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tegamini

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Un giorno avrò un volpino di Pomerania, una casa di proprietà, una rendita di diecimila rubli al mese, una piastra GHD e una persona che mi sceglie le foto e mi raddrizza gli orizzonti sbilenchi. Il tutto mentre io sto seduta in poltrona a bere dei tè e a scrivere a macchina.
In attesa che tutto ciò accada, possiamo serenamente proseguire – non senza una certa intempestività – con la gioiosa cronaca del superweekend trascorso in Slovenia a farmi nutrire, idromassaggiare e meravigliare dalla natura. Nella prima puntata vi avevo confusamente raccontato di Vipava, Ptuj e Celje. Questa volta, con il favore dei fauni di Narnia, ci sposteremo a Bled, dove l’acqua è più cristallina e i cigni si riproducono a ritmi forsennati.

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Per chi, come me, ignorasse le più basilari nozioni geografiche, dirò che Bled è una incantevole località turistica situata a metà strada tra Lubiana – la capitale slovena – e il confine italiano. Bled sorge saggiamente sulle sponde di un lago della circonferenza di circa sei chilometri – percorsa caparbiamente da podisti di ogni età, che corrono indomiti ad ogni ora del giorno e della notte. Il placido lago, oltre ad essere piatto e sereno come la stele di Rosetta, custodisce anche l’unica isola naturale della Slovenia – dotata di chiesetta, campanile e cruentissima leggenda d’ordinanza. Per non farsi mancare nulla, Bled ha anche un castello di rara simpatia e un vivace sistema di sorgenti termali, che potrete comodamente godervi passando un po’ di tempo all’Hotel Golf – come ha fatto la sottoscritta. E a Bled, cosa assai importante, si mangia benissimo. Dev’essere un po’ una caratteristica della Slovenia. Arrivi in un posto nuovo e tutti sono convinti che stai morendo di stenti e che bisogna darti subito da mangiare.
La prima sera siamo stati principescamente ospitati dal ristorante Julijana del Grand Hotel Toplice, il più antico della città. E pure quello col panorama migliore. Il giovane chef sloveno del Julijana sta fieramente combattendo per conquistare una stella Michelin e, dal profondo del cuore, gli auguro che gliene diano una generosa manciata. Il nostro tavolo si può ammirare qua sotto. Quello che ci siamo mangiati, invece, l’ha fotografato benissimo la Rossana – e non vedo quindi perché dovrei affaticarmi con un maldestro collage quando c’è già il suo che è così ben architettato.

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Voi in che letto dormite? Io ho un matrimoniale che divido con un grosso uomo incredibilmente affettuoso, che rotola in giro, mi abbraccia nel cuore della notte e mi assesta, occasionalmente, delle gomitate nello sterno. Pur adorando Amore del Cuore, devo confessare che, di tanto in tanto, dormire da sola in un lettone a due piazze mi suscita un po’ di commozione. Se poi, alla mattina, apri la finestra e c’è della neve che precipita su un lago, la faccenda si fa ancora più soave.
Con questo spirito di assoluta benevolenza nei confronti dell’universo, siamo risaliti sul pulmino per una giornata di giretti ed esplorazioni.
La prima cosa che ho scoperto a Bled è che i campeggi non sono necessariamente una roba da roncioni.
Là fuori, gente, esistono anche i GLAMPING.
Se lo scopre Cosmopolitan siamo finiti. “103 idee per il petting spinto nel cuore della foresta”. “Sughero power! 10 zeppe super trendy da abbinare al tuo bungalow”. “Sauna hot: le confessioni delle campeggiatrici più ROAR!”.
Io di campeggi non me ne intendo molto, ma ero assolutamente estasiata. Il Glamping di Bled è un luogo a metà tra un villaggio elfico e il sogno erotico di un minimalista. Ci sono le capannette di legno con la vasca da bagno esterna a forma di botticella (con civilissimi bagni privati e graziose doccette) e ci sono le casette megageometriche progettate dal pronipote hipster di Le Corbusier. Tinte naturali, vialetti di sassolini, armonia con la natura e organizzazione suprema degli spazi. Ci entri in cinque e non hai idea di come hai fatto.

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Rinfrancata dalla pacifica comunione tra boschi di sempreverdi e dimore per campeggiatori, ho ben deciso di coricarmi all’improvviso nel bel mezzo alla piscina sfacciatamente turchese del Grand Hotel Toplice. Provvisto di salottini rosa, sale da tè panoramiche, fascinosi parquet scricchiolanti, persiane bianchissime, una magica spiaggia privata, vetrate assai coreografiche e un vaso giapponese dal valore inestimabile – messo lì in un angolo come se niente fosse – il Toplice è una specie di piccola macchina del tempo. Ci passi un’ora e ti convinci di avere un valletto e una muta di levrieri argentati.

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Visto che non si mangiava da circa trenta minuti, ci siamo sentiti in dovere di fare merenda con una delle specialità del luogo, la leggendaria cream cake. La cream cake è un dolce estremamente rispettoso della geometria: v’arriva in pratici parallelepipedi che misurano sempre 7 x 7 x 5 centimetri e ogni strato presenta differenti gradi di solidità. Ma che c’è dentro? Uovo, crema alla vaniglia, panna, burro, burro, burro imburrato e burro al burro. Per fare breccia nella crosticina sovrastante vi consiglio di utilizzare la forchetta come un piccolo martello pneumatico. O come il forsennato cranietto di un picchio. Vedete voi con quale metafora vi è più comodo procedere.

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Bled, oltre ad essere un luogo ricco di interessanti soluzioni ricettive e un paradiso gastronomico, è anche una specie di romanzo fantasy. Vi basterà inerpicarvi su un roccione a strapiombo sul lago, infatti, per godervi il castello, le sue numerose attrazioni e il mirabile panorama. Mettetevi delle scarpe coi gommini, che c’è una salita ciottolata con una pendenza del 48%.

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Il castello di Bled è un luogo sorprendentemente vivo e divertente da esplorare. Si può visitare un piccolo museo che narra la storia del lago, di Bled come località di villeggiatura, del maniero stesso e dei primi abitanti della valle – ossa preistoriche comprese. C’è la bottega di uno stampatore – che pialla a mano tutti i souvenir cartacei – e un allegro frate che vi insegnerà a imbottigliare. Sulla fucina del fabbro, poi, sono stata inevitabilmente travolta dai ricordi e mi sono messa a strillare in mezzo alla corte SONO BASTILANI E BATTO IL FERRO! A cinque metri, purtroppo, c’era un servizio fotografico nuziale in corso. Nonostante la neve e il freddone, la sposa vagava pacifica in bolerino in finto pelo di dalmata e sandali con gli strass. Lo sposo, un tipo spericolato, ha eseguito un Cassina II sul parapetto a strapiombo sul lago. In maniche di camicia. E noi là, ad abbracciare stufe di cobalto.

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Non paga, sono stata utilizzata per svariati minuti come posatoio per una serie di fiocchi di neve assolutamente PERFETTI. Fiocchi di neve a forma di fiocco di neve. Fiocchi di neve da manuale dei fiocchi di neve. Fiocchi di neve STANDARD. Intanto che ci siete, vi inviterei altresì a notare la completa assenza di doppie punte al termine della mia esuberante chioma.

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Vedendoci un attimo deperiti, la famiglia Jezersek ha deciso di offrici il pranzo nel ristorante del castello. Correggetemi se sbaglio – o se solo io ho avuto sfiga nella vita – ma è molto difficile trovare qualcosa di dignitoso da mangiare all’interno di un luogo “turistico”. Siamo sempre portati a pensare che i posti veramente validi siano infrattati in qualche vicolo, lontani dalle attrazioni più frequentate e difficilmente individuabili dalle mandrie di cinesi col selfie-stick. Visto che nulla di tutto questo – dal punto di vista funzionale ed economico – ha alcun senso, i Jezersek hanno deciso di inaugurare un locale stupendo nel cuore del castello. Vista spettacolare, cucina slovena e comodità massima. Credo sia stato il mio momento-cibo preferito, ma dell’intero weekend proprio.

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Travolti dalla digestione e piuttosto spaventati da una bufera di neve sempre più robusta, ci siamo lungamente interrogati sull’opportunità di attraversare il lago su una barchetta a remi per raggiungere il famigerato isolotto, inerpicarci su per la scalinata di pietra e suonare la campana della chiesa per tre volte (nella speranza di veder esauditi i nostri più reconditi desideri). I nostri accompagnatori sloveni, per nulla intimoriti dal clima, ci osservavano perplessi. Che insomma, la nevicata è bella, ma non voglio fare la fine di Leonardo Di Caprio che annega nel mare ghiacciato. Dopo un dibattito fondamentalmente basato sul “E quando ci ricapita più? Pensate a Instagram!”, abbiamo sfidato la neve e ci siamo issati sul barchino… con risultati a dir poco fiabeschi.

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Questo cigno, che il cielo lo spenni, ha affabilmente accompagnato all’attracco ogni singola imbarcazione e si è lasciato festosamente fotografare da 57 persone. Quando finalmente è arrivato il mio turno, ha allungato il collo e mi ha beccato uno stivale. Solo a me. Ma che gli avrò mai fatto. Io non dimentico, cigno. Sono rancorosa come Stalin. Tornerò a cercarti!

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Per pianificare al meglio la mia vendetta subacquea ai danni del malefico cigno, ho trascorso la serata a mollo in una vasca termale d’acqua calda. Incredibile ma vero, l’acqua calda con le bolle ti culla e ti assiste nella digestione. Volete poi mettere la soddisfazione di vagare nudi per un hotel di lusso alle undici della sera?

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L’ultimo giorno del nostro felice tour è cominciato in maniera drammatica. Alle 7 della mattina ero già davanti al pulmino. Vestita, colazionata, valigiata e pronta a partire. Un trauma devastante. Non ho neanche avuto la forza di mettermi le lenti a contatto. Cioè, così presto non mi vanno su. È impossibile. M’acceco, piango, mi soffio il naso e soffro.
Armata di occhiali, in preda all’atavico dubbio del “mi sarò dimenticata qualcosa a Bled?” e in terrificante deficit da caffeina, mi sono improvvisamente ritrovata di fronte al castello più assurdo mai costruito dall’uomo.

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La fortezza di Predjama fu strambamente edificata dal prode Erasmo (da Predjama) per difendersi dai numerosi nemici che perseguitavano la sua esistenza. Del tutto immune dai reumatismi e poco bisognoso della compagnia degli altri esseri umani, Erasmo trascorse buona parte della sua vita asserragliato nel castello, un folle ibrido architettonico tra montagna e maniero. Il castello è un po’ appiccicato alla roccia e un po’ scavato nella montagna. L’interno è una specie di labirinto in cui, all’improvviso, ci si può trovare col cielo sopra la testa o al sicuro sotto decine di metri di sasso. Ogni due metri c’è una botola che conduce al centro della terra e, in generale, non c’è angolo immune dal muschio e dagli spifferi. La sicurezza prima della comodità. La pancia del castello è una grotta oscura e scoscesa che culmina in un pozzo d’acqua freschissima, risorsa fondamentale in caso d’assedio. Io, francamente, mai al mondo avrei pensato di poter vagare in un posto del genere. Meraviglia totale.

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Poco distanti dal confine italiano, siamo stati attaccati da una schiera di Nazgul urlanti. Sprovvisti di un adeguato equipaggiamento da battaglia, abbiamo deciso di metterci al riparo, rifugiandoci nelle oscure miniere di Moria che – per comodità e affabilità – i contemporanei hanno scelto di chiamare *grotte di Postumia*.
I 24 chilometri e passa di gallerie carsiche di Postumia sono una sorta di prodigio geologico di inestimabile valore scientifico e un’attrazione turistica a tutti gli effetti da circa 200 anni. Nobildonne col cappellino e signori con le ghette le visitavano in carrozza sin dagli inizi del Novecento. Pietro Mascagni vi eseguì, nel 1929, due grandi concerti sinfonici e, in tempi più recenti, la Sala da Ballo – una gigantesca caverna a volta piena di lampadari di cristallo – è stata usata per ricevimenti, matrimoni e trasmissioni televisive (tipo The Bachelor… Maria, segnatelo). Nelle grotte si entra con un trenino, tipo Indiana Jones e il Tempio Maledetto. Dopo un primo tratto sulle rotaie (coi vagoncini che sfrecciano in mezzo a stalattiti e stalagmiti, mentre vi sgocciola in testa della roba ad ogni curva), si passa alla visita a piedi, che credo somigli molto a un giro su un altro pianeta – un posto strambo, dove ogni soffitto è una distesa di latte sgocciolante e la pietra sembra tessuto – o a un angolo remoto e oscuro della Terra di Mezzo.

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Io ho provato a fare qualche foto, ma sembrano tutte delle incomprensibili composizioni astratte.
Comunque.
Oltre al giro nelle profondità della terra, vi consiglio molto anche il museo, che non è affatto menoso e che, oltre ai prodigi della geologia, ricostruisce anche la storia decisamente romanzesca dell’esplorazione e della progressiva apertura al pubblico delle gallerie. Al museo, per esempio, ho imparato che le grotte di Postumia ospitano anche una florida fauna ipogea – tanto per dimostrarci che la vita può trionfare dove meno ce lo aspettiamo. Oltre a scarafaggi albini, vermi trasparenti e grilli orbi, a Postumia vive anche il proteo. Il proteo è questa bestia qui:

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Il proteo, tecnicamente, è un pesce. Solo che somiglia all’infausto incrocio tra un pene e un pitone candeggiato. E ha pure le manine. Nemmeno la nostra guida, un signore che ha scortato su e giù per Postumia anche l’Imperatore del Giappone in persona, ha saputo fornirci un’adeguata spiegazione zoologica sulle folli origini del proteo che, alla facciazza nostra, è anche riuscito a riprodursi. I protei di Postumia che depongono per la prima volta le uova hanno scatenato l’interesse e l’entusiasmo dei media sloveni, che ne parlano pure al telegiornale. Da un pesce dall’aria così spiccatamente fallica non mi sarei aspettata nulla di meno ma, a quanto pare, nessun proteo aveva mai figliato in condizioni osservabili dall’uomo, il che rende l’evento qualcosa di raro, favoloso e biologicamente molto rilevante.
Caro proteo… che dire.

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E con l’immagine suppergiù spaventosa di un pallido pene natante concludo le mie cronache slovene, rovinandovi probabilmente tutta la magia.
Portate pazienza, come sempre.
Vorrei ringraziare ancora una volta i Sava Hotels per l’ospitalità che hanno voluto accordarci e che, guarda un po’, potrà essere estesa anche a un fortunato vincitore, che potrà aggiudicarsi un weekend nei posti belli che vi ho confusamente raccontato. Come? Fatevi un giro qui e votate per il vostro BLOGGHER preferito. Tipo me. Ma così, lo dico solo per darvi un suggerimento spassionato.
In bocca al lupo… e cuori proteiformi a voi!
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Partiamo immediatamente dal seguente presupposto: la pizza è una cosa seria.
Con la pizza non si scherza.
La pizza sfama, salva e consola.
La pizza unisce i popoli e genera involontariamente movimenti artistici.
Hai cambiato quartiere? Non potrai sentirti definitivamente a casa finché non avrai trovato una pizzeria che ti soccorra nei momenti di difficoltà, carestia e disorganizzazione alimentare.
Trovare un pizzaro fidato è importantissimo. Ed è anche incredibilmente difficile. Prima di individuarlo – cosa che vi consentirà di affrontare la vita con maggiore serenità -, sarete costretti a masticare pizze gommose, pizze unte, pizze bruciacchiate, pizze crude, pizze col formaggio che puzza di piedi e pizze con su la rucola molle. È un processo ingiusto, triste e difficile – e anche problematico dal punto di vista digestivo -, ma non potrete in alcun modo sottrarvi all’imprevedibilità degli ESERCENTI in grado di consegnare cibo a casa vostra. E a nulla servirà chiedere consiglio ai vostri amici. Ameranno, immancabilmente, un pizzaro che a voi farà schifo all’anima.
Dopo due felici anni trascorsi a quarantacinque secondi di distanza – scale del condominio comprese – da una pizzeria napoletana con forno a legna e certificazione DOCGTOPSTRAFAV elargita da San Gennaro in persona, mi sono trasferita non lontano dalla Darsena. Che è bella, per carità. Tutta piena d’acqua e di papere grasse, super riqualificata e brulicante di vita, ma completamente priva di pizzari collaudati e fidati. Da un anno e passa – malgrado i nostri sforzi -, viviamo quindi nella precarietà e nell’indecisione, in uno stato di SPIZZAMENTO che ci costringe, di volta in volta, ad accontentarci di pizze sub-ottimali o a lanciarci in esperimenti immancabilmente fallimentari.
Partendo da questi presupposti, lo sbarco di Domino’s Pizza a Milano non è stato per me fonte di particolare consolazione.
Capirai. M’è proprio cambiata la vita. Che culo, la pizza con l’ananas. Festa grande. Sciaboliamo.

E INVECE.

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Domino’s Pizza, precisiamolo, non m’ha regalato né soldi né viveri, ma sento comunque il bisogno di parlarne bene. Perché sono adorabili.
Tanto per cominciare, il sito è incredibilmente rassicurante.
Che puoi fare? Puoi scegliere delle pizze già assemblate per te – pizze normali, pizze estrose, pizze strambe, pizze comprensibili. Pizze, comunque, in un numero ragionevole. Non si sa bene il perché, ma le pizzerie che ti riempiono la cassetta della posta coi loro volantini (immancabilmente impaginati da un troll con la congiuntivite) hanno almeno centordicimila pizze diverse da proporti. Amici, sono troppe. Non le sapete fare nemmeno voi tutte queste pizze. Ma chi volete convincere? Fatene 6, ma provate a farle buone. Non ci serve una pizza con la besciamella, il tuorlo d’uovo, le quaglie intere e le crocchette di patate. È troppo estrema. Già è un miracolo trovare una margherita commestibile, figurati se mangio una pizza con su delle quaglie.
Comunque.
Domino’s offre una ragionevole selezione di pizze serene e normali. E ti permette anche di creare la tua pizza. Ma in una maniera flessibilissima. Ti piacciono due robe che, insieme, farebbero obiettivamente ribrezzo? Che problema c’è. Puoi chiedere a Domino’s di cospargere di olive la metà sinistra della tua pizza e di imbottire la metà destra di salame piccante. Se non te ne frega niente, invece, puoi anche esigere che ingredienti di ventisei tipi diversi vengano distribuiti a pioggia sulla superficie complessiva della tua pizza.
La faccenda veramente bella, però, è il tracker. 
Domino’s ci mette un quarto d’ora spaccato a portarti da mangiare. E tu sai esattamente che cosa diamine sta succedendo al tuo cibo. Verrai informato sulle condizioni funzional-materiche della tua pizza – la stiamo impastando, la stiamo cuocendo, la stiamo analizzando per capire se è tutto a posto – e saprai anche chi è che se ne sta occupando. Fabrizio, io non ti conosco, ma volevo dirti che m’hai sempre preparato delle pizze buone. Grazie, Fabrizio. Io non so chi sei, ma sento di volerti bene. Fabrizio, ti abbraccio. Sei il mio pizzaiolo. Viva Fabrizio.

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Alberto, pure tu mi stai simpatico. La consapevolezza del tuo arrivo – in un preciso momento della storia – mi ha permesso di raccattare in tempo i bicchieri e i tovaglioli, superando con successo quella fase di panico e disorganizzazione che travolge gli abitanti di una casa tra il suono del campanello e l’effettivo arrivo della pizza. È come se nessuno credesse mai che la pizza sta arrivando davvero. Te ne freghi finché non ti citofonano e, in quel momento – e solo in quel momento -, t’accorgi che non ti sei lavato le mani, che ti scappa la pipì, che hai perso il portafoglio, che hai il gatto che dorme sul tavolo e che Amore del Cuore sta cantando sotto la doccia. Con Alberto, nulla di tutto questo accadrà più. Alberto è partito alle 20.25: prepariamoci ad accoglierlo.

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Sono in pace, gente.
Ho trovato la mia pizzeria.
Non saranno napoletani veraci che cantano serenate alle mozzarelle di bufala, ma non potrebbe stracciarmene di meno. Ho Fabrizio, Alberto e un casino di certezze… crosticina croccante compresa.
Un giorno, magari, Domino’s avrà anche la bontà di spiegarmi per quale motivo i suoi cartoni hanno quella forma bizzarra. Deve sicuramente esserci una ragione interessantissima e lungimirante. Nel frattempo, salutatemi Fabrizio. E dategli un aumento.

 

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Tegamini, vorremmo portarti in Slovenia. Abbiamo organizzato questo viaggio a base di posti belli, roba seria da mangiare e coccole alla spa. Cosa dici, ci sei? In circostanze del genere, mica puoi fare l’antipatica. Chiedi due giorni di permesso, ti depili sommariamente i cosciotti, butti cose a caso in lavatrice e prepari la valigia. E, per magia, ti ritrovi su un treno alle 8 e mezza del mattino, in un giovedì che – normalmente – sarebbe stato un interminabile trionfo di rotture di coglioni.
Da un BLOGTOUR non sapevo bene che cosa aspettarmi. Voglio dire, io sono una che prova a raccontare delle cose, ma non ambisco certo a trasformarmi all’improvviso in una Lonely Planet glitterata o in un’integerrima fonte d’informazioni pratiche e utilissime. Le mie foto su Instagram sono una stramba accozzaglia di gatti che dormono a pancia per aria, tortelli con la coda e libri buttati sul tappeto che mi ha regalato mia suocera. Non ho neanche ben presente dov’è Pescara, figuriamoci se so com’è fatta la Slovenia. Insomma, ansia. Chissà che sanno fare, questi travel-blogger. Quale sarà il loro equipaggiamento. Come si vestiranno. Di che si parlerà. Sarà gente in grado di spiegare al mondo come si sale su un elefante e come ci si destreggia in una foresta di mangrovie. E io là, col foglio delle ferie in mano, un paio di calzettoni di spugna sottratti ad Amore del Cuore e un caricabatteria portatile che somiglia a un Tampax gigante. Che cosa volete che ne sappia di come si fa. I travel-blogger, si è poi scoperto, sono persone molto tenere e affabili… infinitamente più organizzate di me, ma per nulla minacciose.
Ma chi c’era, alla fine?
Sono partita con Rossana di Vitasumarte – che amavo tantissimo già da prima e che ringrazio molto per aver reso l’intera impresa decisamente più rassicurante, spingendosi addirittura a conferirmi il titolo di elfo – e la dolce Anna di Travelfashiontips – più la sua grossissima valigia rosa dal peso specifico dell’isotopo 249 del berkelio. Alla stazione di Mestre abbiamo raccolto anche Teresa di Cosebelle – a Teresa, secondo me, bisognerebbe al più presto dedicare un qualche tipo di culto -, Georgette di Girlinflorence – il sorriso più smagliante del Texas e un superocchio per i dettagli cuorosi – ed Elisa e Luca di Tiprendoetiportovia – organizzazione militare, preparazione massima, Reflex gigante e un’autentica vocazione per la cronaca in presa diretta.
Bene. Ora che ci siamo tutti, direi che si può partire.

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Il nostro viaggio è cominciato da Vipava, cittadina verdeggiante poco lontana dal confine italiano e nota per l’esuberanza del suo fiume (che, in pratica, è tutto una sorgente) e delle sue produzioni vinicole. La Slovenia, a quanto pare, è un tripudio di microclimi e terreni avvincenti. Ed è proprio questa grande varietà dei suoli e delle condizioni atmosferiche a consentire la crescita di vitigni differenti che, a loro volta, vengono utilizzati per la produzione di vino buono e interessante. Oltre alla solita roba che abbiamo noi, in Slovenia si possono bere due rispettabilissimi bianchi autoctoni, la pinela e lo zelèn. Perché ne sono al corrente? Perché ci siamo fermati alla Vinoteka di Vipava a tirarcene giù svariate bicchierate.

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Oltre a coltivare un alcolismo di qualità, la Slovenia vi incoraggia ad intraprendere passeggiate romantiche lungo il corso di fiumi, torrenti e specchi d’acqua immancabilmente costeggiati da argini pieni di piacevoli punti di ristoro. Per gli amanti dell’aneddotica, poi, i fiumi sloveni sono ricchi di leggende. A Vipava, per dire, c’è la storia di una specie di Robin Hood che s’era andato a nascondere in una delle grotte-sorgente del fiume, facendosi beffe degli sbirri locali finché poi qualcosa non andò terribilmente storto. In tutta sincerità, ad un certo punto mi sono persa. Spiovigginava e stavo cercando di aumentare a bomba la saturazione di queste foto, ma mi ricordo che nella storia c’erano anche delle fragole. Caverne, sorgenti, fragole e banditi. Io a Vipava ci andrei solo per questa leggenda sconclusionata, poi vedete voi.

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Visto che il muschio è carino, ma mangiare è meglio, ci siamo volenterosamente diretti al Kamp Vrhpolje. In Slovenia, per la cronaca, può capitare che una famiglia decida di prendere la fattoria che abita da generazioni e di trasformarla in un campeggio. Basta un giardino verde, un solido senso dell’ospitalità, un po’ di spirito d’avventura e la capacità di sconfiggere la coriacea e labirintica burocrazia slovena. Per raccontarci tutto, la radiosa e adorabile Karolina ci ha chiusi in cantina e ci ha offerto un pranzo super tradizionale a base di zuppa (quanto vorrei rammentarmi come si chiama, ma so solo che era ottima e che c’erano dentro delle verdure fermentate tipo crauti, dei fagioli e dei salsiccioni), vino (ognuno si è scelto la sua botte e se l’è spillato) e tortina formaggiosina con zucchero e uvette.

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Svariati chilometri più tardi – trascorsi russando pacificamente, in barba alle numerose buche che popolano le autostrade locali -, ci siamo ritrovati a Ptuj, la più antica città del paese. Fondata dai romani chissà più quando, Ptuj, ai tempi, si chiamava PETOVIONA ed era un fiorente polo commerciale e militare dell’impero. Oggi è una pacifica destinazione termale, con un centro storico elegante e curioso, molto incline ad ospitare botteghe artigiane – vi consiglio caldamente le adorabili pantofole fotoniche di Sabina Hameršak -, boutique del vino – come quella di Bojan Kobal, che ci ha ospitati per una specie di dotta e graditissima conferenza alcolica di benvenuto – e festival estivi dedicati alla poesia.

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Il nostro campo-base a Ptuj è stato il Grand Hotel Primus, destinazione obbligata per ogni generale che si rispetti – e pure per le numerose ancelle del suo seguito. L’albergo, oltre ad essere vicino a un parco acquatico termale di dimensioni ragguardevoli, ha anche una spa molto favola a tema romano. Colonnati e piscine, mosaici da tutte le parti, candele, saune di centodue tipi diversi e allegri mostri marini.

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Ho passato una mattina intera a mangiare fragole in una vasca idromassaggio… e mi sono spostata solo perché era arrivato il mio turno per fare i massaggi. Sono stata ricoperta d’olio profumato da un signore altissimo coi baffi che ha passato mezz’ora a impastarmi come una Pagnottella del Mulino Bianco. Ha anche coraggiosamente tentato di massaggiarmi la pianta del piede sinistro, ma sono scoppiata a ridere e gli ho quasi mollato un calcione in faccia. Col destro, visti i risultati, ha lasciato perdere. Non so bene come, ma ad un certo punto ci siamo anche ritrovati a cenare su un vasto cuscinone morbido con addosso toghe di varia foggia, con gente che continuava a versarci da bere e spandere petali al nostro passaggio. Sono quelli i momenti in cui ti domandi perché, invece del piffero e della pianola, a scuola non s’insegni a suonare la cetra.
Anche se sarebbe assai meglio evitare, qua ci sono io – soave e luminosa (grazie al filtro SOGNO) – con la toga. Poi uno si chiede perché non m’invitano alla Fashion Week.

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Convinti di non averci nutriti e coccolati a sufficienza, i nostri premurosi anfitrioni hanno anche deciso di farci provare l’ottimo menu Be Fit, studiato appositamente per la gente che – dopo aver trascorso una benefica giornata termale – non trova corretto ordinare un tacchino ripieno… ma neanche crepare di fame.

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Nutriti e massaggiati, ci siamo nuovamente issati sul pulmino per proseguire nelle nostre esplorazioni. Dopo un nuovo episodio di comatosa e impenetrabile narcolessia, mi sono ritrovata ai piedi del gelido ma glorioso castello di Celje, una riproduzione a grandezza più che naturale di Grande Inverno – ma senza metalupi e con un panorama più incoraggiante, nonostante il sole non si sia mai degnato di palesarsi nei quattro-giorni-quattro che abbiamo trascorso in Slovenia. Per sconfiggere il clima infausto, ho deciso di consolarmi usurpando un trono.

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La città di Celje è un posticino davvero degno di un’esplorazione approfondita. Oltre a gigantesche biblioteche che brillano nella notte, cattedrali, resti medioevali, strade romane perfettamente conservate e un centro storico vispo e allegro, Celje è il rifugio privilegiato per artisti e fotografi, che vivono e lavorano gioiosamente in un imprevedibile mini-quartiere con annessa galleria per le mostre collettive – più una balena di cartapesta (dal manto zebrato) che riposa serena in mezzo al cortile. In pratica, se dipingi e cerchi uno studio, puoi insediarti a Celje pagando un affitto simbolico e offrendo la tua arte alla comunità. Se non v’ho ancora convinti, poi, lì nel quartiere degli artisti c’è pure un bar fantastico. Noi non ci siamo fermati a bere, ma siamo andati a rompere i coglioni a due distinti pittori, rovinando irrimediabilmente il più alto momento d’ispirazione della loro esistenza.

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E, per il primo pezzo del weekend, direi che ci siamo. Nel prossimo post ci trasferiremo a Bled, esploreremo le miniere di Moria, visiteremo altri due castelli – più o meno scavati nella roccia -, malediremo i cigni e ci abbandoneremo a momenti di folle e fulgidissimo FOODPORN.
Nel frattempo, se vi va di vincere un weekend in Slovenia tipo quello che sto raccontando – o magari pure meglio del mio – potete correre a votarmi qui: http://bit.ly/1VBM6PJ. I Sava Hotels si premureranno di ospitarvi (insieme alla vostra persona preferita) in una delle loro strutture termali, amandovi quanto hanno amato noi. C’è tempo fino al 20 marzo. Vi auguro di vincere, ma con tutto il cuore. Son bei posti.

Ci sono gli spoiler.
Fate voi.
Qua ce ne laveremo elegantemente le mani. Anzi, i moncherini.

deadpool

Pessimo Deadpool!

Detesto le mere storie di vendetta. Che vi devo dire, sono fatta così. Cominciano, finiscono e ti lasciano lì. Mi rendo conto che Wade Wilson abbia tutte le ragioni per avercela su moltissimo con Francis, sadico sbruffone (per nulla brutto), ma c’è comunque un vasto mondo che il nostro “eroe”, nella sua sacrosanta furia, finisce per ignorare. Certo, anche la solita solfa del mondo che sta per finire è un gran fracassamento di balle, ma una simile trama ha comunque il pregio di alzare la posta in gioco. Cielo, il destino dell’umanità! Insomma, Vanessa ci sta assai simpatica, ma mica è la mia fidanzata. Che farebbe Deadpool di fronte alla potenziale distruzione dell’universo? Per ora non ci è dato saperlo, anche se scoprirlo non sarebbe male. Dormirebbe, credo. O si gratterebbe il culo. Ma poco importa. È una questione di principio. Non se ne può più della gente che si vendica e basta. Rendiamo sterminati questi orizzonti. Anzi, sterminiamo questi orizzonti con la vastità delle nostre narrazioni!

Il fatto che Deadpool taccia raramente non sempre è positivo. Alcune GAGs sono riuscite a smuovere anche il mio cimiteriale senso dell’umorismo ma, per l’80% del tempo, mi sono sentita drammaticamente vecchia. C’è un limite al fascino che un insulto come SCOREGGIAMERDA può esercitare sulla mia antichissima corteccia cerebrale. E sentire quindici SCOREGGIAMERDATE al minuto non può che accrescere il mio senso di disagio. Non sarò Wittgenstein, va bene, ma non sono neanche una quindicenne piena di fiducia nel destino. E tu, scortesissimo Deadpool, non dovresti ricordarmelo con una tale spietatezza e caparbietà. E no, “avrò chiuso il gas” non è divertente… nemmeno se te lo domandi mentre cappotti una macchina. Che c’è da ridere. Che cosa. Spiegatemelo.

Ma la cosa più fastidiosa e invasiva è forse un’altra.
Deadpool, abbiamo ben compreso che il tuo film non è il solito film di supereroi. Ma credimi, puoi rilassarti. Non è necessario che ce lo ripeti ad ogni cambio di scena. Che vuoi, una pacca sulla spalla? Un posto all’ufficio marketing? Ti vogliamo bene, nostro malgrado. Non romperci l’anima continuando a puntualizzare l’ovvio. E non abusare della breccia nella quarta parete. Di tanto in tanto è piacevole, ma il film devi lasciarmelo vedere. Non ho bisogno dei sottotitoli. Ma neanche se ti guardassi in lingua originale – cosa che, per mia sfortuna, non è stato possibile fare.

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I cattivi, che scoramento. Va bene, la versione britannica – e atletica – di Mengele dovrebbe inquietarci assai, ma il fatto che dichiari apertamente di non provare alcun genere di emozione è una brutta faccenda. Sai già che la scelta tra vivere e morire finirà per non tangerlo un granché… e come fai ad interessarti a un personaggio del tutto indifferente alla sua permanenza al mondo? Se non frega a te, Francis, figurati quanto frega a noi.
La manzona manesca che mastica i fiammiferi è praticamente un cartonato. Un cartonato 3D. Un modellino. Un’infrastruttura. Ha suscitato in me un vaghissimo fremito quando ho scoperto che è stata la fidanzata di Henry Superman Cavill, ma capirai. Era meglio se sfoderava anche la seconda mammella e scappava con Colosso. E buonanotte al secchio.
Insomma, cattivi approssimativi. Che ci sta, quando il protagonista è un chiacchierone megalomane immortale, ma è una roba che mette sempre un po’ di tristezza. Mi piacciono le lotte ad armi pari. O almeno un po’ difficili. Fatecelo penare, questo lieto fine. Anche ai quindicenni farebbe bene. Gli sbattimenti formano il carattere.

Ottimo Deadpool!

Sono positivamente impressionata dalla vivacità sessuale dei protagonisti di questo film. E anche dall’allegra e sconclusionata verosimiglianza della loro storia d’amore. Credo fermamente che i supereroi debbano accoppiarsi con disinvoltura e serenità, invece che ammazzarci di chiacchiere e fare bruscamente ritorno ad Asgard. O tediarci con problemi che non esistono ancor prima di andare a convivere – vedi Natasha Romanoff e Bruce Banner – o piangere come vitelli ogni venti minuti – vedi Spiderman e Gwen… “Cielo, non posso metterti in pericolo! Ti amo troppo per stare con te!”. L’approccio Deadpool è molto più sano: mi caccio in questo grosso guaio perché non posso vivere senza di te, Vanessa. Qualcuno ti minaccia? Che problema c’è. Sbudellerò i malvagi dal primo all’ultimo.
Cioè, c’è di che commuoversi.

Altrettanto corroborante è il furore assolutamente legittimo sprigionato dal buon Wade. Le cose vanno male? Ho tutto il diritto di incazzarmi come una locusta e inveire contro i santi. Siamo naturalmente portati ad aspettarci il peggio da Deadpool e, in una situazione simile, ogni azione sensata e “retta” diventa ancora più preziosa. Il fatto che, ogni volta, Deadpool decida se essere una persona spregevole o pestare a gratis un pizzaiolo stalker – agendo, di fatto, nel nome della giustizia più cruda – è molto interessante. E di certo aggiunge una sfumatura meravigliosa a un personaggio che sembra piacerci per i motivi sbagliati. Non deve piacerci perché manda a cagare tutti, trasforma la gente in kebab e si fa le seghe coccolando pupazzi a forma di unicorno. Deadpool dovrebbe piacerci perché ha deciso di essere libero. Tutto il resto è una conseguenza di questa scelta, nel bene e nel malissimo.

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Colosso e Testata Mutante Negasonica sono adorabili. Così come gli altri comprimari. Dalla vecchia cieca che monta a caso i mobili dell’Ikea al barista un po’ codardo, ho amato molto i personaggi secondari. Non finiscono per essere delle complete macchiette e, nel loro piccolo, hanno comunque una storia da raccontare. Chissà che fine ha fatto il tassista indiano, poveraccio. Sono un po’ in pena per lui.

Lo sfondamento della quarta parete ha anche dei vantaggi. Perché Deadpool può permettersi di vedere le cose come le vediamo noi. Il che, spesso, produce momenti di ottima autoironia – vedi le battute su Lanterna Verde, sulla bella faccia di Ryan Reynolds e sulla sparuta presenza del vasto contingente degli X-Men nel film – e spunti comici in grado di far ridere pure me. Un’altra conseguenza positiva della quarta parete fatta con la carta da forno è la flessibilità super divertente del racconto. Deadpool “manovra” gli SLOMO, i flashback, il ritmo e la sequenza di quello che stiamo vedendo, trovando il tempo di fare e dire quel che gli pare anche nei momenti più improbabili – tipo mandare cuorini a Vanessa… con un coltello piantato nel cranio e la morte che incombe. Il fatto che un “eroe” condivida i nostri stessi riferimenti pop – insultando generosamente i Limp Bizkit -, poi, non fa che aumentare il potenziale surreale di quello che stiamo vedendo. E non so cosa piace a voii, ma è molto raro che la roba surreale si riveli noiosa, banale e poco interessante.
Quindi. Quarta parete con Deadpool che mi ammorba facendosi i complimenti da solo: male! Quarta parete con Deadpool che invoca un atterraggio da supereroe: bene!

Insomma… cazzata o figata?
L’adolescente che è in me sta cucendo un costume da Deadpool. La rispettabile signora che avete di fronte, invece, conserva un certo scetticismo… pur amando fortissimo l’unicorno dei titoli di coda.

6ilmiosanvalentino gourmet

Il mio San Valentino con Ottone von Testimonial doveva andare diversamente. Purina, con grande dispiegamento di mezzi e di ottime intenzioni, ci aveva addirittura fornito un magico kit pieno di romanticherie. Avevamo un mazzo di fiori, gente. Era dal mio matrimonio che in casa nostra non entravano dei fiori. E, col senno di poi, non è difficile capire il perché.
Ottone von Edward Scissorhands adora i fiori.
Ma non per le ragioni giuste.

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Dopo aver prontamente divorato una porzione di Gourmet MonPetit ed essersi prestato a un brevissimo – ma intenso – SHOOTING fotografico all’insegna dell’abbracciosità e della felice interazione con un mucchio di nastrini colorati – nastrini che, come tutti potrete ben immaginare, contribuivano all’integrità del compianto omaggio floreale -, Ottone von Kratos si è avventato sui margheritoni, riducendoli a un ammasso informe e piangente di fogliame sminuzzato.
Erano belli, i nostri fiori. E vogliamo ricordarli così, all’apice della loro fugace avvenenza.

6ilmiosanvalentino fiori

I fiori, teoricamente, dovevano aiutarci a celebrare la festa degli innamorati con grande trasporto e coreografica dignità. E invece niente. Ottone non è sensibile. Ottone non comprende le smancerie. Se fosse un uomo, Ottone mi verrebbe a dire che non ho bisogno di un regalo di San Valentino. Per noi, amore, San Valentino è tutti i giorni. Che bisogno c’è di riempirsi la casa di cioccolatini? Neanche li mangi, i cioccolatini!
Ecco.
Ottone funziona così. Ma può permetterselo.
La prima cosa che mi sono domandata, quando Gourmet mi ha chiesto di festeggiare San Valentino col mio gatto – anzi, la seconda cosa che mi sono domandata. La prima-prima era “mi hanno forse presa per una gattara pazza?” – è stata la seguente: ma Ottone, alla fin fine, mi vorrà un po’ di bene? Cioè, ci sono almeno novemila cose al mondo che Ottone sembra apprezzare più di me. Ottone adora i sacchetti di carta, si diverte a grattare gli armadi alle 2 del mattino, ama follemente le falene, rompe con gusto bicchieri, vasi e piccoli soprammobili e, in generale, si venderebbe l’anima per una ciotola di carnina e pescetti in umido. Io, così a spanne, sono solo una comparsa nel vasto universo delle passioni ottonifere. Divento rilevante quando mi avvicino allo sportello dei mangiarini ma, per il resto, sono quasi completamente d’intralcio.
Dopo un attimo di discreto scoramento, però, mi è venuta in mente una cosa bellissima che succede tutte le mattine. 
Ho la fortuna di abitare molto vicino all’ufficio e, in pratica, quando Amore del Cuore è pronto per uscire di casa, io devo ancora trovare le forze di risorgere dalle coperte. Amore del Cuore, un po’ per incoraggiarmi ad alzarmi ad affrontare la vita e anche e un po’ perché gli sembra disdicevole andarsene senza salutarmi, viene sempre a sedersi sul bordo del letto. Mi abbraccia, mi saluta, mi coccola e mi dice una quantità di cose incredibilmente rassicuranti. Dopo quindici secondi, chissà poi perché, arriva anche Ottone. E ci ritroviamo lì tutti insieme ad augurarci buona giornata, gatti e umani, gente vestita e gente in pigiama, felini vispi e tizie addormentate, uomini grossi e gatti poffosi. Allegramente aggrovigliati in un angolo di letto.
E niente.
Non so perché Ottone lo faccia. E non credo che nessun gatto si azzarderebbe a chiamarlo “amore”. Ma a me, ogni mattina, la sensazione che arriva è proprio quella. Insieme all’idea che, da quando c’è Ottone, la mia “nuova” famiglia sia un po’ più grande e un po’ più bella.

Troppa tenerezza? Non preoccupatevi, c’è sempre un video – che Gourmet, nella sua infinita gentilezza, di sicuro non si merita.

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Portate pazienza. Siamo un po’ tutti degli Ottone.
Non regalateci dei fiori. Non li sappiamo gestire.
<3

jonathan strange mr norrell

 Ignorando completamente la mini-serie trasmessa dalla BBC lo scorso anno, ho dato retta al consiglio di un amico – un uomo molto alto e molto saggio – e mi sono finalmente decisa a leggere questo stupefacente mattone, acclamato dal mondo intero come miracolo del fantasy e della narrativa nella sua più nobile accezione.

jonathan strange mr norrell tegamini

Ma che roba è, alla fin fine?
Susanna Clarke, con grazia non indifferente, ci porta nell’Inghilterra dei lord di campagna, dei sir di città e delle ladies col cappellino. L’epoca è quella delle Guerre Napoleoniche, di Byron e Wellington, ma è anche un’epoca di grande scetticismo. L’Inghilterra, dopo una lunga tradizione fatta di incantesimi, prodigi e proficui scambi con Faerie e i suoi ambigui ma potentissimi abitanti – roba che la Clarke si premura di spiegarci per filo e per segno grazie a tonnellate di note a piè pagina dedicate alla storia della magia, ai suoi testi fondamentali e alle leggende più diffuse – si è ormai trasformata in un luogo dove la magia viene studiata e raccontata, senza però avere più alcun tipo di applicazione pratica. Dopo il regno plurisecolare di John Uskglass – il Re Corvo cresciuto dalle fate, rispettato e temuto da tutti gli elementi della natura -, l’Inghilterra sembra aver dimenticato come leggere il cielo, come comunicare con gli altri mondi e come mettere in pratica gli insegnamenti dei grandi stregoni e saggi del passato. Anzi, la magia è qualcosa di poco rispettabile, un’occupazione adatta ai ciarlatani dei bassifondi di Londra e ai ricchi tromboni senza arte né parte. Ma mica si può andare avanti così. Due uomini, Gilbert Norrell (prima) e Jonathan Strange (poi) decideranno di riportare la magia in Inghilterra, con conseguenze catastrofiche e meravigliose.
Gattare pazze!
Capelli d’argento!
Campi pieni di ossa!
Biblioteche infestate dai corvi!
Imbroglioni dipinti di blu!
Flotte di vetro!
Riviste di magia militante!
Profezie!
Malinconie senza fine!
Mignoli!
Tarocchi!
Alcolizzati che mangiano libri!
Servi saggi!
Piatti d’argento pieni d’acqua!
Strade che si spostano!
CHILDERMASS!
Io non so bene che cosa s’intenda per fantasy, là fuori. E, vi dirò, ben poco me ne frega. Questo libro, se mai troverete il modo di leggerlo, è una felicità. La Clarke riesce a trasformare una faccenda astratta – la magia – in qualcosa che somiglia davvero a un problema pratico, con un suo percorso concreto – che si intreccia in maniera plausibile alla storia storia -, un passato sconfinato e bellicose correnti di pensiero. Quanto è bello leggere un romanzo con una struttura-mondo così solida, complicata e interessante? Mica capita ogni venti minuti. Ed è anche assai corroborante seguire le vicissitudini di un ventaglio di personaggi che un po’ si muovono secondo un destino vasto e complicato – e pure ben raccontato in una stramba profezia -, e un po’ cercano di evitare gli scossoni e le calamità del caso. Non vi affezionerete a tutti allo stesso modo, ma nessuno di loro vi farà pensare di aver letto invano.
Che vi devo dire, ho amato.
Lunga vita al Re Corvo!

Sciare è un’attività umana di difficile gestione. Se provi a pensarci razionalmente, a sciare non ci vai. E basta. Fa freddo – se non freddissimo, ti devi svegliare presto, ti viene un mal di gambe inaudito, puoi romperti le ossa, capita di schiantarsi contro i pini, la seggiovia fa paura, c’è scomodità, si puzza, ti cola sempre il naso, ti si ghiaccia la faccia, bisogna combattere per un posto sullo skibus, il burrocacao non è mai sufficiente, fare la pipì è laborioso, è necessario trasportare oggetti pesanti, la vestizione è complessa, ti si ammaccano gli stinchi, ti si staccano le mani e devi passare una giornata con i piedi negli scarponi. Non ha alcun senso. Ecco perché si comincia a sciare da piccoli. Perché, quando sei piccolo, riesci ad accettare con maggiore disinvoltura anche le assurdità più madornali – tipo il catechismo al sabato pomeriggio. Io, che devo sempre essere più bionda e più speciale degli altri, da piccola sciavo, ma proprio come sport. Durante la settimana avevo tre allenamenti di tennis e, non paga, trascorrevo i miei weekend al Tonale. Ma non sulle piste civilizzate, con la pausetta per la cioccolata calda e il pisolino sulla sdraio al rifugio… noi ci svegliavamo all’alba e andavamo sul Presena, dove l’unico impianto di risalita era un’ancora installata dal Dio dell’Antico Testamento in mezzo a una bufera orizzontale di giavellotti di ghiaccio.
L’ancora.
Se non sapete che cos’è un’ancora non ve lo spiegherò. Perché darvi un dolore, quando potete continuare a vivere serenamente la vostra vita, lontani dalla sofferenza e dal mal di culo?

baby tegamini sciatrice

Comunque.
Nonostante passassi a un metro e mezzo dai pali, la mia luminosa carriera di piccola sciatrice non fu malissimo. Conquistai un secondo posto ai campionati provinciali del Piacenzashire – dove di femmine che sciavano ce n’erano all’incirca sei -, un secondo posto in slalom speciale – solo perché fui l’unica, a parte la vincitrice, a non inforcare – e un secondo posto in gigante ai campionati italiani Libertas, categoria Cuccioli. Io, in realtà, avevo un anno in più e dovevo gareggiare nei Ragazzi, ma s’era ammalata la mia compagna e mi avevano utilizzata come controfigura. Nella mia categoria non mi ricordo come andò a finire, ma da Cucciola conquistai una medaglia d’argento che mi proibirono di andare a ritirare. Trascorsi il resto della serata a nascondermi nell’ombra, come un ninja col pile. A scanso di equivoci, poi, i miei amici più impressionabili continuarono a chiamarmi Valentina per il resto della settimana.
Insomma, prima di abbandonare l’approssimativa pratica agonistica che aveva caratterizzato gli anni più belli della mia esistenza, non sospettavo che lo sci potesse anche avere una valenza ludica. Fu soltanto dopo, con le settimane bianche messe in piedi con i miei compagni delle superiori, che mi resi conto della verità. Sciare non era solo sofferenza, schienate in terra, cunette assassine e vomitate sui tornanti (dal finestrino di un Ducato). Sciare poteva anche essere divertente. Grappini alla mela verde. Palle di neve. Sole in faccia a marzo. Sveglia alle dieci meno un quarto. Copricaschi rosa con le orecchie da coniglio. Tavolette di cioccolato.
Favola!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Il risultato, una ventina d’anni dopo aver messo gli sci per la prima volta, è che a sciare ci vado volentieri. Sono consapevole dell’improbo sbattimento che mi attende, ma sono comunque presa bene. Anzi, mi piacerebbe poter andare in montagna più spesso. Poche settimane fa, in un impeto di decisionista che raramente si ripeterà, abbiamo addirittura prenotato una stanza a Canazei e siamo partiti. Io e Amore del Cuore, per onore di cronaca, non siamo mai andati a sciare insieme. Anzi, lui si è cimentato con lo snowboard per un totale di tre volte in vita sua. Pur preoccupandomi assai della sua effettiva capacità di arrivare incolume in fondo a una pista, ho deciso di fidarmi del suo ottimismo – Ma certo che vengo giù. Al massimo me la faccio a piedi. Capirai. – e di riporre ogni speranza nella sconfinata potenza dei suoi gamboni. Ma ripercorriamo insieme i principali HIGHLIGHTS dei quattro giorni trascorsi in montagna della famiglia del Cuore.

Mi sono ostinata a sciare con i miei sci. I miei sci potevano considerarsi nuovi nel 2004. Erano i primi carving, con le punte e le code appena appena spalettate e una lunghezza assolutamente incomprensibile per gli standard attuali. Le persone, oggi, hanno gli sci più bassi di loro. Io no. L’unica cretina nell’intero comprensorio del Sellaronda con gli sci di una spanna più alti. Vero, ti senti un sacco stabile, ma non li giri mai. Anzi, li giri finché sei giovane e sportiva. È quando diventi trentenne e impiegata che sulle cunette insulti i santi.

Amore del Cuore ha trascorso quattro giorni a pendolare. Credo sia riuscito a produrre, in totale, un massimo di cinque vere curve. Per il resto, si è spostato come una benna spalaneve, oscillando da un gambone all’altro – indipendentemente dalla natura del pendio – e affrontando con una discreta sicumera ogni genere di difficoltà. Visto che stavamo badando all’efficacia e non di certo allo stile, la sua performance è stata nobilissima. Ad un certo punto, vista l’indiscutibile efficacia della Tecnica Pendolo, lo mandavamo avanti a spianare i maledetti dossi. L’unico problema, come può testimoniare questo prezioso documento filmico, erano i pianetti. Amici snowboarder, ma chi ve lo fa fare. Sul serio.

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Nonostante sia il mio posto preferito per sciare, non sono ancora riuscita a capire come funziona il Sellaronda. Non posso farci niente, il Sellaronda è troppo per me. Mettetevi ovunque e in un paio d’ore capisco come funzionano le cose, ma con il Sellaronda è tutto inutile. Panico e disorientamento. Il risultato è che devo sempre essere accompagnata da un adulto e, da sola, non ho speranza di sopravvivere.

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Cado poco, ma tendo a cadere in maniera piuttosto plateale. A questo giro, per dire, ho affrontato un mucchio di neve con eccessivo entusiasmo, sono decollata e sono atterrata dall’altro lato della stradina – a ventiquattro centimetri dalle code di un tizio che, seppur con le sue difficoltà, passava di lì per caso. Decisa a salvargli la vita, ho frenato bruscamente. Non l’ho travolto, ma ho perso uno sci e, come una catapulta, ho superato il bordo della pista, rotolando con un certo impeto giù per un piccolo pendio che conduceva all’incirca al letto di un torrentello. Non mi sono spaccata la testa e non ho riportato danni di alcun tipo, anche se – a ben pensarci – sotto a quella nevona sofficiona poteva esserci praticamente di tutto. La scena si è conclusa con Amore del Cuore che, brandendo lo snowboard, correva minaccioso verso l’incolpevole sciatore-passante gridando – in maniera assolutamente immotivata – VATTENE CHE ALTRIMENTI T’AMMAZZO.

Sciare, comunque, ci trasforma tutte in scaldabagni.

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Grazie ai numerosi falsopiani che, ad intervalli regolari, impedivano ad Amore del Cuore di avanzare alla nostra velocità, sono riuscita a fotografare un casino di paesaggi e mirabili scorci naturalistici che mai al mondo avrei pensato di poter immortalare. L’impresa è stata ancor più facilitata dalla fortuita scoperta di una FEATURE fondamentale dei miei guanti. I miei guanti nuovi, infatti, hanno gli elastichini per bambini. C’è un braccialetto con un cordino cucito al guanto, così tu te lo puoi sfilare senza che ti precipiti dalla seggiovia. O giù per la Sasslong come una scatola di sgombro. La vita. La pace. La comodità. L’agio. L’abbondanza fotografica.

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  Uno dei motivi per cui la gente dovrebbe andare in montagna, secondo me, è la roba da mangiare. In montagna si mangia bene. Ad un certo punto, vergognandomi abbastanza della quantità di cibo che avrei potenzialmente potuto postare su Instagram, mi sono auto-censurata… ma non ho sicuramente smesso di masticare. Anzi, colta da un’improvvisa caldana da polenta con il capriolo, mi sono levata il maglione con eccessivo trasporto e, nel bel mezzo di un ristorante molto tipico, molto affollato e molto frequentato da gente a modo, ho inavvertitamente suonato un campanone da vacca – che lì si trovava per valenze ornamentali – sgomentando l’intera sala. Grazie, capriolo. Grazie per avermi fatto scampanare.

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Oltre a una commovente carne salada, a piatti di ravioli coi finferli (ravioli grigi, anche se non mi ricordo più il perché) e a poderosi taglieri di salumi, sono riuscita a incamerare anche diversi quintali del mio piatto montanaro preferito: UOVASPECKEPATATE. Visto che con “Uova, speck e patate” non credo di rendere al meglio l’idea, ho deciso di scriverlo maiuscolo e tutto attaccato. UOVASPECKEPATATE ammazzerebbe anche un arrotino bielorusso, ma vi assicuro che è possibile mangiarne una porzione a pranzo per tre giorni di fila e tornare comodamente a sciare. Quando vi ricapita di poter usufruire di UOVASPECKEPATATE? Mica c’è, a Milano. E, anche se ci fosse, a Milano mica avete l’alibi dello sci. Ah, mi serve un po’ di energia! A sciare si brucia un sacco! Non risparmiatevi, dunque. UOVASPECKEPATATE ogni venti minuti.
L’esemplare più interessante di UOVASPECKEPATATE l’ho mangiato in un rifugio adorabile, pieno di addobbi di fiocchi di neve in gommapiuma. E mi è arrivato insieme a una specie di infrastruttura lignea reggipadella – visibilmente superflua ma molto coreografica. Padroneggiare l’hardware non è stato un granché semplice, ma ho amato fortissimo ogni secondo del pranzo. E, come potrete facilmente desumere dalla qualità della foto, non avevo sbatti. Quando ti trovi davanti una cosa pazzesca da fagocitare, anche Instagram passa in secondo piano.

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Per concludere, vorrei dire che sì, mi sono riconciliata con lo sci. Ne comprendo gli evidenti svantaggi, ma sono comunque in grado di apprezzarlo. Sarà che, quando cominci a lavorare, la cosa peggiore del mondo diventa all’improvviso il dover stare in ufficio… e anche una bufera di stalattiti, in confronto, è subito FAVOLA. Questione di prospettiva? Questione di ferie – che sono già belle proprio perché SONO ferie? Chi può dirlo. La roba migliore dello sciare, comunque, è sempre la stessa: levarsi gli scarponi e bersi una birra – in calzamaglia di lana – per festeggiare l’impresa (e l’integrità dei propri arti a fine giornata).
CHEERS, amici della neve.

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Visto che mi agito in presenza di vasti assembramenti di persone e che, come ben sapete, sono molto disorganizzata – almeno per quanto riguarda la mia vita privata -, sono riuscita a vedere Star Wars soltanto domenica. CENT’ANNI DOPO L’USCITA! UNA VITA, È PASSATA. UNA VITA! Che vi devo dire. M’invitano alle anteprime dei film, ma è tutta roba super concettuale con proiezioni stampa alle undici e trenta della mattina. Registi dell’ex-DDR. Dialoghi in assiro. Orfani scalzi. Malati terminali. Flebo, lacrime, minoranze etniche e dialetti dimenticati. Quando esce Star Wars, invece, non c’è un’anima che si ricordi di me.
Ma non è finita.
Perché al cinema ci sono pure andata da sola. Amore del Cuore ha un sacco di straordinarie qualità, ma non c’è modo di fargli tollerare i cavalieri Jedi e C3PO. Di base, anzi, sopporta con rassegnazione i miei entusiasmi cinematografici. Mi accompagna e s’addormenta. O m’accompagna e polemizza. In questo specifico caso, poi, si è rifiutato di assistere al discutibile spettacolo di una persona adulta che si commuove sui titoli di testa di Star Wars. Perché mi sono commossa, va bene? Mi sono venuti i lucciconi. Anzi, si è sicuramente trattato di un bruscolino nell’occhio. Chi siete voi per giudicarmi? Andate a coltivare il riso su Tatooine!

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Comunque.
Tutto quello che dirò avrà ben poco senso, perché mi è bastato vedere lo spadone laser a croce nel primo trailer di Star Wars per decidere che questo film mi sarebbe piaciuto. Il Millennium Falcon che torna a volare… come una grossa pizza arrugginita! Han Solo e le sue rughe! Quell’assurdo robot a forma di palla medica che, non si sa come, riesce pure a fare i gradini! La colonna sonora! La principessa Leia con una nuova pettinatura! La Ribellione!
…gente, ma che altro volete? Date retta a Zerocalcare e non rompete l’anima.
In parecchi, in questi giorni, si sono lamentati a gran voce delle palesi analogie tra Il risveglio della strabenedetta forza Una nuova speranza. Se questo film fosse stato completamente diverso – tipo le tre sonore bestemmie cinematografiche che ci siamo sorbiti nel 1999, nel 2002 e pure nel 2005 -, invece, vi sareste incazzati da matti perché gli eroi della vostra infanzia erano stati mortalmente oltraggiati da J.J. Abrams, sgherro della Disney e mercenario asservito alle industrie di gadget. Va bene, l’uva di Yoda è parsa un tantino eccessiva pure a me, ma se facciamo un bel respiro tutti quanti insieme sono certa che riusciremo a superare anche questo ostacolo, abbandonando il banco della frutta con la coscienza linda e splendente.

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Quello che voglio dire – credo – è che Il risveglio della forza è un film intelligente. Non sputa in faccia a noi che siamo cresciuti con Star Wars e accoglie in una galassia lontana lontana anche la gente che, per ragioni anagrafiche o sacrosanto e legittimo menefreghismo, a Star Wars si avvicina per la prima volta. A me, sinceramente, che si corra dietro a un droide a palla esattamente come si correva dietro a un’unità C1 (ripiena di messaggi principeschi) non causa particolari scompensi tiroidei. Che ci sia una versione bombatissima della Morte Nera – che si distrugge pure allo stesso modo -, un Jedi che non sa di essere un Jedi, un Nuovo Ordine che è come l’Impero, un burattinaio mega-cattivo che fa il Palpatine della situazione – ma più olografico e con qualche evidente complesso legato alla statura – e un pesce bargiglioso che t’illustra dov’è che devi andare a silurare, ecco, a me questa roba non fa arrabbiare. Non è un reato di lesa originalità. È solo un investimento narrativo diversificato. In questo film c’è una base profondamente rassicurante – preziosa per chi, come me, non avrebbe tollerato un’altra paccata di stronzate sui midichlorian -, ma anche tanta roba pronta a lievitare per diventare una nuova storia.
E io voglio vedere che cosa succede.
Ma un sacco.
E i personaggi al debutto? Mi garbano. Va bene, il Comandante Phasma neanche si capisce che è Gwendoline Christie e del povero Finn non potrebbe stracciarmene di meno, ma Domhnall Gleeson è un ottimo generalino nevrastenico e Rey è una ragazza per cui fare il tifo. La principessa Leia – nonostante la sua fastidiosa sicumera – non era precisamente una rincoglionita, ma era ora che dessero una spada laser in mano a una femmina che pilota astronavi, smista rottami e fracassa di bastonate i malintenzionati.
Io, comunque, amo Kylo Ren. Ne ho lette di tutti i colori, ma me ne frego alla grandissima. Ah, si toglie la maschera ed è un babbo. Ma pensa te, ha ucciso Han Solo. Come ha potuto! Come faremo senza Han Solo! Kylo Ren ha le orecchie a sventola!

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Kylo Ren, quanto è vero Yoda, è l’unico alle prese con un dilemma devastante. E ha pure un bruttissimo carattere da gestire. Che devo fare, simpatizzo con i burberi. Tifo per quelli che, di fronte a una notizia non proprio positiva, disintegrano con uno spadone laser crociforme un’intera sala di controllo dall’astronave su cui viaggiano. Ira! Tormento! Problemi! Insicurezza! Rabbia! Aspettative eccessive! Paragoni impossibili con illustri parenti! Il Lato Oscuro vuole il motorino! Kylo Ren somiglierà all’incrocio tra Zlatan Ibrahimović e Severus Snape – riuscendo comunque ad avere un suo gran bel perché –, ma è una creatura super interessante. Ed è perfettamente normale che vada in giro con una maschera complicata e spaventosa. Come è molto ragionevole che sotto la maschera ci sia uno che non sa bene dove sbattere il cranio. Ho letto una fan-theory stupenda – che giustifica le atrocità di Kylo Ren in ottica di astuto doppiogiochismo, sacrificio supremo e bene che trionfa – ma, a dirla tutta, a me Kylo Ren andrebbe bene anche come puro cattivo in-training. Una sola cosa vi chiedo: non cambiategli spada laser. Dategliene una più grossa, al massimo.
Per tutto il resto, scelgo deliberatamente di non ascoltarvi. Non ho intenzione di sorbirmi polemiche, menate complottiste e brontolamenti vari. Sono felice come un coniglietto grasso e non riuscirete a scalfire la mia gioia. Abbiamo di nuovo Star Wars e…

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Sto continuando a numerare il Tegaminario dell’Avvento come se questo fosse veramente il sedicesimo post che ho sfornato. In realtà sono riuscita a proporvi solo un tripudio di taco coi razzi, degli origami da parete a forma di unicorno (più balena e cocorita), dei braccialetti fatti con le teiere rotte, dei cuscini di purissima seta pieni di bestiole e un vagone di gioielli di Sailor Moon. E basta. Non sono sedici, lo ben so. Ma procederò comunque a testa alta, sventolando il vessillo della disorganizzazione e del casualismo più spinto. Perché oggi, caroni tutti, è un giorno importante. Oggi si parla dell’assoluta gloria sprigionata da Sparkle Collective, un minuscolo progetto dall’infinito potenziale di poffosità valorosamente inventato da una ragazza di Toronto – che va continuamente in vacanza impedendoci di ordinare la sua roba su Etsy ogni sette minuti.
Osservate – cercando di non iperventilare violentissimamente.

Una foto pubblicata da Sparkle Collective (@sparkle.collective) in data:

 

Una foto pubblicata da Sparkle Collective (@sparkle.collective) in data:

 

Una foto pubblicata da Sparkle Collective (@sparkle.collective) in data:

Una foto pubblicata da Sparkle Collective (@sparkle.collective) in data:

Oltre a disegnare gattini-gelatini, bradipi che se ne infischiano, anguriette felici di vivere e unicorni grassottelli – rischiando ogni volta di farmi venire una crisi polmonare -, l’evanescente Britt ama prendersi delle lunghe (e per noi penosissime) pause. Per capire che cosa sta accadendo, dunque, vi conviene tenere d’occhio il profilo Instagram di Sparkle Collective, dove – di tanto in tanto – Britt si prende la briga di informarci che le spillette con le ciambelle feline sono di nuovo disponibili su Etsy. Da quel che ci ho capito, Britt sforna all’improvviso dei transatlantici pieni di aggeggini, li vende tutti e parte per la Polinesia. Quando finisce i soldi, Britt torna a casa, mette insieme una tonnellata di adesivi a forma di fetta di pizza con le orecchie, li vende tutti un’altra volta e va a fare trekking nella Terra del Fuoco. E via così. Per sempre. Come una maledizione Maya dall’immarcescibile circolarità. Se non bramassi ogni singolo sgorbiolino obeso che Britt ha mai disegnato in vita sua, le avrei probabilmente già augurato ogni male. Ma Britt deve continuare a prosperare. E a diffondere la poffosità nel cosmo. Una testolina di gatto per volta.
Lode e gloria a Britt.
Sempre sia miagolata.
Mettete dei bookmark. E mettetevi il cuore in pace.
…prima o poi dovrà pur riemergere dal cammino di Santiago.

***

Per gioire dell’esiguo – ma bellicosissimo – Tegaminario dell’Avvento, c’è anche un board Pinterest.

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Il GGG è il secondo libro che ho letto. Ho cominciato con Le streghe e, visto che mi ero trovata bene con Roald Dahl, ho deciso di fidarmi della collana. Li avevo letti al mare, nella stessa estate. Avevo sette anni e una libreria di fiducia. Ci passavamo la sera, dopo aver finito il gelato. Coi gelati non ti fanno entrare, in libreria. C’era uno scaffale basso pieno di Istrici. Io sceglievo, MADRE pagava. E tutto funzionava molto bene. Una ventina d’anni dopo, Amore del Cuore mi ha regalato la nuova edizione del GGG. Sempre un Istrice, ma con la copertina rigida. L’avevo letto in mezzo pomeriggio, mentre aspettavo che tornasse dal lavoro. Rileggerlo è stato terapeutico. Mi sono sentita super fiera della piccola me. Con tutto quello che c’era nella libreria del mare, io ero riuscita a pescare i due libri per ragazzi (e per persone grandi) più belli mai scritti. La gente non ha a disposizione un numero illimitato di ottime decisioni, nella vita. Io me ne sono giocate due a sette anni nel budello di Loano, in provincia di Savona. E non credo di averne a disposizione molte altre. Cercheremo di farcele bastare.
Ma perché mai ci troviamo qui?
Siamo qui perché la Disney ha finalmente deciso di sfornare il teaser trailer del GGG, diretto da Steven Spielberg. E il mio cuore trabocca di timori e di vaghe speranze. E pure di una certa ilarità. Che ci devo fare. Il GGG, in inglese, si chiama The BFG. E io, accidenti a me, non riesco a vederci un innocente The Big Friendly Giant. Per me è un tragico THE BIG FUCKING GIANT. Per sempre. E senza rimedio. Addio poesia, addio meraviglia dell’infanzia. E millemila applausi alla delicatezza dell’acronimo italiano. Grande Gigante Gentile. Un titolo che è riuscito a preservare la mia innocenza fino a un’età francamente eccessiva.
Ma com’è questo benedetto trailer?
Beccatevelo qua.

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Trattandosi di un teaser, non è che si capisca un granché. La piccola Sofia ha un greve accento inglese e un taglio di capelli di un’inclemenza rara. L’orfanotrofio è un orfanotrofio regolamentare. E il GGG è sufficientemente grande da suscitare un legittimo timore. Non sappiamo se le sue orecchie saranno della dimensione giusta. Non c’è traccia della sua bizzarra sintassi. Non c’è ombra di cetrionzoli. Il procedimento di soffiaggio dei sogni non è stato ancora affrontato. Non ci sono giganti selvaggi e crudeli. La regina d’Inghilterra non ci ha ancora onorato della sua presenza – con o senza corgi. Insomma, ne sappiamo come prima. Ma possiamo cominciare a crederci. È un trailer incredibilmente cauto e guardingo. Il che, forse, può farci ben sperare. Perché la cautela e la circospezione possono anche essere sintomi di estremo rispetto – per un libro meraviglioso e per noi ex-mini persone che hanno imparato ad amare la lettura grazie a questa storia. Non nutro una fede cieca e assoluta nelle capacità di Steven Spielberg. Certo, mica è il primo cretino che s’incontra dal panettiere… è che, di base, non sono il tipo. Propendo per i presagi di sventura, così poi non ci rimango male. In questo caso, però, vorrei provare a sperarci. Spero che Spielberg non si sia dimenticato di noi. E che, in qualche modo, abbia provato a immaginare tutto quello che ho immaginato io da piccola, in spiaggia, con il mio Istrice in mano e MADRE che m’inseguiva per spalmarmi la crema solare. È un libro incredibilmente conciso, per la vastità di quello che racconta. Lo schermo del cinema sarà grande abbastanza? Vedremo. Intanto, proviamo a metterci un po’ di fiducia. Metti mai che, per una volta, finirà per andarci bene.