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Iida Turpeinen | L’ultima sirena

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Dunque, la ritina di Steller era all’incirca questa bestia qui:

Detta anche “vacca di mare”, la ritina era una sorta di lamantino elevato a potenza. Suo malgrado buonissima da mangiare, fu vittima di uno dei casi di estinzione più “efficienti” e implacabili della storia zoologica mondiale. Come diamine è potuto accadere? Ce lo spiega Iida Turpeinen con L’ultima sirena – in libreria per Neri Pozza nella traduzione di Nicola Rainò e ascoltabile anche su Storytel.
Si è annientata da sola, la vacca di mare? Figuriamoci. Ci abbiamo pensato noi. In questa accurata rielaborazione romanzesca, Turpeinen individua tre momenti emblematici per raccontare il contatto inaugurale dell’uomo con il mastodontico e sventurato mammifero marino e la sua successiva “canonizzazione” come tesoro – prima mitico e poi perduto – della natura. 

Si chiama ritina “di Steller” per merito o colpa del naturalista tedesco che partì con la spedizione russa del capitano Vitus Bering nel 1741, in direzione delle acque ignote sopra l’omonimo stretto – di recente battesimo. Fu un casino, perché la nave di Steller naufragò su un’isola deserta e gelida e creparono quasi tutti di fame prima di avvistare la fiduciosa vacca di mare. Steller, fra una grigliata di ritina e l’altra, si mise in testa di misurarla e di predisporre uno scheletro per restituire la scoperta alla scienza, ma la bestia era semplicemente troppo grossa e la nave che rattopparono troppo malandata per accoglierla. Prima bisogna portare in salvo le persone, altro che ossa! Steller, furibondo, fu costretto ad arrendersi.

I due movimenti successivi del melodramma della ritina si svolgono ormai a catastrofe compiuta: all’avventura “reale” della grande esplorazione sul campo si affiancano quella della ricerca scientifica – attraverso le collezioni, protomusei al confine tra hobby da gentiluomini e ricerca canonizzata – e della conservazione. Ci si sposta in Alaska nel 1859 e sulle isole Aspskar nel 1950, tra reperti da far fruttare come investimenti vantaggiosi, scoperte sensazionalistiche e il canto silenzioso di una bestia che ha nutrito un equipaggio e la curiosità di uno studioso, senza riuscire a scappare in tempo.

Anche qui, la ritina è una specie di leggenda resa leggermente meno nebulosa da misurazioni antiche e tentativi stratificati di ricostruirla. Il materiale che offre diventa una concatenazione di storie a loro modo esemplari, perché sono storie di scienza e di volontà individuale. Sono storie umane, anche se il trattamento che riserviamo d’abitudine all’incontaminato è quello della colonizzazione e del dominio – come se anche noi non facessimo parte della medesima matrice che scegliamo di divorare. Turpeinen maneggia questo paradosso con sincero rispetto per la scoperta e con una ricchissima rielaborazione storica che no, non resuscita la ritina, ma un po’ ci aiuta a pensare che la sua scomparsa non sia stata del tutto vana.

 

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