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Gli animali ti guardano.
Senza preavviso, senza motivo e sempre e comunque senza senso, torna l’acclamata rubrica di Tegamini dedicata ai più sconvolgenti fenomeni dell’etologia terrestre, perchè ci sono bestie che era meglio se evitavano di esserci… ma visto che ci sono, tanto vale prenderle in giro.

Oggi, ci occuperemo di una creatura che confligge col concetto stesso di realtà, una bestia anacronistica, di quelle che se si rompono non possono essere aggiustate perchè nessuno fabbrica più i pezzi di ricambio. Un animale intrappolato in un’eterna candid-camera, tra strane protuberanze, risate finte e una generale e persistente sensazione di scomodità.
Insomma, il costernato e discretissimo babirussa è tutto questo.
Ma ovviamente, non lo sa.

TEGAMINI – …ma passami la mamma, che la saluto.
PADRE – Eh, è sul terrazzo.
T – Un luogo notorimente impervio ed irraggiungibile…
P – Ma no, è sul terrazzo che guarda l’upupa!
T – …ah. Ma poi avete capito che uccello era, quello dell’altro giorno?
P – Quello grosso come un piccione, blu, marrone e turchese?
T – Eh.
P – No. Infatti tua madre è molto agitata.
T – Secondo me, è una dendroica cerulea.
P – …che roba?
T – Una dendroica. Cerulea.
P – …
T – Papà?
P – Và và… c’è l’upupa davvero! Era passata anche ieri… e allora sono andato su internet e ho scoperto delle cose.
T – È carina l’upupa.
P – In realtà, la leggenda vuole che l’upupa sia l’uccello del malaugurio. Tradizionalmente è l’uccello del malaugurio. C’è su Wikipedia. E poi, ha una ghiandola che secerne delle sostanze di odore sgradevole, per difendersi.
T – Puzza e porta sfiga, insomma.
P – …si, forse è meglio se dico a tua madre di non darle da mangiare.

I miei genitori si stanno appassionando alla vita bucolica.
Mia madre – flagello dei mondi – si arrampica sulle piante per raccogliere le amarene per la marmellata e fa cataste perfette di legna. Mio padre brama un barbecue sotto il portico e ha scarciato ventisei applicazioni per l’iPhone – tutte uguali – che gli mappano il cielo notturno e, col buio pesto della campagna, si diverte come una Pasqua a vagare declamando i nomi latini delle stelle del firmamento.
Poi uno si chiede perchè sono venuta fuori così.

Gli arti di innumerevoli creature terminano con piedi o zampe di diverse e fantasiose conformazioni.  Dita prensili, unghie, zoccoli, pinne deambulanti, pollici che si oppongono o che concordano con lo status quo, cuscinetti morbidi e polpastrelli più o meno carnosi portano a zonzo bestie belle e brutte sin dall’alba dei tempi, senza fanfaronate e clamore. O almeno, questo era quanto capitava un bel po’ prima che l’uomo decidesse di attribuire proprietà quasi mistiche ai propri piedi, coltivando con dedizione  una capacità del tutto aliena agli altri abitanti del globo… la capacità di sviluppare una serissima, smodata e duratura tradizione di feticismo per le estremità inferiori dei suoi simili. Bene, a quanto pare, tutto questo può capitare benissimo anche alla sula dai piedi azzurri. Anzi, la sula fa di meglio, la sula vive per vantarsi dei propri piedi.
Parliamone.
In questa nuova – e sempre istruttiva – puntata della rubrica CULT “Gli animali ti guardano”, ci occuperemo di un volatile così completamente immerso nella venerazione della propria variopinta palmipedosità da rivaleggiare – in scioltezza e senza nemmeno sudare, tipo Roger Federer – con esseri umani patologicamente fissati. Dopo l’apologia dell’alpaca e l’accorata inchiesta sul fragile equilibrio emotivo del narvalo, arriva finalmente il turno di un nuovo e paradossale animale: la sula dai piedi azzurri, un infausto incrocio tra Quentin Tarantino – meno il genio – e Forrest Gump – meno poesia e dolcezza. Insomma, quel che resta è un ammasso di penne, tessuti fotonici e demenza assoluta.

nb. l’immagine non è stata in alcun modo alterata con arguti e sofisticati software

Dopo il glorioso debutto in sella al morbido alpaca sputacchione, nell’attesissima seconda puntata della rubrica “Gli animali ti guardano” ci occuperemo – con la consueta perizia e accuratezza etologica – dell’elusivo e voluminoso narvalo… una bestia che, al contrario dell’unicorno, non ha avuto la buona creanza di rimanere entro i confini della mitologia.

narvalo

Il monodon monoceros – unico cetaceo dal nome ragionevolmente associabile all’espressione gotta catch’em all – popola le deprimenti, scure e gelide acque nelle vicinanze del Polo Nord e può raggiungere i cinque metri di lunghezza, zanna esclusa. La conformazione conica, la quasi totale assenza di pinne dorsali e lo scarso sviluppo delle pinne natatorie contribuiscono a far somigliare il narvalo a un gigantesco kebab galleggiante.
Ben poco si sa sulle attitudini romantiche del narvalo. Le femmine danno alla luce ogni anno uno o due piccoli, che alla nascita sono già dei silurotti di un metro e mezzo. Ci piace pensare che il corno spunti qualche tempo dopo il parto. Nonostante il loro aspetto poco ergonomico e letale, i narvali sono creature pacifiche e socievoli, fanatiche del feng-shui. La nobile disciplina orientale è infatti l’unico mezzo a disposizione di questi malinconici mammiferi del mare per vivere in branchi di anche centinaia di esemplari senza trucidarsi e impalarsi a vicenda ad ogni cambio di direzione. La qualità che i narvali più apprezzano nei propri simili è la prevedibilità.
Nell’alimentazione, il narvalo può essere equiparato a un qualunque burinazzo umano, arricchitosi torbidamente e in modo spropositato con qualche volgare attività. Il cetaceo, infatti, si nutre essenzialmente di pregiate seppie, calamari giganti ed esosi crostacei.
Per affossare in modo definitivo la propria reputazione, molti studiosi hanno a lungo dibattuto sulla funzione del benedetto corno del narvalo, finendo per morire in disgrazia senza mai essere giunti a una conclusione plausibile. Si pensava che il corno servisse nella caccia, per infilzare altri ignari abitanti dell’idrosfera, ma il narvalo è un nuotatore flemmatico e sonnacchioso, poco incline agli inseguimenti subacquei e palesemente non adatto a trafiggere la preda in velocità – l’avere una pessima mira è infatti la seconda qualità che i narvali più apprezzano nei propri simili e gli esemplari più saggi e amati del branco si dedicano con grande impegno a massacranti allenamenti, allo scopo di peggiorare le proprie capacità di impalare con precisione.
Secondo una teoria forse elaborata da un qualche cavaliere particolarmente attaccato alla propria Durlindana o dal Consiglio Mondiale dei Maestri Jedi,  il corno del narvalo fungerebbe da arma di difesa, in uno scenario moschettieristico cappa e spada. Anche questa teoria è però miseramente naufragata di fronte alla remissiva personalità del narvalo, un cetaceo emo, che sembra attendere di perire di morte violenta con la stessa serena indole dei martiri del primo cristianesimo, porgendo l’altra guancia e scoprendo il costato alle accuminate lance degli aggressori. Non c’è dunque da stupirsi che orche marine, orsi polari ed eschimesi si dedichino con indicibile spasso alla caccia del narvalo. Se ben ci pensiamo, infatti, il narvalo è l’animale perfetto su cui costruire un mirabolante racconto di caccia. Apparentemente mostruoso e arcigno, ma in realtà meno pericoloso di uno scolapasta, il narvalo è facile da uccidere e da morto fa più paura che da vivo. Dunque, chiunque ammazzi un narvalo potrebbe attribuire al gesto connotazioni leggendarie, vantandosi in lungo e in largo al bar davanti a un pubblico ansioso di  essere sommerso di fandonie.
Ma torniamo all’angosciosa diatriba della zanna. Giunge in aiuto, in questa disperata quanto sterile ricerca del significato funzionale del corno del narvalo, un fatto molto semplice: solo gli esemplari maschi sono zavorrati dalla ridicola escrescenza. Di conseguenza, si potrebbe pensare che il corno sia un qualche tipo di richiamo erotico, come accade per cervi, stambecchi, caproni e il resto della cornuta fauna terrestre, che si prende a capocciate per impressionare il gentil sesso. Il narvalo, così come moltre altre specie animali, fa quindi  della propria prorompente escrescenza ossea un mezzo di richiamo per la femmina, che si dirigerà baldanzosa dal narvalo col corno più lungo. Avvallando quest’ultima ipotesi, gli etologi di ogni latitudine sono finalmente giunti, dopo un tortuoso percorso fatto di osservazioni empiriche, coraggiose ipotesi e cocenti smentite, alla scoperta dell’acqua calda.

In conclusione –  e come si può ben osservare nell’eloquente documento fotografico -, il narvalo è un autentico eroe tragico, che lotta strenuamente per far emergere la propria vera personalità: incapace di infliggere crudeltà al prossimo, viene dall’uomo investito del ruolo di giustiziere di animali adorabili, in un trionfo di incomprensione, superficialità ed esecrabile violenza gratuita.
La triste verità è che il narvalo è un mammifero marino tragicamente frainteso.

 

Sono assolutamente certa che la rubrica “Gli animali ti guardano” diventerà un MUST. A livello galattico.
Lo scopo di questo inutile agitarsi di dita sulla tastiera è il seguente: divulgare preziose nozioni zoologiche e incoraggiare l’armonia tra le creature.
Ma veniamo al dunque.
L’alpaca.

L’alpaca è una bestia bella, nonostante somigli a un collage di stivali Ugg.
Tecnicamente, è un camelide. Come il lama, la vigogna, il guanaco e la coperta più morbida che avete in casa. È un camelide che rumina e rimescola vegetali in ben tre stomaci. Per non stramazzare, l’alpaca ha bisogno di mangiare almeno un chilo d’erba al giorno, il che non è poi una cosa così esorbitante… ho visto bambini mangiare ben più di un maschio adulto d’alpaca nel pieno del vigore. La saltellante popolazione degli alpaca si divide in due razze, Huacaya e Suri. Visto che non ho la più pallida idea di cosa questa demarcazione comporti, direi di passare dignotosamente oltre.
Visto che sono così pelosi, gli alpaca hanno scelto di vivere sulle Ande peruviane, boliviane e cilene, ad altitudini arroganti di 3.000-5.000 metri sul livello del remoto mare. Da buon animale andino, l’alpaca ha il vezzo di sputare fortissimo su cose e persone, caratteristica che ha spinto l’uomo, sin dall’alba dei tempi, a servirsi del gagliardo e apparentemente innocuo camelide come bestia da tosare e non da cavalcare o da trascinare per chilometri in salita con roba pesante sulla schiena. Non escludo che  qualche stolto montanaro avesse provato a lanciare la moda dell’alpaca da soma. È certo che l’incauto morì sputacchiato.
Se immerso in acqua saponata, l’alpaca non infeltrisce. La sua lana, che può assumere una ventina di colorazioni naturali – tra cui sicuramente il rosa confetto, il turchese, il blu cobalto e il mimetico verde prato -, non contiene la volgare lanolina, sostanza responsabile della legnosità dei maglioni di tutti noi poveri bastardi.
L’alpaca viene tosato a primavera, circa un minuto prima che crepi di caldo sotto il peso del suo manto. Un alpaca maschio è in grado di produrre circa 4 chili di lana all’anno. 4 chili di lana d’alpaca sospetto riempiano uno sgabuzzino di dimensioni ragguardevoli. Costruzioni imponenti sono state erette in prossimità di recinti e fattorie per contenere tutta la lana ricavata dalla tosatura delle greggi. La necessità di questi fabbricati finisce spesso per mettere a repentaglio la redditività di breve periodo dell’allevamento dell’alpaca, costituendo anche una forte barriera all’ingresso di nuovi competitor nel settore. Quindi, l’allevamento dell’alpaca è una faccenda oligopolistica.
Mettere al mondo un mini-alpaca non è affare da poco. Le femmine partoriscono un solo piccolo l’anno, anche perchè la gestazione dura undici mesi e mezzo e resta poco altro da fare, a parte tentare di non morire di noia e cercare di non ruzzolare dalle pendici di qualche declivio. Alla nascita, accolta con belati di giubilo e sollievo – traducibili con “era ora, che diamine” –  i cuccioli sanno già ordinare al ristorante, applicare correttamente il teorema di Weierstrass, assemblare bestemmie composte, risolvere cubi di Rubik, suonare Chopin e sferruzzare variopinti ponchos con lana proveniente dal loro stesso giovane deretano.
L’alpaca non ha nemici nel mondo naturale. Nessuno vuole mangiarli. Nessuno prova gusto nel trucidarli. Nessuno dissemina tagliole per tranciare loro i robusti stinchi. Tutto questo accadeva molte lune fa, quando gli alpaca non volavano.

20131031-203739