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[Un doveroso commento all’immagine di copertina: “o almeno ci provo”].

I libri che ho letto più volentieri nel 2023 non sono necessariamente i libri più belli del 2023. O i libri più meritevoli dal punto di vista letterario o contenutistico. O i libri più “importanti”, quelli che cambieranno le sorti del mondo e ci renderanno collettivamente esseri umani meno schifosi. Magari non sono nemmeno tutti usciti nel 2023, ma per fortuna i libri non scadono e possiamo leggerli quando ci pare.
Insomma, questo agglomerato di letture è un esercizio riepilogativo che non ha mai avuto l’ambizione di configurarsi come classifica d’assoluta nobiltà all’interno dell’impervio cammino della civiltà umana. Sono i libri che ho letto più volentieri quest’anno e che, per un motivo o per l’altro, mi hanno sorpresa per inventiva, son riusciti a intrattenermi quando ho sentito la necessità di essere intrattenuta – mi hanno “fatto bene”, in parole povere – o hanno risvegliato in me dell’ammirazione per chi ha saputo congegnarli.
Se son libri che ho amato vuol dire che sono libri di cui ho già parlato a tempo debito, quindi qua li mettiamo in fila e per approfondire vi rimando ai pezzi originali. 

Vado. E no, non sono in ordine di preferenza o roba simile.


A. K. Blakemore
Le streghe di Manningtree
Fazi
Traduzione (splendida) di Velia Februari


Sam Kean
La brigata dei bastardi
Adelphi
Traduzione di Luigi Civalleri


Coco Mellors
Cleopatra e Frankenstein
Einaudi
Traduzione di Carla Palmieri


R. F. Kuang
Babel
Mondadori
Traduzione di Giovanna Scocchera


Kate Beaton
Ducks
BAO Publishing

Traduzione di Michele Foschini


Eleonora C. Caruso
Doveva essere il nostro momento
Mondadori


Niccolò Ammaniti
La vita intima
Einaudi


Gabrielle Zevin
Tomorrow and tomorrow and tomorrow
Nord

Traduzione di Elisa Banfi


Maria Grazia Calandrone
Dove non mi hai portata
Einaudi


Michael McDowell
La saga di Blackwater
Neri Pozza

Traduzione di Elena Cantoni

Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

Ho bisogno di servirmi di un potente stereotipo che mi risparmierà mille preamboli anche se l’uso stesso di uno stereotipo dovrebbe spingermi a dire che no, non dovremmo approcciarci alla realtà avvalendoci del mezzuccio dello stereotipo perché possiamo fare molto meglio di così e tutto questo discorso è di fatto un preambolo esasperante che spero mi aiuti a non farmi prendere a sassate MA bisogna dire che Janice Hallett – tradotta da Manuela Francescon per Einaudi Stile Libero – ha scelto di scrivere un giallo con una struttura atipica, una forma epistolare “moderna” e una quantità devastante di asimmetrie informative perché, sotto sotto, è alla nostra portinaia interiore che vuol parlare.

Credendomi saggia e illuminata ho spesso esclamato HALLETT A ME NON LA FAI, NON MI LASCERÒ IRRETIRE DA QUESTO IPERTROFICO INNO AL VOYEURISMO ma poi m’è anche venuta voglia di suonare tutti i campanelli per scovare il condomino che questa settimana non ha chiamato l’AMSA ma ha mollato in cortile vicino ai bidoni un trolley, due ventilatori industriali e una batteria di pentoloni. Quindi no, non mi credevo pettegola ma sono comunque sprofondata nell’abile trappola, trovando anche piuttosto liberatorio impicciarmi degli affari di questo manipolo di gente ben educata, ancor meglio intenzionata e irrimediabilmente disastrata.

Non spoilero, giuro. L’assassino è tra le righe gravita attorno a una compagnia di teatro amatoriale. La nipotina di 2 anni della coppia dei “fondatori” – che sono anche un po’ la Famiglia Alpha del microcosmo cittadino – va curata per una rara forma di tumore al cervello e bisogna raccogliere una barca di soldi per far arrivare delle medicine sperimentali, esosissime e miracolose dagli USA. Per buon vicinato e umana creanza, tutti si sbattono come matti in questa raccolta fondi che promette di salvare la vita alla piccola Polly e una persona ci lascia le penne. Chi è stato davvero? Il nostro punto di vista è quello di due tirocinanti di uno studio legale che ricevono man mano dal loro capo la documentazione processuale. Stanno preparando l’appello e la convinzione dello studio è che in galera non ci sia chi dovrebbe invece starci. Insomma, nulla è come appare e la vita della provincia inglese è un gran teatrino, uno spettacolo di certo migliore di quelli periodicamente messi in scena sotto l’autorevole supervisione dei coniugi Hayward.

Quello che ci ritroveremo a gestire insieme alle volenterose praticanti è un gran malloppo di e-mail,  messaggini e articoli che nel loro disordinato accumulo nascondono una verità dimostrabile. È divertente da leggere perché ci si sente al contempo più consci delle dinamiche “vere” del gruppo – negli scambi privati si svela spesso quello che a tutti non si può dire – ma anche estremamente azzoppati da una calibratissima opacità di fondo. Chi ci perde? Chi ci guadagna? Contano più i soldi o il prestigio sociale? Tra vergogna, rancore, opportunismo, manie di protagonismo, provincia asfittica e bugie bianche che diventano nerissime,
Hallett mette in scena – e con il fattore-teatro guadagna anche 1000 punti meta-narrativi – un godibile congegno investigativo che seguiremo con voracità, moti d’esasperazione e la sacrosanta indignazione che ogni Cittadino Rispettabile sente di dover periodicamente sfogare su Facebook… cosa che le portinaie professioniste non fanno, perché loro stanno lavorando sul serio.

Nota ulteriore, di non scarsa rilevanza: sì, c’è una soluzione. Hallett non vi congeda con un “e ora tocca a te scoprire chi è stato!”. Insomma, magari troverete altre motivazioni per scagliare il tomo contro al muro, ma dell’inconcludenza o dell’eccessiva interattività non servirà preoccuparsi.

Di potere, soldi e crudeltà credo si possa parlare a ogni latitudine e in ogni epoca. Deepti Kapoor sceglie l’India, casa sua – anche se vive in Portogallo e scrive in inglese -, per molla “morale” e per esperienza maturata sul campo, da giornalista che di Delhi ha visto sia i salotti dorati che i cantucci che difficilmente finirebbero in una presentazione istituzionale sull’ascesa di una nuova potenza del mondo globalizzato. Prima uscita di una saga già ambiziosissima (e in avanzata fase di adattamento televisivo/cinematografico, pare), L’età del male – tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile Libero – è un romanzo sul crimine come compromesso, come rivalsa e sogno vendicativo. È anche una storia dove non è previsto che si vinca o si perda, perché il gioco è truccato in partenza e gli abissi sociali, economici e culturali che separano le pedine in campo sono talmente macroscopici da deformare il concetto stesso di giustizia. Kapoor disegna un sistema che demolisce (o ha perso) i punti cardinali dei Grandi Ideali per rimpiazzarli con nuove divinità tentacolari: il male patito e subito diventa un credito nei confronti del mondo, la base “teorica” che giustifica il male che si infligge per riportare la bilancia in equilibrio.

Kapoor ci butta nell’orbita di una famiglia malavitosa all’apparenza onnipotente – intrallazzi politici, monopoli economici, devastazioni urbanistiche e via così – in via di “legittimazione”. Il più pulito dei Wadia ha la rogna, ma il sistema che hanno messo in piedi a partire dai due patriarchi – Bunty, quello di città che fa affari, e Vicky, quello di “campagna” che fa paura – ha generato una tale quantità di soldi da rendere la famiglia non solo intoccabile ma anche inserita nel tessuto governativo e finanziario della gente che conta e che decide. È come se tutti fossero alle loro dipendenze, dalla stampa alla polizia, perché conviene mangiare da quel piatto e a fare gli eroi o i difensori dei deboli si campa poco. L’anello “debole” è Sunny, unico figlio di Bunty, erede teorico dell’impero e pure un po’ rampollo mezzo coglione che nessuno sa bene dove piazzare perché dove lo metti fa danni e nemmeno lui ha capito con granitiche certezze chi essere o cosa ci si aspetta da lui. Sunny non è identico agli altri Wadia ma sa far schifo a modo suo, ha dei sogni che somigliano a quelli di un colonialista straniero (che cortocircuito strabiliante) e un invalidante bisogno – destinato all’eterna frustrazione – di essere approvato dal suo temibile papà. Come ogni pagliaccio, Sunny è triste. E questa sua ambivalenza, queste numerose identità che prova ad assumere nella speranza di trovarne una che attecchisca e lo trasformi in una persona degna di rispetto – ecco, è il dramma di questo bambinone crudele e fondamentalmente patetico a mandare avanti la narrazione. Attorno a Sunny gravitano Ajay – se c’è al mondo un povero Cristo è lui – e Neda, giornalista in erba che si lascia lì per lì abbagliare e che il fosso non lo scansa.

Il romanzo racconta la parabola di Sunny e dei suoi riluttanti satelliti in un’alternanza di punti di vista e di momenti diversi. Si salta qua e là beneficiando di informazioni astutamente incomplete che producono uno svelamento progressivo del quadro generale e che collocano ogni azione in quell’interessante zona grigia morale che penso sia l’anima vera di in una storia che indaga il male come compromesso o, come nella miglior tradizione, come “offerta che non si può rifiutare”. Succedono cose tremende, sbagliate, di un’ingiustizia che insulta ogni principio. E succedono in un labirinto con un difetto di progettazione intenzionale: non si può uscire, ma ci si illude di poter scegliere da che parte andare.

Padri! Figli! Sangue! Bei completi di sartoria! Dramma! Eredità! Ricatto! Tremenda vendetta! Disprezzo imperdonabile per la vita altrui! Macerie! Speculazione! Giornalisti prezzolati! Ubriachi! Ubriaconi! Ubriachi attaccabrighe! Altri ubriachi! Ubriachi armati di balestra! Rimpianto! Caste! Piscine! Delusione! Raccapriccio! Tirapiedi! Scrocconi! Ceffi tremendi! Imbecilli! Scalate sociali! Reietti! Conferenze stampa! Povertà nera! Feste dove non si capisce mai cosa ci sia da festeggiare! Prigioni! Colpa! Redenzione! Architettura! Schiavitù! Traffici abietti! Soprammobili carissimi! Santo cielo, c’è dentro di tutto e tutto contribuisce a tracciare un ritratto scoraggiante della disposizione dell’essere umano alla crudeltà. Cormac McCarthy a parte, non posso dire di avere una gran “esperienza” di epopee criminali, ma mi pare che Kapoor abbia messo insieme un congegno che funziona. Incalza al punto giusto, anche se non è sempre omogeneo a livello di ritmo e certe digressioni/parentesi mi son sembrate un po’ “troppo”, pur capendone la funzione nell’impianto generale del libro (e dei seguiti promessi). Insomma, è un polpettone di opportunissima complessità e di intriganti dilemmi – dotati anche di una rilevanza significativa, se li inquadriamo in un’ottica socio-economica che non può non tangerci e di cui inevitabilmente facciamo parte.

Dato che il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è bellissimo, ho deciso che la butterò in caciara.
È trascorso un discreto numero di anni dalla pubblicazione della sua ultima creatura e, nonostante i numerosi “non voglio più scrivere narrativa” qua e là pronunziati, Ammaniti è tornato. Ho letto Anna e ho visto la serie – ricavandone parziale consolazione – ma in fondo al cuore mi sono sempre rifiutata di credere alle dichiarazioni di auto-pensionamento dal mestiere di romanziere. Preferivo immaginarmi Ammaniti alle prese con la sindrome di George R.R. Martin, una situazione che visualizzo così, avvalendomi della pubblicità del digestivo Brioschi.

Fai la televisione, Niccolò. Segui i tuoi interessi. Mettici il tempo che ci vuole. Anzi, falli aspettare. Maledetti, sempre lì a chiedere dei libri nuovi. Un assillo. Escono trendordicimila romanzi l’anno, ma loro no, non possono leggere uno di quelli, il nostro vogliono leggere. E INVECE NO, TIÈ, DOVETE ATTENDERE. Quanto? Non si sa. Non dare spiegazioni, allontanali con un bastone nerboruto.

Maria Cristina Palma, la protagonista di La vita intima – inevitabilmente in libreria per Einaudi Stile Libero -, divide con noi solo la stupidità assoluta che ci assale quando andiamo dal parrucchiere a chiedere “qualcosa di nuovo”. Stavamo così bene prima. Ci riconoscevamo. E invece no, dobbiamo farci del male e uscire azzoppate da un nuovo cruccio. La gente che ti ama, per pietà, ti dirà che stai bene e che il nuovo taglio è molto francese ma, grazie al cielo, i nostri scempi non avranno il potere di far vacillare il governo. I capelli di Maria Cristina Palma sì.

Perché? Perché Maria Cristina è la moglie del presidente del consiglio, è dotata di una bellezza fuori scala rispetto alle altre femmine della nostra specie – certificata, per altro, dallo studio di una remota università americana che dopo calcoli estenuanti l’ha ufficialmente individuata come DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO, facendo la gioia di ogni testata giornalistica che sfrutta spudoratamente il clickbaiting  e non può muovere un passo senza che i suoi comportamenti vengano analizzati, sezionati e aggiunti al mosaico infinito di un’immagine pubblica che ha conquistato vita propria, allontanandosi a grandi falcate dalla Maria Cristina originaria. Che poi è questa – l’impietoso ritratto è curato dalla sua mamma, comparsa memorabile e dalla lucidità tombale:

Ricorda che questa bellezza non te la sei conquistata. È un dono che ti abbiamo fatto io e tuo padre e devi saperla portare, proprio come il vestito da reginetta. Oggi, se fossi stata spiritosa, te ne saresti fregata degli altri e avresti fatto vedere a tutti chi era la regina della festa. La bellezza, senza coraggio, è un guaio. Proprio perché sei bella non verrai presa sul serio e ti dovrai impegnare cento volte di più delle altre per dimostrare che sei intelligente, profonda, per non essere usata e trattata come una scema dagli uomini. Tuo nonno è il primo che ha portato dall’America il latte detergente in Italia e la nonna sa prendere al lazo i buoi. Tuo fratello sa tuffarsi di testa dallo Zingaro. E tu che sai fare? Sai piangere e scappare come Gina Mangano, la figlia del panettiere? Noi che abbiamo il sangue dei Sangermano, dobbiamo fottercene del giudizio della gente. Persino tuo padre, che è uno stronzo, ha scalato l’Everest. Tu, gioia, non emergi per carattere, ma almeno impara a portare la bellezza come una regina. Capito, amore mio?

Son solo le sfighe a schiacciarci o possono pensarci anche le fortune? Maria Cristina è un magnifico vaso di coccio in mezzo a tantissimi recipienti molto meno gradevoli alla vista ma più coriacei – e forse pure pieni di qualcosa, più capaci di orientarsi nel mondo, più duttili e scafati. Accusata spessissimo e volentieri di sapere di poco, percepita quasi universalmente come appendice muta e gradevole a vedersi di uomini importanti – dal primo marito scrittore al premier in carica – e cronicamente in cerca di un punto di riferimento che non la abbandoni in circostanze tragiche, Maria Cristina cerca di limitare i danni e di tenere in piedi le apparenze, ma avrà mai la possibilità di raccontare davvero una storia che sia sua? Il domandone si fa ineludibile quando, per un fortuito incrocio di antiche traiettorie, Maria Cristina si imbatte in una fiamma di gioventù che le gira un video “d’archivio” potenzialmente in grado di devastarle la vita. Barcollando – anche grazie a un alluce tumefatto – sul filo sottile dell’accettabilità, Maria Cristina andrà di fatto alla ricerca del suo nucleo reale, spogliandosi come una favolosa cipolla di tutte le stratificazioni, le preoccupazioni e le sovrastrutture che la spingono automaticamente a mettersi in posa per una schiera di fotografi ipotetici anche quando è da sola in mezzo a un bosco. Chi diventiamo, quando smettiamo di volercelo far dire dal riflesso che produciamo sugli altri? Che cosa serve davvero per sentirci in pace?   

Come da tradizione, Ammaniti ci accompagna a passo di carica e con un’allegria tragica e incontenibile verso un orizzonte minaccioso. Maria Cristina è un gorgo di paradossi che affondano le radici nel presente delle nostre piccolezze, mentre attorno a lei si affollano schiere di comprimari miseri, strambi e stupendi. Ho riso come non mi capitava da Ti prendo e ti porto via e, tra lampi grotteschi e sprazzi illuminanti, ne sono uscita pure più speranzosa. Dal Bruco – evanescente spin-doctor e guru eccentrico della comunicazione – ai custodi astiosi delle decadute terre di famiglia, dai fantasmi dell’adolescenza ai santoni della creatività perduta, dai personal trainer agli hair-sculptor delle ricche signore, dai cani zoppi alle molte comparse della politica nostrana, dal giornalismo ruffiano alla mondanità opportunistica c’è poco da stare allegri… ma forse dipende solo da come la si prende. “Portare la bellezza come una regina”? Forse vale anche per il resto… soprattutto per le miserie troppo vere, troppo cattive e dolorose per essere confezionate, mascherate e riconvertite in intrattenimento per una platea famelica e incontentabile. A chi dobbiamo la verità? Al nostro cuore, prima di tutto. 
Grazie, signor Ammaniti. Che gioia rivederla in giro.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

Siamo in una cittadina irlandese nei giorni che precedono il Natale del 1985. Fa freddo e alle stufe del circondario pensa Bill Furlong, alacre commerciante di legna da ardere e carbone. Ha una moglie e cinque figlie. È una brava persona.
A casa sua regna un’atmosfera di indaffarato ma caloroso disordine e i dipendenti della sua ditta non hanno nulla di cui lamentarsi – la paga è puntuale e i conti sono in ordine, anche se il camion delle consegne perde qualche colpo e tutti hanno imparato a convivere con la fuliggine che li ricopre in pianta stabile. A domenica si va a messa col vestito buono e le notizie della città – chi nasce, chi muore, chi s’ammala, chi dovrebbe frequentare un po’ meno il pub e chi sta passando un guaio – circolano in un costante chiacchiericcio che non azzoppa eccessivamente le regole del buon vicinato.

Furlong è cresciuto nella proprietà più ricca della città, dove sua madre prestava servizio. Non sa chi sia suo padre, ma sa che la signora Wilson non ha mai pensato di sbatterli fuori. Pur non mancando di tenerli “al loro posto”, ha provveduto a loro e ha sostenuto l’educazione e i primi passi di Furlong in un mondo che non è abitualmente clemente con chi ha scarse credenziali dinastiche o dubbie origini. La gente mormora e mormorerà sempre, è vero, ma di Furlong non si può che mormorare bene.

Piccole cose da nulla di Claire Keegan – tradotto da Monica Pareschi per Einaudi Stile Libero – è una cronaca lieve ma densissima degli ultimi giri di consegne di Furlong in vista delle feste. Le porte a cui bussa sono tante – anche quelle impenetrabili del convento della cittadina – e i ricordi che affiorano, avvolgendo il presente in una malinconia indaffarata, sono quelli di un uomo che tenta con grande cocciutaggine di continuare a meritarsi le fortune che gli pare d’aver costruito.

Siamo abituati a considerare l’ambizione come uno slancio titanico verso traguardi rivoluzionari, conquiste che riusciranno a elevare la nostra posizione in una immaginaria catena alimentare. Furlong è un uomo pratico, vuol cambiare gli infissi di casa perché sua moglie soffre gli spifferi e vuole sentirsi “presente” quando è circondato dalle persone che ama, anche se non è abituato a godere di un tempo improduttivo e d’istinto rincorre continuamente quel che va fatto per continuare a tenere su la baracca. Quand’è che ci si sente davvero autorizzati a meritarsi quel che si ha? Furlong sente di non potersi fermare, soprattutto quando un destino che pare rimasticargli un “e se fosse toccato a noi?” del passato lo mette di fronte a dilemma.

Keegan riesce a raccontare un tempo recentissimo – e anche un orrore istituzionalizzato, come scoprirete – con il passo di un piccolo classico. Sembra una storia fuori dal tempo, ma è un’indagine calorosa e profonda sulla giustizia, sulla dignità e sui nostri grandi dilemmi: chi vogliamo essere, soprattutto quando nessuno ci guarda? Perché siamo spesso convinti che a far meglio ci penserà sempre qualcun altro? Dove ci collochiamo, agendo nel quotidiano, tra quello che ci conviene – perché rispettando lo status quo ci preserviamo – o quello che sarebbe più giusto fare? Perché accogliamo in maniera così arbitraria e respingiamo le difficoltà altrui come se potessero contaminarci o incrinare la nostra “posizione”?
Insomma, in un universo non sempre clemente o misericordioso – nonostante le genuflessioni in chiesa -, Bill Furlong porta il fuoco… anzi, porta quel che serve per accenderlo e scaldarci. E fa una fatica immane, perché il carbone pesa, sporca e non basta mai, ma lui ci prova – e arriva puntuale quando comincia a far freddo davvero.

Le Quattro galline di Jackie Polzin – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Letizia Sacchini – non sono le occulte custodi dell’antica saggezza del mondo. Nel loro razzolare non troveremo la sapienza del cosmo o le indicazioni velatissime di un’entità superiore – assai opaca ma fondamentalmente pronta a guardarci le spalle. Le galline sono un pretesto. Sono vittime inconsapevoli. Sono in balia del caso, del caos e della fortuna. Le galline non sanno niente e possono controllare solo quello che hanno davanti al becco. Le galline, in un certo senso, siamo noi. Anzi, potrei azzardarmi a dire che godono di un relativo privilegio: nel microcosmo solo all’apparenza inoffensivo di questo libro, hanno chi le accudisce e veglia sulla loro strutturale impossibilità di contrastare gli accidenti della vita.

Le galline vivono nel pollaio di una casa dal valore immobiliare in picchiata. Sono le galline di una coppia formata da un accademico condannato ad essere promettente (forse) in eterno e da una donna che sta cercando di uscire dal limbo di un desiderio viscerale frustrato. Si sorreggono a vicenda senza grandi gesti plateali e, a vederli così, non sembrano neanche travolti da chissà quale formidabile sentimento. Vivono in un quartiere che dovrebbe avere una collocazione urbana ma pare composto da una serie disordinata di microscopici feudi infestati da predatori boschivi, tratte commerciali diventate troppo invadenti, cortili pieni di roba che nessuno sa come smaltire, depressioni periferiche e gentrificazioni al contrario. Non si capisce da dove piglino i soldi per campare, ma quattro galline le possono mantenere.

Il libro ci invita senza particolari preamboli a partecipare alla quotidianità di lei – che funge anche da voce narrante – e delle sue galline. Quando arriviamo, c’è una possibilità di futuro che si inserisce timida nel clima di disillusione generale. Seguiremo questa possibilità immergendoci in una stratificazione di dettagli “piccoli” che, nell’accumulo graduale, son poi quelli che costituiscono la realtà del vivere. Puliremo case – e penseremo a cosa vuol dire -, compreremo granaglie, visiteremo madri, scalderemo avanzi, baderemo al bambino della nostra amica, risponderemo alle rimostranze dei vicini e aspetteremo lettere importanti mentre cerchiamo di capire se in giardino abbiamo un albero che sta per crepare o no. Le galline saranno una preoccupazione costante.
Perché non fanno le uova?
Il freddo le sterminerà?
Hanno da bere?
I procioni possono raggiungerle?
Ci preoccuperemo per le galline perché abbiamo paura di preoccuparci per noi. Ci prenderemo cura di queste benedette galline perché abbiamo bisogno di scoprirci in grado di proteggere almeno loro.

È un bellissimo libro strano. Restituisce dignità “filosofica” a un pragmatismo che sembra risalire alle pulsioni più viscerali e sincere, ma senza menarcela con piccoli mondi antichi e con la magia delle creature semplici. È un libro pieno di dolori tremendi e destini di una normalità spietata, di teste che lavorano – e rimestano quel che di irrimediabile c’è nel passato – mentre le mani sono impegnate. Racconta quello che succede quando il posto dove vivi muore e tu non hai modo di aggiungere vita a quel che c’è, ma puoi solo provare a limitare i danni in vista di qualcosa che non sai bene se arriverà. E in mezzo ai piedi hai queste quattro galline che non sanno niente, ma forse hanno capito chi sei.

Per definizione, i cataclismi hanno il potere assoluto e terribile di mutare per sempre lo status quo. Impongono un cambiamento radicale (e tragico) della realtà che conosciamo e a caro prezzo ci obbligano a immaginarne un’altra, a ricostruirla sulla nostra pelle oltre che nel pensiero. Non c’è catastrofe che possa vederci preparati o che ci offra appigli per capire come ne riemergeremo – se questa fortuna di “esserci” ancora ci verrà concessa da chissà quale sorte inconoscibile. Nessuno ha merito, nella salvezza come nella morte, ma chi rimane non può che domandarsi cosa fare con quel futuro che, in mezzo all’annullamento del mondo a cui si appartiene, sembra a maggior ragione dono e miracolo, visto che a tanti altri è stato sottratto arbitrariamente e all’improvviso. Il disastro in cui si muovono Nicola e Barbara, i due narratori che ci accompagnano in Trema la notte di Nadia Terranova, è un disastro realmente accaduto: il terremoto del 1908 che ha raso al suolo Messina e Reggio Calabria.

Entrambi, a modo loro, lottano con un presente che non asseconda i loro desideri.
Barbara fugge spesso a Messina dalla nonna per vivere la grande città e allontanarsi da un padre che la vorrebbe sposata con un ragazzo che non ama. A lei piacerebbe studiare e scrivere, ma i margini di manovra per una donna sono ancora molto scarsi e l’indipendenza è un miraggio.
Nicola è un bambino, figlio unico di una famiglia ricca ma piagata da fanatismi quasi inverosimili: la madre lo fa dormire in cantina su un catafalco, legato, sorvegliando ogni sua mossa in cerca dello zampino maligno del diavolo. Nicola ci capisce poco, ma intuisce perfettamente che l’indifferenza del padre e le torture di sua madre non sono il genere d’amore “giusto”.
A fornire loro una seconda occasione per immaginarsi liberi e senza vincoli è, paradossalmente, proprio il terremoto. Oltre al trauma della distruzione, però, ad accomunarli ci sarà un incontro che a Barbara consegnerà un’eredità assai tangibile e a Nicola l’imperativo di crescere per dimostrarsi migliore di quello che le ha visto subire. I loro destini si somigliano nell’idea di reinvenzione e di lotta per la sopravvivenza in due città sfatte, ma la parabola concreta delle loro rinascite sarà diversissima. Entrambi impasteranno quelle macerie per cambiare pelle e plasmarsi un’identità nuova, con l’ostinazione dei sopravvissuti e il coraggio di chi ormai ha già perso tutto.

Il libro procede assegnando un capitolo a Barbara e uno a Nicola. Ogni capitolo fa il suo sotto la vigile benedizione di un arcano maggiore: m’è sembrato bellissimo, perché se c’è una cosa che ho vagamente afferrato dei tarocchi è la possibilità di leggerli seguendo più direzioni “di senso”, più interpretazioni e incroci cangianti. Un terremoto è un orrore che la natura ci infligge, ma in questo romanzo diventa anche un acceleratore di destini, un grande calderone in cui convivono l’immobilità della perdita e lo slancio verso il domani di chi resta e trova il modo – imperfetto, doloroso e pieno di compromessi – di ricostruire.
Anche la lingua di Terranova trova, qui, un passo che somiglia molto alla divinazione: è ricchissima, suggestiva e fluida. Restituisce la componente maestosa che ogni disastro vastissimo trasmette suo malgrado ma anche la forza più circoscritta degli istinti individuali più basilari.
Cosa ce ne facciamo di un male assurdo che si abbatte sul mondo che conosciamo? Dipende. Da noi e dalla carta che pescheremo dal mazzo. Niente è scritto, ma tutto si può immaginare… così come lo Stretto può continuare ad essere attraversato, a seconda del riflesso che il mare ci restituisce.
Un evviva per Nadia Terranova? Decisamente sì.