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Dato che il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è bellissimo, ho deciso che la butterò in caciara.
È trascorso un discreto numero di anni dalla pubblicazione della sua ultima creatura e, nonostante i numerosi “non voglio più scrivere narrativa” qua e là pronunziati, Ammaniti è tornato. Ho letto Anna e ho visto la serie – ricavandone parziale consolazione – ma in fondo al cuore mi sono sempre rifiutata di credere alle dichiarazioni di auto-pensionamento dal mestiere di romanziere. Preferivo immaginarmi Ammaniti alle prese con la sindrome di George R.R. Martin, una situazione che visualizzo così, avvalendomi della pubblicità del digestivo Brioschi.

Fai la televisione, Niccolò. Segui i tuoi interessi. Mettici il tempo che ci vuole. Anzi, falli aspettare. Maledetti, sempre lì a chiedere dei libri nuovi. Un assillo. Escono trendordicimila romanzi l’anno, ma loro no, non possono leggere uno di quelli, il nostro vogliono leggere. E INVECE NO, TIÈ, DOVETE ATTENDERE. Quanto? Non si sa. Non dare spiegazioni, allontanali con un bastone nerboruto.

Maria Cristina Palma, la protagonista di La vita intima – inevitabilmente in libreria per Einaudi Stile Libero -, divide con noi solo la stupidità assoluta che ci assale quando andiamo dal parrucchiere a chiedere “qualcosa di nuovo”. Stavamo così bene prima. Ci riconoscevamo. E invece no, dobbiamo farci del male e uscire azzoppate da un nuovo cruccio. La gente che ti ama, per pietà, ti dirà che stai bene e che il nuovo taglio è molto francese ma, grazie al cielo, i nostri scempi non avranno il potere di far vacillare il governo. I capelli di Maria Cristina Palma sì.

Perché? Perché Maria Cristina è la moglie del presidente del consiglio, è dotata di una bellezza fuori scala rispetto alle altre femmine della nostra specie – certificata, per altro, dallo studio di una remota università americana che dopo calcoli estenuanti l’ha ufficialmente individuata come DONNA PIÙ BELLA DEL MONDO, facendo la gioia di ogni testata giornalistica che sfrutta spudoratamente il clickbaiting  e non può muovere un passo senza che i suoi comportamenti vengano analizzati, sezionati e aggiunti al mosaico infinito di un’immagine pubblica che ha conquistato vita propria, allontanandosi a grandi falcate dalla Maria Cristina originaria. Che poi è questa – l’impietoso ritratto è curato dalla sua mamma, comparsa memorabile e dalla lucidità tombale:

Ricorda che questa bellezza non te la sei conquistata. È un dono che ti abbiamo fatto io e tuo padre e devi saperla portare, proprio come il vestito da reginetta. Oggi, se fossi stata spiritosa, te ne saresti fregata degli altri e avresti fatto vedere a tutti chi era la regina della festa. La bellezza, senza coraggio, è un guaio. Proprio perché sei bella non verrai presa sul serio e ti dovrai impegnare cento volte di più delle altre per dimostrare che sei intelligente, profonda, per non essere usata e trattata come una scema dagli uomini. Tuo nonno è il primo che ha portato dall’America il latte detergente in Italia e la nonna sa prendere al lazo i buoi. Tuo fratello sa tuffarsi di testa dallo Zingaro. E tu che sai fare? Sai piangere e scappare come Gina Mangano, la figlia del panettiere? Noi che abbiamo il sangue dei Sangermano, dobbiamo fottercene del giudizio della gente. Persino tuo padre, che è uno stronzo, ha scalato l’Everest. Tu, gioia, non emergi per carattere, ma almeno impara a portare la bellezza come una regina. Capito, amore mio?

Son solo le sfighe a schiacciarci o possono pensarci anche le fortune? Maria Cristina è un magnifico vaso di coccio in mezzo a tantissimi recipienti molto meno gradevoli alla vista ma più coriacei – e forse pure pieni di qualcosa, più capaci di orientarsi nel mondo, più duttili e scafati. Accusata spessissimo e volentieri di sapere di poco, percepita quasi universalmente come appendice muta e gradevole a vedersi di uomini importanti – dal primo marito scrittore al premier in carica – e cronicamente in cerca di un punto di riferimento che non la abbandoni in circostanze tragiche, Maria Cristina cerca di limitare i danni e di tenere in piedi le apparenze, ma avrà mai la possibilità di raccontare davvero una storia che sia sua? Il domandone si fa ineludibile quando, per un fortuito incrocio di antiche traiettorie, Maria Cristina si imbatte in una fiamma di gioventù che le gira un video “d’archivio” potenzialmente in grado di devastarle la vita. Barcollando – anche grazie a un alluce tumefatto – sul filo sottile dell’accettabilità, Maria Cristina andrà di fatto alla ricerca del suo nucleo reale, spogliandosi come una favolosa cipolla di tutte le stratificazioni, le preoccupazioni e le sovrastrutture che la spingono automaticamente a mettersi in posa per una schiera di fotografi ipotetici anche quando è da sola in mezzo a un bosco. Chi diventiamo, quando smettiamo di volercelo far dire dal riflesso che produciamo sugli altri? Che cosa serve davvero per sentirci in pace?   

Come da tradizione, Ammaniti ci accompagna a passo di carica e con un’allegria tragica e incontenibile verso un orizzonte minaccioso. Maria Cristina è un gorgo di paradossi che affondano le radici nel presente delle nostre piccolezze, mentre attorno a lei si affollano schiere di comprimari miseri, strambi e stupendi. Ho riso come non mi capitava da Ti prendo e ti porto via e, tra lampi grotteschi e sprazzi illuminanti, ne sono uscita pure più speranzosa. Dal Bruco – evanescente spin-doctor e guru eccentrico della comunicazione – ai custodi astiosi delle decadute terre di famiglia, dai fantasmi dell’adolescenza ai santoni della creatività perduta, dai personal trainer agli hair-sculptor delle ricche signore, dai cani zoppi alle molte comparse della politica nostrana, dal giornalismo ruffiano alla mondanità opportunistica c’è poco da stare allegri… ma forse dipende solo da come la si prende. “Portare la bellezza come una regina”? Forse vale anche per il resto… soprattutto per le miserie troppo vere, troppo cattive e dolorose per essere confezionate, mascherate e riconvertite in intrattenimento per una platea famelica e incontentabile. A chi dobbiamo la verità? Al nostro cuore, prima di tutto. 
Grazie, signor Ammaniti. Che gioia rivederla in giro.

Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

Libri pazzi, eccoci!
La torre di Bae Myung-Hoon – in libreria per Add Editore con la traduzione di Lia Iovenitti – è una raccolta di racconti ambientati tutti nello stesso posto: un edificio-stato che contiene mezzo milione di persone distribuite su più di 600 piani. Si chiama Beanstalk – strizzando l’occhio al Fagiolo Magico per la sua vocazione a svettare verticalmente – e, oltre a spiccare per scarsa propensione alla pacifica coesistenza coi paesi vicini (che sono “estero” anche se occupano l’isolato limitrofo), è un concentrato di conflitti pronti a deflagrare. Dietro alla facciata dell’utopia armoniosa, infatti, si spalanca una voragine di disparità, privilegi, magheggi e intrallazzi, dal lavoro alla politica, dall’economia alla ricerca. É una sorta di esperimento densissimo di coabitazione in presenza di risorse scarse, ma anche una satira rivolta alle società “avanzate”, che molto spesso cercano di nascondere le loro disumanità fondative.

I racconti cercano di illuminare le diverse facce del complesso intreccio di soldi, influenza e potere che animano i rapporti nella Torre. Dalla speculazione immobiliare agli arcigni sistemi di difesa che puntano a isolare lo stato-edificio dal resto del mondo, tutto alla Beanstalk è rigidamente normato. La fobia del caos, del disordine e dell’”invasione” è lo specchio di un disperato tentativo di scoraggiare ascese impreviste, in un finto sistema meritocratico che vende sogni ma ben poco solide realtà. Tutti vogliono guadagnarsi un posto alla Beanstalk, ma ne vale davvero la pena? Non occorre una particolare immaginazione per applicare la medesima domanda ai contesti che popoliamo anche noi, tra cinismo difensivo, autentica rabbia sociale, furbi espedienti e maldestri tentativi d’auto-convincimento.

La torre mi è garbato per l’idea e la struttura “episodica”, ma forse meno per l’effettiva esecuzione. È un’edizione rivista rispetto alla prima edizione di una decina d’anni fa – tradotta direttamente dal coreano, senza lingue-ponte come spesso in tempi recenti è capitato – e regge alla prova dell’attualità geopolitica, per quanto i racconti risultino molto enfatici, un po’ sbalestrati e qua e là fin troppo ingarbugliati. I problemi di “tono”, però, credo dipendano in larga parte dal mio orecchio poco allenato. Ballard concorrente di Squid Game? Forse un po’ sì.

Le Quattro galline di Jackie Polzin – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Letizia Sacchini – non sono le occulte custodi dell’antica saggezza del mondo. Nel loro razzolare non troveremo la sapienza del cosmo o le indicazioni velatissime di un’entità superiore – assai opaca ma fondamentalmente pronta a guardarci le spalle. Le galline sono un pretesto. Sono vittime inconsapevoli. Sono in balia del caso, del caos e della fortuna. Le galline non sanno niente e possono controllare solo quello che hanno davanti al becco. Le galline, in un certo senso, siamo noi. Anzi, potrei azzardarmi a dire che godono di un relativo privilegio: nel microcosmo solo all’apparenza inoffensivo di questo libro, hanno chi le accudisce e veglia sulla loro strutturale impossibilità di contrastare gli accidenti della vita.

Le galline vivono nel pollaio di una casa dal valore immobiliare in picchiata. Sono le galline di una coppia formata da un accademico condannato ad essere promettente (forse) in eterno e da una donna che sta cercando di uscire dal limbo di un desiderio viscerale frustrato. Si sorreggono a vicenda senza grandi gesti plateali e, a vederli così, non sembrano neanche travolti da chissà quale formidabile sentimento. Vivono in un quartiere che dovrebbe avere una collocazione urbana ma pare composto da una serie disordinata di microscopici feudi infestati da predatori boschivi, tratte commerciali diventate troppo invadenti, cortili pieni di roba che nessuno sa come smaltire, depressioni periferiche e gentrificazioni al contrario. Non si capisce da dove piglino i soldi per campare, ma quattro galline le possono mantenere.

Il libro ci invita senza particolari preamboli a partecipare alla quotidianità di lei – che funge anche da voce narrante – e delle sue galline. Quando arriviamo, c’è una possibilità di futuro che si inserisce timida nel clima di disillusione generale. Seguiremo questa possibilità immergendoci in una stratificazione di dettagli “piccoli” che, nell’accumulo graduale, son poi quelli che costituiscono la realtà del vivere. Puliremo case – e penseremo a cosa vuol dire -, compreremo granaglie, visiteremo madri, scalderemo avanzi, baderemo al bambino della nostra amica, risponderemo alle rimostranze dei vicini e aspetteremo lettere importanti mentre cerchiamo di capire se in giardino abbiamo un albero che sta per crepare o no. Le galline saranno una preoccupazione costante.
Perché non fanno le uova?
Il freddo le sterminerà?
Hanno da bere?
I procioni possono raggiungerle?
Ci preoccuperemo per le galline perché abbiamo paura di preoccuparci per noi. Ci prenderemo cura di queste benedette galline perché abbiamo bisogno di scoprirci in grado di proteggere almeno loro.

È un bellissimo libro strano. Restituisce dignità “filosofica” a un pragmatismo che sembra risalire alle pulsioni più viscerali e sincere, ma senza menarcela con piccoli mondi antichi e con la magia delle creature semplici. È un libro pieno di dolori tremendi e destini di una normalità spietata, di teste che lavorano – e rimestano quel che di irrimediabile c’è nel passato – mentre le mani sono impegnate. Racconta quello che succede quando il posto dove vivi muore e tu non hai modo di aggiungere vita a quel che c’è, ma puoi solo provare a limitare i danni in vista di qualcosa che non sai bene se arriverà. E in mezzo ai piedi hai queste quattro galline che non sanno niente, ma forse hanno capito chi sei.

Allora, se il vostro obiettivo è approcciarvi a una scrittura estrosa, guizzante, ricca e succulenta – ECCO, qua non gira esattamente così. Lo stile ragionieristico giapponese – iper funzionale, precisino e fondamentalmente anonimo – colpisce ancora… e devo confessare che un po’ patisco questa strutturale impossibilità di distinguere una voce dall’altra. Di buono c’è che non si sconfina nella pedanteria e nella ripetitività e che, forse proprio per l’atmosfera piana e per l’assenza di arzigogoli, I miei giorni alla libreria Morisaki – tradotto da Gala Maria Follaco per Feltrinelli – vi filerà via liscio e finirete per leggere con gran lena. Menate mie a parte, è un romanzo che come campo-base sceglie una libreria piacevolmente sgangherata di Tokyo, collocata nel quartiere con la più alta concentrazione di librerie al mondo – Jinbōchō.

Che succede? Takako, 25 anni, inaugura la sua crisi esistenziale grazie a una doppia rottura: il collega con cui credeva di far felicemente coppia fissa la informa serafico del suo imminente matrimonio e Takako, in preda a questa cocente delusione sentimentale, decide di licenziarsi per non trovarsi davanti tutti i santi giorni quella gran faccia di tolla. TAKAKO LASCIATELO DIRE PERÒ COI COLLEGHI NON È MAI IL CASO PERDIANA.
Comunque, dopo una parentesi di autocommiserazione e rancorosa letargia, uno zio con cui non si sente da una decina d’anni le tende provvidenzialmente la mano: ma vieni a stare nella stanzina al piano di sopra della mia libreria, mi dai una mano e non ti faccio pagare l’affitto. E Takako fa i bagagli e va a leccarsi le ferite alla libreria Morisaki, non senza un certo scetticismo. Lo zio Satoru non è esattamente un pilastro della sua vita adulta, ma non le è rimasta più una lira e, anche se non legge dalla scuola dell’obbligo, decide di fare un tentativo.

Come in ogni parabola di rinascita che si rispetti, Takako si riscuote con gradualità dal suo scontroso torpore e comincia a partecipare attivamente alla vispa vita di quartiere. Nei libri, a lungo utilizzati solo per far spessore sotto alle gambe traballanti dei tavoli, ritrova alleati preziosi e, una pagina dopo l’altra, il suo cuore malridotto si ringalluzzisce e risana. Alla sua storia si intreccia quella dello zio, che si affaccenda con passione nel negozio in attesa che la moglie fuggiasca si rifaccia viva – sempre che le vada, visto che è sparita da un lustro e nessuno sa dove sia finita. Takako e Satoru condividono civilmente la solitudine, ma insieme trovano il modo di immaginare tempi migliori e di tornare a far baluginare la fiammella della speranza.

Se vi va di leggere qualcosa di piacevole, lieve e rassicurante – con bonus “atmosfera giapponese”, roba che su di me esercita sempre il suo fascino – la libreria Morisaki sarà di certo una valida tappa. Poche pretese ma tutto sommato ben riposte. 

 

Ero quasi certissima che Il profilo dell’altra – il romanzo d’esordio di Irene Graziosi uscito per E/O – non fosse un pacco, ma data la mia indole solare e fiduciosa ho comunque tirato un appagante sospirone di sollievo. È andata bene, è un bel libro. E ne potremmo discutere per una settimana, perché è anche una di quelle storie stratificate e cangianti che contengono una marea assai poco placida di temi “vicini”, veri e nostri. Mi son sembrati fin troppi, ogni tanto, ma la scrittura ha quell’elasticità naturale che scongiura l’artefatto e il legnoso… e regge, tenendo insieme tutto. Ma di che parla? Di specchi, credo. E di scoprire chi siamo, indipendentemente dal riflesso che ci restituiscono gli altri o da quanto ci piaccia quel che vediamo.

La nostra narratrice è impantanata in un presente che non lascia spazio d’immaginazione concreta di un qualsiasi futuro. Dovrebbe andare avanti a studiare, ma dopo la morte della sorella si è trasferita da Parigi a Milano al seguito del suo ragazzo e, di base, sta sul divano a guardare Law&Order.
Per una serie di millanterie sfacciatissime e di incroci fortuiti che nemmeno lei sa se augurarsi o no, si ritrova assunta come “assistente” e grillo parlante di Gloria, influencer diciottenne dotata di una fanbase sterminata e di argomenti inesistenti. Maia accetta il lavoro con l’intenzione nemmeno troppo velata di fallire ma, un po’ per sfida e un po’ per sincera curiosità antropologica, si ritrova a orbitare stabilmente nella vita della sua protetta e, in parallelo al personaggio “pubblico” che tutti credono di conoscere, parte alla ricerca del nucleo reale di questa ragazza che appare spensieratamente vuota, fortunatissima e legittimo approdo dell’invidia generale. Chi è Gloria? E chi siamo noi che la seguiamo? Quanto solido e autentico sarà davvero il castello di carte che ha costruito?

C’è molta carne al fuoco e uno degli aspetti migliori, secondo me, è il tentativo di rappresentare in maniera credibile il paesaggio relazionale in cui siamo immersi. Quel parallelo di difficile gestione tra persona pubblica e privata, tra identità che si adattano ai contesti e ricerca autentica del nostro centro, al di là di come scegliamo di mostrarci. È una questione che appartiene intrinsecamente al crescere, credo, ma i tanti posti nuovi in cui il processo può oggi essere narrato, allestito e spettacolarizzato la rende un po’ più complicata che in passato. Non si sconfina nei due possibili estremi “facili” dell’“anche le influencer piangono” VS “IO PENZO KON LA MIA TESTA KE VADANO A ZAPPARE LA TERRA KUESTE MIRAKOLATE!!1!!1”… per me ci è anche andata giù leggera nel descrivere le molte possibili brutture del dietro le quinte delle dinamiche social-commerciali ma, pur non trovandoci niente di sconvolgente, è un quadro realistico. Il nodo vero non sta nemmeno troppo lì, probabilmente. È di margini di libertà che si parla. Di quanto “costa” scegliere di esserlo davvero. Di quanto siamo disposti ad accettare la compagnia costante di chi siamo quando nessuno ci guarda. Chi è il ventriloquo e chi è il pupazzo, tra Maia e Gloria? E, soprattutto, con che voce abbiamo deciso di parlare noi?

Quanto mi sono arrabbiata per Oliva. Quanto mi sarebbe piaciuto materializzarmi a casa sua con una macchina del tempo. Ma mi è anche venuto da pensare che l’epoca che avrei potuto offrirle era sì relativamente migliore rispetto alla sua, ma di certo non ancora perfetta. Vero, si progredisce per gradini incrementali – e il nostro oggi, per Oliva, sarebbe stato fonte di stupore e di fantascientifica meraviglia -, ma quanta sofferenza è passata sotto traccia? Quanti destini deformati senza rimedio sono stati dimenticati? Quante vittime delle “circostanze” sono rimaste silenziosamente sepolte? Quante possibilità negate e compromessi ignobili?

Come parecchie lettrici e lettori, ho fatto amicizia con Viola Ardone grazie al Treno dei bambini e sono stata felice – al netto del legittimo furore suscitatomi dal popolo di Martorana – di ritrovarla qui.
Oliva Denaro è un romanzo che personifica un problema antico
. Ardone lo fa aprendoci le porte di una casa povera e onesta, una casa con un campicello e qualche gallina. Si raccolgono lumache da vendere al mercato, si ricamano corredi, si va a scuola ma senza esagerare – soprattutto le femmine. Le femmine con delle idee finiscono zitelle… e poi chi le mantiene? Siamo in Sicilia, sono gli anni Sessanta, il paese è così piccolo da occupare tutto l’orizzonte del possibile. Sembra un paradosso, ma ci sta. I mondi chiusi fanno quell’effetto: le regole sono queste, non si scappa perché si sa così poco di quel che c’è “fuori” che non si saprebbe dove andare, come comportarsi, dove mettere i piedi. È un posto che impedisce di concepire un’alternativa e, di madre in figlia, ci si tramanda una subordinazione strutturale. Padrone di quattro mattonelle di casa, dominatrici indiscusse delle proprie cucine (se va bene), officianti di rosari velenosi, le donne di Martorana si vessano a vicenda perché sono abituate a farsi carico anche delle colpe non loro.
Ci sono delle regole.
C’è un prezzo da pagare per la pace della famiglia, per la rispettabilità.
Dal padre di una svergognata non si vanno a comprare le lumache. E dire “no” quando non navighi nell’oro è da ingrate e da presuntuose. Modeste e prudenti, silenziose e al di sopra di ogni sospetto.
Se c’è chi si prende certe libertà è perché sei stata troppo disinvolta.
Se c’è chi si approfitta di te non c’è da sorprendersene: l’uomo è cacciatore, ha delle esigenze. Sta a te non provocare, sta a te preservare l’unico bene prezioso che hai.
Nessuno si prende una brocca rotta… tranne chi l’ha rotta, forse. E in quel caso bisogna pure ringraziare.

Oliva cresce in un mondo in cui il matrimonio riparatore è un istituto legislativo ammissibilissimo, un artificio asimmetrico che permette a tutti di salvare la faccia e alle ragazze “rovinate” di raggiungere l’unico scopo plausibile per una giovane: passare dalla casa governata dal padre alla casa governata da un marito. Come si fa ad avere sedici anni in un contesto simile? Si cresce nello spazio di una notte, senza averlo chiesto.
Ardone ci trasporta con immediatezza nell’universo interiore di Oliva. È una voce che ruzzola con candore dall’infanzia a un’adolescenza costellata di trappole potenzialmente irreparabili. Con uno sguardo semplice e testardo, questo romanzo è una sorta di risarcimento per le molte Oliva che ci hanno precedute, innumerevoli donne triturate o cancellate da una cultura sfavorevole che è stata la nostra e che, per certi versi, non ha cessato di esserlo. È un libro di un’immediatezza cristallina, privo di retorica – per quanto a tratti comprensibilmente didascalico -, toccante e combattivo. Non ci sono intenti consolatori, perché per tante è troppo tardi e tante non hanno nemmeno avuto gli strumenti per percepire un’ingiustizia di fondo. C’è la volontà, però, di dare un senso al male subito, di mostrarci uno spiraglio di sacrosanta rivalsa: una che ha avuto la forza di tentare… anzi, di sopportare le conseguenze di una scelta controcorrente. Un altro romanzo in cui il grigio dell’umano, delle cattive intenzioni portate a compimento e delle belle speranze disattese si fanno narrazione, perché i modelli che ci tramandiamo non contribuiscano a restringere gli orizzonti ma ci avvicinino costantemente a un futuro che potremo valutare come “migliore” di quello di Oliva… e anche del nostro.

 

Mentre l’umidità ci assedia, la pioggia battente ci flagella e cerchiamo di venire a patti con l’oscurità incombente – giuro, mai capirò che cosa diamine dovremmo farcene di un’ora in più di luce fioca al mattino quando potremmo beneficiare di pomeriggi più lunghi E INVECE NO TRASFORMEREMO LE VOSTRE GIORNATE IN UNA TOMBA UMIDA DI BUIO ALLE 15.23 SCUSATE PATISCO MOLTISSIMO IL MESE DI NOVEMBRE -, dicevamo, mentre il panorama attorno a noi si fa desolante e la speranza ci abbandona a poco a poco, Stefania Bertola appare per restituirci un po’ di gaiezza.
Sono persuasa da tempo immemore del valore quasi balsamico dei romanzi di Stefania Bertola. Non parlerò di “intrattenimento intelligente” – anche se è vero -, perché poi pare sempre che si debba creare una gerarchia antropologico-meritoria dell’umano impulso al divertimento e all’alleggerimento del cuore, ma è innegabile che la sana leggerezza di cui la nostra autrice è ormai portabandiera autorevolissima sia anche foderata della migliore arguzia e di un occhio acuto per il dettaglio minuto e quotidiano che molto contribuisce a fotografarci come un agglomerato collettivo di fissazioni, nevrosi e tran tran relazionali, dalle mura di casa allo scaffale dei preparati in scatola per far finta di aver prodotto una pizza regolamentare.

Con Le cure della casa (Einaudi), Bertola ci presenta una nuova schiera di protagoniste variamente alla ricerca di una casellina dignitosa da occupare nel mondo.
Lilli veleggia verso i cinquanta, la sua lunga carriera in azienda si è conclusa – AKA l’hanno congedata senza troppe remore – ed è naufragato anche l’improbabile progetto imprenditoriale che aveva deciso di avviare con un’amica – il business delle borsette fatte di cerniere non si è rivelato eccessivamente redditizio… chi l’avrebbe mai detto. Con una figlia migrata a Venezia per l’università, una colf dimissionaria che finalmente è riuscita a farsi assegnare l’ambito incarico di portinaia e una rendita immobiliare cortesemente piovutale tra le mani grazie alla dipartita di una zia ricca, Lilli si appresta ad affrontare un capitolo del tutto inedito della sua vita: farà la casalinga. Nonostante il biasimo della madre – femminista militante della prima ora -, le perplessità del marito e attitudini non proprio spiccatissime, Lilli si arma di Cif, panno in microfibra e tessera punti di Acqua & Sapone per far sfolgorare le superfici che la circondano e provare a riprendere il controllo dell’unico universo che può dire di padroneggiare davvero: il suo appartamento.
Dagli effetti devastanti di Pinterest alle virtù del purè Pfanni, Lilli farà del suo meglio per aderire al mito dell’impeccabile donna di casa, scoprendosi all’improvviso padrona del suo tempo e anche assai più avventurosa del previsto. Perché nella sua vita c’è stata almeno una casalinga perfetta che le piacerebbe prendere a modello, un’amica d’infanzia che già in tenerissima età pareva fregiarsi di virtù muliebri che Lilli ammirava come si ammirano le qualità altrui che mai saremo in grado di replicare. Ripensando a Noemi, che da decenni si è volatilizzata dalla sua vita – così come dalle vite di chiunque altro l’abbia conosciuta -, Lilli si mette in testa di ritrovarla, innescando una reazione a catena di incontri improbabili, misteri, menzogne e colpi di testa.

Le cure della casa è un delizioso plurilocale che contiene almeno tre ambienti: la storia di una donna che si confronta volontariamente con una scelta identitaria diventata impopolare tra le sue simili, un’indagine che mira a stanare una persona scomparsa, un manuale di economia domestica.
Che c’è di male nel voler fare le casalinghe?
Dove diamine è finita Noemi e perché nessuno l’ha mai più sentita?
Di quanti ammorbidenti ha davvero bisogno l’umanità?
Quello che Lilli cerca di fare, nello sgangherato percorso tracciato da questo libro spassoso e pungente, è abitare la zona disordinata della scelta individuale, concedendosi la libertà del tentativo e dell’esperimento. Lilli trasloca in quel margine di dubbio che spesso non ci concediamo di sviscerare e, facendoci divertire mentre spedisce mail ampollose al servizio clienti della Barilla o compila un quaderno pieno di indicazioni pratiche – per quanto approssimative – per sua figlia Iris, credo cerchi di dirci una cosa importante: nessuno è autorizzato a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare. Non so neanche come si accende un ferro da stiro, non possiedo argenteria da lucidare e mi auguro vivamente che le fughe delle mie piastrelle trovino il modo di detergersi da sole, ma Lilli ci offre  un paradosso eloquente: anche decidere di trasformarsi nel prototipo di una donna “obsoleta” è una forma di libertà che presuppone una possibilità di scelta. Ed è proprio per ampliare quella possibilità di decidere – senza mai darla per scontata, perché scontata non è ancora – che vale la pena continuare a intestardirsi.
Lilli mi ha convinta a imbracciare secchio e mocio a tempo pieno? Zero. Ma sarò pronta a sostenerla strenuamente nella sua lotta impari contro gli aspirabriciole che NON ASPIRANO.

Qua ci sono io che arrivo in ritardo di un anno buono sulla vittoria dello Strega Giovani e ancora più in ritardo rispetto al tempo di reazione canonico che si riserva alle novità, ma pazienza. L’importante è arrivare. Che potenza, Tutto chiede salvezza. Mencarelli regala ossa e un passo più lungo alla sua poesia e, qui, compone il diario di una permanenza in un posto dove non si approda mai per volontà e consapevolezza, un luogo di mezzo che può rappresentare un momento di passaggio o un buco in cui si sprofonda in via definitiva.

A vent’anni, nell’estate del 1994 – quella dei primi mondiali che pure io mi ricordo bene – Daniele viene sottoposto a TSO per un episodio di furore violento. Demolisce casa, fa venire un mezzo coccolone a suo padre e riacquista lucidità solo in ospedale, nel reparto “dei matti”. La prima cosa che si ricorda è il suo vicino di letto – uno che parla con la Madonna e basta, ripetendo sempre la medesima formula – che cerca di dargli fuoco ai capelli.
Questo libro è il diario quotidiano della settimana che Daniele trascorrerà rinchiuso con altri cinque pazienti che, come lui, hanno smesso ad un certo punto della loro vita di “funzionare” correttamente – almeno in base agli standard di normalità in cui tendiamo a classificarci e in base al grado di sofferenza “privata” che siamo capaci di sopportare prima di sfaldarci.
Tutti quelli in grado di sostenere una conversazione vivono il TSO con un misto di sconfitta e di sollievo, come una bolla in cui potersi rapportare agli unici che capiscono davvero – gli altri “matti” – e staccarsi da una realtà che periodicamente li destabilizza, li rifiuta, li ferisce. Il mondo vero è dove si vuole stare, ma il mondo vero è anche capace di scatenare quello che vorrebbero tenere sepolto. Gran parte dello star male, si raccontano i compagni di stanza, è convivere con il timore che la pazzia torni, senza più riuscire a scacciarla.

Daniele è già stato in cura e ha sperimentato una nutrita sfilza di farmaci, ma continua a non digerire l’indifferenza con cui il mondo distribuisce sofferenza, assurdità arbitrarie, accidenti e disastri. È come se gli mancasse la pelle, quel minimo di scorza che rende sopportabile l’immagine del futuro. Vorrebbe proteggere chi ama, vorrebbe trovare un angolo di pace dove rifugiarsi quando riaffiora il pensiero che sforzarsi è inutile, perché tutto è destinato a sbriciolarsi e a svanire. Come si può gestire il presente se non vediamo altro che la polvere che resterà di noi?

Nella settimana di TSO, conosceremo con Daniele medici, approcci terapeutici, porte chiuse, padri che imboccano e pettinano figli catatonici, infermieri spavaldi e spaventati. Impareremo a orientarci insieme a lui in un reparto dove non c’è nulla da fare, a parte provare a star tranquilli in attesa della seduta giornaliera con lo psichiatra, che ben di rado si rivela risolutiva. Sarà un’incursione in un microcosmo inconcepibile anche a chi ci si ritrova ricoverato, perché nessuno ha chiesto davvero di starci, così come nessuno ha chiesto di star male o di rimanere congelato all’improvviso con lo sguardo fisso nel vuoto.
È un posto dove si cercano le motivazioni di una sofferenza che spesso non ha nome, che si palesa acquisendo la forma di quello che distruggiamo quando si impadronisce di noi. È un posto dove si lotta per continuare ad essere percepiti come persone e dove la scienza prova a ricomporre il caos, facendosi spesso scudo con una scorza ispida di cinismo difensivo.

Insomma, è un libro magnifico.
Mencarelli riesce a raccontare delle enormità con la grazia che nasce da una consapevolezza e da un rispetto profondi. Credo venga da lì anche la scelta linguistica di far parlare le persone come davvero parlano le persone – con le loro sfumature geografiche e gergali, senza ripulire i dialoghi uniformando ogni voce a un italiano asettico “da libro”. In un reparto dove si finisce perché si perdono i punti di riferimento, mi è parso opportuno, corretto e “giusto” lasciare a chi ci transita la possibilità di farsi sentire per quel che è. C’è chi perde anche la voce e, se è rimasta, Mencarelli sceglie di restituircela così com’è.

Per provare a tirare le fila, è un libro magnifico, ma è anche un libro che fa paura, perché quello che si intravede incessantemente è la porosità del confine. Non si scegliere se stare dentro o fuori. Non dipende dalla volontà, dall’impegno o da quanto pensiamo di essere in credito col mondo, perché anche noi – con intensità diverse – cerchiamo ogni giorno di venire a patti con la grande paura definitiva di Daniele: il terrore che, in fondo, nulla di tutto questo abbia senso. Che quell’angolo in cui siamo salvi, al sicuro, sia solo una delle tante storie che ci raccontiamo.