Sorrengail.

Violet, con qualche comprensibilissima piva nel sacco e la certezza quasi matematica dell’annientamento, è costretta a obbedire e il romanzo la segue mentre fa del suo meglio per sopravvivere in quest’accademia piena di sadici, megalomani, rosiconi, attaccabrighe e traditori della patria. Anzi, di figli e figlie dei traditori della patria.
Cosa si impara in questo posto infernale e inutilmente pericoloso? A menarsi forte in vari modi – ma comunque MOLTO FORTE -, a tirarsi dei coltelli mirando in posti letali e a volare in groppa a dei draghi grossi e cattivi che san tutto loro e te devi starli a sentire se no ti danno fuoco.
UN’ATMOSFERA SPLENDIDA.
Non si capisce il perché, ma la gente fa la fila per iscriversi a Basgiath, anche se ben che vada ti mandano a difendere i confini del regno dai grifoni (non chiedete, smettete di farvi domande) e non mi pare che nessuno parli mai di soldi. Insomma, è un mistero, ma tutti vogliono fare i cavalieri. Gloria! Fama! Prestigio! Vite brevissime e difficili!

Vi risparmio un trattato sui dolori articolari di Violet, ma vi basti sapere che il suo ingegno non andrà sprecato. La competizione è spietata, anche perché i draghi che ogni anno accettano di prendere in groppa qualcuno – AKA di “legarsi” a un cavaliere – son sempre di meno e i confini di Navarra vacillano sempre più. I confini reggono proprio grazie alla magia dei draghi, che i cavalieri possono incanalare per fare pure loro numeri circensi utilissimi. 
Vi puzza di Grishaverse? BINGO, MA QUA ABBIAMO I DRAGHI.
Che altro c’è? Dei boni.
Esatto.
Voi direte MA ACCIDENTI CON TUTTA LA FATICA CHE SI DEVE FARE PER SOPRAVVIVERE ALLE LEZIONI, AGLI ESAMI, ALL’AMBIENTE NELLA SUA INTRINSECA E STRUTTURALE OSTILITÀ DOVE TROVANO LA FORZA DI SVILUPPARE PULSIONI e invece ne sviluppano. E con che piglio, signora mia.

Devo ammettere di non aver afferrato subito questo risvolto “romance”. Cioè, io ero convinta di avere per le mani un fantasy zarro e morta lì, anche se la descrizione del Bono Titolare della saga che Violet ci offre già a pagina 20 era un indizio piuttosto macroscopico. Io, però, che son riuscita a prendere un 30 e lode parlando di Jurgis Baltrušaitis non ho colto con la necessaria tempestività. Nonostante la mia farraginosità di comprendonio, è chiaro che Xaden Riorson sia estremamente prestante – e già sappiamo come andrà a finire. Perché sì, come volete che finisca. L’importante è scoprire come ci si arriva. Ci sono ostacoli? OVVIAMENTE. Xaden è figlio del capo della ribellione, giustiziato dalla madre di Violet insieme al resto degli insorti. Il regno di Navarra, in segno di clemenza – e con la speranza di farli crepare – ha però accettato che gli eredi dei separatisti si arruolino all’Accademia. Serpi in seno o risorse preziose? Chissà. Nel dubbio, però, Xaden andrebbe giudicato PERICOLOSISSIMO e assetato di vendetta. Pronto, Violet? Hai capito? Mi sa di no.

Non sto qua a menarvela ulteriormente per non levarvi sorprese e rovinarvi i copiosi colpi di scena. Tante cose sono mega telefonate, il fottutamentometro sfonda la soglia di guardia, la perenne tensione sessuale fa a tratti molto ridere e sì, pare un mischione tra Shadow & Bone, Hunger Games, Avatar e #REYLO – diade nella Forza, non scordiamoci questa perla -, ma mi sono innegabilmente divertita e non mi vergogno di dichiararlo. Al netto di quanto per me 10 pagine consecutive di amplessi (scritte come sono scritte) risultino comiche, avere un’eroina che non pare uscita dal Sacro Ordine delle Carmelitane Scalze è una componente di corroborante positività. Mi piace il temperamento di Violet – che è da subito decisa a non frignare e a sbrogliarsela da sola, anche se è piena di problemi – e trovo stupenda tutta la faccenda dei draghi e dei poteri. Xaden? È un bello che balla, quindi ci piace anche lui. Insomma, se volete leggere una roba TAMARRA, sentirvi intrattenute/i sia sul fronte dell’azione che dei sentimentoni travolgenti – cringe compreso – e v’accontentate di un world-building che mira a farvi capire l’essenziale senza chissà quali dissertazioni enciclopediche, penso che ve la spasserete. Ci sarebbe da trovarsi per bere quattro gin-tonic a testa e parlarne senza dover schivare gli spoiler, perché allora sì che ce la ghigneremmo davvero. Anzi, bisognerebbe proprio buttare in piedi un bingo o un drinking-game. “Violet ammira i muscoli scolpiti di Xaden”: giù un vodkino. “Violet non è capace di fare quello che fanno gli altri ma è troppo orgogliosa per ammetterlo e PIUTTOSTO DI ARRENDERSI CREPA”: giù una tequila. Le possibilità sono infinite… ma mai quanto le cicatrici che deturpano LA SCHIENA MARMOREA DI XADEN RIORSON. Gira così, io ve lo dico.

Per tradurre bisogna essere allo stesso tempo umilissimi e superbi: si lavora con la consapevolezza della fallibilità – e forse anche della fondamentale impossibilità del compito – ma lo si fa come se l’esattezza incontrovertibile fosse una meta plausibile, realistica. Non è mai vero, ovviamente, e forse è per quello che le macchine traducono così male. Un’entità che funziona per esattezze non sa (e speriamo non impari mai davvero) come gestire il grigio. E la traduzione è una gigantesca campitura grigia. Va così perché le lingue non sono una fila di mattoncini immutabili e non sono fatte di parole fossilizzate: le lingue vivono nell’esperienza di chi le parla e di chi le scrive, sono cultura, mito, riferimenti condivisi, radice antica e germoglio imprevedibile. Il ramo che un secolo fa (o ancora prima) è spuntato per darci modo di descrivere qualcosa che prima non esisteva è oggi la matrice di mille altri significati. Si lavora brandendo contesti, mettendoci addosso una voce che non è la nostra, cercando di capire da dove si parte e dove è necessario arrivare: si fa un ponte e lo si percorre portandosi sulle spalle un agglomerato di parole che la traversata è destinata a trasformare.

Perché si traduce? Per rendere fruibile un testo a chi non conosce la lingua d’origine di quel testo.
Perché si traduce *davvero*? Perché le storie meritano di trovare chi ha voglia di leggerle e nessuna barriera ha mai giovato al sapere o alla scoperta.
La tradizione biblica individua nel crollo della torre di Babele l’inizio della discordia tra i popoli, che prima erano in grado di comprendersi senza intermediazioni e senza possibilità di fraintendimento. L’unità dell’umano era un’unità linguistica che annullava le distanze e rendeva possibile il progresso, perché capirsi è costruire insieme. E “Babel”, non a caso, è anche il nome del dipartimento di traduzione di Oxford al centro di questo romanzo di R.F. Kuang – tradotto da Giovanna Scocchera per Mondadori (Oscar Vault) con maestria e sprezzo del pericolo.

Cosa succede?
Kuang decide che i traduttori hanno in mano il mondo. Anzi, che la traduzione è la chiave per il dominio del mondo.
La premessa è la trasformazione di una manchevolezza strutturale – tradurre in maniera perfetta è impossibile – in una risorsa. Le lingue non combaciano mai in maniera totale e assoluta perché i termini possono obbedire a un ventaglio di sfumature, possono descrivere una specifica area culturale che non si riscontra simmetricamente in altri luoghi/tempi, possono riferirsi a tradizioni o trascorsi storici che per forza di cose non sono condivisi da chi appartiene a dimensioni differenti. Tutti quei termini che “non si possono tradurre” vivono in un limbo che, se correttamente esplorato dagli studiosi di Babel, può produrre effetti tangibili sulla realtà – e il monopolio sulle altre civiltà. Il tradimento che si annida in ogni traduzione è un bacino di combinazioni semantiche da incidere su tavolette d’argento – ricchezza vera delle nazioni in questa versione alternativa dell’Inghilterra del 1800 e rotti – che producono una specie di “magia” linguistica. Scegliendo le parole giuste e collocando le tavolette dove si ritiene possano funzionare, insomma, si tengono su ponti, si fanno andare le navi più veloci, si mantengono le carrozze in carreggiata, si riducono guasti ai macchinari, si uccide, si allestiscono impianti d’allarme… si fanno i soldi, sia per Babel che per l’Impero.

Santo cielo, non è già un’idea affascinantissima? Non sto qua a sciorinarvi esempi di applicazione delle tavolette perché è molto gustoso trovarli man mano che si legge e non voglio soffermarmi molto nemmeno sul quartetto di studenti che arrivano a Babel per cominciare i loro prestigiosi studi. Sono dei simboli, anche loro. Una è figlia dell’Impero mentre gli altri tre sono a vario titolo prodotti del dominio coloniale. “Vi salveremo e vi istruiremo – anche se siamo sempre noi ad aver asservito e spremuto la vostra madrepatria -, voi ci riserverete gratitudine e impiegherete a beneficio di Babel e dell’Impero tutto quello che vi insegneremo. Vi disprezziamo e la vostra gente non è civilizzata, ma siete indispensabili alla nostra macchina produttiva”. Perché Robin – che l’unico studioso di lingue asiatiche di Babel strappa dalle braccia della madre morente a Canton -, Ramy – indiano – e Victoire – haitiana – sono così importanti? Perché conoscono lingue non ancora battute da Babel. E una lingua che non è ancora stata setacciata in profondità è un bacino inestimabile di nuove combinazioni. Ma cosa succede quando tre bambini che crescono dovendo ringraziare i loro “benefattori” anche per l’aria che respirano si rendono conto di chi sono? Qual è il vero tradimento: tradurre “male” o rendersi complici di un sistema fondamentalmente predatorio, paternalistico, impari e oppressivo?

Se il tema della traduzione vi affascina, se siete ancora in attesa di una letterina da Hogwarts, se siete in cerca di un sistema magico davvero originale e se i temi legati al colonialismo, alla “legittimità” delle rivoluzioni e all’etica applicata ai sistemi economici e alle relazioni globali vi stanno a cuore, Kuang ha confezionato il romanzo per voi. È una storia stratificata, importante, ricchissima di spunti di discussione. Ci parla da un’epoca parallela, ma arriva al cuore di molte storture di oggi… e ci arriva perché per una manciata di valori fondamentali dell’esistenza non dovrebbero esserci zone grigie. Ci arriva perché la traduzione, quando è al nucleo dell’umano che si rivolge, è capace di ricostruire la Babele perduta.

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche. 

 

 

Dunque, del Grishaverse mi mancano ancora i Corvi e il re-uccellaccio (poverone), ma mi sono buttata su La nona casa di Leigh Bardugo con un solido (e ripagatissimo) ottimismo. Far funzionare un fantasy in una realtà “presente” è una grande sfida, credo, perché la costruzione del mondo deve innestarsi su un contesto che c’è e che possiamo sottoporre alle nostre intransigenti pretese di credibilità e plausibilità. Insomma, Yale è un posto vero… e come luogo vero ha i suoi punti di riferimento geografici e un suo vissuto nella nostra percezione, oltre che una lunga storia fattuale. Su quel che ci pare di sapere di Yale – e su tutta la “mitologia” ben radicata delle università americane della Ivy League -, Bardugo costruisce una stratificazione ulteriore, un universo magico parallelo che risponde a leggi specifiche e crea il margine di manovra necessario per l’invenzione. C’è senza dubbio un equilibrio delicato da gestire e Bardugo tiene splendidamente in piedi la baracca facendosi aiutare sia dal “tono” dei suoi personaggi che da un utile passato di ex-studentessa del blasonato campus.

L’espediente chiave per presentarci il mondo è vecchio come il cucco, ma ben calibrato: anche la protagonista è una neofita che sta imparando a navigare in acque ignote e complicate e noi, da spettatori, impariamo a orientarci con lei. Il rischio dello spiegone mega didascalico è scongiurato sia dalla struttura del libro – che alterna diverse linee temporali e ci fa saltare di qua e di là al momento giusto – che dalla gestione dei personaggi.

Che succede, in soldoni?
Alex Stern è un’outsider cresciuta assai lontano dai privilegi e dai fondi fiduciari che tenderemmo ad associare alla nobiltà “di portafoglio” americana e approda a Yale da mezza miracolata, dopo un’infanzia altrettanto accidentata. Misteriosamente scampata a una cruenta strage che ha spazzato via (e spezzettato) il suo spacciatore/fidanzato e gli ospiti poco raccomandabili della sua più immediata bolla californiana, Alex viene reclutata dalla Lethe, una società segreta che le offre una sontuosa seconda possibilità in cambio dei suoi peculiari servigi…
Ma che cos’è capace di fare Alex? Vede i fantasmi, in pratica. E vederli è un dono più unico che raro, nonché inestimabile per i suoi futuri pigmalioni.

Bardugo recupera otto delle società segrete dell’ateneo (che esistono sul serio e si sono potute fregiare, cammin facendo, di esponenti di spicco) e le trasforma in potentissimi nodi magici che, tra un rituale e l’altro, si occupano da decenni di influenzare con mano decisa le sorti del mondo. C’è chi amministra la fama, chi prevede investimenti, chi redige contratti inscalfibili, chi crea portali e chi può garantire cieca obbedienza. A vegliare sulle società – e a fare in modo che il mondo umano continui a percepirle “solo” come ritrovi elitari e non come devastanti e spregiudicati poli del sovrannaturale – c’è una nona casa, la Lethe. Un po’ arbitri e un po’ garanti, i membri della Lethe supervisionano i riti, mediano e tengono a bada la nutritissima schiera di fantasmi di New Haven, infestata da una folla di spiriti vaganti che non si rassegnano alla morte e gravitano attorno a ogni attività liminale che possa garantire loro uno spiraglio per varcare il Velo. Il fatto che Alex li veda – senza ricorrere a pozioni o elisir – è una maledizione, ma anche una risorsa preziosissima per la Lethe.

E quindi? Quindi niente, Alex sta cercando di adattarsi alla sua nuova vita e sta imparando il mestiere, ma si ritrova ben presto priva di mentore e alle prese con un omicidio che a prima vista non sembrerebbe avere nulla di esoterico…. E INVECE.
Misteri da risolvere!
Protagoniste mordaci!
Modalità innovative di rimozione dei tatuaggi!
Barbatrucchi!
Invenzioni magiche!
Rituali meticolosissimi!
Budella e mercato azionario!
Un sano odio per i potenti che pensano di poter fare come gli pare!
Spettri da scagionare!
Ritmo incalzante!
Inghippi!
Segreti!
Redenzione – ma senza pietismi!
In sintesi: La nona casa è un gran divertimento e uno splendido lavoro di equilibrismo tra mondo magico e mondo “vero”. Fremo per il seguito – e anche un po’ per la serie televisiva che dovrebbe essere stata opzionata da Amazon. Il coinvolgimento di Bardugo, così come è accaduto per la trasposizione di Tenebre e ossa, dovrebbe essere garantito anche in questo caso. Per il resto, svago e magia a voi.

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[Il libro è disponibilissimo per Mondadori nella traduzione di Roberta Verde, ma si può anche ascoltare su Storytel, come ho fatto io. Se volete collaudare Storytel, ecco qua il mio consueto link per il periodo di prova gratuito “prolungato”, 30 giorni invece delle due settimane canoniche.]

Ragazza, serpente, spina di Melissa Bashardoust – uscito per Mondadori nella traduzione di Maura Dalai – può consentirci di sovrapporre le nostre personali pulsioni d’evasione alla necessità molto concreta d’evasione della principessa Soraya, confinata nel palazzo natio da una misteriosa maledizione piuttosto invalidante che la affligge sin dalla nascita. Al contrario del fratello, golden-boy della real schiatta di Golvahar e futuro scià dei litigioso popoli di un regno assimilabile (per leggende fondative e ambientazioni) all’antica Persia, Soraya viene tenuta nascosta al mondo perché è velenosa, ma proprio nel senso letterale del termine. Per intricate menate che verranno dolorosamente alla luce nel dipanarsi del romanzo, infatti, la malcapitata principessa è in grado di stecchire qualunque essere vivente al mero contatto con la sua pelle nuda. Non lo fa apposta e non le piace, ma va così… e prima o poi bisognerà pur uscire dall’ombra per sistemare le cose e imprimere una vertiginosa svolta al destino avverso.

Soraya si dedica con successo al giardinaggio, ma campa di fatto isolata sia dalla sua famiglia (WE DON’T TALK ABOUT SORAYA, tipo) che dal resto del mondo, che venendo a conoscenza del suo “dono” potrebbe dubitare dell’intera stirpe chiamata a governare. Soraya, però, ne ha le tasche piene. Quando il fratello torna in trionfo nella capitale per sposarsi, la situazione comincia a precipitare: una div è stata fatta prigioniera dalle indomite guardie – anzi, da una guardia specifica che ha addirittura sventato un attentato al giovane scià – e Soraya vuole vederla, perché pare siano stati proprio quei mostri – progenie del Distruttore e storici nemici giuratissimi degli umani, dei quali condividono solo a tratti le sembianze – a maledirla. Soraya si domanda se gliel’abbiano raccontata giusta, insomma. Esisterà un modo per sbarazzarsi del veleno che la impregna e condurre finalmente una vita normale?

Non si capisce bene per quale ragione umani e div si detestino così tanto – a parte un generico “i div sono figli dell’oscurità e ci fanno una paura boia!” – e cosa sostenga l’impalcatura cosmogonica del mondo, ma se siete in cerca di un’avventura godibile e movimentata, con un po’ di incastri e ribaltamenti di fronte relazionali – che seguono il sempre gettonato canovaccio enemies-to-lovers (in diverse accezioni, pure) – vi ci potete buttare serenamente senza eccessive pretese, al grido di “amiamoci per quel che siamo o almeno proviamoci”, “MOSTRO A CHI” e “PER FORZA SBAGLIO E PIGLIO CANTONATE È LA MIA IDENTITÀ PIÙ AUTENTICA CHE STO CERCANDO”. D’evasione si parlava… e d’evasione si tratta. 

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Modalità di fruizione? Ve lo potete leggere, chiaramente, e anche ascoltare su Storytel come ho fatto io. Per collaudare, ecco il tradizionale link per una prova gratuita di un mese del servizio.

Ai libri animati da ottime intenzioni e da un forte messaggio positivo sono propensa a condonare più di una pedanteria, lo dichiaro con serena gioia. Di base, sono anche molto avversa ai libri che necessariamente devono provare a insegnarti qualcosa, perché molta meraviglia letteraria nasce anche dal raccontare liberamente quello che fa schifo di noi. Qua, però, c’è qualcosa di così avvolgente e confortante che, per una volta, mi sento di lasciar germogliare la speranza.

Che accade? Un fantozziano assistente sociale stipendiato da un dipartimento statale ultra burocratizzato che ha lo scopo di monitorare l’attività della gioventù magica viene spedito su un’isola remota per un incarico segretissimo: ispezionare un orfanotrofio che ospita bambini ancora più inusuali (e potenzialmente pericolosi per la collettività) del “solito”.
Linus Baker parte (tremebondo) per l’isola con la convinzione di poter tenere alla larga i sentimenti, spedendo per un mese alla Suprema Dirigenza scrupolosi rapporti super obiettivi e asettici. Nulla sembra poter scalfire la sua bolla di abitudini, remissiva routine impiegatizia e senso del dovere, ma l’orfanotrofio di Marsays non è un luogo che ama lasciarsi incasellare da convenzioni e regolamenti.
Cosa succede quando un grigio burocrate incontra il magico – il diverso – in tutto il suo assurdo potere?

Ora, là fuori ci sono romanzi sicuramente meno didascalici che intendono raccontarci il potere dell’ascolto e dell’incontro, il valore fondamentale che anima la necessità di comprendere quello che non conosciamo prima di respingerlo, odiarlo, ostracizzarlo e cancellarlo. Uscito per gli Oscar Mondadori nella traduzione di Benedetta Gallo, La casa sul mare celeste allarga l’approccio queer – forse rendendogli le vaste applicazioni rappresentative che davvero incarna – per farci riflettere in maniera sfaccettata sulla non conformità – fisica, comportamentale, psicologica, anagrafica e morale, se con “morale” intendiamo quello che una massa compatta e allineata alla struttura di potere vigente ritiene lecito, rassicurante e legittimato a esistere.
Ecco, la fuori ci sarà sicuramente qualcuno che raggiunge obiettivi similari avvalendosi di metodi meno “spiegottosi”, ma è anche probabile che il contesto in cui ci muoviamo possa beneficiare degli spiegotti e di una storia che con semplicità, accessibilità e molto calore illustra un messaggio basilare che sembra non essere ancora del tutto passato.
Nemmeno troppo tangenzialmente, poi, è una storia che cerca anche di farci riflettere sul peso enorme della responsabilità individuale, sul potere che ogni granellino di sabbia potenzialmente può esercitare, per quanto insignificante si ritenga. È una storia che sì, ci esorta anche a smettere di sussistere e a iniziare a vivere, ma la sincera contentezza che ti viene spontaneo provare per il personaggi – per quanto tanti, specialmente i bambini, siano sbozzati su un canovaccio che resta un po’ sempre il medesimo – compensa il rischio della stucchevolezza.

Insomma, è un romanzo appetibile per un pubblico assai trasversale – gioventù compresa… anzi, gioventù in primis – che, per quanto ricordi altro che già possiamo aver letto (Miss Peregrine, tanto per dirne una) resta un piccolo faro di pace e sudatissima armonia, senza tralasciare le molte oscurità e le innumerevoli lotte quotidiane che ogni “disallineato” o “disallineata” ben conosce. Ancora adesso. Ancora oggi.
Il fantastico è sempre stato una potente macchina di metafore per riflettere su chi siamo e sulla traiettoria che potrebbe assumere il nostro futuro. E di chi mai dovrebbe essere questo futuro, se non di tutt*?