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Io non so perché mi vogliano così bene, i caroni di BadTaste. Ma me ne vogliono sul serio. E hanno il coraggio di pubblicare sul loro sito – che è una cosa seria, super professionale, ben documentata e piena di informazioni importanti, raccolte con amore e dedizione – una delle mie recensioni coi gridolini. Io li ho avvertiti: volete che fangirli? Fangirlerò, mettetevi al riparo. Ma loro non si sono scomposti, mi hanno portata a vedere l’anteprima di Captain America. The Winter Soldier e hanno accettato di buon grado le mie stupidaggini. E io sono improvvisamente diventata l’unica che può scrivere cento volte FIGATA in un pezzo per un posto così rispettabile.
Perché di FIGATA trattasi.

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Iron Man 3 vi aveva messo l’angoscia?
Thor. The Dark World era una stupidaggine colossale, nonostante la salvifica presenza di Loki?
Non temete, Steve Rogers ha deciso di salvare la situazione. L’unico Avenger che m’è sempre sembrato palloso, retorico e, diciamolo, anche un po’ inutile, è finalmente diventato un superbullo clamoroso (senza per questo gettare alle ortiche il suo cuoricione d’oro). Cento punti a Captain America e ai suoi bei coscioni.
Ecco. Allora armatevi di un degno accessorio da supereroe – all’anteprima mi hanno donato un THOR-CERCHIETTO! – e andate a leggere che è successo.

Captain America. The Winter Soldier – La Tegamini-fangirl-recensione su BadTaste!

Ci sono molte cose belle che uno scrittore può fare per te. Per dire, a me piace quando uno scrittore mi prende il cervello e ci gioca. E decide di lanciarlo in un posto lontanissimo, strano e possibilmente immaginario. L’idea che ci sia una persona che si siede lì, si inventa un mondo e mi ci porta a spasso, ma proprio così, come se quel posto sia stato costruito apposta per me, ecco, mi sembra un regalo meraviglioso, da amicone che sa fare le sorprese. E va bene, non sarai l’unico lettore dell’universo, ma per il tempo che passi con il libro in mano un po’ pensi che sia così. E ti senti molto allegro e assolutamente felice di far parte di quell’invenzione sorprendente e stranissima. Succede raramente, ma quando succede ti metti comodo e dici “perbacco, ci sono un sacco di cose a cui potevo affezionarmi, ma ho fatto proprio bene a decidere di diventare una persona che legge”. Ecco, ho letto Tito di Gormenghast di Mervyn Peake e mi sono fatta un milione di complimenti. Brava, cara mia, leggere è un’ottima idea, perché ci sono dei libri fatti così.

Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo.

Tito è il primo libro di una trilogia. E non somiglia a niente. O meglio, somiglia a parecchia roba che – nel suo non essere Tito – è immensamente meno interessante. C’è un po’ di gotico, un po’ di fantastico, un po’ di romanzo d’avventura, un po’ di grottesco, un po’ di saga magica. E, allo stesso tempo, non c’è nulla del genere, perché il mescolone finale è qualcosa di sghembo e specialissimo. E’ così strano – e diverso da non so nemmeno bene io che cosa – che rimarrete lì un po’ frastornati, ma vi sentirete anche un po’ dei piccoli pionieri dell’ignoto.
Non si capisce niente, però. Facciamo un po’ di cornice.

tito di gormenghast tegamini
Gormenghast è un regno, che ha il suo cuore polveroso in una fortezza gigantesca e labirintica. C’è Gormenghast, su questa specie di rupe nebbiosa e inospitale, e ci sono gli Esterni, che vivono in un villaggio di capanne di fango e passano la vita a scolpire statue di legno per i signori del castello. Il diavolo sa perché. Sia quelli dentro al castello che quelli fuori sono personaggi con evidenti e devastanti problemi. I signori di Gormenghast sono i de’ Lamenti, una stirpe di scherzi della natura. C’è il conte Sepulcrio, depresso e silenzioso. C’è la contessa Gertrude, una donnona che sta al mondo per coccolare pennuti di ogni forma e dimensione e per accarezzare un’armata di gatti bianchi, che si spostano come un’onda silenziosa e fedele. C’è la contessina Fucsia, scarmigliata e selvatica. Ci sono le gemelle Cora e Clarice, identiche, vestite di porpora, stupide come un paio di ciabatte e assolutamente inespressive. C’è la servitù, con il ripugnante e obesissimo cuoco Sugna, il fedele Lisca – valletto del conte Sepulcrio, un tizio alto e affilato, con le ginocchia che scrocchiano -, il dottor Floristrazio – leccaculo patentato – e il decrepito maestro di cerimonie con la barba piena di nodi. Sono tutti personaggi esagerati, personificazioni del proprio ruolo nel castello e, nel caso della famiglia reggente, veri e propri “pezzi” di Gormenghast. Nulla può cambiare, Gormenghast deve sopravvivere, secolo dopo secolo, così com’è, conte dopo conte. Le mura si sgretolano, le soffitte si riempiono di roba vecchia e dimenticata, ci sono saloni in cui nessuno mette piede da generazioni, ma la fortezza rimane dove è sempre stata, perché così deve essere.
Cosa superba, però, per un posto dove l’unico valore è soffocare il cambiamento, è che di cose ne succedono parecchie.
C’è chi sprofonda nella pazzia, chi cerca di impadronirsi del “potere” – per quanto incosistente -, chi sogna di scappare, chi trama e manipola per conquistare un angolino tutto per sé, chi fa del male alle biblioteche e chi affila coltellacci nell’ombra. Gormenghast è una scatola di splendida insensatezza, una specie di puzzle infinito fatto con la pietra nera, il buio e il paradosso: Peake si inventa alberi che crescono fuori dalle finestre, cerimonie surreali, l’ambizione sfrenata di conquistare un gigantesco nulla. E c’è un’ironia sorprendente… sorprendente nel senso che appare all’improvviso, come una pentolata in testa da uno che ti vuole male, in mezzo a pagine di bellissima tetraggine. E ad un certo punto, all’ennesimo angolo inesplorato del castello in cui l’astuto Ferraguzzo vi farà arrivare, avrete la sensazione che Gormenghast continui all’infinito, stanza dopo stanza, un cumulo di macerie e ragnatele dopo l’altro. E vorrete che Tito, con i suoi occhietti viola e la sua nascita inaspettata (SACRILEGIO!) salvi Gormenghast… o decida di raderla al suolo una volta e per sempre. Per come mi è piaciuto il primo libro, però, propenderei per l’ipotesi conservativa. Anzi, per Gormenghast patrimonio UNESCO.

 

byatt ragnarok tegamini

Dunque. Dipende un po’ da come siete voi. Se desiderate accumulare una conoscenza enciclopedica e puntigliosissima sui miti nordici – con tanto di spatafiata etimologica per ogni parola che incontrate, gioiosi percorsi tematici trasversali, profili accuratissimi sulle principali figure e divinità, storia delle bestie, storia del mondo, usi e costumi e becchime prediletto dei corvi spioni di Odino -, ebbene, se avete bisogno di tutte queste cose potete comodamente lanciarvi sui Miti nordici di Gianna Chiesa Isnardi. Lo pubblica Longanesi e male non vi farà. Se, invece, siete personcine un po’ trasognate e meravigliabili, pronte a rimanere a bocca aperta davanti a un gigante di ghiaccio, allora vi conviene leggere fortissimo Ragnarök di A. S. Byatt.

Ma che succede in questo libro? Niente, madama Byatt ci racconta la storia di una “bambina magra” che fugge da Londra allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Va in campagna con la sua mamma, per stare più al sicuro. Suo padre è partito per l’Africa e tutti a Natale gli fanno un brindisi propiziatorio di torna-presto-sano-e-salvo, ma senza particolare convinzione… che è meglio non sperarci troppo, quando qualcuno fa l’aviatore. La bambina magra passeggia per i prati, guarda i fiori che crescono, va a scuola, va in chiesa a farsi venire dei gran dubbi e, soprattutto, legge Asgard e gli dèi. È un librone che comincia con la creazione del mondo – ci sono Odino, Vili e Vè che fanno a pezzi un gigante d’argilla e ci impastano l’universo – e finisce con il Ragnarök – divinità che si annichiliscono vicendevolmente mentre la struttura della materia collassa in un ribollire di fulmini e abissi oscuri.

Odino prese Hel e la gettò verso Niflheim, la buia terra delle nebbie e del freddo. Lei rimase rigida, come una freccia tirata da un arco, un missile dalla punta aguzza, ancora e ancora, giú giú, cadde per nove giorni attraverso la luce del sole, della luna e delle stelle, oltre i cocchi in gara del Sole e della Luna, oltre le cime degli abeti e le loro radici, giú nei pantani e le paludi senza luce di Niflheim, attraverso il freddo torrente di Giöll e dentro Helheim, dove avrebbe regnato sui defunti umani che non erano abbastanza fortunati da morire in battaglia, un regno di ombre.
Il ponte sul fiume Giöll era d’oro, di ferro il recinto di Hel, alto e insuperabile. Dentro il tenebroso palazzo, un trono attendeva quella creatura ammaccata, livida, la dea, la figlia mostruosa, e su un cuscino nero c’era una corona, fatta con oro bianco, e pietre di luna, perle come lacrime congelate e cristalli, come brina. Quando sollevò la corona, e la bacchetta posata lí accanto, i morti cominciarono a confluire nel palazzo come pipistrelli sussurranti, innumerevoli, insostanziali. Lei diede loro il benvenuto, senza sorridere. Quelli le giravano intorno, fischiettando debolmente, e lei fece portare piatti, con i fantasmi di frutta e carne, e ampolle, dentro le quali aleggiavano fantasmi di idromele e vino, con bollicine fantasma all’orlo.

Che gioiona immensa.
Madama Byatt
, che riuscirebbe a rendere avvincentissimo anche un sasso, usa la storia e la sensibilità della bambina magra come super cornice e, tra fonti della conoscenza, fronde luccicanti, pellicce ispide e spettacolari terrori, riscrive per tutti quanti noi i miti più significativi della mitologia nordica. Se pigliate la Gianna Chiesa Isnardi, vi accorgerete che in Ragnarök non c’è tuttotutto, perché non serviva che ci fosse niente di più. Ci sono i miti indispensabili, quelli che fanno procedere il carrozzone delle divinità verso l’inevitabile cataclisma finale. Ci sono i grandi pilastri del mondo (il frassino Yggdrasil, l’uncinone sottomarino Randrasill, il ponte-arcobaleno), c’è la storia dei tre figli di Loki (la serpentessa di Midgard, Fenris e Hel, la regina bicolor dell’oltretomba), c’è la morte di Baldur e c’è la devastazione totale, coi lupi che divorano gli astri e il buio che si mangia pure le belve. Tra dèi che gozzovigliano, valchirie che garriscono, cavalli a otto zampe ed esplosioni di pura cialtronaggine ultraterrena – perché gli déi sanno che il mondo finirà, ma non hanno la forza di fare niente per evitarlo… e continuano a bersi delle birre imponenti e a tirare addosso roba a Baldur, che tanto lui è invulnerabile -, questo librino è un beato galoppo in un universo magico, una saggia riflessione su quello che di più tremendo potrà mai capitarci e una bellissima collezione di fantasie pure. Alcune sono luminose, altre fanno paura, come se le nostre teste – come quella del gigante che ha prestato la calotta cranica a Odino per farci la volta del cielo – fossero piene di lupi che corrono coi dentoni aguzzi di fuori. Insomma, se avete bisogno di qualche sano OOOH e anche di qualche AAAH, questa inesorabile discesa verso il crepuscolo degli dèi vi farà splendere gli occhioni ben più della chioma di Frigga. E vi farà diffidare per l’eternità del vischio. E dei salmoni.

loki thor

Thor – The Dark World è, senza dubbio, il film più rispettoso della mitologia norrena che mai vedremo al cinema: se non c’è in mezzo Loki, non succede un Mjolnir di niente. Ok, ok. Va bene, tecnicamente qualcosa succede. C’è una stirpe di elfi fantasticamente abili nel farsi le trecce che vuole far sprofondare l’universo nell’oscurità e nella tenebra più disperante. Addormentati da qualche migliaio di anni dietro a un paio di asteroidi, gli elfi dai fascinosi capelli si svegliano all’improvviso quando Jane Foster – alla faccia di Natalie Portman e del suo appello “più femmine senzienti e interessanti per la Marvel e per il cinema tutto” – decide di infilare una mano tra due monoliti fluttuanti che irradiano malvagità e terrore a ettametri di distanza. Ed è una scienziata, Jane Foster, mica una sciampista in stage. D’accordo, le garbano i deltoidi gibbosi e le barbe incolte, ma è comunque una luminosa rappresentante dell’eccellenza del sapere astrofisico internazionale. E vede una roba rossa tutta schifosa e sibilante che si agita in mezzo a due menhir magici sull’orlo di un precipizio, e ci caccia dentro le mani. Ma santa pace, Jane Foster, ma da piccola non li hai presi due sganassoni, quando cercavi di raccogliere le schifezze dal marciapiede? Se MADRE potesse dire qualcosa a Jane, le suggerirebbe di tagliarsele, quelle manacce di merda.
Ma ci stiamo già perdendo per le radici di Yggdrasil.
Quel che volevo davvero dire – mettendo incidentalmente il Cono della Vergogna a Jane Foster – è che questi nostri polpettoni del cuore dovrebbero cercare di far procedere la narrazione indipendentemente dalla stupidità dei loro protagonisti. Perché non posso accettare che l’universo rischi l’oscurità eterna solo perché la fidanzata di Thor è pirla. E nemmeno posso accettare che, limonando cretinamente per un prato di Greenwich, due comprimari altrettanto inetti contribuiscano a salvare il benedetto universo, e senza manco capire perché. Insomma, le motivazioni sono importanti. Per i buoni e un sacco di più per i cattivi.
BU! Sono un elfo oscuro! Esisto da prima del mondo! Ho questa roba rossa che solo io so controllare! I miei capelli sono strabilianti! E stamattina mi sono svegliato male: meritate di sprofondare nel buio!
Molto piacere, elfo oscuro. Noi qua non conosciamo a memoria la storia di ogni mondo governato da Odino, ma ci sembra proprio di averti incontrato per caso. Ti vuoi vendicare perché novemila anni fa gli asgardiani hanno sterminato la tua gente? Capirai. Saremo insensibili e ottusi, ma non ci siamo preoccupati neanche per un momento, e non perché polpettone-Thor sia un pozzo di strategia o una forza inarrestabile della natura. Non ci interessa niente perché la gente che vuole solo vendicarsi e fare qualcosa di definitivo e irreparabile al mondo è una roba che abbiamo già visto ennemila volte. E un po’ meglio, anche. Ecco, allora, prendi il numerino al banco salumeria e mettiti in fila dietro alla signora Franca, che vuole sciogliere la calotta polare col phon.
E’ per questo che ogni volta che fan fare qualcosa a Loki sembra che entri in scena, che ne so, una versione sorniona e piacevolmente malvagia di Immanuel Kant. GENIO! IRONIA! UNO SCOPO PRECISO! UNA SACROSANTA VENDETTA! L’IRREFRENABILE IMPULSO DI CAVARE A ODINO PURE L’ALTRO OCCHIO! UMORISMO! UN PIANO! ESPRESSIONI FACCIALI!

The Marvel Studios: "Thor: The Dark World" And "Captain America: The Winter Soldier" - Comic-Con International 2013

E via, poi tutti a stupirsi per il tornado di mutandine che Tom Hiddleston è costretto a schivare ogni volta che decide di uscire di casa. 
Sbaglio? Perché è vero, credo. Ero seduta lì, coi miei pop-corn e una sana e robusta propensione ad apprezzare i manzi armati di martello che piombano sul mio pianeta all’improvviso solo perché Idris Elba s’è per un attimo cecato, ma niente. Noia. Fastidio per Natalie Portman, ULTRAODIO per l’invadentissima Darcy – che è ovunque… e dovrebbe far ridere, senza mai riuscirci – e tanta comprensione per la povera Lady Sif, che sa andare a cavallo al contrario bevendo alla goccia un litro di idromele ma nessuno se la fila. Mi sono un po’ ripigliata quando Frigga del cuore ha preso a calci in culo l’elfo oscuro cantandogli le bionde trecce, ma poca roba. Per il resto è stato tutto un dov’è Loki? Dov’è Loki? Che fa? Legge? Spacca i tavolini? Si sarà pettinato un po’? Lo liberano? Non lo liberano? Che dice? Ma quindi? Che tramerà? Adesso capisco perché gli hanno fatto fare un mucchio di scene aggiuntive, in mezzo a questo sfacelo! E a Thor, ma gli vorrà un po’ bene? Ma un ceffone glielo possiamo mollare pure noi della quinta fila? Avrà bisogno di un lancio di mutandine, così, tanto per incoraggiare?
Nel dubbio tirategliele. Anche voi ometti. Che se ne accumuliamo una montagna sufficientemente alta e scoscesa magari riusciamo anche a farcelo venire fuori, un Loki-film-solista. ANT-MAN, fanno. Mi vien voglia di mettere una mano in mezzo a dei macigni malvagi. O di andare a raccogliere personalmente tutte le gemme dell’infinito, o come si chiamano, per regalarle a Loki, che sicuramente troverebbe qualcosa di strabiliante da farci.

Insomma. Tenetevi Polpettone-Martellone.
Qua si tifa per la megalomania, l’inganno e il capello unto.

…stavo per gridare SERPEVERDE, ma poi ho capito che la stavo pigliando troppo alla larga.

 

tegamini s abrams dorst

Che io ami follemente BadTaste.it è risaputo. Che loro, ogni tanto, trovino la forza di ricambiare questo mio sentimento è meno scontato. Un po’ di tempo fa avevano deciso di pubblicare un mio sproloquio fangirlistico su IronMan 3 e adesso, in nome di tutto ciò che è sacro e bello, hanno ospitato un nuovo Tegamini-post, la recensione del MIRABILE S. di J. J. Abrams e Doug Dorst. Travolta dall’entusiasmo, ho pure fatto un video in cui cerco di sfogliare il misterioso tomo – con una goffaggine senza pari -, spiegando com’è fatto e che c’è dentro, tra un gridolino e l’altro. Dico MAGICO un sacco di volte e ad un certo punto mi esce anche una splendida GAFF, ma è comunque un filmato molto istruttivo.

Comunque.

Leggetevi la recensione su BadTaste.it e divertitevi alle mie spalle con lo sfoglia-sfoglia videotour.

E grazie ancora al prode A. F. B. – dopo S. diventerete fan scatenati degli acronimi – per l’ospitalità. È sempre un immenso e fiammeggiante onore.

GRAVITY

Da piccola, per far contento il mio papà, dicevo che mi sarei laureata in ingegneria aerospaziale. Avevo letto da qualche parte che per diventare astronauta bisognava studiare quella roba lì. Ero molto lanciata, sulla storia dell’astronauta. Dopo la prima pagella del liceo scientifico, però, ho capito che non sarebbe andata a finire proprio benissimo, nonostante la mia sincera ed entusiastica fascinazione per lo spazio. Il fatto è che coi miei voti nelle materie d’indirizzo ci si poteva evocare il demonio. 6 in matematica. 6 in scienze. 6 in fisica. E 9 da tutte le altre parti. Per cinque anni. Che uno dice, succede un anno solo, può essere stato un incidente. Macché, cinque anni a far riemergere Satana da un abisso fiammeggiante. Non ne vado fiera, ma è andata così. Solo parecchio tempo dopo il mio papà ha avuto la forza di ammettere l’evidenza: obbligarmi a fare lo scientifico è stato un insulto contro Dio. Non c’è niente di più blasfemo del vedermi seduta lì che cerco di risolvere un integrale. Alla fine sono uscita con 95 lo stesso, dal liceo, ma se potessi tornare indietro e gridare qualcosa alla piccola me di terza media, griderei più o meno un MANDALI A STENDERE E SCAPPA DI CASA. E SFASCIA PURE IL PIANOFORTE.

gravity-debris

Comunque.
Nonostante la mia totale impermeabilità a qualsiasi genere di nozione fisica, adoro le imprese spaziali, voglio un bene dell’anima ai rover che vagano su Marte e, Lost in Space a parte, amo la fantascienza – sia quella fanfarona e sparacchiona che quella più “realistica”. La minuscola me che voleva fare l’astronauta, probabilmente, non si è ancora rassegnata. Ed è dunque con questo spirito (e con le poche informazioni fisico-gravitazionali ricavate da Angry Birds Space… gioco in cui, per altro, sono una pippa) che sono andata a sedermi di fronte a Gravity di Alfonso Cuarón. Con tanto di pop-corn.


da this isn’t happiness

E va bene. Ci sono un mucchio di robe che nello spazio non funzionano come nel film. E se me ne sono accorta io, vuol dire che sono cazzate grosse grosse.
E va bene. Sandra Bullock ad un certo punto si mette a ululare e ad abbaiare come un cane, il che non è proprio una trovata brillantissima, a livello di sceneggiatura e approfondimento del personaggio.
E va bene anche che vederla sopravvivere alla prima pioggia di sfiga-frammenti-orbitanti (in compagnia, per giunta), è già qualcosa di eccessivamente incredibile… figuriamoci poi il resto.
E va anche bene domandarsi come sia possibile che un medico dell’ospedale con sei mesi di addestramento astronautico sia lì che armeggia con Hubble come se fosse il frullatore di casa sua. Per non parlare di quello che riesce a fare dopo.
E anche a me è parso bizzarro che lo Shuttle, la Stazione Spaziale Internazionale e la Stazione Spaziale Cinese fossero lì tutti belli vicini, alla stessa altitudine e serenamente visibili a occhio nudo.
E le traiettorie di rientro? Cioè, è un attimo trasformarsi in orride palle di fuoco. Non si può mica precipitare a casaccio.
E quel qualcosa che non convince-convince quando George Clooney ti piglia al guinzaglio nello spazio e ti tira in giro.
Per non parlare dell’inverosimile sicumera e della totale assenza d’agitazione dell’astronauta Clooney, in modalità rassicurante-gattone-caffé-Illy-in-vena-di-chiacchiere.

Ecco, va bene tutto questo (e pure qualcosa in più). Ma a me Gravity è piaciuto moltissimo lo stesso. Sarà che ho una spiccata attitudine alla sospensione dell’incredulità, sarà che mi sono lasciata rincoglionire dall’aurora boreale, sarà che ad un certo punto ero così in ansia che mi andava bene pure Sandra Bullock rimbambita che ulula, ma mi è proprio sembrato di assistere a un degno spettacolo. Mi è quasi venuto da dire “ecco, è per queste cose qua più giganti della vita e anche del pianeta Terra, che uno decide di andare al cinema, certe volte”. A parte la meraviglia visiva di quel che c’era e il perenne interrogativo del “come diamine avranno fatto a fare questo film” mi sono sentita un po’ un giudice di X-Factor che, con Cuarón sul palco, gli fa “mi hai davvero trasmesso qualcosa, anche se magari potevi dare qualche soldo in più ai tuoi consulenti tecnici della NASA. Però, considerando anche che c’è un personaggio che parla da solo per due ore, non te la sei poi cavata così tanto male. Anzi”. Proprio io, che la storia del “mi hai emozionata” l’ho sempre odiata. Stavo lì a bocca aperta. E ho pure pianto dentro ai pop-corn, in mezzo a uno di quei super-crescendo musicali nel vuoto siderale. Quindi niente, sono uscita dal cinema piena di stupore… e spero che là fuori, parecchi ex-6 stiracchiati in fisica potranno fare dei grandi OOOH e AAAH davanti a questo film senza sentirsi troppo in colpa. Perché è un polpettone spaziale scaldacuore, e tutto quello che si vede è strabiliante… detriti compresi, anche se viaggiano a qualche migliaio di chilometri al secondo e manco per tutti i razzogomiti di Pacific Rim uno si accorgerebbe che stanno passando. Ecco. Azzarderei un chi se ne importa. Godetevi l’orbita geostazionaria. E arrabbiatevi per qualcosa di ben più importante, tipo le invidiabilissime chiappe sode di Sandra Bullock. Quelle sì che sconfiggono anche la più volenterosa delle sospensioni dell’incredulità.

Il mio rapporto con gli autoveicoli è pessimo.
In macchina ci stavo bene quand’ero alta un metro e mezzo e potevo dormire comodamente sul sedile posteriore, lunga e distesa a pancia per aria. Poi ho iniziato a dover piegare le ginocchia o a rannicchiarmi di lato, magari umiliando l’illustre pupazzo Coniglio Mabiglio relegandolo al triste ruolo di cuscino, e da lì ciao, le macchine hanno cominciato a indispettirmi. All’esame della patente, su un cavalcavia con riga continua e categorico divieto di sorpassare, mi sono trovata davanti questo camioncino del rudo  – per tutti quelli che ignorano il colorito idioma del Piacenzashire, il RUDO è la spazzatura – che, all’improvviso, si è messo a seminare scatole di cartone per la carreggiata. Visto che non c’era molto altro da fare – morire nella corsia opposta o devastare la macchina della motorizzazione scartavetrando il GUARDRAIL -, ho preso in pieno uno scatolone, trovando anche il modo di inveire orrendamente contro lo sbadato spazzino. In tutta la vita, credo di aver parcheggiato sul serio al massimo tre volte. Con la Uno Hobby ereditata da mia zia, una macchina viola, senza servosterzo, con le ventole dell’aria piene di foglie secche – in qualsiasi stagione – e il riscaldamento finto, fare delle manovre raffinate era impensabile. Un mal di braccia. Una fatica. La roba più bella, però, succedeva nei giorni di pioggia. Perché quando pioveva, la Uno non partiva. Devi andare da qualche parte? Mi vuoi mettere in moto? Fottiti, piove.
Insomma, detesto guidare e mi rompo le balle quando mi trasportano, anzi, mi rompo le balle e, certe volte, mi abbandono a comportamenti folli. A maggio, per dire, abbiamo vagato come delle trottole tra la provincia di Gela e quella di Catania. Del tutto annientata dalla festa di matrimonio della sera precedente, disperatamente bisognosa di dormire e ormai furibonda per il continuo ciondolamento del mio cranio, ho deciso di legarmi la testa al sedile con una sciarpa.

Comunque.
Brummm!

È con questo spirito di totale disinteresse misto a ostilità per l’universo delle automobili e dell’automobilismo competitivo che mi sono presentata al cinema per vedere Rush di Ron Howard. Il film in cui Thor, dopo parecchi problemi col test a crocette, riesce finalmente a prendere la patente. Il film in cui tutti gli italiani, a parte il signor Ferrari che fa lo spocchioso con le sue calzette rosse, sono brava gente. Un film in cui il Giappone somiglia alla Desolazione di Smaug e, se fai l’autostop da qualche parte in provincia di Trento (se ho capito bene), a caricarti sono due indomiti, improbabili e calorosissimi scugnizzi. Io non ho ben capito se Rush mi sia piaciuto, perché somiglia a tantissime rivalità cinematografiche che ci siamo già abbondantemente sciroppati, solo che qui sono rese con ancora meno sottigliezza. E uno scopa il mondo. E l’altro non ha cuore nemmeno di andare a una festa. E uno lo abbracciano tutti. E l’altro lì, nell’angolo, incazzato nero che pensa a mettere il magnesio negli ingranaggi. E uno dentro una limousine piena zeppa di gnocche totali, sbronze come foche leopardo, e l’altro che smanetta con il carrello dell’aereo, tutto ustionato e derelitto ma equilibrato e geniale. È come se ci fossero i sottotitoli, in questo film. Và, qua c’è Lauda che decide così perché ha capito che la sua bella moglie con lo SCIGNOGN, quella signora alta ed elegante che non parla mai per tutto il film, ecco, forse ha capito che la signora silenziosissima è più importante delle infide pozzanghere giapponesi e buonanotte, non vale la pena crepare per dimostrare ancora qualcosa. E lì, toh, c’è Hunt che fa lo spavaldo coi giornalisti ma gli rode un casino che la moglie l’abbia lasciato per andare a farsi regalare tonnellate di diamanti da Richard Burton… e insomma, fuori ride ma dentro piange.
Non l’avrei mai pensato, ma i pezzi che mi sono garbati di più sono proprio quelli con le macchine che sfrecciano e le gomme che si disfano e tutta quella roba meccanica che fa su e giù e s’infuoca. Ed è stata una fortuna non sapere com’era andato a finire, poi, il lunghissimo campionato del mondo che racconta il film. Che se sapevo chi vinceva c’era da spararsi, non mi passava più. Insomma, mi viene da dire che Rush è “fatto bene” (“sai no, quel tuo amico… non è figo, però è un tipo, dai…”, ecco), che è un giocattolone piacevole, è da mi siedo lì e mi faccio imbottire di frasi plateali con una buona disposizione d’animo, ma volentieri. Che sia EPICO, ispirato e geniale no, però. E va già bene che non mi sono addormentata come davanti ai gran premi alla tv, che dopo due curve sono già sotto a una coperta che russo. Una squillante nota di totale entusiasmo, però, vorrei emetterla: ad un certo punto, c’era una macchina da corsa con SEI RUOTE. SEI. Sembrava un millepiedi cromato. Se le avesse avute la mia Uno Hobby, sei ruote, forse la mia vita sarebbe stata diversa. E oggi sarei una di quelle pilotesse Nascar col completo di Victoria’s Secret sotto alla tutona ignifuga. Una persona che si prende bene coi film della Formula 1 e parcheggia senza nemmeno spettinarsi. E invece.

 

Se quella meraviglia di roba che ha disegnato Leo Ortolani è una recensione che non serve più, figuratevi un po’ la mia. Ma che volete fare, i supereroi sono ormai una tradizione, qua nei Tegamini, mica potevo risparmiarvi le mie fondamentali riflessioni sul marmittone di Kripton, che poi magari pensate che sono diventata una personcina come si deve, che passa lo Swiffer e si alza all’alba per farsi la piega. Che è.

Orbene.

Dei Superman originali, quelli con Christopher Reeve che volava a pancia in giù su una tavola di legno, mi ricordo che li davano in tv in tre parti. Era una cosa inaudita. Fine primo tempo. Fine secondo tempo. Mi ricordo anche delle strida insopportabili di Lois Lane e delle mattacchionerie di Gene Hackman, che aveva un complesso termale in casa e degli scrigni pieni zeppi di kriptonite nascosti da tutte le parti, pure nella scarpiera. Di Superman Returns, invece, mi ricordo solo che faceva schifo pure ai cani morti. E ho visto anche Smallville, per un po’ di tempo. Era di una stupidità unica – sceneggiatori, per quante volte pensate di potervela cavare con “nessuno ha visto Clark in azione perché tutti quanti han preso una botta in testa e non si ricordano niente/hanno ingerito una tossina azzera-memoria/la peperonata ha offuscato i sensi dell’intera città”? Datecela pure a noi, una tranvata in testa, che almeno ci allineiamo alla popolazione della ridente cittadina del Kansas -, dicevo, a parte la cretinaggine cosmica di Smallville, io e mio padre stavamo lì perché ci piaceva Lionel Luthor, uno così bastardo da far credere a suo figlio di essere cieco, ma per diversi decenni. Comunque, vagamente menomata e/o sostenuta da tutto questo bagaglio supermaniano, mi sono avviata al cinema con una certa fiducia. Insomma, Superman – proprio per tutti quei trascorsi lì – non è mai stato il mio supereroe del cuore, quindi evviva, se mi piace bene, se non mi piace mica mi straccio le vesti. Fantastico. Visto che tutti quanti avete già visto il film, procederei con agili osservazioni in ordine sparso, che tanto bene fanno alla fantasia.

Direi di parlare subito di un fatto di rara rilevanza: i mutandoni.

Il mantello Superman non ce l’ha perché gli serve. Ce l’ha perché sa che a volare in giro col sederone per aria, foderato di rosso, non ci fa una bella figura. E’ anche un po’ per quello che sia il buon Reeve che quel Brandon-Kebab-Routh hanno dei mantellini che arrivano sotto al ginocchio, così, né lunghi né corti. Sono mantellini sfigati e si capisce benissimo che, una volta celato il Super Sedere, a nessuno gliene importava più niente di farli ricadere maestosamente a terra. Ora, quel gran figlio di Kripton di Henry Cavill, invece, ha mantello da vendere. Un glorioso viluppo di stoffa degno del miglior Spawn. E perché il mantello del nuovo Superman ha finalmente un senso, in tutto il suo fantastico e magicissimo ondeggiamento? Perché gli hanno finalmente tolto i maledetti mutandoni, liberando per sempre il supereroe più vetusto del mondo dall’increscioso problema del deretano rosso. Coriandoli!

Sono belli, i costumi, poche storie. I vecchi rincoglioniti di Kripton sembravano un po’ usciti dall’ultima sfilata di Dolce&Gabbana – quella con tutte le madonnazze d’oro zecchino, le corone e i gingilli penzolanti -, ma applaudo con entusiasmo, dall’alto del mio esigente gusto baroccheggiante-fantascientifico. Diamine, sembrava tonico e compatto persino quel SUFFLE’ gigante di Russel Crowe. I cattivi erano molto interessanti, soprattutto la stronzaccia supersonica col rossetto sempre in ordine, pure a lei hanno donato un gran mantello… sembrava un cormorano zuppo di petrolio, che per una generalessa spaziale di rara malvagità è un effetto molto appropriato. Forse erano un po’ troppo corazzati, i supercattivi, ma mi è venuto in mente solo alla fine, quando è rimasto in tutina da sub pure Zod. Ecco, a Zod dovevano dargli da mangiare qualche cinghiale di più, che vicino a quella santa abbondanza di deltoidi e bicipitoni di Cavill sembrava un po’ un cucciolo di iena.


Padre, non ti deluderò. Ora che so dove vanno le mutande, la Terra è salva.

Faora, millemila anni nello spazio profondo e nessun danno per lo SMOCHI AI.

Zod, che sembra un po’ un cosplayer che va in giro a fare Megatron con una cinghia del motorino attorno al collo.

Insieme alla costumaglia, ho apprezzato parecchio anche le buffe navi kriptoniane. La seppiolona terraformante era magnifica, soprattutto quando ha iniziato a funzionare. Sarà che ero una pippa ad Angry Birds Space, ma tutte le robe con gravità strana, palazzi che si accartocciano e aerei militari che vanno in orbita intorno a congegni alieni ormai mi intrigano un sacco. Avrei qualcosa da dire sull’architettura del pianeta Kripton – e sul fatto che tutti i mondi abitati da alieni super evoluti si somigliano… vedi Vulcano -, ma siamo in fascia protetta e di giganteschi peni a propulsione non si può parlare.

Ma che dire della storia di Kal-El? Ho apprezzato i saltabeccamenti passato-presente e, nonostante la faccenda patetica del cane in mezzo al tornado, il piccolo Clark e i suoi rustici ma saggi genitori non sono stati una disgrazia. Temevo le scempiaggini retoriche alla Smallville e il massiccio ricorso alle botte in testa azzera-memoria, ma il povero Kevin Costner è decorosissimo e ragionevole. Figlio mio, sei un alieno in un paese di bifolchi, vedi un po’ te. Forse è anche un po’ per quello che papà Kent ha finito per preferire il cane, accettando di buon grado di crepare in un turbine di lamiere e tronchi d’albero. Del padre-padre di Superman ho un’opinione meno scaldacuore. Di Jar-El conservavo un ricordo marlonbrandesco: un po’ apparizione mistica, un po’ voce del destino. Russel Crowe qua è una specie di ingombrante bug del computer di bordo di navi stellari a caso. Paf! Tu sei Kripton! Paf! Ferma Zod! Paf! ‘Spetta, che mi son dimenticato di aprirti la porta. Paf! Eccoti un bel costumino. Paf! Non è una S, è una SPERANZA. Ma padre, speranza inizia per S. Figlio, per queste pidocchierie lessicali vai a parlare con Lois Lane. E affrettati, sta precipitando, come al solito.

Figlio, è inutile che mi guardi così. Non mi hanno installato il plug-in ABBRACCI.

Ecco, nonostante tutto, mi sembra che il giovane e aitantissimo Superman sia venuto su piuttosto bene. Ha quello che un tormentato eroe solitario DC deve avere – inclusa la totale assenza di senso dell’umorismo e attitudine alla spensieratezza della vita – ma gli succedono delle cose che lo fanno cambiare e lo fanno crescere. E scusatemi se sono all’antica, ma a me i personaggi che si evolvono fanno sempre un gran piacere. Alla luce di questa incoraggiante premessa, dunque, mi chiedo che bisogno ci fosse di calcare la mano sulle analogie Superman-GESOO. E Superman va in chiesa a confidare i suoi tormenti. Dietro gli mettono questo mastodontico vetratone policromo con un Cristone ancora più grosso di lui. Lo interrogano e la prima cosa che gli fanno dire è che ha 33 anni. Ma allora sei proprio GESOO! Autorità, mi consegno a voi, guardate, vi fluttuo davanti già in posizione-crocifisso, va’ che bravo. Capisco che là fuori ci sia della gente un po’ dura di comprendonio, ma sul metaforone religioso-salvifico potevano andarci anche un po’ più delicati. Che cavolo, è uno che vola, spara raggi laser dagli occhi e si ripiglia da ogni male se lo metti al sole, che altro deve fare, vagare per il deserto e raddrizzare gli storpi?

La roba che mi ha convinto di meno, anche se dovrei amare le mazzate e divertirmi come tutti gli altri bambini delle medie, sono proprio i combattimenti. La sfida finale tra Superman e Zod era puro Dragonball, solo che Dragonball aveva quasi più PATOS. E Goku e Vegeta, lasciatemelo dire, hanno sempre avuto il buongusto di allontanarsi dai centri abitati. Quando sono finiti a prendersi a pugni sul satellite credo di essermi lasciata andare a un sonoro MAVAFFANCULO. L’unico aspetto positivo delle variegate distruzioni di Metropolis e Smallville sono le robe da allegro nerd che spuntano a destra e a sinistra. Io ho visto solo un camion della Lexcorp, ma poi ho scoperto che ci sono mille altre comparsate geografico-aziendali – tipo il satellite della Wayne Enterprises – che fanno proprio felicità.

Per finire – omettendo ogni genere di riflessione su Lois Lane, personaggio-pacco per eccellenza -, mi domando che mai dovrà fare il buon Clark Kent nel futuro… a parte andare al lavoro con su un paio d’occhiali che non ingannerebbero manco Santa Lucia, intendo. Io, scusatemi, ma la sospensione dell’incredulità su Clark Kent in borghese continuo a non riuscire ad applicarla. Hai appena salvato il mondo, davanti a miliardi di esseri umani che t’avranno pure visto. Figurati i vincitori di premi Pulitzer di Metropolis. E te arrivi là dentro, garrulo e smagliante, con su un paio d’occhiali e ciao? Accetto tutto, pure che ti possa piacere Lois Lane, ma la storia degli occhiali va oltre le mie capacità. Comunque, tornando al discorso sulle ipotetiche nemesi del futuro, che mai può esserci di peggio di altri kriptoniani incazzati? Gente programmata per dare calci in culo ai nemici, gente che ha passato trecento cicli (chissà poi quanto tempo è davvero) a congelare dentro a un buco nero radiocomandato in attesa di vendicarsi. Gli tirano dei kraken? Gli evocano Chtuhlu? Lo minacciano con lo spauracchio-mutandoni? E un’altra cosa. Quando trova la navettona d’esplorazione sotto a tutto quel ghiaccio, ma chi c’era nel lettuccio-criogenico vuoto? Perché Clark piomba nell’astronave – sereno e pacioso, nella sua maglietta di cotone – e in un lettuccio c’è un suo connazionale putrefattissimo, ma l’altro è vuoto e immacolato. Ci sarà ancora, da qualche parte, quel personaggio lì? E sarà buono o cattivo? Si tireranno i camion o canteranno canzoncine kriptoniane tenendosi per le manone indistruttibili? Ma soprattutto, se mi sto facendo questa quantità di domande-pippone, vuol dire che mi sono invasata anche con Man of Steel o c’è una S di Speranza pure per me? Per tutti i GESOO alieni, insegnatemi a sparare palle di fuoco dagli occhi, che il mantello-couture me lo procuro da sola!

 

Dunque, a casa abbiamo questa vecchia lavatrice che usiamo come libreria. Dovevamo portarla in cantina, ma poi era greve e l’abbiamo lasciata in salotto, autoconvincendoci che faceva arredamento. Prima ci abbiamo messo sopra i pesci, ma poi i pesci sono schiattati e abbiamo cominciato ad ammucchiarci su i libri da leggere. C’è di tutto… e la cosa bella è che ogni tanto passi e trovi qualcosa di splendido che ti eri pure dimenticato di avere. L’altro giorno ero lì che cercavo di capire che costume da bagno portarmi al mare – non ho deciso, li ho cacciati tutti nella borsa e ciao – e intanto che c’ero ho preso su Drown di Junot Díaz (che è uno Strade Blu della nave-madre Mondadori, tradotto da Roberto Agostini e Patrizia Rossi). E perbacco, La breve favolosa vita di Oscar Wao mi era molto garbato, ma avevo completamente rimosso questa raccolta di racconti, che poi è anche la prima cosa che ha scritto, tra i meritatissimi OOOH e AAAH del vasto mondo. Sono dieci storie, tutte incastrate fra loro e ancora più incastrate negli sconvolgimenti di una famiglia dominicana molto complicata. C’è sempre un pezzo che manca. Può essere il papà che li pianta lì senza un soldo e va negli Stati Uniti dopo aver tradito la moglie con una cicciona del barrio. Può essere la tranquillità, che non c’è mai anche quando tutti quanti approdano nel New Jersey. Possono essere i soldi, che Yunior raccatta spacciando negli Stati Uniti mentre prova ad amare una ragazza troppo devastata per stare in piedi da sola. Può essere anche una buona parte della faccia di un ragazzino del villaggio vicino, che porta una maschera perché, quand’era piccolo, un maiale gli ha sbranato una guancia. Non sono delle storie allegre, ma sono meravigliose. E continui a portartele a spasso anche quando hai chiuso il libro.

A leggere ero su questo scoglio.

E dopo lo scoglio ci siamo messi nella pancia queste cose qua, alla Cantina del Polpo di Sestri Levante, che ormai sta diventando uno dei miei posti-allegri del mondo.

Insomma, una giornata di luminose soddisfazioni. Anzi, oltre ad ordinare un altro piatto di ravioli al baccalà, credo proprio che mi leggerò anche È così che la perdi. E quando arriverà sulla lavatrice, prometto solennemente di non lasciarcelo troppo a lungo.

Il mio papà è, da sempre, il compagno di cinema ideale per determinati generi. Col papà si vede la fantascienza, si vedono le tamarrate tecnologiche e le catastrofi. Abbiamo condiviso momenti felicissimi davanti ad Armageddon, Deep Impact, Il quinto elemento e addirittura Contact, che in pratica è piaciuto solo a lui. Che vi devo dire, anche il più granitico dei genitori ha, ogni tanto, un cedimento astronomico-mistico. Dimenticavo, guardiamo pure i film con gli esorcismi, ma quelli solo a casa e in seconda serata su Sky che, si sa, sono tutti delle cacate pazzesche e non vale la pena sprecare i soldi del biglietto. Comunque, in quest’epoca di revival e rispolveroni di vecchie cose care, io e il papà abbiamo un sacco da fare. Siamo andati a vedere Tron e il primo Star Trek di GEIGEI Abrams e volevo pure portarlo a vedere Prometheus ma poi è finita che ci sono andata da sola… e per fortuna, sarebbe stato uno spezzacuore per il mio papà. Mostri a forma di biscia-vagina, culturisti albini e parti cesarei fai-da-te. Dov’è la poesia dello spazio. Dov’è la mirabile dicotomia uomo-mostro. Al mio papà piacciono quelle cose lì, oltre al sedere sodo di Ripley. Dategli un HAL9000 che blatera filastrocche ed è subito Natale. Fategli vedere Io, Robot e vi compatirà brandendo un tomo di Asimov e declamando a memoria le tre leggi della robotica. Per dire, il suo film preferito credo sia L’uomo bicentenario, che se lo sceneggiava Asimov in persona veniva difficile farlo più rispettoso del libro e del sacro materiale di partenza.

Diamine, sto divagando. Se solo avessi un cervello positronico, lì sì che andrei in ordine.
Quel che volevo dire – credo – è che anche per Star Trek. Into Darkness abbiamo onorato le tradizioni e ci siamo allegramente presentati al cinema a braccetto. Visto che il papà ha più di 65 anni ma si vergogna a usufruire dello sconto-anziani, col bigliettaio ci parlo io. “Senta, nonostante il mio gagliardo genitore se li porti benissimo, temo proprio che dovrà fargli il ridotto”… al che interviene anche lui, solitamente con un “Che ci vuole fare, gli anni passano”, perché comunque gli rode un po’ che gli facciano quel biglietto lì. Poi niente, quando entriamo in sala o fa il melodrammatico (durante i trailer di Tron è riuscito a dire “Che poi insomma, sono contento di vedere il 3D, che di opportunità per andare al cinema non me ne restano poi molte, ormai”) o si stupisce (“Ma guarda, c’è anche il buco per metterci la bibita”). L’unica costante è che ci mettiamo in quinta-sesta fila, che la miopia è ereditaria.

Alla fine, Into Darkness ci è piaciuto perché non poteva non piacerci, siamo fatti per amare questi film qua.
L’Enterprise che emerge dalle acque, Spock che cementa un vulcano, Benedict Cumberbachichachech che prende a mazzate un intero plotone di klingon incagnatissimi, sentimenti, Chris Pine con la faccia gonfia, scudi al minimo, il cammeo della mummia di Leonard Nimoy, criogenia!
Ci è garbato, è vero, ma non ci ha convinto del tutto. E la recensione più accurata e corretta che posso fornirvi è, al momento, quella del mio saggio e sintetico papà.

Che spettacolo. Bello, bello. Mi è piaciuto molto. Non so bene perché Sherlock Holmes fosse così agitato, ma mi è piaciuto.

Dateci dei cattivi motivati. Dateci dei cattivi per cui fare il tifo. Dateci dei cattivi di cui conosciamo e comprendiamo il passato – e non solo perché eran già in uno Stak Trek del 1982. Se non lo fate, ce ne fotteremo altamente del loro futuro. E continueremo a fissare rapiti le frangette dei vulcaniani.