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Ma noi, di preciso, che cosa ci facciamo qua [“qua” = uno qualsiasi dei tanti spazi digitali che frequentiamo]? Cosa cerchiamo? Come ci percepiamo – AKA ci sentiamo più “pubblico” o più “produttori” di contenuti? E ha ancora senso fare questa distinzione, segmentando magari anche i nostri consumi per cluster anagrafici? Il “nuovo” è in realtà solo roba vecchia che riappare in un posto diverso, teoricamente incontaminato? Ci siamo già inventati tutto l’inventabile? Quanto costa l’intrattenimento, sia in termini monetari che di libertà personale? Quali sono i nuovi cicli di vita della fama – ed è legittimo pensare che sia diventata molto più effimera e distruttiva? Cosa mai potrà saperne un algoritmo di quello che ci piace davvero? Perché dovrei guardare della gente che dorme? Perché dovrei investire i miei soldi per svegliare con violenza una persona che dorme? Da dove arriva questo assoluto timore del vuoto? “Io? Non lo farei mai. Ma nemmeno per tutto l’oro del mondo, guarda!”… e se te lo offrissero, tutto l’oro del mondo?

Animato da un interesse antropologico che a tratti lascia trasparire un “vi prego, fatemi scendere”, in Sei vecchio – in libreria per Nottetempo – Vincenzo Marino mappa alcuni fenomeni salienti del nostro abitare i posti digitali che abitiamo (con crescente vena polemica, sconfinati divertimenti, varie sindromi di Stoccolma, fatica e tragicomica rassegnazione) concentrandosi in maniera prevalente sull’ultima generazione entrata nei radar del sentire globale – a me questa cosa delle generazioni solletica sempre molto, anche perché cominciamo a occuparci ossessivamente di un dato segmento quando raggiunge un valore economico (cioè quando ha dei soldi, magari anche pochissimi, da spendere).
Insomma, che fa online la Generazione Z? Noialtri più “grandi” siamo finalmente ascrivibili tra i vecchi e possiamo cedere alle nuove leve l’ambito ruolo di cavie da laboratorio da dissezionare? Siamo autorizzati a partecipare anche ai fenomeni che anagraficamente non dovrebbero competerci più o che non sono nati per soddisfare il nostro “target”?

Dagli streamer che passano in diretta giorni e giorni al pubblico che paga per aggiungere minutaggio a queste maratone, dal terrore dell’irrilevanza a un’onnipresenza svuotata di motivazione o messaggio, dai salumieri napoletani ai profili selfhelpistici che inneggiano al successo duramente conquistato con una gagliarda forza di volontà – o all’ossessione per l’esteriorità mascherata da cura maniacale per il proprio benessere interiore -, Marino ci offre una carrellata di istantanee significative delle tendenze emergenti dei mondi digitali, dissolvendo il confine tra utenti attivi e passivi e tra evento “biografico” e potenziale contenuto.
È una panoramica che credo assolva più efficacemente al compito di dirci quel che c’è, più che scavare nei perché o nel cercare di immaginare una traiettoria futura. Se ne esce frastornati, legittimamente instupiditi dal rumore di fondo generato dall’immane accumulazione di stimoli e disperata ricerca di un guizzo di stupore, che molto spesso si manifesta sconfinando nella narrazione iperbolica del banale o in una volontaria trasformazione dell’identità in un mosaico di momenti vendibili, “creativamente” spendibili, perennemente pubblici.

Nulla di quello che ho letto ha suscitato in me il minimo AH SIGNORA MIA I GIOVANI D’OGGI, anzi. Mi sto rendendo conto che ci sono storture e fatiche trasversali, cicli di vita “personaggeschi” e dinamiche di  assimilazione del nuovo che si reiterano con caparbia uniformità in ogni mondo digitale, confermandosi per frequenza e prevedibilità di svolgimento pezzi dello scheletro vero di questo gigantesco golem multipiattaforma verso cui gravitiamo e che tanto del nostro tempo assorbe e da cui ricaviamo soddisfazioni altalenanti. Forse è per quello che insistiamo e perseveriamo: abbiamo bisogno di una dimensione potenziale, vogliamo convincerci che esista qualcosa di incredibile, vogliamo smentire il medesimo “ho visto già tutto” che soffoca la meraviglia sul nascere. Vogliamo credere che, da qualche parte, l’irrilevanza quotidiana delle nostre azioni minime – l’unica variabile che ci accomuna davvero – nasconda un miracolo e che, là fuori, ci sia qualcuno che non solo l’ha scoperto ma l’ha anche monetizzato.

[Se il tema vi intriga, forse vi verrà voglia di fare quello che ho fatto anch’io: mi sono iscritta a zio, la newsletter di Marino che prosegue (anzi, precede) il lavoro su questo libro.]

Che di “storytelling” si cianci in ogni dove (prevalentemente a vanvera) è ormai assodato, penso, ma la cialtroneria in cui ci imbattiamo qua e là non fagocita la rilevanza che le storie e le narrazioni hanno sempre avuto per la nostra specie. Le “storie”, esordisce Jonathan Gottschall in Il lato oscuro delle storie – tradotto da Giuliana Olivero per Bollati Boringhieri –, hanno rappresentato per gli esseri umani di ogni epoca (dalle pitture rupestri alle piattaforme di streaming) un collante identitario, un veicolo di trasmissione valoriale, un mezzo per elaborare accadimenti complessi e un punto di riferimento culturale attorno a cui raccoglierci. Il fatto che la creazione e la diffusione di storie ci riesca così “naturale”, però, è una variabile necessariamente positiva?

Il nostro presente è narrativente lussureggiante. Come mai prima, forse, le storie ci circondano e, per certi versi, ci assediano. Ci sono fonti narrative a cui ci esponiamo per scelta e altre in cui incappiamo per ragioni “ambientali” e per l’accrescimento esponenziale delle opportunità di diffusione. È anche un momento storico in cui, accanto a possibilità senza precedenti di “esattezza” scientifica, convivono con rigoglio menzogne e distorsioni che sembrano sfidare il buonsenso e le evidenze fattuali. Le storie sono strumenti: possono fungere da collante culturale o da felice fonte di intrattenimento, ma possono anche incanalare la potenza con cui fisiologicamente fanno presa su di noi per perseguire scopi assai meno benevoli. Dalla diffamazione al complottismo, dalle fake news al marketing, la realtà si trasforma in un teatro perenne in cui ci ritroviamo – quasi sempre inconsciamente – a cercare buoni da contrapporre ai cattivi, eroi in viaggio, giustizia per i meritevoli e castighi per i non allineati. Che queste leve – capaci di fondere l’emotività a un’idea di morale comune – possano anche essere azionate per demolire un’idea scomoda o per destabilizzarci è un rischio che si è già concretizzato.

MA ALLORA È TUTTO ORRIBILE E BIECO! No, in realtà. Polarizzare ci aiuta a semplificare e a creare scorciatoie per governare questo “troppo” in cui dobbiamo muoverci, ma ci rende comparse spesso passive, altri pezzetti di una storia mastodontica che non ascoltiamo più per capirci vicendevolmente un po’ meglio ma solo per confermare quello che pensiamo già di sapere.
Da Platone alle elezioni USA, Gottschall tenta prima di tutto di farci prendere coscienza del ruolo fondamentale delle narrazioni e – con una certa inconcludenza, devo ammettere -, prepara il terreno per l’avvento di un’era narrativo-informativa dove gli archetipi del bene e del male non sono coltelli da lanciare ma bussole di nuovo “valide”.

Che diamine è il “soft power”? Il concetto è stato coniato nel 1990 da Nye – politologo americano – per definire l’uso dell’arte e dei valori culturali come leva di potere a livello geopolitico. L’Atlante della cultura di Antoine Pecqueur, in trenta capitoli o casi di studio tematici, esplora i meccanismi relazionali, politici, comunicativi ed economici che compongono il grande ingranaggio dei nuovi rapporti di forza mondiali, evidenziando come la cultura – nelle sue molteplici espressioni – si sia affermata come uno dei pezzi più importanti della scacchiera, nonostante spesso rifugga le metriche numeriche “oggettive”.

C’è di tutto. Dal k-pop che si quota in borsa alle fondazioni patrocinate dalla birra Carlsberg, dal modello filantropico americano all’ascesa del cinema Nigeriano. E c’è anche uno sforzo di allontanamento dalla prospettiva eurocentrica (o dal punto di vista strettamente occidentale) per mappare in maniera omogenea quel che sta capitando in tutti i continenti. Visto il tema e lo scopo di fondo – portare a galla le “prove” del peso globale dell’arte – mi pare pure normale, ma dati i bias prospettici che resistono mi garba comunque evidenziarlo.
Aggiungerei anche che il libro è molto “fresco” – l’edizione francese è del 2020 – e basato su dati e ricerche recenti. È anche sostenuto da un’esposizione chiara e sintetica, per quanto sfaccettatissima per distribuzione geografica e fenomeni analizzati. Come ogni degno atlante, poi, non lesina su mappe, infografiche e schemi.

Insomma, è un testo eclettico per aggiornarsi sui movimenti culturali più “caldi” a livello mondiale e per consolidare una visione di ampio respiro – per quanto condensata – sul settore culturale. Sarà per deformazione universitaria, ma è bello ritrovare qui una riflessione sfaccettata sulle implicazioni economiche – chi finanzia la cultura? Cosa cambia se ci pensa di più lo stato o se ci pensano di più i privati? […] – e comunicative che ogni “azione” culturale produce.
La cultura non è mai stata una forza neutra: nelle epoche più disparate se ne sono serviti monarchi assoluti, capitalisti più o meno sinceramente filantropi e dittature bisognose di una solida propaganda. Saper dare un nome a questa grande mano invisibile – che spesso regge un pennello o scosta un sipario – e saper stabilire collegamenti strategici con la nostra comune attualità è un esercizio affascinante, uno slancio di utile consapevolezza.