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Di Matrescenza di Lucy Jones abbiamo parlato, ma mi sembra più che opportuno segnalare anche il lavoro di Francesca Bubba, sia perché si concentra sul contesto della maternità in Italia e anche per come sceglie di farlo. I dati che riguardano il nostro paese diventano una chiave interpretativa per moltissimi dei crepacci in cui continuiamo a essere spinte – mentre ci dicono che è ora di spingere, signora – ma anche un punto di partenza per costruire uno scenario diverso. Se dati ed evidenze esistono – per fenomeni medici, socio-economici e lavorativi -, esistono anche per combinarci qualcosa e per aggiungere la maternità tra le molte “opzioni” a nostra disposizione, come soggetti indipendenti e realmente nelle condizioni di scegliere.

Preparati a spingere – in libreria per Rizzoli e anche ascoltabile su Storytel – è un saggio che usa il corpo (anche quello di chi scrive) per parlare del sistema in cui quei corpi sono inseriti, delle aspettative che deformano l’esperienza della maternità e la caricano opportunisticamente di nozioni produttive, d’efficienza e di nobili sacrifici che restringono il nostro orizzonte d’azione, invece di allargarlo. In questi orizzonti piccoli prosperano solitudini che diventano terreno fertile per reti di sostegno fittizie, predatorie e francamente spaventose – che Bubba indaga e mappa. Parecchie sono le pagine che vi faranno arrabbiare, ma vi ritroverete anche a maneggiare quella legittima reazione con un’accresciuta consapevolezza – e forse con un carico più leggero sulle spalle. Non perché le storture strutturali sono magicamente scomparse, ma perché chiamarle col loro nome – e trascinarle alla luce del sole perché le si possa vedere e riconoscere – è l’inizio di un sentiero che va percorso insieme.

Ho senz’altro letto più cose a tema maternità dopo l’abbondante conclusione delle mie gravidanze che nella fascia di caotica necessità di capirci qualcosa che coincide con l’incubazione. Possiamo pure dire che, da gravida, non ho letto niente e che, anche dopo, ci ho messo degli anni a razionalizzare davvero un’infinità di aspetti dell’esperienza fisica, emotiva, pratica e relazionale della maternità. Di certo, mi sembra di essere più capace di “capire” ora, ma dipende anche un po’ dall’arrivo sulla scena di un genere di saggistica che non ha l’obiettivo di spiegarci come si gestisce un neonato ma, invece, sposta il fuoco sull’esperienza delle madri, in un contesto contemporaneo.

Il fatto che i manuali che sperano di risolverci le rogne della nanna, della pappa, dell’allattamento e dello spannolinamento siano andati statisticamente per la maggiore è (anche) il prodotto di un grande vuoto d’interesse, che comincia a concretizzarsi appena un neonato abbandona la pancia per affacciarsi al mondo. Le madri, che per nove mesi sono state monitorate, misurate, analizzate e “gestite” si trasformano repentinamente in soggetti che devono assolvere una serie di funzioni, senza però essere accompagnate da un sistema di cura altrettanto strutturato e imperativo. Per Matrescenza – in libreria per Laterza con la traduzione di Alessandra Castellazzi – Lucy Jones parte proprio da qui, da quel vuoto di studi, attenzioni cliniche e psicologiche e dalle lacune nella sostenibilità della vita quotidiana che accompagna le neo-madri, che sembrano spesso armarsi e partire per conto loro in una missione campale.

Il termine “matrescenza” ha qui il compito di descrivere il periodo – in realtà ben più lungo e articolato di una gravidanza – in cui una donna si assesta nella nuova condizione di madre. Jones, che di lavoro fa la giornalista scientifica, unisce alla sua esperienza (ha avuto tre figli) un ricchissimo sistema di fonti capaci di rendere meno opaco e meno trascurabile questo momento di passaggio. Dagli studi neuroscientifici alle lacune nell’informazione delle gestanti, dagli sforzi per affrontare (o renderci consapevoli) degli strascichi fisici del parto alla necessità di un approccio privo di stigma al sostegno psicologico, Jones parla di corpo per parlare di identità, autonomia, sicurezza, benessere, mente, medicina, legami, lavoro e società.

Chissà, probabilmente da gravida non avrei letto nemmeno questo libro, ma il fatto che adesso ci sia mi fa ben sperare. E finalmente, forse, ho qualcosa da consigliare a chi mi chiede spessissimo “sono incinta! Cosa leggo per prepararmi?”. Magari qualcosa di rigoroso e ben documentato che ti ricordi che continuerai a esistere anche tu, amica.

Francesca Sgorbati Bosi è la Lady Whistledown che meritiamo. Priva delle menate che affliggono il clan Bridgerton e dunque totalmente trasversale e generosissima nel distribuire stoccate e succosi retroscena, per Guida pettegola al Settecento inglese – in libreria per Sellerio ha setacciato con successo cronache mondane, missive e documenti storici per assemblare l’unico genere di compendio che riesco davvero ad assimilare: il mosaico aneddotico che, tessera dopo tessera, sa descrivere un’intera società, un “clima” culturale, la quotidianità che scorre e si ingarbuglia.

Dalla prostituzuone alle ipocrisie coniugali, dai re folli all’ubriachezza molesta, dalla moda ai duelli, quello che scandalizza o esce dai ranghi del decoro è sempre prezioso: indagare la trasgressione è uno dei numerosi modi per tracciare i confini di un sistema di valori e di potere, per leggere una società e radicare l’indagine storica nella sporcizia – ben lontana dall’irrilevanza – che si scopa di malavoglia sotto ai tappeti.

Procedendo per episodi, casi emblematici e stravaganze, Sgorbati Bossi utilizza il “piccolo” per costruire un universo intero, stratificando fatti minuti e aggiungendo contesto per guidarci con paziente divertimento.
Non sono una buona portinaia, in questo secolo… ma forse sarei stata una terrificante zabetta settecentesca. Un piccolo gioiello di curiosità e malignerie liberatorie – tanto tempo è passato… e possiamo finalmente donarci un po’ di cattiveria.

Che l’unico vero strumento a nostra disposizione sia la predisposizione a dubitare delle circostanze che strutturano il nostro mondo? In questa raccolta di auto-fiction tra realtà, media e incastri relazionali, Jia Tolentino convoglia verso i nostri cervelli sovraccarichi più domande che risposte… il che, credo, fa parte del gioco e contribuisce anche a definirlo.

Dal perché Internet sia diventato un posto (anche) mostruoso all’isteria collettiva per i matrimoni, dalle truffe a misura di millennial alla mania per l’ottimizzazione (che si riflette anche su quello che scegliamo di indossare o sull’insalata che ordiniamo per pranzo), Trick Mirror – uscito in italiano per NR Edizioni nella traduzione di Simona Siri – è una riflessione che parte dal personale per illuminare i nodi più problematici delle nostre illusioni collettive.
Che panzane ci raccontiamo per autoassolverci dalle mancanze che conosciamo fin troppo bene ma scegliamo di sorvolare per comodità, convenienza, appartenenza e ipotetica virtù? L’autoinganno – in cui anche l’autrice si riconosce come parte del “problema” – diventa una specie di strategia di sopravvivenza in un contesto di ingarbuglio estremo, in un’epoca fluida, spinosa e densissima in cui soldi, immagine e identità sono leve preziose ma anche tagliole affilate. Sceglieremo, in ultima istanza, di dare retta allo specchio che ci restituisce il riflesso più lusinghiero?

Che di “storytelling” si cianci in ogni dove (prevalentemente a vanvera) è ormai assodato, penso, ma la cialtroneria in cui ci imbattiamo qua e là non fagocita la rilevanza che le storie e le narrazioni hanno sempre avuto per la nostra specie. Le “storie”, esordisce Jonathan Gottschall in Il lato oscuro delle storie – tradotto da Giuliana Olivero per Bollati Boringhieri –, hanno rappresentato per gli esseri umani di ogni epoca (dalle pitture rupestri alle piattaforme di streaming) un collante identitario, un veicolo di trasmissione valoriale, un mezzo per elaborare accadimenti complessi e un punto di riferimento culturale attorno a cui raccoglierci. Il fatto che la creazione e la diffusione di storie ci riesca così “naturale”, però, è una variabile necessariamente positiva?

Il nostro presente è narrativente lussureggiante. Come mai prima, forse, le storie ci circondano e, per certi versi, ci assediano. Ci sono fonti narrative a cui ci esponiamo per scelta e altre in cui incappiamo per ragioni “ambientali” e per l’accrescimento esponenziale delle opportunità di diffusione. È anche un momento storico in cui, accanto a possibilità senza precedenti di “esattezza” scientifica, convivono con rigoglio menzogne e distorsioni che sembrano sfidare il buonsenso e le evidenze fattuali. Le storie sono strumenti: possono fungere da collante culturale o da felice fonte di intrattenimento, ma possono anche incanalare la potenza con cui fisiologicamente fanno presa su di noi per perseguire scopi assai meno benevoli. Dalla diffamazione al complottismo, dalle fake news al marketing, la realtà si trasforma in un teatro perenne in cui ci ritroviamo – quasi sempre inconsciamente – a cercare buoni da contrapporre ai cattivi, eroi in viaggio, giustizia per i meritevoli e castighi per i non allineati. Che queste leve – capaci di fondere l’emotività a un’idea di morale comune – possano anche essere azionate per demolire un’idea scomoda o per destabilizzarci è un rischio che si è già concretizzato.

MA ALLORA È TUTTO ORRIBILE E BIECO! No, in realtà. Polarizzare ci aiuta a semplificare e a creare scorciatoie per governare questo “troppo” in cui dobbiamo muoverci, ma ci rende comparse spesso passive, altri pezzetti di una storia mastodontica che non ascoltiamo più per capirci vicendevolmente un po’ meglio ma solo per confermare quello che pensiamo già di sapere.
Da Platone alle elezioni USA, Gottschall tenta prima di tutto di farci prendere coscienza del ruolo fondamentale delle narrazioni e – con una certa inconcludenza, devo ammettere -, prepara il terreno per l’avvento di un’era narrativo-informativa dove gli archetipi del bene e del male non sono coltelli da lanciare ma bussole di nuovo “valide”.