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jonathan strange mr norrell

 Ignorando completamente la mini-serie trasmessa dalla BBC lo scorso anno, ho dato retta al consiglio di un amico – un uomo molto alto e molto saggio – e mi sono finalmente decisa a leggere questo stupefacente mattone, acclamato dal mondo intero come miracolo del fantasy e della narrativa nella sua più nobile accezione.

jonathan strange mr norrell tegamini

Ma che roba è, alla fin fine?
Susanna Clarke, con grazia non indifferente, ci porta nell’Inghilterra dei lord di campagna, dei sir di città e delle ladies col cappellino. L’epoca è quella delle Guerre Napoleoniche, di Byron e Wellington, ma è anche un’epoca di grande scetticismo. L’Inghilterra, dopo una lunga tradizione fatta di incantesimi, prodigi e proficui scambi con Faerie e i suoi ambigui ma potentissimi abitanti – roba che la Clarke si premura di spiegarci per filo e per segno grazie a tonnellate di note a piè pagina dedicate alla storia della magia, ai suoi testi fondamentali e alle leggende più diffuse – si è ormai trasformata in un luogo dove la magia viene studiata e raccontata, senza però avere più alcun tipo di applicazione pratica. Dopo il regno plurisecolare di John Uskglass – il Re Corvo cresciuto dalle fate, rispettato e temuto da tutti gli elementi della natura -, l’Inghilterra sembra aver dimenticato come leggere il cielo, come comunicare con gli altri mondi e come mettere in pratica gli insegnamenti dei grandi stregoni e saggi del passato. Anzi, la magia è qualcosa di poco rispettabile, un’occupazione adatta ai ciarlatani dei bassifondi di Londra e ai ricchi tromboni senza arte né parte. Ma mica si può andare avanti così. Due uomini, Gilbert Norrell (prima) e Jonathan Strange (poi) decideranno di riportare la magia in Inghilterra, con conseguenze catastrofiche e meravigliose.
Gattare pazze!
Capelli d’argento!
Campi pieni di ossa!
Biblioteche infestate dai corvi!
Imbroglioni dipinti di blu!
Flotte di vetro!
Riviste di magia militante!
Profezie!
Malinconie senza fine!
Mignoli!
Tarocchi!
Alcolizzati che mangiano libri!
Servi saggi!
Piatti d’argento pieni d’acqua!
Strade che si spostano!
CHILDERMASS!
Io non so bene che cosa s’intenda per fantasy, là fuori. E, vi dirò, ben poco me ne frega. Questo libro, se mai troverete il modo di leggerlo, è una felicità. La Clarke riesce a trasformare una faccenda astratta – la magia – in qualcosa che somiglia davvero a un problema pratico, con un suo percorso concreto – che si intreccia in maniera plausibile alla storia storia -, un passato sconfinato e bellicose correnti di pensiero. Quanto è bello leggere un romanzo con una struttura-mondo così solida, complicata e interessante? Mica capita ogni venti minuti. Ed è anche assai corroborante seguire le vicissitudini di un ventaglio di personaggi che un po’ si muovono secondo un destino vasto e complicato – e pure ben raccontato in una stramba profezia -, e un po’ cercano di evitare gli scossoni e le calamità del caso. Non vi affezionerete a tutti allo stesso modo, ma nessuno di loro vi farà pensare di aver letto invano.
Che vi devo dire, ho amato.
Lunga vita al Re Corvo!

Ci sono molte cose belle che uno scrittore può fare per te. Per dire, a me piace quando uno scrittore mi prende il cervello e ci gioca. E decide di lanciarlo in un posto lontanissimo, strano e possibilmente immaginario. L’idea che ci sia una persona che si siede lì, si inventa un mondo e mi ci porta a spasso, ma proprio così, come se quel posto sia stato costruito apposta per me, ecco, mi sembra un regalo meraviglioso, da amicone che sa fare le sorprese. E va bene, non sarai l’unico lettore dell’universo, ma per il tempo che passi con il libro in mano un po’ pensi che sia così. E ti senti molto allegro e assolutamente felice di far parte di quell’invenzione sorprendente e stranissima. Succede raramente, ma quando succede ti metti comodo e dici “perbacco, ci sono un sacco di cose a cui potevo affezionarmi, ma ho fatto proprio bene a decidere di diventare una persona che legge”. Ecco, ho letto Tito di Gormenghast di Mervyn Peake e mi sono fatta un milione di complimenti. Brava, cara mia, leggere è un’ottima idea, perché ci sono dei libri fatti così.

Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo.

Tito è il primo libro di una trilogia. E non somiglia a niente. O meglio, somiglia a parecchia roba che – nel suo non essere Tito – è immensamente meno interessante. C’è un po’ di gotico, un po’ di fantastico, un po’ di romanzo d’avventura, un po’ di grottesco, un po’ di saga magica. E, allo stesso tempo, non c’è nulla del genere, perché il mescolone finale è qualcosa di sghembo e specialissimo. E’ così strano – e diverso da non so nemmeno bene io che cosa – che rimarrete lì un po’ frastornati, ma vi sentirete anche un po’ dei piccoli pionieri dell’ignoto.
Non si capisce niente, però. Facciamo un po’ di cornice.

tito di gormenghast tegamini
Gormenghast è un regno, che ha il suo cuore polveroso in una fortezza gigantesca e labirintica. C’è Gormenghast, su questa specie di rupe nebbiosa e inospitale, e ci sono gli Esterni, che vivono in un villaggio di capanne di fango e passano la vita a scolpire statue di legno per i signori del castello. Il diavolo sa perché. Sia quelli dentro al castello che quelli fuori sono personaggi con evidenti e devastanti problemi. I signori di Gormenghast sono i de’ Lamenti, una stirpe di scherzi della natura. C’è il conte Sepulcrio, depresso e silenzioso. C’è la contessa Gertrude, una donnona che sta al mondo per coccolare pennuti di ogni forma e dimensione e per accarezzare un’armata di gatti bianchi, che si spostano come un’onda silenziosa e fedele. C’è la contessina Fucsia, scarmigliata e selvatica. Ci sono le gemelle Cora e Clarice, identiche, vestite di porpora, stupide come un paio di ciabatte e assolutamente inespressive. C’è la servitù, con il ripugnante e obesissimo cuoco Sugna, il fedele Lisca – valletto del conte Sepulcrio, un tizio alto e affilato, con le ginocchia che scrocchiano -, il dottor Floristrazio – leccaculo patentato – e il decrepito maestro di cerimonie con la barba piena di nodi. Sono tutti personaggi esagerati, personificazioni del proprio ruolo nel castello e, nel caso della famiglia reggente, veri e propri “pezzi” di Gormenghast. Nulla può cambiare, Gormenghast deve sopravvivere, secolo dopo secolo, così com’è, conte dopo conte. Le mura si sgretolano, le soffitte si riempiono di roba vecchia e dimenticata, ci sono saloni in cui nessuno mette piede da generazioni, ma la fortezza rimane dove è sempre stata, perché così deve essere.
Cosa superba, però, per un posto dove l’unico valore è soffocare il cambiamento, è che di cose ne succedono parecchie.
C’è chi sprofonda nella pazzia, chi cerca di impadronirsi del “potere” – per quanto incosistente -, chi sogna di scappare, chi trama e manipola per conquistare un angolino tutto per sé, chi fa del male alle biblioteche e chi affila coltellacci nell’ombra. Gormenghast è una scatola di splendida insensatezza, una specie di puzzle infinito fatto con la pietra nera, il buio e il paradosso: Peake si inventa alberi che crescono fuori dalle finestre, cerimonie surreali, l’ambizione sfrenata di conquistare un gigantesco nulla. E c’è un’ironia sorprendente… sorprendente nel senso che appare all’improvviso, come una pentolata in testa da uno che ti vuole male, in mezzo a pagine di bellissima tetraggine. E ad un certo punto, all’ennesimo angolo inesplorato del castello in cui l’astuto Ferraguzzo vi farà arrivare, avrete la sensazione che Gormenghast continui all’infinito, stanza dopo stanza, un cumulo di macerie e ragnatele dopo l’altro. E vorrete che Tito, con i suoi occhietti viola e la sua nascita inaspettata (SACRILEGIO!) salvi Gormenghast… o decida di raderla al suolo una volta e per sempre. Per come mi è piaciuto il primo libro, però, propenderei per l’ipotesi conservativa. Anzi, per Gormenghast patrimonio UNESCO.

 

La doverosa premessa è la seguente.
Con Amore del Cuore stiamo vedendo la terza stagione del Trono di Spade in italiano.
“Eh, mi sono abituato alle voci…”, vabé, che volete dirgli.
Siamo dunque indietro rispetto ai devastanti lutti che sembrano aver sconvolto i Sette Regni negli ultimi tragicissimi giorni. Non ne sappiamo niente, ma siamo già incazzati come dei marabù.

Questo post, dunque, non è altro che un grosso pippone scaramantico. Un rito propiziatorio a beneficio di DENERIS TARGARIAN, madre dei draghi. Perché se muore anche lei io il Trono di Spade non lo voglio neanche più sentir nominare.
…che poi magari è già stecchita, e sono l’unica al mondo che non ne sa niente.

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Non so voi, ma io il Trono di Spade lo guardo per le sbruffonate. Mi siedo lì, con la pizza alle olive in bilico su un ginocchio e aspetto che qualcuno ci regali un momento di sublime arroganza.
Voglio vedere Nonno Lannister che maltratta i suoi figli, TIRION che sale su uno sgabello per prendere a manrovesci GIOFFRI, la regina SERSI – sbronza come una tegola – che minaccia di morte quella falsona della sua futura nuora, personaggi a caso che fingono di preoccuparsi per quella scarognata di Sansa e cosa, là, IGRITTTTT, che dice a Jon Snow che non sa niente. E lui zitto, con gli occhioni tristi, le pive nel sacco e i geloni ai piedi.

C’è da dire che un minimo di tracotanza tocca più o meno a tutti, ma non possiamo negare che l’unica vera dispensatrice di immense soddisfazioni sia DENERIS.
Ma non c’è qualcuno là fuori che si è scritto tutta la spatafiata di epiteti onorifici della DENERIS? Che io mi ricordo solo “nata dalla tempesta”, “prima del suo nome”, “madre dei draghi”, “khaleesi” e della roba con dentro gli Andali, i Primi Uomini e un mare d’erba. Per cercare di competere con lei, sto aggiungendo titoli a caso al nome del mio gatto. Ottone von Asgard è diventato Ottone von Asgard, Ironcat Supremo, Minaccia Fantasma, Terrore dei Vegetali e Poltergeist Distruttore.

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Senza un motivo particolare, ecco perché ritengo che DENERIS sia degna della nostra stima imperitura. E pure del Trono di Spade. Anzi, mettiamola così, ecco perché DENERIS merita di sopravvivere.

– ha sposato Khal Drogo, l’unico autentico ultramanzo che mai si sia visto nei Sette Regni. E non solo l’ha sposato, ha pure conquistato il suo gigantesco cuore di pietra, trasformando il sublime energumeno in uno che riesce a dirti che sei la MOON della sua LIFE.
– sempre in tema di cuori giganti, DENERIS ha mangiato il cuore crudo di una qualche creatura imponente. Un cuore che più o meno era grosso quanto la sua testa.
– ha imparato a parlare l’assurdo idioma dei DOTRACHI, una lingua che riesce ad essere meno orecchiabile del klingon e ancor più tragicamente funestata dall’assenza di vocali.
– ha insegnato ai DOTRACHI che non si fa l’amore solo a pecorina, grugnendo e tirando i capelli.
– è riuscita ad ammazzare quel gran filibustiere di suo fratello, presuntuoso e nevrastenico, facendogli sciogliere una corona d’oro massiccio sul cranio. Una delle poche morti di tutta quanta la serie che siamo stati ben felici di veder succedere. Tanto per gradire, poi, DENERIS ha commentato che un vero drago non sarebbe mica schiattato, per un po’ d’oro fuso sulla faccia.
– DENERIS è ignifuga, lavabile ad alte temperature e immune alle bruciature solari, pure dopo cento mesi a piedi nel deserto.
– non si sa come, ha generato tre draghi. Generateli voi, tre draghi.
– i figli-draghi di Khaleesi non sono mica come quei polentoni dei vostri bambini. Dopo tre puntate sono già grossi come una Cinquecento.
– nonostante la fisionomia da piccola botte e il culotto un po’ tremolone, DENERSI va in giro nuda con la disinvoltura di una meretrice di Amsterdam. E fa bene.
– tutti si convincono che sia bionda, sventata e scema, la insultano in buffi idiomi che ritengono non possa comprendere e cercano di circuirla sventolandole davanti cassaforti vuote ma lei, alla fine, incenerisce tutti con i suoi draghi. Guerrieri, sovrani presuntuosi, maghi pelati, schiavisti sadici, poco importa. I draghi non si formalizzano.
– è in grado di suscitare devozioni e fanatismi che nemmeno una religione monoteista. La incontri, e dopo cinque minuti le giuri fedeltà eterna, le dici che la servirai per sempre (anche se non sei più uno schiavo) e inizierai a fissarla con l’espressione rapita dell’orfanello di fronte alla vetrina del pasticcere. I cavalieri la adorano. Gli schiavi (e gli ex-schiavi) la venerano. I draghi la rispettano (anche se sono ormai degli adolescenti) e fanno tutto quello che le pare. Avrà pure qualcosa, sta benedetta ragazza.
– è piacevolmente malvagia. Sangue! Fuoco! Trucidateli tutti! Una città, invadiamola!
– senza apparenti sforzi, Khaleesi ci commuove con acconciature sempre più strabilianti. Comincio a sospettare che i tre figli-draghi, oltre ad essere delle perfette macchine di morte, siano anche un po’ parrucchieri, sotto sotto.

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Ma soprattutto, Khaleesi va salvata perché ha sempre qualche straordinaria fissazione. Nella scorsa stagione aveva perso i draghi… e ogni battuta che le toccava conteneva almeno una volta un “DOVESONOIMIEIDRAGHI?!”. Nella prima gridava che era una CALISI ogni tredici secondi. Nella terza serie, invece, ce l’ha su con gli eserciti – mai abbastanza imponenti – e con l’abolizione della schiavitù – mi sa che uno degli epiteti onorifici era anche un modestissimo “distruttrice di catene”.
Deve vivere, deve vivere e regalarci qualche invasamento nuovo.
Voglio vedere cosa succede con quel capellone dei Secondi Figli, che sembra un po’ un Conte Fersen con più fossette. Ma soprattutto la DENERIS deve saltare in groppa a DRACARIS e volare da qualche parte. Facciamo spendere alla HBO una barca di soldi per un bell’effettone speciale di DENERIS che devasta una pacifica contrada – colpevole solo di aver ospitato un Lannister, una cinquantina d’anni prima – dalla groppa spinosa di un drago-figlio.

Eddai.
Fateci divertire.
Lasciate vivere Khaleesi!