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tegamini

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Allora, io di scacchi so il minimo indispensabile – come c’è da muovere i pezzi e come funziona – ma credo mi manchino le capacità cognitive necessarie per percepire il disegno complessivo di una raffinata strategia. Per quanto mi riguarda, gli scacchi sono un mistero e un miracolo, un campo di battaglia destinato solo a menti che rispondono a regole lontanissime da quelle che governano il nostro quotidiano. Sono pochi, i cervelli che funzionano così….. e Alessandro Barbaglia lo sa. Quindi no, nel raccontare la storica finale del mondiale di scacchi del 1972 in La mossa del matto – uscito per Mondadori – non insisterà su tecniche e alfieri in D7 ma opterà per la cronaca umana di un’impresa che di umano sembra aver poco – ed è anche per quello che si farà aiutare dall’epica, forse.

La mossa del mattoIn piena Guerra Fredda, il campione sovietico in carica Boris Spasskij è chiamato a difendere il titolo contro lo statunitense Bobby Fischer, giocatore geniale ma imprevedibile, un eremita inghiottito di mille fissazioni e nemico di ogni convenzione, matto in senso metaforico ma molto probabilmente anche clinico. Fischer è “matto” per noi che non siamo stati baciati dal talento per gli scacchi ma è matto anche per chi quel mondo lo abita e assiste con meraviglia e sgomento alle sue feroci partite – sperando sempre di non trovarselo davanti.
Barbaglia prende la finale del 1972, disputata in Islanda, e la intreccia all’Iliade, attribuendo ai due campioni il ruolo di eroi guerrieri e anche di “pedine” nello scontro pratico e simbolico tra USA e URSS – come l’Iliade è anche uno scontro di civiltà, tra due blocchi contrapposti. Spasskij, che dell’Unione Sovietica è esponente esportabilissimo di successo e manifesto di eccellenza, diventa Ulisse e Fischer, che non è minimamente interessato a rappresentare gli USA ma solo le proprie ossessioni, diventa Achille. Il perché Spasskij sia un avversario pur non vestendo i panni di Ettore è presto spiegato, ma è più bello se ve lo fate dire da Barbaglia.

La finale, un evento seguito dall’opinione pubblica dell’intero pianeta, diventa qua dentro guerra psicologica, prodigio di strategia, ricostruzione storica e ponte tra epoche lontane, oltre che uno spaccato biografico di Bobby Fischer – che da solo basterebbe a nutrire una collana di romanzi. Barbaglia bilancia con abilità i due piani – più il “suo” – e sceglie un’aneddotica curiosa e ben dosata. Il risultato finale è un oggetto ibrido e insolito, che fila via liscio e tiene vivo l’interesse – anche se a scacchi perderemmo pure contro un bambino di 4 anni (sovietico, ovviamente).

Dunque, la ritina di Steller era all’incirca questa bestia qui:

Detta anche “vacca di mare”, la ritina era una sorta di lamantino elevato a potenza. Suo malgrado buonissima da mangiare, fu vittima di uno dei casi di estinzione più “efficienti” e implacabili della storia zoologica mondiale. Come diamine è potuto accadere? Ce lo spiega Iida Turpeinen con L’ultima sirena – in libreria per Neri Pozza nella traduzione di Nicola Rainò e ascoltabile anche su Storytel.
Si è annientata da sola, la vacca di mare? Figuriamoci. Ci abbiamo pensato noi. In questa accurata rielaborazione romanzesca, Turpeinen individua tre momenti emblematici per raccontare il contatto inaugurale dell’uomo con il mastodontico e sventurato mammifero marino e la sua successiva “canonizzazione” come tesoro – prima mitico e poi perduto – della natura. 

Si chiama ritina “di Steller” per merito o colpa del naturalista tedesco che partì con la spedizione russa del capitano Vitus Bering nel 1741, in direzione delle acque ignote sopra l’omonimo stretto – di recente battesimo. Fu un casino, perché la nave di Steller naufragò su un’isola deserta e gelida e creparono quasi tutti di fame prima di avvistare la fiduciosa vacca di mare. Steller, fra una grigliata di ritina e l’altra, si mise in testa di misurarla e di predisporre uno scheletro per restituire la scoperta alla scienza, ma la bestia era semplicemente troppo grossa e la nave che rattopparono troppo malandata per accoglierla. Prima bisogna portare in salvo le persone, altro che ossa! Steller, furibondo, fu costretto ad arrendersi.

I due movimenti successivi del melodramma della ritina si svolgono ormai a catastrofe compiuta: all’avventura “reale” della grande esplorazione sul campo si affiancano quella della ricerca scientifica – attraverso le collezioni, protomusei al confine tra hobby da gentiluomini e ricerca canonizzata – e della conservazione. Ci si sposta in Alaska nel 1859 e sulle isole Aspskar nel 1950, tra reperti da far fruttare come investimenti vantaggiosi, scoperte sensazionalistiche e il canto silenzioso di una bestia che ha nutrito un equipaggio e la curiosità di uno studioso, senza riuscire a scappare in tempo.

Anche qui, la ritina è una specie di leggenda resa leggermente meno nebulosa da misurazioni antiche e tentativi stratificati di ricostruirla. Il materiale che offre diventa una concatenazione di storie a loro modo esemplari, perché sono storie di scienza e di volontà individuale. Sono storie umane, anche se il trattamento che riserviamo d’abitudine all’incontaminato è quello della colonizzazione e del dominio – come se anche noi non facessimo parte della medesima matrice che scegliamo di divorare. Turpeinen maneggia questo paradosso con sincero rispetto per la scoperta e con una ricchissima rielaborazione storica che no, non resuscita la ritina, ma un po’ ci aiuta a pensare che la sua scomparsa non sia stata del tutto vana.

 

Si potrebbe dire che rendere “shitstorm” con “merdone” sottragga al fenomeno la sua natura incontenibile e scatenata, propria della tempesta. Ma è anche vero che ci mettiamo quell’-one finale che trasporta bene sia il senso dell’umorismo dell’immagine di partenza che la portata dimensionale dell’episodio nefasto. Non c’è bisogno di spiegare, ormai, cosa sia un merdone. Soprattutto su Instagram – o su un blog, dove poi finiscono tutte le mie chiacchiere sui libri. Chiara Galeazzi – che trovate in libreria anche con Poverina, sempre per Blackie Edizioni – comincia il suo esperimento con una ricognizione dei merdoni pestati durante la sua permanenza pluriennale online e con una di quelle domande semplici ma abissali: perché commentiamo quello che ci passa davanti sui social? A che serve? Chi ce lo fa fare? A quale spinta irresistibile ci troviamo a obbedire?

I merdoni autodenunciati non sono devastanti, devo dire. Si è visto di peggio, ma incomparabilmente. Non sono devastanti – e non peggiorano nel tempo e/o reiterano merdoni precedenti – perché Galeazzi, come ogni organismo che fa del suo meglio per sopravvivere in un ambiente, si regola. Si contiene, anche. O facciamo così: sceglie le sue battaglie, decide dove è il caso di incaponirsi o di allocare energie. Lo fa anche armandosi di una certa condiscendenza, qua e là, ma non mi sento di biasimarla. Là fuori si sviluppano conversazioni costruttive e arricchenti, ma si discute per secoli e con virulenza anche di cose troppo stupide per essere vere. Volerle scansare è autoconservazione pura. Ma se questo istinto venisse meno – per una parentesi definita e secondo precise regole d’ingaggio? Ecco qua l’esperimento. E questo libro buffo e insieme deprimentissimo – come di solito è la comicità della gente della generazione a cui appartengo – è la cronaca di quel che è capitato in un mese vissuto con sprezzo del pericolo su X, interagendo là dove mai avremmo voluto interagire.

L’imprudentissima autrice non va a cercarsi rogne o a rissare tanto per, ma diciamo che se vede passare in timeline una roba che le sembra irricevibile lo dice, invece di osservare mestamente mentre passa oltre. Sono andata a cercarlo, il profilo fittizio che ha creato per l’esperimento. È ancora tutto lì – e magari ha parlato pure con voi, in un’altalena emotiva che oscilla fra il senso di liberazione e la cruda presa di coscienza della propria irrimediabile irrilevanza.
Come può finire? Con l’accrescimento dello sconforto, penso. E con il sospetto sempre più consolidato che non è su piattaforme ingegnerizzate per farci salire il sangue agli occhi (e per far emergere precisamente la roba che ci fa incazzare di più) che si potranno intavolare conversazioni aperte, chiare, sincere e utili alla nostra specie.
Ma Merdoni fa anche molto ridere, giuro.

Dunque, se avete in mente la Yasmina Reza taglientissima, spietata e sarcastica di Felici i felici, per esempio, conviene ricalibrare le aspettative – e anche lasciarle la possibilità di portarci da un’altra parte. In tribunale, molto spesso. O in mezzo a ricordi popolati di persone che non ci sono più. La vita normale – in libreria per Adelphi con la traduzione di Davide Tortorella – è una collezione di impressioni brevi e di quadri umani autoconclusivi, dove resta vivissima l’attitudine a scartare di lato per guadagnare un punto d’osservazione meno battuto.

Dove saremmo portati a invocare grandi punizioni, Reza dipinge quotidianità senza vie d’uscita e immagina uno spazio dove le voci che potrebbero sembrare indegne d’attenzione trovano uno spiraglio di pietà. Non so cosa si impari di “utile” dai casi di cronaca che Reza frequenta da spettatrice processuale, ma il suo laboratorio sembra voler misurare il nostro grado di umanità partendo proprio dall’ombra che ci lasciano addosso le storie di disperazione e impotenza minima. Le brave persone che sopravvivono solo nei suoi ricordi si affiancano, sulla pagina, a una cattiveria inaudita e quasi inconsapevole, alla presenza sorda dell’abitudine a contare così poco che anche quello che si fa perde peso, perde realtà, perde bussole morali o punti di riferimento ideali, condivisibili da una comunità di riferimento.
I morti “buoni” di Reza accompagnano questi zombie che siedono al banco degli imputati senza quasi capire perché sono lì. Sono persone che per noi acquistano consistenza e realtà solo in questa occasione estrema, irreparabile… ma da qualche posto arrivano, anche loro. Una storia ce l’hanno, anche loro. Noi, ora come prima, preferiremmo forse guardare altrove. Reza, però, ci obbliga finalmente a prestare attenzione.

Vedere Samantha Cristoforetti che si industria sulla ISS – leggendoci ogni tanto pure Douglas Adams, con un asciugamano che le fluttua sulla spalla – è uno spettacolo meraviglioso e un fenomeno relativamente “consolidato”, ma i programmi spaziali non sono di certo stati inaugurati con grande spirito d’accoglienza e inclusione. I primi a volare erano piloti d’estrazione militare e i decisori, sia a livello politico che amministrativo, erano i consueti maschi bianchissimi. Astronaute è un saggio a fumetti – costruito da Jim Ottaviani e Maris Wicks a partire dagli abbondanti materiali d’archivio della NASA e grazie alla testimonianza fondamentale di Mary Cleave – che ripercorre e sistematizza il lungo e accidentato percorso delle donne nello spazio, dalle missioni Mercury ai primi equipaggi “misti” del programma Shuttle, passando per un prezioso lavoro di sensibilizzazione pubblica portato avanti da Nichelle Nichols – la tenente Uhura di Star Trek. Giuro, è vero.

Mentre ai vertici del programma statunitense si rideva ancora in faccia ai medici che, test alla mano, erano riusciti a dimostrare che una donna può tollerare le condizioni della permanenza nello spazio bene come un uomo, l’Unione Sovietica spediva in orbita Valentina Tereshkova – dimostrando che, come in molti altri ambiti, le donne sono parte di una dinamica di potere in cui raramente hanno voce in capitolo. Ancora relegate a terra, le americane continuarono a studiare, a pilotare velivoli, a specializzarsi e a fornire incessanti prove delle loro vaste capacità, finché non fu più possibile opporsi all’oggettivo valore del loro contributo pratico e scientifico. Essere eccezionali è splendido, per certi versi, ma l’eccezionalità è anche accompagnata da una sfumatura di solitudine: l’eccezionalità è rara, ma la possibilità di partecipare all’esplorazione dello spazio e a una mastodontica impresa scientifica corale dovrebbe poter essere di tutte. Ed ecco come le tredici pioniere della Mercury – che mai furono chiamate al servizio effettivo – trasformarono la loro eccezionalità in un esempio per le future astronaute. Come Mary Cleave. Come Samantha Cristoforetti. E come le bambine di oggi, se lo vorranno.

 

Niente, non mi sono accorta in tempo che prima di Long Island – in libreria per Einaudi con la traduzione di Giovanna Granato – c’era Brooklyn, sempre di Colm Tóibín, e sono partita con il sobborgo sbagliato ma, se proprio mi impegno e provo a far tesoro di questa svista, posso rivelarvi in serenità che sta in piedi anche per conto suo. Saranno gli amori che si sviluppano su strane strutture poligonali, probabilmente: partono sbilenchi, che sarà mai approcciarli a metà strada.

Il problema che qua si palesa all’istante è un signore incollerito che suona alla porta di casa per informare Eilis Lacey che lui, fra nove mesi, le scaricherà sullo zerbino un neonato. O una neonata, quel che è. A lui in ogni caso non interessa, perché non è roba sua. La moglie gravida sì, ma il padre della futura creatura è il marito di Eilis, idraulico italoamericano che in casa loro doveva aver trovato parecchio da fare. Eilis cade dal pero e, fra lo sbalordimento e una quieta collera, informa l’invadentissimo clan di Tony che non ha la minima intenzione di occuparsi della prole illegittima altrui. Lei i suoi figli li ha già cresciuti e per quell’amore ha già sacrificato radici e accumulato rimpianti. Anzi, sai che c’è? Visto che nessuno mi tratta come un essere umano degno d’ascolto o di rispetto io torno per un po’ a casa mia in Irlanda, che mia madre e mio fratello son due decenni che mi vedono solo in foto.

Al paesello d’origine, Eilis ritrova dinamiche che sembrano cristallizzate nel tempo, ma scopre anche che il mondo non sta di certo lì ad aspettarti. L’unico che, per quanto può saperne lei, non ha messo su casa ma si è limitato a gestire con successo un pub, è Jim, l’uomo che in gioventù l’aveva quasi convinta a non attraversare l’oceano per costruirsi una vita con Tony. 
Mi avrà dimenticata? Che effetto mi farà rivederlo? Ma possibile che sia ancora scapolo? E cosa diamine ci fa la mia antica migliore amica a gestire una friggitoria fetente? È troppo tardi per pensare che si possa ricominciare?

Tóibín imbastisce un polpettone sentimentale da manuale, lasciandosi sostenere anche dal fascino “vintage” dell’epopea dell’emigrazione, con nostalgie, distanze siderali che gridano NON TI PERDERÒ ANCORA e frizioni inevitabili tra luoghi d’origine e luoghi che si scelgono con grandi atti di fede ma che, forse, ci rigetteranno sempre. Le macchinazioni del cuore restano però ingovernabili e quel che di interessante c’è qui è l’innesto dell’amore in una realtà che si considera già consolidata, chiusa, definitiva. Tutti e tutte hanno un percorso, molto da perdere e un rigoglioso giardino di illusioni da coltivare, oltre a un ramificato sistema di responsabilità da amministrare. Il fatto che Tóibín non metta nessuno in una posizione “facile” e che non permetta a nessun cuore di straripare e di crederci troppo regala al romanzo una cruda franchezza che ci fa deporre i bandieroni del tifo in favore di interrogativi ben più tremendi e ricchi: ma io….. che cosa farei? Quanto stupida mi sentirei? Sto amando una persona reale o l’idea di possibilità che ancora riesce a farmi intravedere? Perché ci ostiniamo? Perché facciamo finta di non capire?
A peggiorare le cose, per i personaggi, c’è l’abile gestione di Tóibín delle asimmetrie informative: in un piccolo paese dove per strada ti fanno la radiografia, il sotterfugio è una scorciatoia per il quieto vivere, ma anche una comodissima e ragionevole scusa per non affrontare mai la realtà. Noi, leggendo, sappiamo e vediamo tutto… e possiamo scuotere il capo con una saggezza che mille volte avremmo voluto sfoggiare nella vita vera. Cosa combiniamo, invece? Dei gran casini. Come Eilis, Tony, Jim e la volenterosa vedova che frigge. Forse, sperando, si sbaglia sempre. Ma è in quei traballanti spiragli che combattiamo davvero per la felicità.

[Long Island si può serenamente leggere, ma lo trovate in versione audio anche su Storytel.]

Paolo Nori è un felice esempio di come un libro si possa leggere volentieri e ascoltare ancora più volentieri. Allo stesso tempo, è inaccettabile che qualcuno che non è Nori legga Nori, secondo me. Cioè, ci può provare, ma verrà fuori una roba dissonante, depotenziata, loffia. Ma Nori, credo, è capace di leggere anche gli altri. Li trasforma e se li porta vicini, come se non ci fosse una riga al mondo che non lo riguarda. È proprio bello incontrare, di tanto in tanto, qualcuno che sembra aver imbroccato una vocazione. Il come sia accaduto, in mezzo a mille altre cose, è una delle tante ossa di Chiudo la porta e urlo – in libreria per Mondadori e anche ascoltabile su Storytel.

È un romanzo, in teoria, che vuole raccontarci chi è stato Raffaello Baldini, un poeta di Santarcangelo di Romagna che abitava a Milano e scriveva nel suo dialetto, traducendosi da solo in italiano e parlando di gente solitaria e matta che gravitava solo su Santarcangelo. Nori ci legge Baldini e ci legge anche tutto quello che succede mentre si vive, si scrive, ci si pianta e ci si rimane male quando disgraziatamente si fa bella figura.

Ogni volta che leggo o ascolto Nori ho la sensazione nettissima di non aver solo letto qualcosa, ma di aver passato del tempo insieme a una persona. A me piace, che Nori ci tiri dentro ai fatti suoi, che ci porti a presentazioni e discorsi e nei libri che sta traducendo o che ama da quando ha scoperto che era il caso di studiare la letteratura russa. Non mi convincerà ad andare a correre perché noi di Piacenza qualche riserva verso un’esortazione che ci arriva da Parma la dobbiamo comunque avere, ma sentirlo parlare di dialetti e delle città piccole – che magari non ti mangiano come le grandi e son sempre casa tua, anche se scappi – è una specie di riconciliazione. Non so se quest’anno vincerà IL GRANDE PREMIO, ma mi viene da dirgli che è andata a meraviglia già così.

Con me le infanzie e le adolescenze funzionano poco. Forse perché vorrei liberarmene ma il brutto mi è rimasto attaccato e non ne posso più e dentro non ci trovo nulla che sia nutriente o istruttivo, non lo so. Fatti miei, comunque. L’infanzia e l’adolescenza che Annie Ernaux proietta in La donna gelata, però, producono insieme una specie di matrice, uno stampo che contraddice le aspettative del resto del mondo. Una madre che lavora in drogheria, tiene i conti e ricama ben pochi centrini di pizzo. Un padre che pela serenamente le patate e sta assiduamente accanto a sua figlia, senza temere che gli caschi in terra l’apparato genitale. È uno stravolgimento dei ruoli ritenuti tradizionali, naturali e auspicabili che a Ernaux pare normale perché ci è cresciuta in mezzo, ma che è molto diverso da quello che capita nelle case delle amiche e delle compagne di scuola – comprese quelle che le sembrano più emancipate, indipendenti, “ricche” o “povere” che siano.

Come si diventa grandi, dove ci si colloca, cosa ci si può permettere di sognare e immaginare se i modelli a disposizione sono così insoliti per i canoni condivisi e se, visceralmente, non si percepisce il matrimonio (o la maternità) come l’unico traguardo possibile? Ernaux orbita attorno a questo dilemma, strattonata tra la necessità di studiare, di andarsene, di coltivare un’ambizione e la necessità altrettanto profonda di sentirsi scelta, amata, vista da un ragazzo capace di staccarsi dallo sfondo e dalle convenzioni. Un pari, un amico, un amante, una specie di novità antropologica che la tratti come un essere umano e che la convinca della praticabilità di un futuro insieme, di una dimensione migliore dell’indipendenza priva di vincoli.

Lo trova? Le pare di sì. Ed è qua che troviamo anche il cuore del libro – tradotto da Lorenzo Flabbi per L’Orma e per quest’edizione “ridisegnata” in Bur/Rizzoli –, il nucleo gelato del titolo e del destino di innumerevoli donne, quasi tutte sorridenti, solerti e silenziose. Ernaux non nega alle altre la possibilità di realizzarsi in una dimensione che per lei risulta annientante, ma racconta con puntiglio chirurgico di aver preso molto male le misure. O meglio, di essere finita in una specie di imboscata, pur illudendosi di aver scelto la sua strada e dato seguito a una riconosciuta felicità. Cosa fai, quando scopri di esserti trasformata, solo un paio d’anni più tardi, nel prototipo della femmina che compativi e che ti faceva orrore?

Ernaux è di una precisione disarmante, essenziale e complicata insieme. Consegnarle un matrimonio e la maternità serve ancora, perché ha avuto il coraggio – in tempi (ancora) più ostili dei nostri – di dubitare dell’illusione, di analizzare un’infelicità, di imbastire un discorso sul potere e di alzare una mano per ricordare che le mani servono anche a scrivere, oltre che a brandire dei mestoli.

Loris, il trentenne protagonista dell’ultimo romanzo di Giulia Caminito – in libreria per Bompiani –, sembra ingegnerizzato per farsi detestare. Il suo tratto principale, predominante e totalmente invasivo è l’ipocondria. Ne ha sempre una. Gli fa male la pancia, gli sanguina il naso, non riesce a tirarsi su dal letto, tampina dottori, spende i soldi che non ha in farmacia, suda freddo, si indigna quando al pronto soccorso gli assegnano un risibile codice bianco, prenota analisi a ripetizione e ci rimane male quando non gli trovano niente di anomalo perché lui SOFFRE TANTO e nessuno gli crede o gli offre una soluzione. Il mondo intero dovrebbe riorganizzarsi per mettere al centro questo suo perenne star male ma il mondo, con la crudeltà che lo contraddistingue, prosegue senza badare a Loris e alle sue colonscopie aspirazionali. Il male che non c’è, insomma, pare affliggere Loris con spietata costanza, anche se l’unico che ne percepisce la distruttività e il potere deformante è proprio lui, lasciandolo doppiamente disarmato. Non solo non riesce a “funzionare” come gli altri ma non riesce nemmeno a farsi capire e, anzi, a lungo andare finisce per esasperare e allontanare chiunque, in una spirale di precarietà, frustrazione e isolamento in cui è proprio la certezza di star male a trasformarsi in un’ancora rassicurante, in una fonte di paradossale conforto.

Il presente di Loris si alterna, nel romanzo, ai ricordi cruciali della sua infanzia al fianco dell’amatissimo nonno e sarà proprio questo intreccio fitto – e forse mai del tutto “digerito” – a far luce sul disastro dell’adesso. Potremmo limitarci a volerlo prendere a sberle, Loris, a dirgli – come gli dice suo padre – che dovrebbe darsi una svegliata, uscire da quella crisalide molliccia e portare a compimento la necessaria metamorfosi in adulto indipendente, inserito e “normale”. Sarebbe giusto? Forse no. Perché Loris, anche se magari non soffriamo in prima persona di malanni immaginari e non vediamo una diagnosi di cancro come un traguardo soddisfacente – in assenza di altri traguardi raggiungibili -, è la nostra malattia psicosomatica. Prende quello che c’è di storto e di ingiusto a livello strutturale e lo trasforma in un nodulo sul collo, in uno sfogo sulla pelle, in un cagotto invalidante. Si adegua, col corpo, all’inettitudine che ci viene attribuita. Si sottrae e aspetta speranzoso di poter morire sapendo esattamente cosa lo ucciderà, perché il nostro momento non arriva comunque mai. E recrimina, capriccioso, diventando bambino… perché è un po’ l’unico momento in cui si è percepita una dimensione di cura – per quanto soffocante la trovassimo.

Loris mi fa rabbia e non lo posso sopportare, ma come mi fa rabbia e non sopporto l’idea di fallire, di dover tornare a casa a chiedere aiuto, insieme agli anni che ci sono voluti per camminare davvero con le mie gambe e alle varie declinazioni del “con tutto quello che abbiamo fatto per te”. Ce l’avevo anch’io, il mal di pancia. E se ci penso mi sale in gola un rospo indiagnosticabile ma cattivo. Loris, lamentoso e perennemente scansato dalle opportunità veramente buone, è la cellula pronta a marcire che da qualche parte ci portiamo a spasso pure noi. Vogliamo investire 150€ per una rapida visita privata? Magari no, anche perché nessuno lo individuerebbe, il nostro rospo. Il peggio è fuori, non dentro di noi. Ed è lì che si dovrebbe guardare.

[Il male che non c’è si può leggere e si può anche ascoltare su Storytel – letto BENISSIMO da Eduardo Scarpetta. Come di consueto, qua trovate un bel link per la prova gratuita di 30 giorni.]

Credo che il target di (Non) disponibile di Madeleine Gray – in libreria per Mondadori con la traduzione di Alessandra Castellazzi – sia la gente che va a impelagarsi in relazioni extraconiugali di rara mestizia. Ma di quelle proprio con pesanti asimmetrie informative, numerose e continue promesse, illusioni a grappolo, perdita della dignità, vergogna diffusa, sotterfugi, codardia… è tutto troppo spiacevole per non ispirarci moti di crudeltà meschina mista a perentori MA SVEGLIATI TIRATI INSIEME DAI PER LA MISERIA strillati al libro.
Che nella vita abbiate o meno ricoperto il ruolo di amante o tenuto in piedi una tresca clandestina, Hera vi farà imbestialire. E no, non sto producendo spoiler perché è già tutto in bandella.

Che succede, a grandi linee?
Una ragazza totalmente impantanata – vuoi per contesto e tare generazionali, vuoi per personalissimi inghippi irrisolti – trova finalmente lavoro in un’agenzia/redazione e, pur volendosi appendere al lampadario per il tedio professional-esistenziale che prova, conosce un collega più grande di lei e gli appalta il suo cuore, il suo futuro, ogni ambizione di felicità e una porzione significativa della sua anima. Lui, flagellandosi a ripetizione e caricandola pure dei sensi di colpa che un vertebrato come si deve eviterebbe di delegare, ci sta.
Ma ha una moglie.
Quanto è probabile che la lasci?

Vorremmo rimuovere a colpi di scarpone da sci le fette di Parmacotto – *noadv* – che foderano gli occhi di Hera, ma poterla osservare scuotendo il capo e mormorando POVERACCIA GUARDA CHE ROBA è una paradossale forma di consolazione.
Se siamo state delle zerbine anche noi – come è probabile – proveremo solidarietà e sollievo, sentendoci anche delle divinità saggissime PERCHÉ ADESSO NON MI SI FREGA PIÙ BASTA È FINITA HO CAPITO. Se siamo immerse fino al collo nelle ruvide setole dello zerbino che siamo diventate, invece, Hera potrebbe risultare d’ispirazione e indicarci le uscite di sicurezza.
Non so se invitarvi o no a seguire il sentiero luminoso, perché la prolungata disfatta di una mia simile non mi rallegra, come mai ho ricavato sollazzo o lezioni preziose dai miei, di magoni. Non ho voglia di provare pena per Hera, così come non vorrei mai ispirare pietà. Ma è anche vero che ci si arrabbia e si “partecipa” se una storia ci fornisce il materiale adatto per farlo – e Hera, nostro malgrado, qualcosa riesce a dirci. Anche se vorremmo turarci le orecchie.