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Non avevo mai letto Sophie Kinsella e cominciare da Cosa si prova – tradotto per Mondadori dall’illustre penna di Stefania Bertola – è forse un po’ bizzarro. Vorrei potermi augurare un futuro di romanzi “nuovi” da scoprire, utilizzando questo come un felice momento di conoscenza reciproca, ma so fin troppo bene quanto sia improbabile. Alla fine del 2022, Kinsella ha reso noto di essere stata colpita da un glioblastoma – un tumore al cervello di natura particolarmente aggressiva. Il glioblastoma non si cura e, per quanto sia possibile asportare chirurgicamente la massa e sottoporsi successivamente a radioterapie mirate e cicli di chemio, resta una condanna a cui non abbiamo ancora trovato il modo di sfuggire. Si può aspirare a un’aspettativa di vita un po’ più lunga delle inclementi medie statistiche ed esistono casi più che sporadici di resistenza fuori scala, certo, ma in poco altro si può confidare.
Ho provato un dispiacere sincero per Kinsella, perché il medesimo tumore ha ucciso mia madre, nel maggio del 2023, perfettamente in media rispetto alle grame statistiche di (non) sopravvivenza. Quando mia madre ha scoperto di essere malata io ero al terzo mese di una gravidanza delicata ed è apparso subito chiaro che non avrebbe visto crescere o anche solo esordire al nido il suo secondo nipotino. Il medico di base l’aveva spedita per direttissima dal neurologo, perché faticava a leggere e a scrivere. Prima ancora di approdare agli esami più approfonditi che le erano stati prescritti – con una celerità stupefacente che solo un “paghiamo” può produrre – mio padre si era deciso a portarla di corsa al pronto soccorso perché all’improvviso non riusciva a coordinarsi, non muoveva più un lato del corpo e vedeva roba che non c’era. Non era passata neanche una settimana dalle avvisaglie iniziali.

Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.

Non ho la minima idea di come Kinsella sia riuscita a mettere insieme questo libro. Da un lato, ho provato una vasta stima per la sua tenacia e ho partecipato con immensa gioia al suo decorso relativamente buono, in strettissimo senso clinico. Dall’altro, però, mi sono arrabbiata da capo. E per motivi nuovi, forse. È un libro animato da un ottimismo che ho dimenticato, o forse non sono mai riuscita a coltivare. Kinsella spera e fa sperare la sua protagonista-specchio, ma cosa me ne faccio io – ormai – di un orizzonte di speranza? Sospetto, però, che sia anche l’unico libro che si poteva scrivere in queste circostanze. E lo comprendo profondamente, ne percepisco sia l’istinto di reazione che il preciso intento di plasmare come vorremmo che ci ricordassero. Un’autrice che ha inventato finali felici per una vita intera che cosa mai potrebbe augurarsi per questa sua emanazione definitiva? L’idea stessa del lieto fine è una specie di morte dell’azione narrativa, se ci pensiamo: è andato tutto bene, non c’è più disordine, l’armonia e tornata e la giustizia ha trionfato… che altro vi serve sapere? Via, circolare. Quello che ci resta è un idillio cristallizzato, la soddisfazione di un cerchio che si chiude e la promessa di un futuro così radioso da non generare più nulla che valga la pena raccontare. Facciamoci bastare questa gioia, non ci serve altro. Immaginiamoci un futuro infinito in cui questo stato di benessere e compiutezza si srotola per sempre. Muore la storia ma non muore la speranza, insomma. Può morire chi scrive ma un personaggio che continua a sperare non morirà mai.

Mia madre non ha sofferto di lunghe amnesie e non ha dovuto sostenere fisioterapie troppo onerose. Era un’atleta, dopotutto. È stata operata, ha fatto la radioterapia, ha fatto la chemioterapia. Si è gonfiata, ha perso i capelli. La prima risonanza magnetica dopo le cure era pulita. Un piede non ha mai riacquistato piena sensibilità, l’equilibrio è peggiorato perché, tra le altre cose, faticava a valutare visivamente la profondità e non è stata più capace di usare le mani con quel grado di precisione che ci consente di lavarci i denti, di gestire le posate, di allacciarci le scarpe – che non le andavano più bene -, di rompere un uovo per farci la frittata. Non ha mai più potuto disegnare o lavorare a maglia. Ha avuto periodi buoni, di relativa “normalità”, e periodi pessimi. Non ha ricominciato a leggere o a scrivere, cercava di fare quello che ha sempre fatto in casa ma le risultava difficilissimo arrivare in fondo a una sequenza di azioni anche molto semplici. Le allucinazioni l’hanno abbandonata praticamente subito, ma parlava a fatica, mescolando le sillabe e perdendo per strada i termini esatti che cercava. Potrei elencare un migliaio di mutamenti fisici che l’hanno investita, modificandola radicalmente. Ma quel che cambia, insieme al corpo che gradualmente si deteriora e si scorda come si fa a funzionare, è anche il tempo che si abita insieme e come si sceglie di impiegarlo. L’unica forma di coraggio può esistere in quella parentesi lì, ma bisogna trovare il modo di fare spazio. Perché non ci si confronta più con una persona che è in grado di pensare come ha sempre pensato, con una persona “intatta”, che si riconosce e resta padrona di sé stessa.
Non sono ancora capace di descrivere l’orrore e lo smarrimento di chi assiste al disfacimento irrimediabile di qualcuno e quello che mi ha meravigliata di questo libro, credo, è il comando di sé che ho intravisto in Kinsella. La volontà precisa di esistere insieme agli altri, di lasciare una traccia sentimentale. Di predisporsi al futuro sapendo che quel futuro passerà di mano. Che un’altra persona sia riuscita a costruire un romanzo riordinando fatti e sentimenti, raccontando una malattia che distrugge la mente e la presa che abbiamo sulla realtà mi pare un miracolo, anche se a costruire quella storia è stata una persona abituata a vendere milioni di copie dei suoi romanzi felici nel mondo intero. E no, non è strano o sciocco immaginare un’insegnante di educazione fisica accanto a un’autrice di fama internazionale, perché una sciagura simile livella i talenti e se ne infischia delle predisposizioni e delle identità di partenza. Per me l’ottimismo è finito e nemmeno il senso dell’umorismo ha aiutato granché. Ma forse ha ragione Kinsella… e ha fatto bene a scriversi speranzosa. A immaginarsi ancora, anche quando non ci sarà più niente da raccontare. 

 

È possibile innamorarsi perdutamente di una persona che non riusciremo mai a conoscere davvero e che in maniera sistematica ci nasconderà per tutta la vita informazioni rilevantissime sulla sua identità? C’è un limite fisiologico in quello che possiamo dire di sapere degli altri – “vicini” o lontani che siano: spesso dipende da omissioni deliberate e altrettanto spesso dipende da noi, da quello che capiamo e di cosa ricaviamo dai dati e dai racconti che riceviamo. Ma dove possiamo tracciare un confine d’accettabilità – sempre che tracciare un confine abbia senso? Gli inganni reggono perché scegliamo di farci prendere in giro o perché pensiamo di essere speciali, di essere le uniche persone al mondo che hanno potuto beneficiare del vero volto di qualcuno? O forse è solo una questione di fede o di sottomissione? Prendo quello che vuoi darmi e se vorrai darmi solo le briciole mi accontenterò, perché son bastate quelle tre briciole lì a rivoluzionarmi la vita e a farmi sentire felice.

Catherine Lacey si mette nei panni di una donna che è stata sposata per anni con un enigma all’apparenza insondabile. La X del titolo era una poliedrica artista che, per decenni, ha spaziato dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla fotografia. Una persona famosa, conosciutissima per il suo lavoro, onorata da retrospettive e considerata a pieno titolo una figura di spicco del mondo creativo.
X conquista una prima notorietà grazie a una performance decennale di rara ambizione, Il soggetto umano. In quest’opera tentacolare, che viene esposta in un accumulo di “prove” fotografiche e documentarie, X appare come una collezione di maschere: per quei dieci anni lì ha incarnato identità diverse, travestendosi, scegliendo nomi fittizi e presentandosi “in società” senza mai abbandonare questi personaggi. Le sue identità alternative hanno fatto musica, scritto libri, fondato case editrici, scatenato polveroni, fatto cinema e dipinto, senza lasciar mai intuire che dietro a tutta quella roba si celasse un’unica mente. Anche dopo essere uscita allo scoperto e aver raccolto gli applausi del caso, X non spiega mai le sue motivazioni, la sua vera provenienza, la sua storia. Non lo spiega alla stampa – che glielo chiede con assiduità – e non lo spiega a sua moglie, C. M. Lucca. Sarà proprio Lucca che, dopo la morte improvvisa dell’artista, decide di scrivere questa Biografia di X, un po’ per confutarne una piena di scemenze – per quel che può saperne, in fondo – e un po’ per esorcizzare X, per ricomporne l’immagine e scoprire, finalmente, chi era la donna che tanto ha amato… e che così poco ha condiviso con lei. Anche il loro matrimonio era solo un esperimento? Possiamo forse dire di aver creato una felicità autentica? Ma chi mai ho conosciuto io? Gambe in spalla, proviamo a capirlo, anche se molto male farà.

Lacey è molto abile e anche molto paziente. Il circo che tira in piedi con Biografia di X – tradotto per Sur da Teresa Ciuffoletti – è ambiziosissimo e anche ben congegnato, mi vien da dire.
Ogni volta che in un romanzo c’è un personaggio e se ne racconta la parabola si compila in fin dei conti una biografia immaginaria, ma qua troviamo una sovrapposizione di “filtri” e un’operazione di mimetismo che deforma la storia conosciuta del Novecento per creare una dimensione alternativa. Tanto per cominciare, gli Stati Uniti non esistono… almeno, per come li intendiamo noi. Nel mondo che Lacey immagina per Lucca e X, gli stati del Sud sono riemersi dalla Seconda Guerra Mondiale autodeterminandosi in un Territorio indipendente teocratico e totalitario. A questo Sud oscurantista e repressivo si contrappone un Nord dai valori liberali accentuatissimi e un Ovest che va un po’ per conto suo. I territori non comunicano tra loro – c’è proprio un bel muro a separarli – e si campa in una condizione di tensione perenne.
Il fatto che il paese di Lucca e X sia fatto così ha una profonda rilevanza e anche la scelta di collocare queste vite fittizie – ma riprodotte con la precisione che spetta a personaggi reali – tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta è funzionale alla tenuta del gioco. Sono anni di figure pubbliche mitologiche, anni di costruzione di un’idea di fama e celebrità che va a braccetto con sogni e volontà di riscatto, anni di tumulto creativo e tentativi di teorizzazione dello spazio individuale nella sfera pubblica. Di prese di posizione. Di truffe possibili, perché ancora possibile era far perdere le proprie tracce, cambiare pelle, vestirsi di inganni. Lacey consolida questi sforzi di radicamento in una realtà per noi familiare – ma anche profondamente straniante – costellando la Biografia di Grandi Nomi da far incontrare a X, nelle sue varie emanazioni. Da David Bowie a Carla Lonzi, X sfarfalla qua e là portando scompiglio e moltiplicando le superfici riflettenti e le cortine fumogene di questa storia. Ma c’è dell’altro, perché tantissimi passaggi, dichiarazioni pubbliche di X, dialoghi e testi critici che Lucca riporta come frammenti del “suo” mondo sono in realtà citazioni che Lacey ricava da testi, romanzi, interviste e saggi che esistono nel “nostro”. Non lo dichiara nel testo, se non in un’appendice conclusiva ricca, gustosa e labirintica, separata dal libro di Lucca.

Ma com’è, alla fine? Io l’ho trovato più interessante che “piacevole”, se devo sintetizzare. Lucca documenta la sua ricerca trascrivendo interviste, ripercorrendo la sua relazione con X e riempiendo i periodi di vuoto “informativo” con le parole di testimoni, fantasmi del passato e “vittime” quasi sempre ignare degli inganni di X. Incrocia quello che ha intuito con le prove contenute negli archivi di X, tramutando tutto questo materiale in un ritratto che riesce a ricomporre un puzzle fattuale ma mai a catturare davvero le motivazioni di sua moglie. Certe scelte diventano più chiare e certe congetture meno campate per aria, ma X resta un’anomalia, un pozzo auto-conclusivo di solitudine e mistero. Non tutte le parti dell'”indagine” hanno la medesima incisività, c’è una mastodontica quantità d’incredulità da sospendere – soprattutto perché ci viene chiesto espressamente di aderire all’inganno -, ho odiato X e ho odiato Lucca e nemmeno per un istante ho trovato in X un briciolo di quel fascino ammaliante che il mondo intero pareva attribuirle.
X è un mostro?
O X è diventata un mostro per sopravanzare circostanze mostruose?
Chi siamo noi per assolverla o condannarla?
Che diritto abbiamo di considerare patetica la sua vedova – che la piange e la maledice… ma la ama, anche se di lei ha intravisto solo un frammento?
E quanto senso ha poi associare alla trasparenza, alla sincerità e alla verità esibita e “vissuta” una dimensione di indiscutibile moralità?
L’arte è finzione?
O è mettendo gli altri nelle condizioni di immaginare che si può fare arte?
Quanto si può disperdere e frammentare la propria essenza prima di scordarci chi siamo?
Ed è importante sapere chi siamo o conta di più badare a quello che sentiamo?
Può un amore diventare l’unica verità da proteggere, anche se tutto il resto è un’illusione?
Se lo scoprite, venitemelo a raccontare. Nel mondo di X ci sarà sicuramente posto anche per un saggio critico sulla sua fosca eredità. 

Per individuare la mia scarsissima dimestichezza col giallo non occorre di certo un’indagine. Di indagini – più o meno audionarrate – mi occupo in generale pochissimo e ancor meno mi avventuro nel territorio del true-crime. Un po’ mi fa impressione per quello che succede e un po’ a farmi impressione è l’approccio collettivo alla cronaca nera tramutata in contenuto d’intrattenimento. Insomma, non è il mio… e forse è per quello che ho deciso di leggere due libri “d’indagine” che, nel fingersi totalmente “reali”, costruiscono un impiantone così artificioso da mettermi al riparo da quello che di solito mi infastidisce o poco mi avvince. In parole povere: se Janice Hallett non utilizzasse la struttura che abbiamo incontrato in L’assassino è tra le righe e che ritroviamo in questo secondo malloppone – sempre in libreria per Stile Libero con la traduzione di Gabriella Diverio e Manuela Francescon – mai mi sarei avvicinata. Ma ho un debole per le strutture matte… ed eccoci dunque qua.

Per Il misterioso caso degli angeli di Alperton non dobbiamo più destreggiarci tra carte processuali da revisionare per porre rimedio a un presunto errore giudiziario, ma seguiamo “in diretta” una giornalista/scrittrice nel lavoro investigativo che dovrebbe sfociare in un bel bestsellerone da spiaggia che, diciotto anni dopo i fattacci, ambisce a gettare nuova luce su un caso particolarmente torbido e sconvolgente, che molti punti oscuri conserva.
C’è di mezzo una setta – siamo angeli che devono proteggere il mondo dall’imminente venuta dell’Anticristo! …OK -, un neonato, due giovani plagiati e quello che appare come un suicidio rituale collettivo. Il leader carismatico è già in galera, ma poco o niente si è capito. Il neonato superstite sta per diventare maggiorenne e un’aura di omertà avvolge chi è uscito vivo dal magazzino di Alperton dove si è consumata la carneficina. CORAGGIO, TIRIAMOCI FUORI IL TITOLO DI PUNTA PER UNA NUOVA COLLANA DI TRUE-CRIME!

Amanda Bailey, tenace e sgradevolissima, si mette all’opera sollecitando contatti in polizia, riesumando documentari e opere di fiction spuntate come funghi dopo il caso, intervistando antichi testimoni, importunando assistenti sociali e incrociando elementi e vaghe piste per rintracciare il bambino e i due sopravvissuti. Insieme al caso “puro”, Hallett produce anche un gustoso backstage del lavoro editoriale e, in qualche modo, si arriva in fondo. Non mancano dei buoni colpi di scena e, nel complesso, resta sfizioso leggere trascrizioni di colloqui, messaggi, pagine di copione e mucchi di e-mail. Qui c’è anche una mezza ciavatta sovrannaturale che parte e di certo l’aspetto che ha più solleticato me è il commento – che voglio immaginarmi forse più satirico e pungente di quel che è – sul succulento mercato del true-crime bieco per davvero, ma di miracoli se ne verificano pochi. È farraginoso, insomma.

Caso a parte – che può sembrarci più o meno “soddisfacente” -, la domanda di fondo riguarda proprio l’opportunità etica di riesumare un caso vecchio per spettacolarizzarlo e rinnovarne la redditività. Quella che per un ipotetico pubblico è una storia, un puzzle da rimettere insieme per diletto o un modo per dimostrare la propria arguzia o affermare un successo professionale, per chi ha attraversato in prima persona quelle acqua torbidissime è vita reale, è passato che non si lascia seppellire, è macchia indelebile o brutto ricordo. Che diritto ha Amanda Bailey di specularci su? Dove va tracciato il confine tra sacrosanta ricerca della giustizia e puro opportunismo? Anche quello è un bel mistero… forse l’unico su cui sarebbe davvero interessante riflettere.

Dunque, Keanu Reeves aveva già gettato le fondamenta di questo mondo qua con una serie a fumettiBRZKR. Vorrei potervene parlare ma non l’ho letta e quello che sono in grado di dire è che Unute – il berserker del titolo – è disegnato per evocare una certa somiglianza con Keanu Reeves, anche se non abbiamo la corrispondenza perfetta che si è manifestata con Cyberpunk. Se ci mettiamo dentro pure John Wick – celebre per la sua allergia alla morte e il suo vasto talento per lo sterminio di nemici, amici e semplici passanti – mi viene da pensare che Keanu Reeves gestisca la sua produzione creativa all’interno di un vasto trope a metà tra il funereo e il metafisico. Ne siamo felici? Personalmente sì. Per The Book of Elsewhere si è fatto prestare tutte e due le mani da China Miéville, che del fantastico “letterario” è un nobile esponente e che in libreria mancava ormai da un decennio. Il risultato finale di questo incontro di mortifere ambizioni meditabonde somiglia più a Evangelion che a Kentarō Miura e, pur avendo un respiro piuttosto cinematografico e una base zarra indiscutibile, resta un esperimento cervellotico e misterioso, direi degno della curiosità che ha inevitabilmente suscitato.

Una dadolata di elementi di contesto: c’è questo tizio che non può morire e che è al mondo da circa 80.000 anni. Nato in circostanze quantomeno leggendarie – sei figlio del fulmine! -, vaga ramingo e invulnerabile per il pianeta cercando risposte e seminando occasionalmente distruzione. Legami? Pochi, se escludiamo un maiale particolarmente aggressivo – anzi, un babirussa. Unute accetta di farsi “studiare” e di collaborare con un’unità militare segretissima nella speranza che qualcuno trovi il modo di garantirgli la mortalità. Unute non vuole morire, vuole avere la POSSIBILITÀ di morire. Può sembrare una strana ambizione, ma io non sono una specie di semidio che campa dai tempi del Neolitico, quindi cosa ne posso sapere. E cosa ne sanno Reeves e Miéville? Il giusto, direi.

I libri con personaggi che gestiscono l’eternità o l’immortalità sono quasi sempre ridicoli o, ben che vada, poco appaganti. Ogni volta che il personaggione eterno apre bocca ci aspetteremmo chissà quale rivelazione, ma finiscono spesso per donarci delle cretinate conclamate. O li si ammutolisce – TROPPO INSONDABILE È IL MISTERO CHE MI AMMANTA, ECCOVI UN SILENZIO CHE DOVREBBE FARMI PASSARE PER SAGGIO MA È SOLO UN MALDESTRO ESPEDIENTE! – o li si rende oracolari fino all’ingestibilità – insomma, non si capisce niente – o la si butta dichiaratamente in caciara, trasformando tutti quanti in macchiette e buonanotte. Con Unute, qua, c’è una dignitosa via di mezzo. Aiuta il contesto, che funziona su molti registri diversi, e aiutano i flashback che esplorano diverse epoche e fasi della lungherrima vita di Unute – e aiuta quello che lui sostiene di sapere sul funzionamento della memoria. C’è una trama con indagini, cospirazioni, doppiogiochismi e spazi decenti dedicati alla relazione “umana”. Unute crea frizioni, paura e discordie, perché non controlla quello che fa durante la “trance” e non ricorda cos’ha fatto.
È un mostro?
È una divinità?
È uno scherzo del cosmo?
È unico nel suo genere?
È l’araldo dell’apocalisse o una “semplice” forza della natura?
Va distrutto o va aiutato?
Là fuori potrebbe esserci di peggio?
Chissà! Ma mi farebbe piacere se Reeves e Miéville continuassero a domandarselo – supercazzolandoci magari un po’ meno sul finale.

[Una nota pratica: com’è in inglese? Non proprio una passeggiata di salute – Miéville non può non oracoleggiare e il nucleo complessivo è leggenda o speculazione filosofica. Se non volete affannarvi eccessivamente, forse conviene attendere la traduzione.]

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie con la traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.

Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.



Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.

Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.

Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.

Penso capiti di rado di imbattersi in una voce narrante come quella che Barbara Kingsolver decide di donare a Demon Copperhead, il caparbio protagonista di quest’epopea di disastri premiata col Pulitzer e approdata qui da noi in libreria grazie a Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino – che non invidio e molto ammiro per il coraggio.
Demon condivide con David Copperfield l’ambizioso arco narrativo – sono nato… ed ecco qua tutto quello che mi è successo – e con Rosso Malpelo il colore dei capelli e una specie di bersaglio invisibile dipinto sulla schiena. Demon in miniera non ci arriva, ma la sua contea natia è un centro estrattivo degli Appalachi già avviato al declino, popolato da gente che si arrabatta, griglia anche quello che non si potrebbe grigliare, coltiva tabacco, venera i giocatori di football del liceo e accoglie a braccia aperte il ristoro che le pillole della Purdue Pharma promettono di dispensare.

Demon nasce senza tante cerimonie sul pavimento di una casa mobile, da una diciottenne con già alcuni percorsi di disintossicazione (non molto ben riusciti) alle spalle. L’unico dono che il destino pare tributargli sono dei vicini che diventano una sorta di seconda famiglia. Pure loro sono hillbilly da manuale, ma in confronto a Demon e a sua madre – privi di mezzi, privi di radici, di direzione o di magici piani a lungo termine – sembrano il Rotary Club di Corso Magenta. Demon oscilla tra un’iperconsapevolezza della propria condizione di svantaggio “materiale” e una struggente capacità di assorbimento delle disgrazie. Non solo cerca di cavarsela, ma resta “intero”, anche se chi dovrebbe prendersi cura di lui non si dimostra mai all’altezza della situazione, anzi.

Ricapitolarvi anche solo a grandi linee la sua fosca parabola fatta di povertà, fondi di magazzino di Walmart, pezze al culo, assistenti sociali oberate dalla vastità delle catastrofi da gestire, fame, fornelli luridi, fratelli di sventura e genitori affidatari che si vendono pure i cotton fioc usati al banco dei pegni sarebbe sciocco, perché il punto di vista del piccolo Demon vale il prezzo del biglietto. La Lee County del libro è un posto che asseconda da un bel pezzo la narrazione di disfacimento del Sogno Americano, che qua resta in piedi per riti collettivi e per un’attitudine quasi comica alla venerazione della celebrità – status che in questo contesto di pochissime pretese è raggiungibile anche da quel tuo amico che piscia più lontano di te in mezzo a un bosco. Demon non ha mai potuto beneficiare del lusso dell’ambizione, perché arrivare indenne alla fine di una giornata è già un traguardo sufficiente, ma spicca strano e meraviglioso ovunque lo si piazzi. È piccolo e più che adulto insieme, disegna per sfogarsi e per immaginare supereroi che raddrizzino le storture del suo mondo… ma chi salverà lui?

Che da questa serie di sventure non scaturisca una narrazione dolente e lacrimevole è una specie di miracolo. Credo dipenda da come viene tratteggiato Demon, ma anche dall’intento di esplorare un contesto che ha una presa forte sulla realtà – piaga degli oppioidi venduti come caramelle assolutamente innocue compresa. Demon cresce e la sua voce cambia, creando un certo stacco tra la prima parte del libro – quella dell’infanzia – e la seconda, che è una prova generale di un’età adulta azzoppata dalla carenza di “esempi” virtuosi e da circostanze sistemiche che finiscono per risucchiarlo. La famiglia è un’entità ondivaga, inaffidabile, monca. Per Demon l’idea di “casa” perde senso molto presto, per essere sostituita dalla Lee County in generale, quasi. Ma è proprio quel posto, con le sue storture che affliggono chiunque resti, ad avvelenare ogni possibilità di riscatto. Quello che per noi potrebbe essere percepito come degrado, marginalità o circostanza “estrema” per Demon è ordinaria amministrazione, “prodotto tipico” della contea. Come si fa a salvarsi se l’unico punto di riferimento che si possiede è anche la radice di quello che ci fa più male? La grande sfida di Demon sarà proprio quella. E a ogni istante tiferemo sinceramente per lui. Anche nei momenti peggiori, anche quando ci deluderà o lo vedremo prendere decisioni sciagurate, non smetteremo di volergli bene e di provare a regalargli tutti i pennarelli del mondo.

Per tradurre bisogna essere allo stesso tempo umilissimi e superbi: si lavora con la consapevolezza della fallibilità – e forse anche della fondamentale impossibilità del compito – ma lo si fa come se l’esattezza incontrovertibile fosse una meta plausibile, realistica. Non è mai vero, ovviamente, e forse è per quello che le macchine traducono così male. Un’entità che funziona per esattezze non sa (e speriamo non impari mai davvero) come gestire il grigio. E la traduzione è una gigantesca campitura grigia. Va così perché le lingue non sono una fila di mattoncini immutabili e non sono fatte di parole fossilizzate: le lingue vivono nell’esperienza di chi le parla e di chi le scrive, sono cultura, mito, riferimenti condivisi, radice antica e germoglio imprevedibile. Il ramo che un secolo fa (o ancora prima) è spuntato per darci modo di descrivere qualcosa che prima non esisteva è oggi la matrice di mille altri significati. Si lavora brandendo contesti, mettendoci addosso una voce che non è la nostra, cercando di capire da dove si parte e dove è necessario arrivare: si fa un ponte e lo si percorre portandosi sulle spalle un agglomerato di parole che la traversata è destinata a trasformare.

Perché si traduce? Per rendere fruibile un testo a chi non conosce la lingua d’origine di quel testo.
Perché si traduce *davvero*? Perché le storie meritano di trovare chi ha voglia di leggerle e nessuna barriera ha mai giovato al sapere o alla scoperta.
La tradizione biblica individua nel crollo della torre di Babele l’inizio della discordia tra i popoli, che prima erano in grado di comprendersi senza intermediazioni e senza possibilità di fraintendimento. L’unità dell’umano era un’unità linguistica che annullava le distanze e rendeva possibile il progresso, perché capirsi è costruire insieme. E “Babel”, non a caso, è anche il nome del dipartimento di traduzione di Oxford al centro di questo romanzo di R.F. Kuang – tradotto da Giovanna Scocchera per Mondadori (Oscar Vault) con maestria e sprezzo del pericolo.

Cosa succede?
Kuang decide che i traduttori hanno in mano il mondo. Anzi, che la traduzione è la chiave per il dominio del mondo.
La premessa è la trasformazione di una manchevolezza strutturale – tradurre in maniera perfetta è impossibile – in una risorsa. Le lingue non combaciano mai in maniera totale e assoluta perché i termini possono obbedire a un ventaglio di sfumature, possono descrivere una specifica area culturale che non si riscontra simmetricamente in altri luoghi/tempi, possono riferirsi a tradizioni o trascorsi storici che per forza di cose non sono condivisi da chi appartiene a dimensioni differenti. Tutti quei termini che “non si possono tradurre” vivono in un limbo che, se correttamente esplorato dagli studiosi di Babel, può produrre effetti tangibili sulla realtà – e il monopolio sulle altre civiltà. Il tradimento che si annida in ogni traduzione è un bacino di combinazioni semantiche da incidere su tavolette d’argento – ricchezza vera delle nazioni in questa versione alternativa dell’Inghilterra del 1800 e rotti – che producono una specie di “magia” linguistica. Scegliendo le parole giuste e collocando le tavolette dove si ritiene possano funzionare, insomma, si tengono su ponti, si fanno andare le navi più veloci, si mantengono le carrozze in carreggiata, si riducono guasti ai macchinari, si uccide, si allestiscono impianti d’allarme… si fanno i soldi, sia per Babel che per l’Impero.

Santo cielo, non è già un’idea affascinantissima? Non sto qua a sciorinarvi esempi di applicazione delle tavolette perché è molto gustoso trovarli man mano che si legge e non voglio soffermarmi molto nemmeno sul quartetto di studenti che arrivano a Babel per cominciare i loro prestigiosi studi. Sono dei simboli, anche loro. Una è figlia dell’Impero mentre gli altri tre sono a vario titolo prodotti del dominio coloniale. “Vi salveremo e vi istruiremo – anche se siamo sempre noi ad aver asservito e spremuto la vostra madrepatria -, voi ci riserverete gratitudine e impiegherete a beneficio di Babel e dell’Impero tutto quello che vi insegneremo. Vi disprezziamo e la vostra gente non è civilizzata, ma siete indispensabili alla nostra macchina produttiva”. Perché Robin – che l’unico studioso di lingue asiatiche di Babel strappa dalle braccia della madre morente a Canton -, Ramy – indiano – e Victoire – haitiana – sono così importanti? Perché conoscono lingue non ancora battute da Babel. E una lingua che non è ancora stata setacciata in profondità è un bacino inestimabile di nuove combinazioni. Ma cosa succede quando tre bambini che crescono dovendo ringraziare i loro “benefattori” anche per l’aria che respirano si rendono conto di chi sono? Qual è il vero tradimento: tradurre “male” o rendersi complici di un sistema fondamentalmente predatorio, paternalistico, impari e oppressivo?

Se il tema della traduzione vi affascina, se siete ancora in attesa di una letterina da Hogwarts, se siete in cerca di un sistema magico davvero originale e se i temi legati al colonialismo, alla “legittimità” delle rivoluzioni e all’etica applicata ai sistemi economici e alle relazioni globali vi stanno a cuore, Kuang ha confezionato il romanzo per voi. È una storia stratificata, importante, ricchissima di spunti di discussione. Ci parla da un’epoca parallela, ma arriva al cuore di molte storture di oggi… e ci arriva perché per una manciata di valori fondamentali dell’esistenza non dovrebbero esserci zone grigie. Ci arriva perché la traduzione, quando è al nucleo dell’umano che si rivolge, è capace di ricostruire la Babele perduta.

Una cittadina del Sud degli Stati Uniti viene all’improvviso sconvolta da un evento traumatico: un ragazzo si alza in piedi durante la messa, rovescia una tanica di benzina e la chiesa prende fuoco, uccidendo quasi tutti. Il gesto pare premeditato e non c’è dubbio sul fatto che quell’Iggy fosse un tipo “strano” – almeno secondo gli standard di Harmony – ma a distanza di venticinque anni dall’accaduto nessuno riesce ancora a capacitarsene o a spiegare le ragioni profonde di quel che è successo. E Iggy, che attende in carcere l’iniezione letale e dalla finestrella della sua cella aspetta la fioritura dell’unico albero che può vedere, ripercorre insieme a noi il mistero di un gesto che ha definito la sua vita ma che sembra non essergli mai appartenuto.

Michael Bible condensa le ripercussioni di questo disastro collettivo (e i mille colpi di testa di chi cerca di crescere in un posto che non ha un centro) in questo romanzo breve ma densissimo, a suo modo lirico ed estremamente “vivo”, nonostante il paesaggio privo di appigli e prospettive di futuro. La staticità di Harmony, la tenace impresa di nascondere sotto al tappeto quel che trascende la norma o increspa la superficie impenetrabile dell’accettabilità, è uno specchio che deforma anche i luoghi più sicuri. Iggy trova rifugio dove può e fin dove le persone che ama glielo consentono, ma si scappa fin quando le gambe reggono e fin quando si può immaginare una meta alternativa, che non sempre c’è. Chi vuoi che ti ascolti, quando nemmeno tu sai spiegarti perché tutto ti respinge?

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra si legge con rapidità ma sedimenta con calma, perché molte desolazioni si riempiono agitandosi qua e là sperando di imbattersi in un posto dove fare il nido o in qualcuno che “veda”, senza volerci necessariamente aggiustare, convertire, placare. La voce di Bible – nella resa bellissima di Martina Testa per Adelphi – sembra antica anche se parla di stazioni di servizio, robaccia che si beve, secondini che vengono a chiederti cosa vuoi mangiare per l’ultima volta. Iggy resterà un enigma, ma vi sembrerà un essere umano che ha cercato molto senza trovare assolutamente niente.

In città si crepa di caldo, in campagna anche… ma almeno ci si augura che il cambio di scenario aiuti la creatività a fluire un po’ meglio. I dipendenti di Bomba Agency si riuniscono prima della chiusura ufficiale delle ostilità e dei “ci pensiamo a settembre” per mettere insieme una proposta di gara. Non conosciamo il cliente, non sappiamo che cosa vada in concreto inventato, ma in fondo non è necessario. Le gare sono tutte uguali e sono anche il simbolo perfetto di come gira il mondo: si lavora in uno scenario incerto con la speranza che quel lavoro lì produca in futuro altro lavoro, ma lievemente più solido. Nel frattempo gli orari si allungano, i confini tra vita professionale e vita privata si sfumano, tutto è urgente, fondamentale e indispensabile… ma non stiamo mica salvando vite umane, non scordiamocelo. Ironia, mi raccomando! Una birretta?

La casa di campagna che fa da sfondo vivo e presentissimo a Estate caldissima di Gabriella Dal Lago – in libreria per 66thand2nd – accoglierà per una settimana di lavoro e stretta convivenza i sette componenti di Bomba, più una gatta e un bambino di otto anni. È figlio di Gian, il padrone della casa e pure dell’agenzia – anche se quasi si vergogna a farsi trattare da capo – e della sua ex compagna. La compagna attuale è una collega che, prima ancora, era stata una sua studentessa. Le relazioni degli altri (e con gli altri) si sveleranno man mano, mentre si suda copiosamente, si prova a mettere insieme qualcosa di dignitoso da presentare all’ipotetico cliente e ci si rimbalza addosso con diversi gradi di intensità. La casa accoglie e nasconde, forse perché conosce già il futuro e sa rassegnarsi alla rovina. Non piove da un’eternità… ma pioverà e nessuno sarà pronto.

Di millennial impantanati e prigionieri delle proprie contraddizioni si sta cominciando a narrare con buona lena, di solito raccontandoli in preda a una rassegnazione statica o, a volte, facendoli proprio rinunciare a partecipare. Son strade reali, ma ce ne sono altre. Dal Lago non affligge ogni suo personaggio col medesimo dilemma “generazionale”, anzi, dosa il pesante e il leggero con occhio e sensibilità. Alcuni sono alle prese con delusioni senza tempo, altri si scoprono più flessibili del previsto, una vuol salvare l’universo intero ma è indifferente a chi le sta a un metro, un’altra sa che non avrà mai il coraggio di scappare. È una confusione ben orchestrata e soprattutto “attiva”, ci si scorge una forma di resistenza e un margine di manovra ancora accessibile. E probabilmente è questo che rende amara sul serio la sorte di Bomba.

La casa potrebbe essere l’ultimo rifugio prima di una catastrofe, ma si dimostra un crocevia decisivo che nessuno riconosce. E i disastri più grandi di noi – che arriviamo col nostro valigino di panni sporchi, dilemmi, compromessi e programmi a brevissimo termine da portare avanti con le persone che accettiamo come inevitabili – guadagnano terreno, si addensano all’orizzonte e si preparano a spazzare via quello che conosciamo… e che non siamo stati capaci di aggiustare. Come fai a salvare TUTTO, quando ti tieni a malapena a galla e ti è stato insegnato che conta far vincere un IO che restringe ogni confine? Come si fa a sentirsi abbastanza “potenti”, se non ci fidiamo nemmeno di noi stessi? Meglio lasciarsi dimenticare o imparare a vivere “nel mezzo”, perché il passato ci sconfigge per definizione e il futuro va costruito… ma i progetti li abbiamo persi.