Siamo qui perché in copertina c’è un casuario e io sono molto sensibile agli animali bizzarri, specialmente a quelli che sembrano discendere per direttissima dai dinosauri teropodi. Il casuario è una sorta di residuato bellico, la colorata scheggia impazzita che sopravvive fra noi senza perdere un briciolo della sua preistorica violenza. Per approfondire, vi rimando a una roba che avevo scritto dieci anni fa e che testimonia un’antica curiosità – che resta inspiegabile, ma pazienza, prima o poi andrò in terapia.
Cosa ci fa un casuario nel romanzo d’esordio di Leonardo San Pietro? Vive sereno in un recinto, nei pressi di una bella villa del torinese, un po’ fuori mano. La villa è di Isa M, il casuario no. Ci sono vicini che tengono pavoni in giardino e cani da guardia a difesa dei confini, ma i vicini Isa M hanno un casuario. Per lei non è più una novità e, in ogni caso, ha altro a cui pensare. Studia lettere e sta per ricevere una quantità spropositata di gente, pronta a radunarsi per festeggiare il suo compleanno. Il più atteso è Ezio, il bel ragazzo universalmente amato con cui spera di avviare una storia non troppo passeggera. Arriva chiunque – compresi gli imbucati e i conoscenti anche molto vaghi -, ma di Ezio non c’è traccia. Al suo posto, si materializza in cucina un pacco-dono con un fatale bigliettino, che recita più o meno così: “Se nessuno toccherà il casuario entro l’una, Ezio morirà”.
Visto che non voglio essere scaricata ai piedi del casuario, eviterò di addentrarmi in snodi e colpi di scena, lasciandovi la pienissima libertà di mescolarvi alla folla. San Pietro, dopotutto, è lì in mezzo che ci deposita e starà a noi prendere le misure. La compagnia è all’apparenza molto buona, ma come ogni agglomerato umano che si rispetti, anche questo microcosmo risponde a leggi profonde. Ogni individualità, qui, approda con un passato, un bagaglio di speranze e un nutrito arsenale di maschere. C’è la vicinanza data da un comune pretesto di ritrovo e c’è una doppia distanza siderale di cui tenere conto: quella che ci separa da chi crediamo di conoscere e quella che ci spacca a metà, per conto nostro. Come il recinto del tremendo pennuto stabilisce un confine tra dentro e fuori, anche la compagnia di Isa M – che si disperde e si ricompone per risolvere il mistero dell’assenza di Ezio – ha sentimenti segreti e identità “di consumo” da amministrare. Una festa è un sistema disordinato e vitalissimo di orbite in cui tutti possono trasformarsi all’improvviso in un nuovo centro di gravità: ancorarsi con tenacia e produrre un legame è la missione fondamentale, per non essere trascinati via dall’estremo vuoto dello spazio. Lo stesso vuoto che, spesso, è il nostro nucleo più sincero.
Ezio è davvero in pericolo?
Qualcuno sa come ammansire un casuario?
Cosa diavolo hanno messo in questo ciotolone di sangria?
Il mondo reale saprà accoglierci?
Festa con casuario – in libreria per Sellerio – è un esperimento corale di splendida stranezza e trappole mortali, di gioie molto pure e tentativi struggenti. Che cosa vogliamo, quando cerchiamo di piantare i piedi nel presente? Qualcuno che ci veda e che sopporti quella rivelazione, spesso molto meno eclatante dell’immagine accuratissima che ci appiccichiamo addosso. Qualcuno che ci mostri un mondo più affettuoso di quello che ci aspetta da grandi. Nella realtà, in effetti, tutti i casuari sono scappati dai recinti e ci inseguono di gran carriera. Il trucco sta nel ricordarsi come sperare – e quello l’abbiamo imparato da giovani, quando ogni festa era anche una gigantesca promessa. Questa storia, penso, mantiene le sue.












A bordo della Drakkar c’è anche Mickey Barnes. Non è un pilota, non è un ingegnere, non è un agronomo o un militare e nemmeno un ricercatore medico. Si è offerto volontario per l’unico posto da Expendable – “Sacrificabile”, nella traduzione italiana – nella missione di colonizzazione di Niflheim, una palla di ghiaccio che non promette di lasciarsi domare agevolmente.
La maledizione funziona a meraviglia e lo stregone perdurerà tra mille tormenti, asserragliato nella sua fortezza come il relitto di un universo destinato a scomparire e campando sostanzialmente alle spalle delle tre sorelle, streghe anche loro. Le maggiori sono bellissime – Undine prevede il futuro guardando in uno stagno che le restituisce il suo magnifico riflesso, mentre Rosenrot è un’erborista straordinaria – mentre l’ultima, Marlinchen, divinatrice della carne, non ha niente di speciale. Anzi, le viene continuamente ripetuto che è brutta, sgraziata, ordinaria e indegna d’amore.
Ci troviamo in un nebuloso regno marittimo governato da un imperatore teatralissimo e troppo fanciullesco per destare sospetti di particolare pericolosità. Il regno è dotato di una società ordinata, di università e di una popolazione poco incline ai colpi di testa. Non si capisce bene che cosa s’insegni a scuola, però, visto che il regno sembra non conoscere le proprie reali origini. Ci sono miti e filastrocche, ma i testi e i reperti consultabili coprono un arco temporale non troppo remoto e su cosa sia capitato prima c’è ancora del gran mistero. Il Dipartimento di Storia tormenta da anni la costa sabbiosa, cercando non si sa bene quale antenato. Un bel giorno, però, una duna ingiustamente snobbata restituisce una città… e dona un’occasione d’oro all’imperatore. Che si tratti della capitale perduta dei Morgondi, i leggendari avi del nostro popolo? I valorosi guerrieri delle fiabe sono tornati per indicarci la via!
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Quel che occorre sapere è che il re di Yusan è spietato e immortale. La sua dinastia ha riunificato il regno servendosi di reliquie prodigiose di un antico imperatore dragonesco – non ci sono draghi in circolazione, però, possiamo tirare un sospiro di sollievo – e ha sempre governato col pugno di ferro, un acuto disprezzo per il popolino e una sempre corroborante spolverata di misoginia.