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Veronica Raimo | Niente di vero

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Che c’è di vero nei ricordi di famiglia?
Forse niente – ed è un niente molto più tentacolare di quello che accompagna i ricordi “normali”. Quel che c’è di vero sono le tracce che ci rimangono addosso e le spiegazioni che proviamo a darci, ma è una verità che associamo a un sentire sanguigno e non è raro che differisca di parecchio dalla cronaca imparziale e scientifica dei fatti.
Che possiamo saperne degli altri, poi?
Registriamo l’urto che generano su di noi, ma mai capiremo sul serio il perché profondo di quelle collisioni: si cresce compensando con l’invenzione i misteri imperscrutabili di casa propria e si cresce scegliendo cosa omettere o cosa infiorettare per cavarsela. Si cresce inventandosi una vita d’uscita e barando con tutta la gaiezza che possiamo chiamare a raccolta.

Vi ho quasi certamente attaccato una pippa superflua, però. Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), non è uno di quei cronaconi formativi dolenti, ma somiglia di più a un’allegrissima operazione di esorcismo del gettonatissimo POVERA ME GUARDA CHE MI È TOCCATO.
Una madre capace di localizzarti a casa di chiunque – esteri compresi – in un’epoca priva di cellulari. Un padre che tira su tramezzi in casa trasformando un appartamento di 60 metri quadri in una sorta di alveare labirintico. Vestaglie, emicranie e Radio3. Vacanze che vanno a rotoli. Diffidenze ginecologiche strutturali e fidanzati che non ti vogliono mai al momento giusto – e poi trovano pure Gesù. Cofani fracassati. Ragazzine mummificate nello Scottex per non farle sudare. Zie pugliesi che ti infamano perché sei l’unica senza tette. Randagismo e case altrui. Lettere piene di frottole e scarponi in spiaggia perché ci sono i vetri. Rompersi le palle – anche grazie ai libri -, fratelli prodigio, clamorose truffe artistiche, bidelli coglioni, maniaci con l’impermeabile e nonne che parlano con la televisione.
La mitologia domestica di Veronica Raimo è una collezione di pessimi esempi, un esperimento di fuga continua, di adattamento tragicomico, di costruzione storta ma efficiente di un orizzonte sgombro dalle menate che ci buttano addosso. Anzi, è una rivendicazione surreale e molto divertente del diritto di fabbricarci le nostre personalissime menate, perché almeno in quello sarebbe bello poter fare di testa propria.

Perché scriviamo? Non posso rispondere per Raimo, ma forse lo facciamo per inventarci un posto più abitabile, per vendicare una versione più antica di noi, per dimostrarci di aver scansato l’ennesimo sabotaggio, per sincerarci di aver scendo, per non concedere a un male di svanire col tempo o per vincere ridendoci su. Scriviamo sulle ingessature che ci toccano in sorte mentre aspettiamo che le nostre ossa tornino a saldarsi. Ne usciamo più storte e di certo diverse da un ipotetico “prima”, ma quel che conta è come decidiamo di ricomporci. Che sia osso o memoria poco conta: restano comunque pezzi strutturali di noi.

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