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Allora. Entro Natale, in teoria, avrei dovuto produrre un mezzo libro. Ma non “mezzo” nel senso di porcheria buttata lì mentre ti fai i piedi dai cinesi. “Mezzo” nel senso di quantità. Che divertente la roba che ci hai fatto leggere, riesci a riordinare un po’ le idee e mandarcene metà prima delle vacanze? Prova a fare così e così e poi vediamo cosa succede. Ma certo, non c’è problema. Facciamo che consegno la traduzione che devo finire per ottobre e poi mi ci metto. Capirai, mezzo libro lo metto insieme, in un paio di mesi. E che ci vuole.
Che ci vuole?
Ci vuole una piscina di Redbull. Ci vuole un frullato mela-banana-anfetamine ogni ventidue minuti. Ci vuole una cameriera a tempo pieno. Un cuoco. Della servitù. Dei professionisti che si occupino del tuo trasloco. Della gente seria da mandare in ufficio al posto tuo. Una macchina del tempo. Degli scemi da spedire all’IKEA a comprarti le seggiole. Degli gnomi che stiano le mezz’ore al telefono per farti le volture del gas e della luce. Uno stagista che non dorme mai. L’autista. Un dottore che si candidi spontaneamente per diventare il tuo medico della mutua. Qualcuno che capisca dove devi mettere il TFR quando cambi azienda. Una squadra di paggi. Uno psicologo che ti aiuti ad adattarti ai ritmi e ai costumi del nuovo posto di lavoro. La spesa a domicilio. Un cucciolo di foca da tenere in borsa, per superare i momenti difficili.
Voi fate, che io scrivo mezzo libro.

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Il problema è che questa cosa buffa devo assolutamente finirla. Ma proprio per orgoglio personale. Perché potrebbe essere divertente – e assai confortante – anche per gli altri. E perché, quando riesco a mettermici, fa gioia anche a me. Che mi sembra anche un po’ la ragione più valida, se proprio devo annichilirvi con un rigurgito di sincerità.
Nel tentativo di razionalizzare le mie difficoltà – al fine di superarle con un agilissimo Fosbury e/o di imbastire scuse sempre più sostanziose e plausibili – ho deciso di costruire una solida mappona cognitiva degli intoppi contingenti, psicologici e psicosomatici che mi stanno impedendo di mettere insieme un mezzo libro in relativa velocità. Il domandone che ci guiderà è il seguente. Che cosa succede a una persona normale e mediamente disorganizzata quando prova a scrivere qualcosa? Come sempre, ci faremo aiutare da un manipolo di volenterose bestiole.

N. B. Per offrirvi una riproduzione quanto più autentica e accurata possibile, i nostri fidi animaletti appariranno a caso, manifestando le più diverse emozioni senza alcun rispetto per le più basilari norme di causa ed effetto. Perché nulla è coerente e lineare, quando ci si imbarca in un’impresa del genere.

***

Ti è venuta un’idea. E, per una volta, è un’idea plausibile. Tutto è meraviglioso. Non vedi l’ora di iniziare. Sarà fantastico. Sarà divertente.
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Le muse sono dalla tua parte, lo senti. Le muse tifano per te. Pure quelle cieche, storpie e deformi. Soprattutto loro, probabilmente.
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Mezz’ora a smanettare e hai addirittura prodotto un indice. Vittoria imperitura! Vulcani che eruttano cuccioli! Parate e pasticcini! C’è l’indice… hai praticamente finito! Cioè, una volta che c’è la struttura sei a posto, devi solo metterti lì e scrivere i fatti tuoi in bell’ordine. Che sarà mai. L’indice esiste, la salvezza è tua!
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Che facciamo, la buttiamo giù l’introduzione? Insomma, lo sanno tutti che l’introduzione bisogna farla alla fine. Però è anche vero che senza introduzione non si capisce niente… c’è gente che dovrà leggere la bozza, come si fa senza introduzione. Ma servirà? Cioè, a livello narrativo? La diamine di introduzione ha un’effettiva utilità nell’economia del racconto che ci accingiamo a sviluppare? Farne una zoppa potrebbe essere peggio che non farla affatto. Non è che si può sempre dire “eh, ma poi la metto a posto, non vi preoccupate che arriva”… (per comodità, troncheremo qui le riflessioni sull’introduzione. Ma aggiungete un 4 giorni di ritardo al GANTT del vostro libro).
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Cos’è che suona. Cos’è. Che c’è ancora. Non sarà mica la lavatrice?
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Eh, è la lavatrice. Niente. Stendo e vado a letto, che è già mezzanotte e mezza. E domani è pure lunedì. L’indice, ho fatto. L’indice e basta.
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Ma ha senso che io ci perda del tempo? Voglio dire, non ci farò mai un soldo, scrivendo delle cose… né ora né mai. E ho fame. Vorrei una pizza con le olive. Per comprare le pizze ci vogliono delle risorse economiche, delle entrate stabili. Ma chi me lo fa fare? Mi attende un destino di povertà, frustrazioni e stenti. Se voglio piantare lì, questo è il momento giusto. Cioè, al massimo butto nel cesso un misero indice… capirai.
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…c’è anche da dire una cosa, però. Che mi frega. Sono ereditiera dentro. Dentro, sono una nobile rampolla che porta la 38. Suono l’arpa, ricamo, dipingo e scrivo. Procediamo, tanto ho una rendita annuale di 47 mila franchi!
Ah, la meraviglia dell’ispirazione ritrovata! Ah, l’entusiasmo di una storia che germoglia! Cielo, l’impetuoso potere di un animo saldo!
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Però fuori c’è il sole. C’è caldino. Fuori c’è il mercatino dell’antiquariato che sono sei mesi che ci voglio andare. E dovrei pure fare la spesa. Perché mi sono messa in testa di scrivere questa roba. Ma chi me lo fa fare. Ho ancora tutta la vita davanti.
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Ho tutta la vita davanti… ma che cosa ci farò? Ho trent’anni. Ormai non sono più una bambina prodigio. Sono un relitto. Non ho combinato niente. Non sto combinando niente. E non combinerò mai niente. Che scoramento. Ed è pure finito il Braulio.
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Che cretina! Sto scrivendo un libro, non sto mica fondando Google! È tutta un’altra faccenda! Anche a cinquant’anni compiuti, sarò comunque una GIOVANE SCRITTRICE! Ma è bellissimo! Sono praticamente una neonata! Dove sono i miei minipony! Portatemi un saccottino all’albicocca!
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Esultate, genti del mondo, ho finito un altro capitolo! Inchinatevi alla sfolgorante magnificenza della mia arte!
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Dai, questa qui è proprio una bella frase. Chissà come m’è uscita. Non ne ho memoria. Sono evidentemente posseduta da un irrefrenabile afflato d’ispirazione.
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Perché. Perché ogni volta che apro il file – specialmente se è passato qualche giorno dall’ultimo DECISIVO intervento – mi sento il dovere di rileggere sempre tutto da capo. Perché. Che qualcuno ci metta delle password.
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Non importa, non importa. Nulla mi scalfirà. Tutto questo è ridicolo, ma non fa niente. Ho perso un po’ di tempo… ma ho un piano corazzatissimo. Ed è il piano che conta. Lo vedo, è solido. Anzi, tridimensionale. Basta procedere un pezzettino alla volta, con pazienza.
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Mai. Non finirò mai. Solitudine e patimento.
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Puoi abbassare la TV, gentilmente? Qui c’è gente che CREA.
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Flavia, hai voglia di leggere il capitolo nuovo? Niente di che, non pigliarti male. Tanto per capire se ridi o se ti vengono le convulsioni. Senza rancori, davvero. No ma solo se vuoi, non voglio mica farti ansia, ci mancherebbe. Ti piglio il computer, ti metti lì sul divano e io finisco di preparare la pasta. Vado di là, ok? Così non ti disturbo…
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Cioè. La Flavia ride. Ma anche con una certa spontaneità. Che vorrà dire. Che devo pensare. Va bene, no? È una scoperta positiva… è un segno della benevolenza dei cieli. O magari ride perché è gentile. E sa che la sto spiando da dietro lo stipite della porta.
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Forse ci sono un po’ troppi neologismi. Non ne ho la certezza, ma il sospetto è assai fondato. Non sono mica Michele Mari… se vedono un altro “POFFOSO” mi mandano a stendere.
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Smettetela di invitarmi agli aperitivi. Dimenticatemi.
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Smettetela di invitarmi alle cene. In posti buonissimi. Che costano poco. E dove si mangia un botto. Smettetela e basta.
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Io ho sonno, capite? Ho bisogno di dormire, di riposarmi. Non invitatemi al Plastic. Questi weekend sono importanti. Mi serve TEMPO. Non posso sprecare le mie domeniche a boccheggiare sul divano, nel remoto tentativo di ripigliarmi da orrori, disavventure e panini pesantissimi ingurgitati alle sei del mattino.
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Scusami. Pensavo di avere qualcosa da mandarti, ma sono ancora troppo indietro. Non dimenticarmi, però. Io sono qui. Che m’impegno. Con scarsi risultati, ma m’impegno davvero. Non lasciarmi. Non abbandonarmi. Trattami come se fossi una persona seria. Con le traduzioni sono puntualissima… puoi chiederlo a chi ti pare. Giuro. Ce la farò, te lo prometto.
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“Cara Francesca, ci servirebbe la traduzione di questo nuovo romanzo per ragazzi. È un libro molto divertente e per noi si tratterà di un lancio importante. Sei libera? Pensi di farcela in un mese e mezzo? Ti ringrazio moltissimo”.
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HANNO BISOGNO DEI MIEI SERVIGI. E VOGLIONO PURE PAGARMI (A 60 GIORNI DALLA CONSEGNA DEL LAVORO). NON TEMERE, VALOROSO EDITOR, STO ARRIVANDO!
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Le vacanze… mi pagherò le vacanze senza andare in rovina. E in vacanza, finalmente, avrò un sacco di tempo da dedicare al mio libro. Che bel piano. Andrà tutto fantasticamente bene.
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Molto bene… sono passati due mesi. Dove eravamo rimasti?
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Non lo so. Non lo so più. È come se mi fossi appena svegliata da dieci anni di coma. Chissà come volevo andare avanti. Chissà quante idee MIRABILI si sono dissolte. Come lacrime nella pioggia. Come peli nello scarico.
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Ed eccoci qua. A ricominciare da capo per la ventesima volta.

 

Se mai ce la farò, sarete i primi a saperlo.

 

 

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Ottone von Testimonial, lo Zoolander del mondo felino.

 

Il sogno di una vita.
Un’utopia che diventa realtà.
Un miracolo.
Un evento di portata interplanetaria.
Giuro, sono commossa. E vorrei anche un po’ piangere. Vorrei piangere tantissimo perché il mio gatto – lo stesso felino che mi ha squartato innumerevoli carichini del telefono, che ha devastato ogni pianta mai entrata in casa, che ha abbattuto alberi di Natale e sfondato vasi di vetro giganti, sconvolgendo la mia esistenza con potentissimi tifoni a base di palle di pelo -, il mio gatto – Ottone von Accidenti, flagello poffoso delle costellazioni – è diventato testimonial Gourmet.

MA VI RENDETE CONTO.

Dopo aver passato quasi tre anni a nutrirlo con considerevoli quantità di Gourmet Perle – avvincente ammasso di proteiniche ciccionate tritate, che lui ama con tutta l’anima (anche più di quanto mai amerà noialtri) -, la Gourmet si è accorta di Ottone von Accidenti. Proprio loro. Quelli che fanno le pubblicità con questi gatti bianchi pettinatissimi, gonfi come nuvole, eleganti ed estremamente garbati. Gatti leggiadri, che non si trascinano i pezzi di tonno in soggiorno e che hanno capito come si usa la porticina per uscire sul balcone. Gatti che sanno leggere in latino e attraversano con la massima serenità immense distese – minate – ricoperte di soprammobili in fine porcellana dipinta a mano. Gatti che suonano l’arpa e declamano versi di Catullo al sorgere del sole. Ottone, al sorgere del sole, ci corre fortissimo sulla pancia, svegliandoci di soprassalto in preda ai terrori più imprevedibili. E pesa sette chili.
Nonostante questi inconvenienti comportamentali – in fondo è ancora un felino adolescente… e temiamo che presto ci chiederà il motorino, oltre al permesso di tatuarsi le gattine nude sul petto -, Ottone è una creatura quasi celestiale. E proprio perché è un irrecuperabile e tenerissimo imbecille. Date le premesse, ho affrontato l’unboxing dello scatolozzo di Gourmet Soup – il nuovo cibino per gatti che ci hanno adorabilmente chiesto di collaudare – con una certa apprensione. E se gli fa schifo? Se si ritrae terrorizzato? E se non dimostra un sufficiente entusiasmo?
Mille paranoie. Per niente.

 

Un luminoso successo. Una voracità senza pari. Mille linguine rosa che guizzano felici. Fortissime miagolate di apprezzamento – volevo trovare il modo di aggiungere dell’audio (una di quelle musichette felici tutte trillose), ma un po’ non sono in grado e un po’ mi spiaceva coprire i versi di Ottone. È come vivere con uno di quei giocattoli che fanno SQUIK quando li schiacci. Solo che lui si schiaccia da solo. Ogni tre minuti. Insomma, Gourmet Soup è Ottone-approved. E, a quanto pare, è in ottima compagnia. Gourmet – ho scoperto – ha una sezione sul sito piena zeppa di gatti che si abbioccano felici dopo aver assaltato una ciotola dei loro mangiarini. Noi, ho già deciso, contribuiremo con questo impagabile ritratto. Ottone von Testimonial, in modalità FOCA MONACA.

 

Ottone von Testimonial paciosamente adagiato – come una foca monaca – in mezzo agli amatissimi #GourmetSoup. Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

Perché un gatto a pancia all’aria vale più di mille parole.

Grazie, valorosi produttori di cibo felino. Ci siamo divertiti un sacco, abbiamo imparato come si montano i video – Steven Spielberg, stiamo arrivando – e abbiamo anche scoperto che, quando si tratta di buttarla sulla telegenia, Ottone è molto più efficace di me. Ottone è nato per essere scandalosamente avvenente, adorabile e tondeggiante. Beato lui. E anche buon per me. Con tutti i brodini-mangiarini che c’erano nella scatola, non dovrò più frequentare la corsia del cibo per animali per almeno un mese. Dopo, però, sarò per sempre condannata a tornare a casa con tonnellate di Gourmet Soup. Tonnellate. Montagne. Cordigliere. Continenti.
Per sempre.

 

Ora ho capito perché le pubblicità le fanno coi gatti bianchi. #GourmetSoup

Un video pubblicato da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

Abbiamo passato le ferie a russare. Non siamo andati da nessuna parte, abbiamo visto solo gente simpatica e, in generale, si è mangiato moltissimo. Queste ferie, lasciatemelo dire, sono state un successo. Il trionfo delle coccoline sul divano. La pace interiore. Lavatrici fatte con criterio. Leggiadre passeggiatone. Tra una pigronata e l’altra, però, ci siamo anche dedicati a un nobile progetto. Anzi, al più necessario dei progetti: la dominazione del mondo. Perché abbiamo un gatto. Si chiama Ottone von Accidenti ed è palesemente molto carino. E, visto che anche la più maestosa delle imprese parte da una microscopica e trascurabile puttanata – non so bene se questa mia affermazione abbia un fondamento statistico chiaro e verificabile, ma facciamo finta che sia proprio così -, abbiamo deciso che un gatto-Zoolander è l’asset più importante e significativo di cui disponiamo. Le nostre lauree, la nostra solida esperienza lavorativa, le nostre conquiste nel campo del sapere, della creatività e della cultura. La gioventù. Il talento. Ciao. Abbiamo sette chili di gatto. E il mondo lo amerà come lo amiamo noi. Per questa validissima ragione – e anche un po’ per presentare l’imminente candidatura di Ottone von Accidenti alla Presidenza della Repubblica -, la famiglia Tegamini del Cuore si è coalizzata per produrre il gadget definitivo: il glorioso calendario 2015 del gatto Ottone. E il mondo è già un po’ migliorato.
Serietà, per cortesia. Il momento è solenne.

Ta-daaaa. Il calendario 2015 di Ottone von Accidenti. Starring: Ottone von Accidenti – in perenne posa LE TIGRE. Foto: Tegamini feat Canon Powershot G7X. Progetto grafico: Amore del Cuore – già uomo più paziente dell’anno.

 

Siamo solo al 6 di gennaio e abbiamo già raggiunto la più alta vetta d’improbabilità del 2015.
Il calendario, in tutta la sua gloria, lo potete scaricare qui – o cliccando sulla maestosa copertina. E’ un PDF… e Amore del Cuore ve l’ha impaginato in A4, così riuscirete a stamparvelo senza difficoltà e patemi d’animo (e senza dovervi avvalere dei potenti macchinari dei vostri uffici. Che cosa sta combinando, signorina? …ah, Megadirettore Galattico! Niente, sto semplicemente stampando un calendario… Ma questo è un felino, signorina! E la nostra azienda, come dovrebbe ben sapere, non tollera le carinerie, le bestiole pelose e le coccolosità! Megadirettore, lei è un tiranno. E lei è senza lavoro, signorina!).

Spero vi garbi.
Spero vi diverta.
Spero vi ispiri ogni genere di tenerezza.
E spero di aver cominciato a rispondere con sufficiente veemenza ai vostri suggerimenti. Più Ottone! Più Ottone! Ecco, adesso Ottone potrà farvi compagnia per un anno intero. Fissandovi perplesso. Perché è un po’ quello che fa. Ci fissa perplesso.

P.S. Mi raccomando, se davvero utilizzerete e amerete l’Ottone-calendario, mandateci vibranti prove fotografiche. Più che altro perché non riusciamo a immaginare questo potente manufatto del nostro ingegno in casa di persone che esistono veramente.

Lunga vita ai gatti-paraspifferi!
Potere alla panciotte!
In alto le zampine pelose!
Viva il Gourmet Diamond!
…e buon anno a voi 🙂

 

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Nella mia mirabolante carriera editoriale ho vinto in tutto quattro premi Nobel. Uno in modalità kamikaze – che ero in ufficio da sola – e ben tre negli ultimi tre anni. Il Nobel è una faccenda interessante, surreale, incredibilmente istruttiva ed estremamente stancante. E da quando c’è il famigerato #TotoNobel, poi, non si vive più. C’è il bellicoso team-Murakami, ci sono i fenomeni che devono per forza dimostrarti che loro la letteratura africana contemporanea la conoscono benissimo – e voi che non capite il mangbetu siete dei poveri derelitti -, quelli che tifano per Ken Follett e Stephen King – che tanto hanno fatto leggere le genti del mondo -, gli snob così snob da snobbare anche il Nobel, quelli coi bambini all’asilo – diamolo a Peppa Pig! -, quelli che si scandalizzano per le candidature estemporanee dei cantautori, gli astiosi a prescindere, gli amici del vintage che non han capito che possono vincere solo gli scrittori ancora vivi, gli esperti di geopolitica e di minoranze – quest’anno tocca all’Oceania! E vogliamo solo autori gravemente celiaci! -, i depressi – tanto in Italia non legge più nessuno, è inutile che stiamo qui a farci i pipponi sul Nobel -, i curiosi che stanno zitti ma si divertono un casino, i “guardate che non c’è mica solo il Nobel per la Letteratura! Lo sapete com’è andato quello per la fisica, per dire? Asini!”,  gli scrittori rosiconi, gli scrittori che incitano i loro beniamini, noi soliti quattro pirla che ci emozioniamo piuttosto sinceramente e quelli che s’inventano i meme con Philip Roth e Leonardo DiCaprio che singhiozzano abbracciati. Tutto questo marasma di scemenze, nichilismo, tifo da stadio e belle speranze raggiunge il suo detestabile picco a circa un’ora dall’effettiva proclamazione del Premio Nobel. Un’ora di agonia pura e cristallina. Dovreste lavorare, ma c’è troppa confusione. Dovreste lavorare, ma siete ipnotizzati dal conto alla rovescia dell’Accademia di Svezia. Dovreste lavorare, ma poi vi accorgete che sono tutti lì a fare i tarocchi e buonanotte. Quest’anno, ormai assuefatta e recalcitrantissima, ho deciso di buttarla in caciara anch’io. E ho allietato la mia scomposta timeline con il #TotoNobel delle bestiole. Visto che ne vado immotivatamente fierissima, ve lo appiccico qua sotto.

Poi niente. Vincete voi e il pomeriggio diventa un inferno.

 

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La mia ignoranza musicale è assoluta. Non sto scherzando. Non so proprio niente. Classica, jazz, pop, rock… non importa, nella mia testa c’è solo uno sconfinato deserto roccioso falciato dalla tramontana. Ho avuto le mie folli passioni per incredibili band metal-core di omoni tatuatissimi e so a memoria la discografia dei Queen, ma rimango una bestia. Adesso che ci penso, però, alla fine del liceo adoravo follemente anche dei tizi vegani col mascara e una depressione conclamata. Mi piacevano i testi. Non ci si capiva granché, ma c’erano un sacco di immagini super tragiche e storie di solitudini irrimediabili che mi confortavano assai. Comunque, non so una mazza lo stesso. Non me ne vanto, sia chiaro, ma è inutile far finta di niente. Sono anni che cerco di spiegarmi questa atavica avversione, anni. E credo sia cominciato tutto con la faccenda del pianoforte. Visto che ero una bambina bionda estremamente rapida nell’apprendimento e che m’era rimasto un pomeriggio libero – i restanti erano occupati da tennis, ginnastica artistica e inglese… e a scuola facevo il tempo pieno – la famiglia stabilì, dopo una breve ricognizione delle biografie dei principali fanciulli-prodigio del pianeta, che dovevo imparare a suonare il pianoforte, con annesso spin-off solfeggio. Mozart alla tua età era già al cospetto dell’imperatore! E io lì, con un minipony in mano e i calzerotti rosa coi gommini. Ecco. A me suonare il pianoforte faceva schifo. Una roba che m’abbia fatto così schifo nella vita non credo di ricordarmela. Toh, forse il fegato in padella, le lumache senza guscio. La trippa. Ma niente mi faceva incazzare come il pianoforte. La musica, la gioia, il trionfo dello spirito umano. Macché. Spartiti che volano in corridoio. Dopo anni di conclamate rotture di palle, mi sono finalmente decisa a informare i miei congiunti che non intendevo prolungare quello scempio neanche di cinque minuti. Basta, io questa roba non la voglio più fare. Ma fatemi disegnare, no? Che lì è chiaro che sono portata. Coltiviamo il talento, non intestardiamoci a fabbricarlo quando è palese che non ce n’è. Ah, vi piace tanto il pianoforte? E suonatevelo voi, allora.
Superato questo grande scoglio, la musica ha solo vagamente sfiorato la mia aridissima anima. Credo di essere l’unico essere umano sul pianeta che non ha musica nel telefono. Mi piace Elio, perché Elio è un miracolo della creazione. Mi piacciono le musiche arroganti dei film, anche. A Torino, una volta, sono addirittura andata a sentire Michael Giacchino. Ha preso una banda di ragazzini dell’oratorio – giuro sul dottor Spock – e gli ha fatto suonare le sue colonne sonore. Quella è stata veramente una figata cosmica, ma si è trattato di uno sprazzo di isolatissimo buonsenso. Poi il buio, come al solito.
Eh.
Provate dunque a immaginare di ricevere un accorato e coccolosissimo invito per un concerto all’Auditorium di Milano, quello in Largo Mahler, coi corvi finti sui balconi e un casino di marmo da tutte le parti. Ti piacerà, Tegamini, c’è l’Orchestra Verdi che suona… e dietro passano i documentari della BBC. Si chiamano BBC Earth Concerts. Ce ne sono tre. Te vieni al primo, Planet Earth In Concert, poi vedi come gira. La BBC ci ha messo secoli a filmare tutta quella roba, e poi ha chiesto a un compositore – George Fenton – di scriverci su la musica. Te vieni, ti siedi lì e vedi cosa succede. L’orchestra la dirige Danilo Grassi.

G I O I A.
S P L E N D O R E.
M I R A C O L I.

Uccelli pazzi che cercano di sorvolare l’Everest. Elefantini che sbagliano strada e si smarriscono nel deserto. Foreste che cambiano maestosamente colore. LEOPARDI DELLE NEVI. LEOPARDI DELLE NEVI. LEOPARDI DELLE NEVI. Paperotti che si lanciano dagli alberi. Grotte sommerse, piene di robe spugnose fosforescenti di rara e delicata beltà. Coccodrilli che sterminano gnu. SQUALI BIANCHI GRANDI COME AUTOBUS CHE INGHIOTTONO FOCHE AL RALLENTATORE. Caribù neonati inseguiti dai lupi. Volpi artiche che molestano oche. PINGUININI.

Solo un maestoso documentario con gli animali poteva riconciliarmi con la musica. E solo la musica poteva accompagnare con una simile grazia delle bestie così notevoli. Lo spettacolo è diviso in segmenti, agilmente introdotti da una letturina del direttore d’orchestra. Ora vedremo degli orsi polari che escono dalla tana per la prima volta. E alè, orsi e musica. Poi ci sono i predatori, gli elefanti che nuotano, migrazioni colossali, caprette che fuggono, delfini che mangiano pesce in compagnia di pennuti tuffatori. Insomma, habitat diversissimi e creature di ogni genere, che fanno le loro cose splendide da animalini con l’accompagnamento di un’orchestra.
Una cosa emozionante. Ma sul serio. Al coniglietto della steppa Amore del Cuore mi ha dovuta immobilizzare.
La Verdi, durante l’estate, farà delle repliche di questo primo documentario – Planet Earth – e andrà avanti con gli altri due della serie – The Blue PlanetThe Frozen Planet. Io, fossi in voi, ci farei un pensierino. Ma indipendentemente dalla vostra predisposizione alla musica o alle bestie. È un’esperienza di gioiosa immersione audiovisiva che scioglierebbe anche il più coriaceo dei cuori. E poi ci vogliono tre mesi di appostamenti, per riuscire a riprendere un leopardo delle nevi. Tre mesi. Il minimo che possiamo fare è sederci in un auditorium e rimanere a bocca aperta per un paio d’ore.

shushu che dorme

Sono una ragazza fortunata. Anzi, una BLOGGHER fortunata. Perché partecipate tantissimo. Mi mandate i cartoni della pizza (Taschen, mi leggi? È una ricerca iconografica di rara rilevanza! Facciamoci qualcosa, cavolo), mi girate link di una fuffosità impagabile, mi rammentate di mettere i ghiaccetti nel freezer e, soprattutto, vi piace farmi conoscere i vostri animali domestici. Sono meglio di San Francesco, ormai: nel tempo libero mi siedo lì e benedico le vostre bestiole da compagnia. Ho visto passare cani, innumerevoli gatti, pesci (quasi sempre morti), un paio di cavie e qualche uccellino. Mai al mondo, però, avrei pensato di imbattermi in un branco di cincillà domestici. Perché uno può decidere, un bel giorno, di pigliarsi in casa un po’ di cincillà. Ma così, all’improvviso. Butti la pasta, passi l’aspirapolvere, ti fai un caffè e ti prendi un cincillà, gli dai un nome e cominci ad amarlo di vero amore, mentre ti saltella attorno senza motivo. Affascinata oltre ogni immaginazione dagli imprevedibili cincillà di Chiara – http://www.laurachiara.com, dunque, ho deciso di intervistarla. Come sono i cincillà, nella vita privata? Che fanno? Cosa sognano? Sono scemi, sono intelligenti? Fabbricano allegria? Uno si fa delle domande, quando si imbatte in una Signora dei Cincillà. E sente anche il bisogno di inaugurare un nuovo capitolo-verità per la rubrica Gli animali ti guardano.
Procediamo dunque con l’intervista più utile del ventunesimo secolo.

I nostri omaggi, Chiara.
Partiamo dalle basi. Presentaci in maniera fulminea i tuoi cincillà.

Le creature in questione sono:
Shushu AKA Signore di Male Mobbido AKA Il Malvagigio AKA Tsathoggua AKA Dr Giuseppi Cicciomale Responsabile del Servizio Clienti.
Poi c’è Rinn che è la moglie adorata mentalmente labile.
Seguono il primogenito bellissssssimo di nome Mochi che è intelligente come un budino e la piccola molestissima Luz.

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Ma come è successo? Un cincillà è un acquisto d’impulso o è il risultato di un vasto e ben pianificato progetto-cincillà? Eri una bambina che desiderava dei cincillà (crudelmente circondata da compagni di scuola che chiedevano cagnolini e cocorite a Babbo Natale) o li hai scoperti in età più tarda?

Quando abitavo con i miei genitori c’era un orrendo incrocio di Yorkshire di nome Rudy dalle zampe lunghe e il pelo da punkabbestia che girava per casa. In teoria sarebbe dovuto essere il cane di mio fratello ma dopo una settimana dall’arrivo della sgraziata bestiola lui decise che dopotutto non gli interessava e anzi gli faceva ( giustamente) un po’ schifo. Quindi il “cane” divenne l’ ombra di mia madre.  Sviluppando una serie di nevrosi peculiari. La mia preferita è che Rudy non iniziava a mangiare se prima non gli si apriva e chiudeva la porta finestra. Non chiediamoci perché. Menti più brillanti hanno tentato di spiegare l’ arcano e hanno fallito. Per me post-adolescente rognosa barricata nella mia stanza la scelta di animaletto da compagnia era pertanto  ridotta a bestiole di piccolo formato.
Quindi partii dalle basi. Primo passo: criceto russo.
Poi una volta defunto il suddetto ho pensato: perché fermarsi al criceto grasso dalle guancine deformi (che pure regala grandi momenti di ilarità) quando c’è una bestia surreale come il cincillà? E così andai in un negozio e portai a casa Shushu. Senza avere la benchè minima idea di che cosa stessi facendo.
Questo accadeva dodici anni fa.
Poi vedendo Shushu sospirare nel tramonto e cercare di montare il mio peluche di marmotta gli procurai Rinn, contando sulla scarsa prolificità del cincillà in cattività. Fu AMORE a prima vista. Adorazione totale di quelle che noi tutte da adolescenti sfigate abbiamo sognato almeno una volta.
Dopo tre anni c’erano anche il bellisssimo Mochi e la molesta Luz.

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Quanto diamine costa un cincillà? 

Il cincillà costa sugli 80 euri. 100 se vuoi le varianti fighe col pelo di altri colori tipo beige e nero (no  purtroppo non li fanno in rosa e viola) MA quando porti a casa la prima creatura probabilmente finirai col sottovalutare il suo potenziale di danno.
Perché se non hai una gabbia grande come un box per il SUV in cui tenerlo, il cincillà necessità di sgranchirsi le gambette in giro. E le ridicole palle di pelo saltano come delle gazzelle.
A me nel primo anno Shushu costò:
300 euri di monitor del computer causa pipì e cortocircuito globale.
50 euri di riparazione stampante intasata da sostanze di produzione cincillesca.
Sostituzione di svariati volumi di libri e fumetti rosicchiati.
Sostituzione di vari cavi elettrici.
Le conseguenti svariate spese veterinarie per svuotare il topo intappato.

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Come si divertono, le benedette bestiole? Condividono le abitudini dei roditori plebei – tipo correre sulla ruota, ammassare bambagia e imbottirsi le guance di scemenze – o prediligono divertimenti più altolocati? Tipo, non lo so, il badminton.

I cincillà (non per niente detti anche “gioielli dell Ande”) snobbano i divertimenti del roditore standard. Appena vengono liberati dalla loro gabbia-residenza corrono via ebbri di libertà e si nascondono sotto il divano. Per stanarli basta collocare sul pavimento oggetti potenzialmente letali se ingeriti, tipo gommapiuma, tubetti di colore, cavi in cui passa la corrente, sigarette e altre sigarette. Oppure oggetti di valore. Molto gradite le banconote. Da 50 euro in su. Ogni tanto colti da raptus di non si sa bene quale origine escono improvvisamente correndo da sotto il divano e rimbalzano su vari oggetti e mobilia prima di fermarsi con aria stupita. Altre volte girano la stanza curiosando alla ricerca di qualcosa da danneggiare. Immaginate un po’ dei gremlin carini come prima di aver mangiato dopo mezzanotte ma con la stupida  molestia dei gremlin brutti dopo la trasformazione.
La massima passione di Shushu, che più che un divertimento è una vocazione da capitano Ahab, è cercare di uccidere il mio compagno, incurante dell’ impari stazza. Sono anni che sta perfezionando la strategia che consiste nell’accerchiarlo (Shushu è talmente figo che è in grado di accerchiare da solo), recidergli i garretti e una volta steso a terra strappargli la giugulare. Confido che un giorno ci riuscirà.

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Fai del tuo meglio per descrivere la morbidezza sovrannaturale del cincillà. Insomma, come ci si sente a coccolare un cincillà?

E qui sta la fregatura. Perchè il cincillà ODIA farsi coccolare.
“Lasciami stare bruto con quelle mani che mi rovini il pelo!”
Puoi o ghermirlo senza pietà come un cono gelato e coccolarlo che lui lo voglia o meno fino a che divincolandosi come una trota salmonata non riuscirà a liberarsi, oppure fargli i grattini sotto il mento che gradisce assai. Da un paio di anni Shushu si lascia fare le carezzine sul suo morbidissimo e tondo pancione da Totoro. E questa si che è una soddisfazione.
Il pelo di cincillà è più morbido di una nuvola del mondo dei minipony.
La coda del cincillà che sembra super fluffy è tipo di paglia.

Capiscono qualcosa o sono stupidissimi?

La seconda.

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A livello pratico – domanda per gli amici a casa, come direbbe Barbara D’Urso – che cosa bisogna fare per accudire un cincillà?

Non abbassare mai la guardia. La scemenza autolesionista del cincillà è sempre dietro l’angolo.

Ai cincillà si fa il bagno o si portano a lavare in pellicceria?

Il cincillà per pulirsi il pelo si impana come una cotoletta alla milanese nella sabbia.
Non ho ancora avuto il coraggio di sostituirgli la pregiata sabbia di fiume di sticazzi in cui si rotolano con una secchiellata di glitter perché non ho ancora scoperto se questo possa in qualche modo essere dannoso ma non so quanto ancora potrò resistere. Se qualche veterinario leggesse e avesse LA RISPOSTA mi faccia sapere.
Se no comunque hanno avuto una vita lunga e piena… Ci sono morti peggiori che morire di glitter…
Nella pellicceria un giorno ci libererò Shushu e giustizia sarà fatta.

A parte tutto, un cincillà regala la felicità?

In dodici anni che bazzico i cincillà posso dire che non c’è stato un singolo momento, per quanto grigio, anche quando il lavoro, il parentado e la vita congiurano per farti avere un esaurimento nervoso, in cui guardandoli fare le loro cose sceme non mi sia trovata a sorridere.

:3
Lunga vita e prosperità.
Anzi, lunga vita e cincillà.

CompleLuz

 

Visto che sono ormai perennemente esausta, spettinata e, dalle 9.30 alle 18.30, anche discretamente infelice (cosa, però, di cui non posso in alcun modo lamentarmi perché ho il contratto a tempo indeterminato), ho deciso di puntare a un progetto di sopravvivenza graduale. Una cosa modulare, minimalista, per menti semplici e rallentate. Formulerò un solido prontuario di certezze incontrovertibili che mi aiuteranno a tornare sempre indenne a casa mia, dove c’è Amore del Cuore e tutto quello che, fondamentalmente, mi piace veder succedere. Sarà roba elementare, utile, che fa bene, risolve problemi quotidiani e indica il cammino, tipo fiaccolata coi maestri di sci. Visto che Ottone von Accidenti è ufficialmente entrato nella fase-velociraptor (ha imparato ad aprire le porte) e che, di conseguenza, mi fa dormire ancora meno perché continua ad aggeggiare l’armadio, per adesso nel magico prontuario delle certezze incontrovertibili ce ne sono solo due, di certezze incontrovertibili. Ma ce le faremo bastare.

UNO.
L’insalata nella busta, quella già lavata e tagliata, fa gonfiare la pancia.

DUE.
Voglio essere Licia Colò.

Sull’insalata credo non ci sia bisogno di ulteriori commenti. È vero e basta.
Su Licia Colò, però, due cose vorrei dirle.
Perché Licia Colò è il mio nuovo punto di riferimento e, al contrario della dinastia degli Angela, lì c’è spazio per inserirsi sul mercato. Ma procediamo con ordine, che sto già andando in confusione.

licia colò

Licia Colò fa il lavoro più bello del mondo.  Ha passato la vita ad abbracciare delfini, ad arrampicarsi su alberi di mangrovia carichi di pappagalli colorati e a vagare per rovine Maya di ogni forma e dimensione. Non c’è posto in cui non sia stata o tribù indigena che si sia rifiutata di raccontarle i suoi più reconditi segreti. Perché Licia Colò è garbata, gentile e si sa spiegare benissimo. Non ha problemi a pagaiare sul Rio delle Amazzoni, non le fa schifo mangiare formiche e si arrangia egregiamente anche senza il parrucchiere. Le danno un paio di ciabatte, una maglietta bianca e un microfono e la gettano su una spiaggia desolata, e lei non fa una piega. Si sistema gli occhiali da sole e ti racconta serenamente come si chiamano tutte le conchiglie che sta pestando. Licia Colò è un’entità superiore. Lo si capisce dall’assenza della borsetta. Perché Licia Colò, quando fa un documentario, va in giro come se fosse appena nata, senza accessori. E solo una creatura illuminata – una che percepisce anche i pensieri dei tuberi che crescono sottoterra, che ringrazia i sassi per il loro essere sassi e che vive della rugiada mattutina – può esplorare la Mongolia senza manco uno zaino. Nel 70% delle fotografie che la ritraggono, Licia Colò ha in braccio almeno un animale. Che si tratti di un gatto, di una capretta o di un panda rosso, Licia Colò ha l’aria più felice, quando la fotografano insieme a una bestia. Non che di solito sembri triste, sia chiaro. Non è nemmeno sfiorata dal tempo. Licia Colò ha più di cinquant’anni ed è bella come il sole… e noialtre, che alla mattina abbiamo la faccia grigia come una lapide di brughiera, possiamo metterci l’anima in pace e lucidarle l’intera collezione di braccialetti balinesi, una perlina alla volta.
Per queste – e molte altre ragioni –, Licia Colò va a presentare il suo programma – che si chiama Alle falde del Kilimangiaro, montagna che Licia Colò ha scalato almeno tredici volte nella sua vita, muovendo alle lacrime col suo canto anche il più spietato degli avvoltoi -, dicevamo, Licia Colò va al lavoro e si siede su un divano a forma di foglia gigante. Perché se lo è meritato.

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Licia Colò è così adorabile e serena, così bene informata e così visibilmente fiera di quello che fa – anche quando arranca per il deserto del Sahara sulla groppa di un dromedario scorbutico – che è impossibile provare dell’invidia nei suoi confronti. La guardi e vuoi essere come lei, ma non puoi volerle male per tutte le cose belle che ha visto e tutti i cuccioli di leopardo delle nevi che ha coccolato, in cima a qualche rupe scoscesa. Leopardini delle nevi con le zampe più grandi della testa. Adorabili piccole palle di pelo miagolanti, con la coda grossa così e gli occhi sgranati. Licia Colò li ha cullati TUTTI.
Ebbene.
Io penso che Licia Colò necessiti di una discepola. Perché, come accennavo poco fa, Piero Angela ha già provveduto a mettere al mondo un erede capace di governare il suo impero della garbata divulgazione. Sangue del suo sangue, poi. Piero Angela ha Alberto Angela, che è bravo quanto lui e, anzi, anche più disposto ad avventurarsi nelle catacombe e a passarci gli anni migliori della sua vita. Fateci caso, Alberto Angela è SEMPRE in una catacomba. E Licia Colò? Licia Colò non sta pensando per niente alla posterità. Licia Colò è ancora abilissima e assolutamente in grado di intrattenerci in maniera graziosa, intelligente e curiosa, ma è un po’ che non sorvola le Ande in deltaplano. E’ diventata una signora, ha raggiunto un tale livello di nobiltà che adesso sono i guerrieri masai che la vanno a trovare in studio, senza bisogno di farla impolverare o divorare dai leoni. Per quelle cose lì, le robe “sul campo”, le servirebbe un Alberto Angela, un apprendista, un padawan, un volenteroso inviato a cui insegnare tutto quello che sa. Ed è proprio questo il momento in cui un degno Colò-padawan dovrebbe iniziare il suo cammino d’apprendimento e coccole alle creature della terra.
Licia, scegli me.
Ho un grande spirito di osservazione. Sono atletica e coriacea. Scrivo senza problemi di qualsiasi cosa. Non sono schifiltosa. Amo gli animali. Mi piace viaggiare. Non vengo troppo male in video. Sono curiosa. So andare a cavallo. Sono una ricciolona bionda, come te. Chiacchiero un casino. So l’inglese alla perfezione.
Sono nata per questo.
Una volta mi hanno addirittura lasciato maneggiare una poiana di Harris.

Sono pronta, Licia Colò.
Insegnami quello che sai.
Guidami e ispirami.
Racconteremo la natura selvaggia a chi ci vuole ascoltare. Accompagneremo frotte di allegri ascoltatori alla scoperta delle meraviglie del nostro pianeta. Guarderemo il tramonto che fiammeggia sull’oceano, in mezzo a branchi di balene che sbuffano. Correremo dietro agli gnu che migrano. Ammireremo gli ippopotami, anche quando fanno la cacca… che è un processo molto schifoso, perché la frullano con la coda. Ma noi staremo un po’ lontane, e nulla di male ci accadrà.
Il mondo! La natura! La scienza! L’infinito!
Portami con te, Licia Colò.
Non ti deluderò.

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Il mondo potrebbe essere bellissimo.
E invece è pavido e palloso.
Il mondo potrebbe essere confortevole e variopinto.
E invece è pieno di mutande che ti vanno a finire in mezzo alle chiappe.
Vivere è una meraviglia, in teoria. E’ che ci sono dei problemi, spesso e volentieri. Problemi, ostacoli e convenzioni sociali di rara imbecillità. Menate, vicini di casa impiccioni e buona creanza. Gente che sale sul tram senza darti il tempo di scendere. Standard cultural-comportamentali, fumose norme sul decoro e la dignità, completi da consulente pendolare e costrutti artificiosi privi di anima che, tanto per fare un esempio, non consentono a un essere umano adulto di affrontare la giornata indossando una tutina zoomorfa in morbido pile cinigliato. Con la coda, dove serve. Con la coda, il cappuccio e delle grosse orecchie simpatiche.

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I Kigu, gente, la più fantastica invenzione dell’umanità, il punto più alto della nostra parabola evoluzionistica! Siamo andati sulla Luna… e, se mai andremo su Marte, sbarcheremo sul rossiccio suolo alieno con una Kigu-tutina, se mai debelleremo la fame, gli stenti e le zanzare, se mai capiremo dov’è veramente il Molise e troveremo il modo di coesistere in pace, ebbene, lo faremo indossando un Kigu. Rovesciare le dittature, spazzar via i pregiudizi, fare film degni dei libri, mangiare senza sporcarsi, sconfiggere la placca, capire l’arte moderna e mettersi il mascara conservando un’espressione intelligente. Tutto questo potrebbe accadere, se solo avessimo un soffice Kigu!
Come ho fatto a sopravvivere fino a questo momento, senza aver mai sentito parlare dei Kigu? Vegetavo nell’oscurità e nel tormento, ma ora ho visto la luce!

Insomma. I Kigu vengono da questo sito/azienda/fabbrichetta/nobilissima impresa britannica che, nel 2009, ha deciso di provare a diffondere i kigurumi fuori dall’Asia, perché pure il resto dell’umanità li meritava. I kigurumi esistono in Giappone – E DOVE ALTRIMENTI – da decenni e, letteralmente, la parola kigurumi vuol dire una roba tipo “costume da animale”.  Il sito dei Kigu è pieno zeppo di persone come me e voi che vanno in giro vestite da panda rosso o da scoiattolo volante. Così, senza una preoccupazione al mondo. Ora, io non so che scusa abbiano usato questi personaggi qui – ho perso una scommessa! È il mio addio al celibato! Una devastante dermatite mi impedisce di indossare indumenti attillati! -, ma non posso che invidiarli ferocemente. Sono lì, che fanno la spesa con su un Kigu a draghetto, e sono contenti. Sorrisi di totale appagamento. Gioia. Sport invernali e gufini con le ali.

E chi li ammazza.
Ma soprattutto, perché noialtri no? Bisogna adottare una strategia tipo Progetto-Mayhem. Prima ci troviamo in un po’ di gente in cantina, a casa di qualcuno, tutti con su un bel Kigu. Pian piano, poi, Tyler Kigu comincerà ad assegnare dei compiti: regala un Kigu a uno sconosciuto. Ruba i vestiti alla gente in palestra e riempi gli armadietti di Kigu. Ingolfa Tumblr di Kigu-gif. Caccia George Clooney dentro a un Kigu (si sa, l’ENDORSMENT delle SELEBRITIES è importante). Cosa di assoluta importanza, poi, è far capire alla popolazione mondiale che un Kigu non è poi molto più strano di quello che si mette Anna Dello Russo anche solo per portare il cane a fare la cacca. O per affrontare i rigori dell’inverno. Dai, di cosa stiamo parlando. Col Kigu almeno non brini, il 26 di gennaio. E puoi comunque metterti in posa come una bestiolona sexy che sta sempre in braccio ad Anna Wintour alle sfilate. Tié, guarda che magnificenza.

Dopo aver costruito uno zoccolo duro di indomiti cittadini con gli armadi pieni di Kigu, il Kigu-brand dovrebbe pensare a una massiccia campagna pubblicitaria. Ho già in mente il testimonial perfetto: il ragazzino (che ormai avrà finito l’università) di Where The Wild Things Are. Perché lui l’ha già fatto. Lui ci andava in giro tutti i santi giorni, vestito da volpegattino bianco. E gli hanno giustamente dato una corona.

Non solo, ma ragazzino-volpegattino avrà anche il coraggio di difendere i nostri diritti. Salirà in piedi sui tavoli e inveirà con decisione contro chi tenterà di tirarci fuori dal nostro Kigu. VOI, CON LE VOSTRE CAMICIE SCOMODE! VOI, COI VOSTRI LEGGINGS FIORATI! VOI FASHION BLOGGERS, SENZA CALZE NELLA NEVE! Io vi ripudio! Io scelgo il Kigu!

E se la Kigu-rivoluzione fallirà, se nemmeno il ragazzino-volpegattino riuscirà a difenderci dalla tristezza e a costruire una fortezza abbastanza grande da tenerci al sicuro, noi coi nostri Kigu a forma d’unicorno, ecco, vi chiedo di seppellirmici, dentro a un Kigu. E di fare un libro tutto illustrato pure per me.

Kigu, per la gloria!
Amici, vale la pena combattere. Dobbiamo tentare.
…vanno pure in lavatrice.

MADRE e le bestie hanno problemi da tempo immemore. Da piccola, quando ancora viveva in campagna, MADRE fu ripetutamente beccata sul sedere da una bellicosa oca da cortile. Poco tempo dopo, la famiglia di MADRE si trasferì in un paese non troppo distante dalla cascina che le diede i natali. E a MADRE venne affidata una gallina di nome Gallina. Gallina viveva sul solaio ed era estremamente affabile, becchettava docile i suoi semini mentre la piccola MADRE le accarezzava la schiena. MADRE si vanta sempre moltissimo, della sua Gallina: mi voleva bene davvero! Arrivavo lì la mattina e mi faceva l’uovo in mano, pensa! Poi, un bel giorno, mia nonna servì a tutti quanti un brodo di pollo particolarmente buono e di Gallina si persero le tracce.
Eh.
Segnata da questo incredibile atto di barbarie – mia nonna, pace all’anima, andava processata a Norimberga -, MADRE decise di mettere un bel menhir sul tema animali, si comprò una Cinquecento e guidò fino al mare nel giorno numero uno della sua sospirata patente. Poi capitò un fatto increscioso. I miei zii comprarono questo cane grosso di nome Muz. Non mi ricordo se era un pastore tedesco o un San Bernardo, so solo che era una bestia gigante. MADRE, ignara della presenza di Muz dall’altra parte della porta, entrò serenamente in casa sua, in un gran stridore di scarpe da ginnastica. Il cane, vittima di chissà quale demone passeggero, assalì MADRE sulla soglia, morsicandole una coscia con gran cattiveria. La coscia di MADRE entrava giusta giusta nelle fauci bavose e puzzolenti di Muz, che la sgranocchiò per un po’, scrollandola di qua e di là. Ad un certo punto, forse dopo aver evocato il potere di Grayskull e quello dei Petali di Stelle, MADRE ritrovò la sua mitologica coordinazione e riuscì ad assestare uno scapaccione al cane, levandoselo di dosso tra gli applausi di una moltitudine di creature delle tenebre. Al che, MADRE – sanguinante e incazzata come una tempesta monsonica con tsunami intermittenti – venne portata in tutta fretta all’ospedale e riempita di punti. Le fecero l’antirabbica e un milione di analisi. Sana e salva, MADRE lasciò l’ospedale e tornò alla sua vita. Io non c’ero ancora, e MADRE già insegnava educazione fisica in lungo e in largo, spostandosi a bordo della sua fida Cinquecento rossa per monti e per valli. E niente, dopo due giorni dalla faccenda del morso a MADRE, Muz morì di colpo. Così. Un secondo prima era in piedi e l’attimo dopo era in terra stecchito.

Io non so cosa dirvi. So solo che, ormai, le bestie temono MADRE. Nell’arco della sua placide esistenza, Cricci, il criceto russo che visse con noi per quattro anni – quattro anni fatti di incredibili architetture di bambagia e montagne di semini di girasole -, insomma, in tutto quel tempo il nostro Cricci sentì il bisogno di morsicare una volta sola. E morsicò MADRE. Lo stesso Ottone von Accidenti, che si fa coccolare e prendere in braccio anche dal Mostro di Firenze, fugge al cospetto di MADRE, appiattendosi sotto al letto in preda a un terrore cupo e totale.
E’ stato bellissimo, dunque, ricevere all’improvviso dal mio papà questo sconvolgente documento fotografico:

foto 1

Ecco. C’è MADRE che conversa pacificamente con un giovane cigno, sulle sponde del Lago di Garda. Il cigno, a quanto mi è stato riferito dal mio attendibile papà, si è avvicinato a MADRE con passo deciso e non l’ha più mollata. MADRE girava per questa piazza con un fiducioso, devoto e gigantesco cucciolo di cigno alle calcagna. Manco San Francesco era riuscito a farsi voler bene dai cigni. Passeri, lupi di Gubbio, ma niente cigni. MADRE, commossa fino alle lacrime dall’immotivato affetto del grosso volatile dalle zampe palmate, ha deciso di fare quello che farebbe ogni MADRE degna di questo nome: ha nutrito il baby-cignone. Con un pacchetto di cracker. SECCHISSIMI. Il cigno, probabilmente abituato a cibarsi di roba un po’ più umidiccia, sapientemente filtrata e sminuzzata dal suo utile becco a palettina, ha rischiato di morire soffocato dall’invincibile croccantezza dei cracker, ma è sopravvissuto. MADRE è addirittura riuscita a fargli pat-pat sul capino e a prenderlo scherzosamente (…?) per il collo, alla facciazza di Konrad Lorenz e delle sue suggestionabilissime oche.

foto 3

Ora, io non so se il cigno sia rimasto segnato in maniera irreparabile dall’incontro con MADRE, ma sono contenta per lei. Sono contenta per l’universo in generale. Che qualcuno pigli MADRE e la lanci con un paracadute in una foresta di bambù. Questa rinnovata alleanza con gli animali va sfruttata, finché dura. Gettatela in una foresta cinese e convincerà quei cretini dei panda giganti ad accoppiarsi furiosamente. Proiettate foto di MADRE davanti agli scheletri di plesiosauro di ogni museo di storia naturale, e i dinosauri torneranno a popolare la terra. Avvolgete i kiwi neozelandesi nelle copertine sferruzzate da MADRE, e mai più saranno sfiorati dallo spettro dell’estinzione. Scagliatela su Marte, e ci dirà dove ha strisciato l’ultimo batterio.

Che contentezza. Il mondo animale ha una speranza concreta, ora che MADRE non rappresenta più una fiammeggiante minaccia.
E visto che le tradizioni sono importanti, ecco la foto che ho rispedito al mio papà, per festeggiare degnamente l’incontro col giovane cigno del Garda.

foto 2

MADRE, proteggi gli echidna!
Salva i leopardi delle nevi!
Riempi le pianure di bufali!
Moltiplica i lemuri!
Veglia sul falco pellegrino!
Prendi in mano il business della benedizione degli animali!
…e comprati un gatto, invece di cercare di impadronirti del mio.

 

 

TEGAMINI – Amore del Cuore, ma dove sono le Azzorre, di preciso?
AMORE DEL CUORE – …sono un po’ più in là delle Canarie.
TEGAMINI – Pensavo peggio.
AMORE DEL CUORE – Perché?
TEGAMINI – Perché potremmo andare là, in vacanza!
AMORE DEL CUORE – …
TEGAMINI – Massì, c’è la natura, ci sono le rocce vulcaniche, c’è l’acqua splendente, ci sono le balene!
AMORE DEL CUORE – Balene.
TEGAMINI – Ce ne sono tantissime, megabelle. L’ha detto Philip Hoare! Lui c’è stato e ci nuotava insieme… non vuoi nuotare con le balene? A Philip Hoare piacciono molto anche le balene dell’Artico, ma ho pensato che forse preferivi andare un po’ più al caldo in estate… quindi possiamo lasciar perdere la Groenlandia, per qualche tempo. Cosa dici? Ma lo sai che Melville c’è andato davvero, su una baleniera? Ma lo sai che il Physeter macrocephalus sta in una famiglia naturalistica tutta sua, che di bestie simili-simili non ce ne sono? Pensa, ha solo i denti di sotto, il capodoglio! E i calamari giganti esistono davvero e il capodoglio li mangia! Ma t’immagini? CAPODOGLIO vs CALAMARO GIGANTE!

Amore del Cuore, non ancora pronto ad affrontare un tale entusiasmo balenifero, mi ha lasciata sola a farneticare di cetacei, spermaceti, arpioni, fanoni, remore e vertebre. Ma posso sempre ammorbare voialtri. Perché ho letto Leviatano, mi sono divertita immensamente e adesso so anche mucchi e mucchi di cose, un po’ zoologiche, un po’ economiche, un po’ letterarie e un po’ sentimentali.

Mentre scorrazzano per i mari, i capodogli non si curano se sia giorno o notte. Come tutte le balene respirano in modo volontario e devono dunque rimanere svegli con metà del cervello quando si riposano. È quasi sicuro che sognino. A volte,dopo aver mangiato a sufficienza, fanno una pennichella tutti insieme, mettendosi in perpendicolare, come pipistrelli, con lo sfiatatoio sopra il pelo dell’acqua. Gradiscono il contatto reciproco e passano ore a strofinarsi e rotolare l’uno sull’altro appena sotto la superficie: «Sembra che si vogliano tutti bene, – dice Jonathan Gordon per descrivere questo balletto subacqueo. – Non è raro vedere individui che si tengono delicatamente per le fauci».

Teniamoci per le fauci!

In questo libro misterioso e bizzarro – scritto da Philip Hoare, l’uomo al mondo che più ama le balene, tradotto dai prodi Duccio Sacchi e Luigi Civalleri per le sempre adorabili Frontiere Einaudi – c’è tutto quello che serve per esplorare le profondità marine e tornare a galla per respirare con un bello sbuffone dallo sfiatatoio (N. B. se una balena che ha il raffreddore vi colpisce con il suo portentoso soffio, quando torna a galla, ebbene, il raffreddore ve lo prendete anche voi).
Comunque, Leviatano comincia con la storia di Moby Dick e delle ossessioni del suo autore, ci racconta le vicende dell’industria baleniera americana e i primi tentativi – sull’approssimativo andante – di studiare le creaturone più imponenti dell’oceano. Ci sono animali che si arenano sui litorali, richiamando l’attenzione di monarchi, principi e pittori. Ci sono lunghi viaggi, pericoli terrificanti, acque calde e acque gelide. C’è un beluga malinconico in un acquario di Coney Island e c’è la megattera che fa più versi di tutte le altre balene del pianeta. C’è la caccia con l’arpione e la descrizione di tutto quello che si può ricavare, ahimé, da una balena. C’è la balenottera azzurra appesa al soffitto del Museo di Storia Naturale di Londra, un affare gigante e molto realistico, costruito alla vigilia della Seconda guerra mondiale in una sala allestita appositamente… che le balene erano diventate TRENDY e la gente le voleva vedere.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1937, il capotecnico e imbalsamatore ufficiale del museo, Percy Stammwitz, si dichiarò disponibile a costruire il modello direttamente nella sala. Aiutato da suo figlio Stuart, impiegò quasi due anni per completare l’opera, basandosi sui dati forniti dalla spedizione scientifica nella Georgia del Sud. Seguendo giganteschi modelli di carta simili a quelli dei sarti, si tagliò il legno necessario per creare le varie parti dell’armatura e le stecche per tenerle assieme. Il tutto fu poi ricoperto di fil di ferro, sopra il quale fu modellato lo strato esterno di gesso. Era un lavoro lungo e faticoso. Durante la costruzione l’interno fungeva da tavola calda per le maestranze (nel 1853 Benjamin Waterhouse Hawkins ebbe l’idea di organizzare una festa di capodanno tra scienziati dentro il suo modello di iguanodonte ancora da completare, un evento che fu descritto dalla stampa periodica come una riunione di moderni Giona inghiottiti dalla balena).

Insomma, si fanno scoperte meravigliose – il cervello del capodoglio pesa sette virgola otto chili! Che roba è l’ambra grigia e per quale ragione olezza così tanto? Ah, che orrore! – e ogni tanto passa un serpente di mare mitologico. Conosceremo dinastie di cacciatori, marinai specializzati nell’intaglio di denti di capodoglio – J. F. K. li collezionava, pensa te -, leggende del mare e terrori atavici. E, finalmente, qualcuno ci rivelerà a che serve il corno del narvalo. Ma vi dirò di più, Philip Hoare, sui narvali, la pensa come me.

Anche nel narvalo ritroviamo la mesta bellezza del beluga, un’aura ferale suggerita dal suo stesso nome, derivato dall’antico norreno nar e hvalr, ovvero «balena cadavere», perché le chiazze della sua livrea ricordano le livide macchie dei corpi senza vita (…). Ciò non toglie che l’emblema della malinconia del narvalo risieda proprio nella sua caratteristica piú appariscente, sottolineata dal binomio del suo nome scientifico: Monodon monoceros, ovvero un solo dente e un solo corno.

BALENA CADAVERE.
MALINCONIA.
Povero, povero narvalo.

La zanna del narvalo è infatti un grosso dente vivo, che crescendo perfora il labbro sul lato sinistro della bocca e si avvita a spirale fino a sfiorare, e addirittura superare, i tre metri. (…) Le recenti analisi al microscopio elettronico hanno svelatola vera magia racchiusa nel dente del narvalo. La sua superficie,a differenza di quella dei denti normali, è attraversata da tubuli aperti verso l’esterno e connessi con i nervi interni.Il corno in pratica è un gigantesco organo sensoriale, fornito di decine di milioni di terminazioni nervose che permettono all’animale di registrare i piú lievi cambiamenti di temperatura e pressione. Si spiegherebbe cosí, tra l’altro, l’abitudine che hanno i narvali di sollevare il corno fuori dall’acqua, quasi annusassero l’aria. Altre ricerche hanno mostrato che questo dente, oltre a essere una sonda sensoriale, può anche fungere da trasmettitore e ricevitore acustico ed elettrico.

IL DENTE DEL NARVALO SERVE A MILLE COSE!
IL MONDO È UN POSTO MERAVIGLIOSO!

Ma ricomponiamoci, dopo questo momento d’euforia per il narvalo e le balene dell’Olartico – pagine bellissime, BELLISSIME, c’è persino il disegnone di un unicorno -, che bisogna concludere con dignità e un qualche genere di autorevolezza.

Leviatano mi è garbato immensamente. Philip Hoare è così felice di raccontarti tutte quelle storie sulle balene che finisci per appassionarti quanto lui. Io ho chiuso il libro e ho quasi pianto, consumata dal rimorso per essermi mangiata una bistecchina di balena quand’ero a Oslo. Philip Hoare, perdonami, non sapevo cosa facevo. Non conoscevo ancora la mirabile struttura del cranio del capodoglio o la complessità dei suoi rapporti sociali. Andrò all’inferno. Sprofonderò in un abisso pieno di furibondi calamari giganti. Comunque, se volete nuotare insieme al buon Hoare e alle musicalissime megattere, se volete partire per un viaggio con Ismaele – e capire, finalmente, anche le cose più astruse di Moby Dick – o anche solo imparare meraviglie sugli animali più grandi e difficili da studiare del nostro allegro pianeta, ecco, allora Leviatano vi garberà. Anzi, sarete tristi quando finirà… ecco una buona GIF in grado di riassumere i miei sentimenti:

***

P.S. Questa frase è straordinaria. Una cosa orribile, è vero, ma se cercherete di immaginarvi la scena sarà la fine.

A regnare sovrana era una palese indifferenza per la dignità degli animali, come illustra ancora il fatto che il personale delle stazioni antartiche di caccia alla balena era abituato a ravvivare il fuoco dei falò gettandoci sopra i pinguini come grasso da ardere.