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Bear Grylls e la carogna di pecora

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La pecora è una bestia utile, ma fino ad oggi non sapevo quanto. E’ stato un cretino di Wild – trasmissione mirabilmente condotta da Fiammetta Cicogna – a spalancarmi gli occhi su abissi d’orrore ancora inesplorati. Bear Grylls appartiene alla deplorevole categoria di avventurieri che i produttori di documentari-spettacolo paracadutano su zone impervie allo scopo di offrire al famelico e sedentario pubblico un succulento collage di imprese schifose, potenzialmente (ma non abbastanza) letali e del tutto prive di senso. Qua, ho avuto l’ardire di assistere a questo Bear che va a sopravvivere in mezzo a una brughiera irlandese.
Cos’ho imparato? Per campare, serve una pecora morta.

La brughiera pare punteggiata da infide sabbie mobili, mini-paludi di torba umida che finiscono per inghiottire incauti animali, motorini, campeggiatori, dischi volanti, salamandre, mufloni, borse di Yves-Saint Laurent e insomma, tutto quello che potremmo desiderare di trovare sotto l’albero di Natale… incluso l’ovino decomposto che così focosamente aneliamo.
Alla vista di una pecora che giace esanime in un metro e mezzo di schifo paludoso, il nostro Bear non si trattiene. Si denuda e si tuffa nella torba molliccia, riuscendo a trascinare fuori dal marciume la spregevole bestia, visibilmente crepata per gli stenti almeno due settimane prima. Mentre Bear afferra la creatura per gli scheletrici arti anteriori,  lo spettatore medio inizia a domandarsi moltissime cose. Tipo, ma quanto puzzerà, quella cosa immonda? E ancora, per quale astruso motivo è stata distolta dal suo riposo eterno? Ma anche, che cosa mai ci farà con la carcassa, questo emerito e logorroico pirla? Potrebbe, come ci auguriamo, morire di qualche malattia ancora sconosciuta solo per averla toccata?
Bene.
Che diamine ci fa?

La prima idea che verrà a Bear, è anche la più banale. La pecora è una palla di lana, la lana tiene caldo, questa maledetta brughiera è più gelida dell’Altopiano di Asiago, la pecora va scuoiata, immantinente. In barba alla decomposizione e armato di coltello – usato un secondo prima fare a fette una cacca secca da usare come combustibile – Bear incide con gentilezza e perizia le quattro zampe e comincia, con precisione e garbo, a spelacchiare gli stinchi del compianto ovino. Insomma, tutti ci mettiamo i maglioni di lana e ci si convince quasi che la tosatura post-mortem non sarà troppo spiacevole, senonchè il buon Bear, non sentendosi all’altezza del ruolo di esploratore hardcore che deve sostenere, abbandona coltello e creanza per tuffarsi fino all’avambraccio nella pecora, scuoiandola a mani nude, con pochissimo tatto e grande stridore di denti. Clarice Starling non ci dormirebbe la notte. Luke Skywalker, invece, capirebbe alla perfezione… ed è anche per questo che tutti preferivano Han Solo.

Quel che capita dopo nella selvaggia Irlanda è una inesorabile discesa lungo un piano inclinato di irragionevolezza e comicità necrofila. O, se vogliamo, una sfida aperta al sistema immunitario e gastrointestinale di tutti noi.
La pecora è morta da millenni, ma va in qualche modo mangiata, perchè per sopravvivere si deve mangiare. In vena di dispensare consigli gastronomici, Bear si accoscia pazientemente accanto alla carogna infangata e indica allo spettatore, che ci piace immaginare con l’acquolina in bocca e la diavolina per il barbecue già a portata di mano, le porzioni più succulente e gustose da rimuovere chirurgicamente e cucinare. Cose tipo la muscolosa carne nei pressi della spina dorsale.

Non soddisfatto dai filettini di spina dorsale e ansioso di stupirci, Bear ribalta l’ex-pecora, la squarta longitudinalmente e ci fruga dentro, in un tripudio di intestini – che, se il clima fosse meno umido, potrebbero essere essiccati al sole e diventare robuste corde -, frattaglie, tessuti molli e porcherie che mai nella vita ci sognavamo di vedere. Non pago, Bear smette di sparpagliare interiora sull’erba, squarcia l’ennesima membrana (l’anatomia della pecora è un casino) e arriva finalmente a ghermire il cuore piangente e spezzato del desolato animale.

Ma è qui, che arriva il colpo da maestro.
E’ qui, che lo volevamo.
E’ qui, che Bear si sente in dovere di far compiere al genere umano il decisivo passo verso un meritato baratro.
Ed è qui, che speriamo tanto che un’intossicazione fulminante se lo porti via.
Che mai farà il nostro Bear?
Molto semplice, si MANGIA il cuore della pecora. Così com’è… crudo, freddo, viscido, invaso da ogni sorta di putridume batterico e copioso sangue congelato. A dirla tutta, Bear inizia con un bel morsicone compiaciuto e spocchioso… ma tale tracotanza è destinata a durare poco e l’iniziale espressione soddisfatta si trasforma in questa smorfia di meritata sofferenza.

Che dire. Sono sempre più convinta che i veri eroi di questi pseudo-reality documentaristici siano i cameraman. Anche se i cameraman sono parte integrante del finto effetto-avventura, finiscono per fare tutto quello che fa il coglione di turno, tipo Bear Grylls, ma trascinando dieci chili di attrezzatura per le riprese e senza mai guardare dove mettono i piedi. Guadano torrenti, si gelano il culo, mangiano manciate di sabbia, nuotano, si arrampicano, si calano da pareti scoscese, con un madonnone di telecamera sulla groppa e una mano sola. Ma quel che li rende veramente eroici è la resistenza e l’autocontrollo che dimostrano ad ogni passo,  scegliendo di non uccidere con immensa crudeltà il pirla che sono costretti a seguire per mare e per terra.

E la pecora?
Che il Signore abbia pietà della sua anima belante.

4 Comments

  1. Manukareru Reply

    oddio ricordo perfettamente quell’episodio e ricordo ancora più minuziosamente di aver pensato esattamente le stesse cose che hai scritto tu, seppur non possedendo la capacità di esprimerla in modo tanto chiaro e divertente. Ah, averti scoperta prima, quante soddisfazioni mi sarei presa. Manu

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