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Esordirei ribadendo il mio assoluto plauso per l’ultima uscita pubblica di Wolverine – che doveva essere anche la sua gloriosa uscita di scena… ma poi OPPALALÀ IL MULTIVERSO! Logan è un film talmente riuscito e mirabile che, in un contesto completamente metanarrativo come quello di Deadpool, diventa un pezzo della trama… anzi, una premessa “fondante”, capace di sgretolare addirittura una linea temporale.
Ciò detto, che accade?
Non ve lo spiattello con dovizia di dettagli per non produrre spoiler, ma facciamoci bastare questo: Deadpool pare ormai condurre una vita “normale”, ma la grigiastra routine viene ben presto sconvolta da un Prestigioso Incarico che si rivela all’istante una Gran Fregatura. Deadpool va dunque in cerca di un Wolverine – fra i tanti disponibili nelle linee temporali e nelle dimensioni alternative – da “usare” per salvare il suo mondo e per aiutarlo a diventare, finalmente, un eroe degno dei nobilissimi Avengers.

Il fatto che ci sia la TVA “operativa” e che ci sia ancora la Sacred Timeline da tenere in piedi aggiunge spasso e un utilizzo creativo delle varianti dei personaggi – con risultati INCREDIBILI. Credo sia la prima volta (dopo un Loki Coccodrillo) in cui ho pensato che l’introduzione del multiverso non fosse l’anticamera dell’inferno ma qualcosa che può mettersi al servizio del divertimento dello spettatore, senza ridursi a un mero espediente per impalcare trame improbabili o allungare il brodo.
E da cosa dipende? Dal tono.
L’umorismo greve di Deadpool è una cifra stilistica marcata e non posso dire di trovarlo particolarmente geniale, ma al di là delle battute sulle chiappe e dei doppi sensi da spogliatoio, la roba che mi fa divertire davvero è la quarta parete che va a farsi benedire. E un espediente che può risultare furbetto o diventare bellissimo: qua è come avere un personaggio che commenta quello che succede come se fosse parte della stessa fandom che guarda il film al cinema e che conosce le vicissitudini produttive delle saghe. E funziona.

Se nel multiverso vale tutto – e quindi niente ha più quell’aura di irreparabilità che ti fa credere fermamente che quello che stai guardando è significativo, serio e importantissimo -, il multiverso trattato come il paradosso matto che è diventa un gioco favoloso e “credi” ai personaggi perché sembrano al corrente del “tuo” mondo. Anche loro vengono da lì e lo sanno… e vogliono regalarti un bello spettacolo.

Ci sono camei EPICI, pernacchie continue alla Fox, una colonna sonora ragguardevole e combattimenti coreografati con la follia che solo due personaggi tecnicamente immortali possono reggere. È come guardare i blooper di 35 film di supereroi frullati insieme… e l’esagerazione è talmente iperbolica e sfacciata che tutto quanto trova un suo equilibrio e ti tira dentro. Una gioia? Una gioia.

Con i soldi – quando ci sono – si possono comprare le cose più disparate e di certo anche i libri. Ecco, un po’ dei miei soldi li avevo usati per comprarmi la versione di carta di Storia dei miei soldi – uscito per Bompiani e arrivato a più che buon punto nel percorso accidentato del Premio Strega 2024 –, ma poi mi sono accorta che il medesimo libro lo leggeva l’autrice su Storytel e ho deciso di ascoltarlo, perché ho un debole per chi scrive e poi ci legge la roba sua.
I miei trascorsi con Melissa Panarello risalgono a quando il cognome era ridotto a una P puntata, ma poi l’ho persa. Gli enormi casi letterari – categoria in cui il suo esordio rientrava con veemenza – producono eredità quasi sempre ingestibili e su quelli è raro che ci si possa basare per capire come andranno gli eventuali libri successivi.
Mi è piaciuto molto ritrovare Melissa Panarello qui e, di fatto, conoscerla da capo, con questa pelle nuova pronta a contenere un esperimento che riesce a essere “meta” e profondamente disarmante insieme. Che c’è al centro? I soldi. E quello che ci fanno.

Cosa succede? Una scrittrice incontra per caso per strada l’attrice che una quindicina d’anni prima aveva interpretato il personaggio “scandaloso” del suo libro d’esordio, bestseller lettissimo e chiacchieratissimo. Sia la carriera di Clara T. che della nostra autrice sembrano aver seguito parabole di “contrazione” della fama ipertrofica degli inizi ma, se la scrittrice ha continuato a lavorare e si è costruita una famiglia felice e “regolare”, di Clara T. si sono completamente perse le tracce.
Dopo essere state a lungo la stessa persona – almeno nella percezione del pubblico, all’interno dei meccanismi della finzione letterario/cinematografica -, Clara T. e l’autrice navigano in acque completamente diverse: lo specchio, da qualche parte nel passato, è andato in pezzi e a pagarne il prezzo più salato pare essere stata Clara T. Non avendola mai davvero conosciuta, la scrittrice decide di avvicinarsi e di raccogliere le sue confidenze, compilando una cronaca di prima mano della disgregazione di quella donna a cui sente di essere legata ma dal cui evidente caos si sente anche un po’ respinta.

Quello che risulta immediatamente spiazzante è che Clara T. chieda 10€ alla scrittrice, subito e senza convenevoli o senza vergogne. Una che ha fatto qualche film importante e ha preso fior di milioni per diventare il volto di cosmetici, vestiti, agende e prodotti di largo consumo assortiti non può venirmi a chiedere 10€ o, ancor peggio, farmi capire con questo candore spudorato e naturalissimo, di aver finito i soldi.
I tempi in cui la povertá poteva beneficiare di un qualche tipo di romantica indulgenza sono più che terminati e poche altre circostanze umane ci disarmano, ci fanno paura, ci tirano fuori orrori e demoliscono i teatrini della buona creanza. Cosa è successo a Clara T.? Che fine hanno fatto i suoi soldi? Che persona era prima e chi è adesso? Perché ha così voglia di mettere in mano a una scrittrice – che le ha tecnicamente spalancato le porte del benessere ma che non può certo dire di conoscere – i suoi pietosi estratti conto? Cosa c’è da vergognarsi nell’”aver bisogno”? Parlare di soldi è più sconveniente che scrivere un libro sulle avventure erotiche di una ragazzina? E come è possibile che quella ragazzina si sia trasformata in Clara T. che ti chiede 10€?

Intrecciando il presente di quest’incontro fatidico al passato di Clara – che si srotola come uno di quegli “scontrinoni” eterni che uscivano dalle calcolatrici -, Panarello gioca con i fondamentali dell’identità e gestisce abilmente tutte le sue maschere. Racconta, soprattutto, una storia che sorpassa con intelligenza le circostanze particolari di fama/ricchezza per parlare di come quello che abbiamo in tasca (poco o tanto che sia) tende a modificarci e a deformare il nostro rapporto con gli altri, anche quando sembrano esserci in ballo sentimenti profondi, vasta fiducia, futuri promettenti. Se ne esce a passi incerti, perché il mondo che Clara T. ci mostra non ha niente di solido o rassicurante… e forse non vogliamo nemmeno vederlo, come non vogliamo vedere la povertà “vera” e preferiamo tendenzialmente trasformarla in colpa: da qua sei venuta, Clara T., e da qua (forse) non ti abbiamo mai permesso di allontanarti. Ben ti sta, non ci dovevi sperare. Ben ti sta, per non aver mai davvero considerato i soldi l’unico fine, l’unico motore del mondo. Ben ti sta, perché ti sei rifiutata di diventare come noi.

[Come da tradizione quando tiro in ballo Storytel, ecco il link per la prova gratuita “prolungata” di un mese.]

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

Cinema! Sogni! L’età d’oro di Hollywood! Cellulosa! Divi! Dive! E Lucia Wade, sceneggiatrice. Insieme al marito Vincent – istrionico regista e assiduo sollevatore di bicchieri – forma una promettente coppia creativa. Lì per lì innamoratissimi, affiatati e pieni di idee, i coniugi Wade si fanno in quattro per racimolare i finanziamenti per il loro debutto sul grande schermo e, tra mille rogne e soluzioni creative, approdano ai tanto agognati successi. Si fanno un nome, si trasformano in acclamati autori e li troviamo pure candidati all’Oscar. Lui, vulcanico e umorale, si gode il prestigio riservato ai registi emergenti mentre Lucia macina pagine alla macchina da scrivere, senza badare troppo al ruolo evidentemente defilato che Vincent tende ad accordarle. È sicura del suo amore e farebbe di tutto per sostenerlo, anche se i rospi da ingoiare non sono pochi, i soldi scarseggiano sempre e l’ambizione (spesso frustrata) scava solchi di non facile gestione. Tutti quanti – Lucia compresa – sono convinti di vivere un Grande Amore Speciale, superiore alle tribolazioni e alle meschinità che distruggono i legami degli altri, ma scopriremo all’istante che nemmeno i Wade sono fatti per durare.
Chi siamo diventati?
Dov’è la persona che ho conosciuto?
Chi ho amato io è mai esistito?
Ne vale la pena?
Lucia si rifiuta di trasformarsi nel cliché della moglie abbandonata e affranta che tanto detesta scrivere e si aggrappa all’unica certezza che ha – che è proprio la scrittura, incidentalmente. Con o senza Vincent, lei è una sceneggiatrice. Brava, pure. Avrà vita facile fra produttori, studios, agenti e agghiaccianti consulenti con le competenze di nostro cugino chiamati a rivedere le sue pagine? Certo che no. A Hollywood o fai l’attrice o fai la segretaria… di sceneggiatrici in giro ce ne sono poche. E quelle quattro gatte già sembrano troppe…

Lucia Wade è Eleanor Perry e Pagine azzurre è una versione romanzata della sua vita e delle sue peripezie sentimental-lavorative. Uscito nel ‘79 negli Stati Uniti, il libro spunta qua da noi per la prima volta per SUR nella traduzione di Marco Rossari – che riesce a preservare mi pare assai bene il taglio da commedia brillante e a mantenere scoppiettanti e caustici i dialoghi.
La struttura non è lineare ma procede per balzi temporali e “scene”, come in un buon copione che non abusa dell’esposizione o dello spiegone trito. Lucia e Vincent ci appaiono a diversi gradi di deterioramento, anche se l’ossatura principale è fatta dal presente di Lucia, tra lavori frustranti, rivendicazioni di competenza che cadono tendenzialmente nel vuoto e relazioni con emeriti imbecilli. Il passato è fulgido e miserabile insieme, pieno di segnali che solo il senno di poi fa risultare ovvi. Lucia è disillusa ma battagliera, stufa marcia ma abbastanza scafata da godersi gli episodi più grotteschi che le capitano come uno spettacolo. Questo libro è uno sberleffo e una rivincita, il ritratto di un’epoca e di un settore specifico – molto meno favoloso di quanto vorrebbe la leggenda.
Ci son signore che hanno preso più di un pesce in faccia, risparmiandone forse qualcuno a noi, signore del futuro. La rete è ancora piena, ma Perry – facendoci ridere e schiumare di rabbia – è una voce degnissima di essere ancora ascoltata.

Appunto sparso: c’è pure Capote. Ovviamente camuffato. Ma si vola altissimo lo stesso.

Allora, il libro “fonte” che Christopher Nolan ha usato per Oppenheimer è quello di Kai Bird e Martin J. Sherwin – in italiano è uscito per Garzanti. Io non l’ho letto e questo vuole essere un cenno puramente informativo. Se il tema vi intriga, però, La brigata dei bastardi è un suggerimento collaudatissimo e di sorprendente godibilità. E no, non parla solo di Oppenheimer.

Sam Kean scrive di scienza e di contese scientifiche col piglio di un avventuriero e con il godimento palpabile di chi adora un argomento e vuol renderlo fruibile anche a me che non ho mai preso più di 3 in una verifica di fisica.
La brigata dei bastardi – pubblicato da Adelphi con la traduzione di Luigi Civalleri è un librone molto ambizioso e intricato – sia per complessità del tema che per sterminata ricchezza delle fonti – che spazza via col piglio deciso ogni sospetto di noia o pedanteria. Di che parla? Della corsa alla bomba atomica e del perché gli Alleati ci siano “arrivati” prima, nonostante la Germania avesse inaugurato il suo programma con un paio d’anni buoni di vantaggio. Partendo dalla ricerca sull’atomo e dalla sequenza di scoperte strabilianti dell’era pre-bellica, Kean posiziona sulla scacchiera premi Nobel, generali, spie e guastatori per raccontarci un tassello decisivo della Seconda Guerra Mondiale e, nemmeno troppo incidentalmente, la perdita dell’innocenza della scienza.

Non vi tedierò con del name-dropping che risulterebbe molto più prolisso e meno interessante di come se la cava Kean nella descrizione dei personaggi chiave – fenomenali, anche i più biechi – e non vi tedierò neanche col bigino del testa a testa tra Club dell’Uranio e Progetto Manhattan, ma spero vi basterà sapere che qua dentro troverete la degna cronaca di un’impresa umana di rara complessità, sia per l’estrema difficoltà “concettuale” ma anche per l’abisso etico che ha spalancato. Mai forse nella storia tante menti eccelse, tanti soldi e tanti sforzi produttivi si sono coagulati attorno a un unico obiettivo. Quel che ne è uscito è un terrore fuori scala e un atto inventivo che ha cambiato per sempre il nostro modo di intendere i conflitti, il potere, la civiltà, la responsabilità e il mondo intero.


Un altro paio di spunti?
La storia della bomba atomica in versione graphic-novel – con un approccio che non mi è parso troppo dissimile da quello di Kean: La bomba di Alcante, Bollée e Rodier, uscito per l’Ippocampo.
E un romanzo corale che racconta il progetto Manhattan dal punto di vista delle consorti degli scienziati impegnati nelle ricerche in New Mexico: Le mogli di Los Alamos di Tarashea Nesbit.

 

A me i Guardiani sono sempre piaciuti molto. Spesso vengono percepiti come il pilastro un po’ cialtrone e di poca conseguenza dell’universo Marvel e, per quanto altrettanto spesso siano stati utilizzati a fini “funzionali” per direzionare la storia complessiva – penso a Quill che sfasa mandando a monte il primo buon piano per far fuori Thanos o a Gamora barattata per una gemma – per me hanno tenuto affettuosamente alta la bandiera degli eroi che non nascono nobili e saldi ma costruiscono, scegliendo, un cammino che di fatto lo è, perché va resa giustizia non tanto al BENE come concetto astratto ma al bene come legame, come riconoscimento reciproco, come idea di famiglia.
I Guardiani sono forse gli esponenti più speranzosi della mitologia Marvel. Si potrebbe dire che la loro è una storia di riscatto, che “migliorano” il loro termometrino etico votandosi a cause che influenzeranno le sorti dell’universo, ma la realtà è che non rispondono mai alle aspettative o agli scopi delle loro singole “progettazioni” e, nello scegliersi reciprocamente come porto sicuro, cambiano le cose e proteggono, tra alti e bassi, alcuni mattoni molto auspicabili su cui si dovrebbero edificare mondi e collettività.

Anche in questo Volume 3 – che è l’ultimo dell’era Gunn e anche il loro teorico capitolo conclusivo – esiste con forza questo impulso programmatico alla costruzione del “mondo ideale”. La storia di Rocket, che vien fuori qua per la prima volta, è un tassello di questa grande operazione di supposta correzione dei deficit della natura.
Che si tratti di una sonora stupidaggine è palese a tutti ma non all’Alto Evoluzionario – il villain che ci tocca in sorte a questo giro – che, di fatto, si trasforma nella forma di Dio più pericolosa che c’è: crea o modifica l’esistente per amore di potere, crea per controllare e per dimostrare che può farlo, crea perché la scienza e la “tecnica” lo rendono possibile. Ma tutto quello che è possibile è anche opportuno? L’Alto Evoluzionario è una figura orrenda e a suo modo struggente, che fonda civiltà e le distrugge con la stizza di un bambino che sbaglia a disegnare la zampa del suo animale preferito e, fra gli esseri che più professano di voler edificare la civiltà ideale, è senz’altro quello che più disprezza in realtà la vita. Rocket, che è il cuore vero di questo film, è al contempo il suo unico successo autentico e il suo incubo peggiore, proprio perché quello che rende speciale Rocket non è il risultato diretto di un procedimento ripetibile o di una formula dimostrabile. Mentre la tendenza esasperata verso il potenziamento delle “capacità” e dell’efficienza operativa crea esecutori di fatto stupidi, Rocket pensa davvero… e l’intelligenza – intesa come spazio di un’anima che decide – è il primo germoglio di ogni ribellione.

Il cervello di Rocket potrebbe contenere la risposta per correggere davvero gli innumerevoli fallimenti di questo Dio zoppo e isterico e il film, di fatto, è una caccia al tesoro galattica che ha lo scopo di evitare che questo cervello abbandoni la sua sede. I Guardiani, nel loro disomogeneo equilibrio, fanno quello che all’Alto Evoluzionario è concettualmente precluso: far funzionare quello che si suppone manchevole, carente, imperfetto. Smettere di distinguere tra forme di vita “superiori” e “inferiori”, perché la verità lampante è che l’anima è di tutti e che ogni tassello dell’esistente ha una dignità e va protetto, non per quello che può produrre o per l’obbedienza che può riservarci, ma per quello che è.

“Regala un libro che non sbagli mai”: MADORNALE ERRORE, TRAGEDIA, MENZOGNA!
Donare un libro è potenzialmente meraviglioso, ma bisogna metterci del doveroso impegno e lasciarsi pervadere dalla nobile necessità di assecondare – o almeno di intuire – gli interessi altrui. È anche un po’ per favorire questa sana ricerca di argomenti e aree di curiosità che, specialmente a Natale, tendo a procedere per temi ben riconoscibili. Quando si può, provo anche a individuare delle edizioni “importanti”, perché mi preme farvi fare doppiamente bella figura. Ma guarda, questo libro è perfetto per me ed è pure MAGNIFICO a vedersi! Ecco, non sempre si arriverà a quest’intersezione eccellente tra contenuto e involucro – che poi è anche un po’ la definizione condivisa di “strenna” – ma vale la pena tentare.
Altre note metodologiche? Non necessariamente troverete solo novità freschissime – perché i libri, per nostra fortuna, non scadono. Sì, i link puntano ad Amazon – ma se non vi va di comprare lì e di convogliare ESORBITANTI % di affiliazione nella mia direzione potete felicemente segnare tutto e rivolgervi alla vostra libreria preferita.

Procediamo?
Procediamo, che queste premesse non ha mai voglia nessuno di leggerle.


Giampaolo Barosso
Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa

Elliot

Gramolazzo! Caccugnare! Lampasco! E suppergiù altre 2000 voci qui collezionate, spiegate e commentate con sagace ironia e un autentico gusto per la stravaganza linguistica.
Per chi coltiva una vivace passione per la lingua italiana ma – grazie al cielo – è immune da pretenziosità e parrucconerie.


Jenny Uglow
Il libro di Quentin Blake
L’ippocampo
(Traduzione di Paolo Bassotti)

Uno splendido compendio per immagini della carriera e della vita professionale (e non) di uno degli illustratori più amati della galassia tutta, dagli esordi al sodalizio leggendario con Roald Dahl.
Per chi ha voglia di curiosare nell’archivio di un artista che ha profondamente popolato il nostro immaginario, accompagnando le storie della nostra infanzia con estro e accuratissima crudeltà. 🙂


James Mottram
Jurassic Park – The Ultimate Visual History
Insight

Inaugurata nel 1993 da Spielberg – su materiale romanzesco di Michael Crichton – la saga di Jurassic Park ci ha accompagnato in varie vesti fino a pochi mesi fa, con il terzo e ultimo capitolo dell’inevitabile reboot che tocca a tutti i prodotti di successo delle nostre infanzie. Questo volume – che fa parte del catalogo favolosamente pop di Insight – è una gloriosa cronaca del backstage del primo film e chiude simbolicamente il cerchio ospitando anche i contributi di Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum, oltre a una valanga di fotografie inedite e “documenti” di lavorazione.
Per chi ama i libroni dedicati al cinema e continua a non accettare i dinosauri con le piume. Sì, vi sto specificamente segnalando l’edizione originale in inglese.


Omero
Odissea
Blackie Edizioni
(Traduzione di Daniel Russo)

Blackie inaugura con questa prima illustrissima uscita il suo filone dei “Classici Liberati” AKA un progetto che ambisce a conciliare rigore filologico e accessibilità, riconsegnandoci i testi fondanti della nostra cultura in una chiave ad alto tasso di godibilità, senza sminuirne la profondità o semplificarne la portata. Come si fa? Ottima domanda. Blackie si affida qui alla traduzione di Daniel Russo, basata sulla versione in prosa di Samuel Butler – celeberrima per la sua eleganza e leggibilità – e a un impianto iconografico giocoso e puntuale, senza tralasciare annotazioni e commento.
Per chi a scuola ha sofferto ma vuole rifarsi, per chi già ama i classici e vuole continuare coltivarli.

Bonus track: Daniel Russo che parla del lavoro sull’Odissea chez Tienimi Bordone.
Bonus track inevitabile, visto che parliamo di Blackie: il famigerato (e regalabilissimo) quaderno dei compiti delle vacanze per adulti c’è anche quest’inverno.
Bonus track correlato, visto che abbiamo tirato in ballo un libro “interattivo”: era uscito quest’estate per accompagnarci sotto l’ombrellone, ma i casi da risolvere di Scena del crimine continuano ad essere una valida idea per chi apprezza gialli e rompicapo.


Janina Ramirez
Divine – 50 storie meravigliose di dee, spiriti e streghe
Nord Sud Edizioni

Dalle valchirie a Medusa, da Rangda a Venere, un’indagine splendidamente illustrata sul rapporto tra femminilità e trascendenza. Il libro cataloga le sue cinquanta “dee” per aree tematiche – Guida e governo, Nuova vita, Morte e distruzione, Amore e conoscenza, Natura e animali -, passando in rassegna le mitologie e la storia di un ampio ventaglio di popoli e culture.
Per chi sta costruendo una biblioteca femminista, per le fattucchiere del vostro cuore e per chi apprezza leggende e folklore.


Barbara Sandri & Francesco Giubbilini
Progetto grafico di Camilla Pintonato

Il gallinario
Quinto Quarto

Dunque, vorrei in realtà segnalarvi Quinto Quarto in blocco, ma uso questa esaustiva enciclopedia delle galline come testa di ponte. Non so cosa ci sia nelle scelte grafico-visuali di Camilla Pintonato, ma questo libro mi mette addosso una serenità indescrivibile – e il serraglio è in via d’espansione, pure. Volete dedicarvi agli ovini? Perfetto, c’è Il pecorario. Vi piacciono i maiali? Ottimo, c’è Il porcellario.
Per chi sogna di governare una fattoria ma sta in 34mq a Milano e per chi ama la saggistica zoologica ben illustrata (in tutti i sensi).


Jean Giono (con le illustrazioni di Tullio Pericoli)
L’uomo che piantava gli alberi
Salani

Una caparbia impresa solitaria – portata avanti con l’unico intento di far tornare a vivere un territorio disgraziato – che non smette di scaldare il cuore e di generare edizioni stupende. Qui il testo di Giono è accompagnato dalle illustrazioni di Pericoli, che si trasformano in una sorta di narrazione parallela – con tanto di musica da ascoltare grazie a un QR.
Per chi non abbandona la speranza e crede ancora nel potere della generosità disinteressata.


Cecily Wong & Dylan Thuras
Food Obscura – Guida alle meraviglie gastronomiche del mondo
Mondadori
(Traduzione di Manuela Faimali e Teresa Albanese)

La versione gastronomica del beneamato Atlas Obscura promette di condurvi ai quattro angoli del globo alla scoperta dei cibi e delle specialità più intriganti.
Per chi ama viaggiare, sperimentare mangiando ed esplorare luoghi insoliti.


Craig A. Monson 
Suore che si comportano male
Il saggiatore

(Traduzione di Luisa Agnese Della Fontana)

Geniale copertina che rende omaggio a Cronaca Vera e contenuto di raro rigore storico, per quanto si parta da premesse indocili e riottose. Scandagliando registri e una vasta documentazione d’archivio, Monson costruisce qui una hall of fame delle monache italiane che fra il XVI e il XVIII secolo cercarono di ribellarsi – talvolta violentemente – alle imposizioni di una vita che non avevano scelto.
Per gli spiriti liberi di ogni tempo, per chi mal tollera soprusi e costrizioni, per chi ama la saggistica storica più spigliata.


Comics & Science – Vol. 1 e 2
A cura di Roberto Natalini e Andrea Plazzi
Feltrinelli

I due volumoni di Comics & Science raccolgono l’immenso lavoro divulgativo portato avanti dal 2012 dal CNR in collaborazione con una folta schiera di straordinari fumettisti italiani. Le storie sono in precedenza uscite in fascicoli tematici ma trovano qui per la prima volta una dimora “complessiva”… e il risultato è davvero magnifico. Dalla matematica all’esplorazione spaziale, dalle scoperte informatiche al collasso delle stelle, il disegno incontra la ricerca per farsi accessibile, divertente, chiaro e limpido.
Per chi impara meglio quando se la spassa, per chi studia volentieri e per chi vuole capire meglio il presente per riuscire a intravedere il futuro.


Michael Leader & Jake Cunningham
Ghiblioteca – La storia dei capolavori dello Studio Ghibli
Magazzini Salani

Tornerei volentieri a rimpolpare il filone “backstage del cinema” con questa enciclopedia (necessariamente) illustrata della filmografia pluridecennale dello Studio Ghibli. Un eccellente tour guidato che approfondisce prodezze tecniche, significati e fonti d’ispirazione, da Totoro alla Città incantata.
Per chi ama Hayao Miyazaki, l’arte e l’animazione giapponese.


Francesco Costa
California
Mondadori

Che cosa sta succedendo alla California? Come è possibile che uno stato che produce così tanta ricchezza e sul quale abbiamo riversato così tanti sogni stia diventando un posto in cui si campa fondamentalmente male? Costa torna alla sua specialità – gli Stati Uniti del nostro presente – per cercare di districare una matassa di non facile interpretazione.
Per chi ascolta Morning con trasporto, per chi si interessa di macro-fenomeni “esteri” che riguardano pure noi (più del previsto) e per chi sta combattendo col mercato immobiliare delle nostre grandi città.

Bonus track a tema Costa-Il Post: la collana delle Cose spiegate bene co-prodotta con Iperborea è arrivata ormai al quarto volume. Se fra i destinatari dei vostri doni c’è chi vorrebbe approfondire il funzionamento della filiera editoriale o le droghe, la giustizia e le questioni di genere, dateci un occhio.


Mervyn Peake
Gormenghast – La trilogia
Adelphi

(Traduzione di Anna Ravano e Roberto Serrai)

Descrivere Gormenghast è un problema. Ci ho provato qui, partendo dal primo libro della trilogia. È un’opera folle, labirintica, terrificante e superba che non somiglia a niente e reinventa molto di quello che può risultarci noto. Adelphi, con uno slancio di notevole coraggio, ha deciso di far convergere i tre atti di Gormenghast in un unico volume che immagino possa tornarvi utile anche come elemento architettonico per edificare il vostro personalissimo torrione maledetto.
Per chi non teme nulla – e fa male -, per chi vuole revisionare completamente la sua idea di gotico, per chi ama i gatti bianchi in grandi quantità.


Alex Johnson & James Oses
Una stanza tutta per sé – Dove scrivono i grandi scrittori
L’ippocampo

Da Jane Austen a Paolo Cognetti, un’indagine illustrata sugli spazi creativi di chi amiamo leggere da tempi più o meno recenti. Ogni stanza è raccontata da Johnson e illustrata sapientemente da Oses, per dar vita a una grande residenza collettiva abitata da penne illustri.
Per chi legge volentieri storie e romanzi ma vuole anche sapere meglio da dove arrivano.

Corollario: se il titolo vi suscita moti d’amore per Virginia Woolf, c’è anche Stanze tutte per sé, che si concentra sulle dimore più significative per il gruppo Bloomsbury degli anni Venti (Edward e Vita Sackville-West in testa).


Valentina Divitini
Leggere i tarocchi – Una guida e molte idee per esperti e principianti
Magazzini Salani

Una guida lontana dal nozionismo per scacciare le diffidenze e padroneggiare uno strumento di ragionamento alternativo, tra immaginazione e simboli condivisi. Ne avevo parlato anche qua e vi incoraggio ad approfondire, se serve. 🙂
Per chi intuisce il fascino delle storie e vuole provare a farsi le domande giuste.

Bonus track illustre: Dizionario dei simboli di Juan-Eduardo Cirlot.


Gribaudo
La collana Straordinariamente

Vi fornisco un link approssimativo, ma sappiate che la collana Straordinariamente – popolata da questi volumi di grande formato dalla grafica di copertina assai riconoscibile – contiene suppergiù ogni branca dello scibile umano. Che vi interessiate di Black History o di medicina, di economia o di Sherlock Holmes, è assai probabile che ci sia un tomo per voi. L’idea di base è quella di rispondere ai quesiti fondamentali di una determinata “materia”, sviscerandone i casi esemplari e sintetizzando in maniera accessibile e graficamente vispa le curiosità e i fenomeni più rilevanti.
Per chi ama gli approfondimenti “verticali” e vuole umiliarci a Trivial Pursuit.


Nicolas Guillerat & John Scheid
Infografica della Roma antica
L’ippocampo

Tutte le volte che compilo questi listoni mi trovo a esclamare “diamine, stai mettendo troppi libri dell’Ippocampo!”. Ma come si fa? Sono perfetti per queste circostanze. Beccatevi dunque anche la storia di Roma raccontata per prodezze a base di data-visualization – dagli eventi bellici all’organizzazione della res publica, dall’economia ai divertimenti popolari. Se l’approccio vi affascina, i medesimi curatori hanno sfornato anche l’Infografica della Seconda Guerra Mondiale.
Per chi apprezza un approccio innovativo alla ricostruzione storica e per chi già vuol bene ad Alberto Angela.


Seymour Chwast & Steven Heller
Hell – Guida illustrata agli inferi
Corraini

Va’ all’inferno! …sì, ma quale? Ogni cultura ha il suo, ogni cosmogonia ne ha immaginato uno, per non parlare dell’arte, della letteratura e delle religioni. Questa agile guida illustrata ci accompagna alla scoperta delle dimensioni infernali più emblematiche, tra ustioni e supplizio eterno.
Per chi ci finirebbe volentieri, perché si vocifera che la compagnia sia interessante.

Bonus track: per un approccio meno pop ma di sconfinato fascino e abissale terrore, ecco il catalogo di Inferno, la ragguardevole mostra del 2021 ospitata dalle Scuderie del Quirinale. 


Altre idee inerenti all’universo libresco-editoriale? Eccoci.

La Revue Dessinée Italia

È un progetto indipendente che “adatta” al nostro contesto l’omonima rivista francese e che ha ben debuttato quest’anno con i primi tre volumi – ricevendo anche il premio Gran Guinigi di Lucca Comics come miglior iniziativa editoriale del 2022. Esce ogni tre mesi, non s’avvale di pubblicità e ogni numero è frutto della collaborazione tra giornalist* e artist*. Il risultato è una raccolta di reportage, rubriche e inchieste a fumetti “multidisciplinari” che affrontano temi d’attualità e offrono un punto di vista critico su molte magagne o fenomeni rilevanti del presente.
Si possono acquistare qua i singoli numeri, abbonarsi o donare un felice abbonamento 2023.

Donare un abbonamento vi pare un’idea saggia? Concordo e vi rammento dell’esistenza di Storytel – scegliendo una gift-card che copre periodi medio-lunghetti c’è anche un buon margine di sconto.


Treccani Emporium

Treccani Emporium si presenta come “il negozio online della cultura italiana”… e se non scelgono loro una definizione adatta non so francamente chi mai potrebbe farlo. 🙂
Oltre alle proposte editoriali di Treccani troverete anche una selezione di oggetti di design e alto artigianato e una nutrita linea di cartoleria basata proprio sulle definizioni.


Altre risorse utili già pubblicate? Perché no. 
Ecco qua la lista natalizia del 2021.
E la lista del 2020.
Questa, invece, è la lista dello scorso anno dedicata ai bambini e alle bambine.
Vi rammento anche l’intera categoria Libri, che male non fa.
Per spiccati interessi naturalistici, vi rimando volentieri al catalogo di Aboca – qua c’erano i percorsi di lettura che avevo individuato qualche tempo fa e che ho aggiornato dopo il debutto della collana Kids.
Per un colpo d’occhio rapido, ecco la vetrina Amazon – segnalo in particolare la sezione degli atlanti e la grande sezione delle strenne. Sempre lì, parecchi spunti anche per l’infanzia.

Felici doni libreschi a voi! 🙂

Il mio infante ha finalmente raggiunto un’età compatibile coi lungometraggi d’animazione. GRANDI FESTEGGIAMENTI IN TUTTO IL REGNO. Sono una ex-bambina che frequentava con assiduità il cinema (grazie, papà!) e sono fermamente intenzionata a godermi innumerevoli film in compagnia della mia creatura, procurandomi anche una solida giustificazione per guardare tutte le cose da “piccoli” sfornate dall’industria dell’intrattenimento. “Eh, sai… porto il bambino”. CERTO, STO PROPRIO FACENDO UNO SFORZO.

Biechi stratagemmi a parte, qualche giorno fa abbiamo beneficiato di una proiezione anticipata di Pupazzi alla riscossa che, per semplicità e sintesi, potremmo definire “il film delle Ugly Dolls”. In qualità di amministratrice del pupazzodromo domestico – già ben fornito anche prima della comparsa di Cesare sul nostro pianeta -, coccolo da tempo immemore una Ugly Doll rosa con tre occhi che mi accompagna di trasloco in trasloco sin dal lontano 2009 e che risponde all’ambizioso nome di PANDORA.
Ebbene, abbiamo tirato fuori Pandora dal cesto e ci siamo guardati il film.

Che cosa accade, in soldoni?
Non tutti i giocattoli sono immuni dai difetti di fabbrica. Alcuni superano indenni il controllo-qualità, mentre altri vengono scartati perché imperfetti, strambi, sbilenchi o “brutti”. I pupazzi brutti vivono spensierati e ignari in una cittadina costiera sorretta da solidi valori – speranza, ottimismo e accoglienza – e potenti inclinazioni musicali – se la cantano e se la suonano parecchio, insomma. Ma il destino di un giocattolo è quello di far felice un bambino… e vale anche per i giocattoli che non rispondono agli standard. Moxy sogna di poter approdare nel “grande mondo” per abbracciare la sua bambina e, in barba a tutte le macchinazioni che ancora non conosce, risale il condotto che collega Bruttopoli alla linea di montaggio e, in compagnia di un gruppetto altrettanto sgangherato di pupazzi, si ritrova in una specie di centro d’addestramento distopico per bambole belle, magre, pulite e profumate. Solo diplomandosi a pieni voti all’Accademia della Perfezione potrà avere accesso al mondo esterno ed essere adottata da una bimba fortunata. Ma sarà facile? GIAMMAI!

Ecco.
Potrei lanciarmi in un pippone infinito sull’importanza del superare le apparenze per dare la precedenza all’inclusione, alla bontà d’animo e all’incontro col diverso, scagliandomi contro una società conformista e superficiale che bada più all’involucro che alla sostanza e classifica le creature in base a quello che vede, invece di apprezzare l’altro in base a quello che sa, sente, pensa e dice. Potrei lanciarmi in un pippone di questo tenore… e farei bene, perché è tutto vero e sono tutti valori sacrosanti e importantissimi che possiamo ricavare dal film. Ma penso che il commento di Cesare, anni tre, sia molto più efficace di un mio potenziale trattato sociologico.

Cece, ti è piaciuto il film?
Sì. Ma ero anche un po’ triste.
Perché?
Pecché quelli brutti sono simpatici.
E sei triste perché sono simpatici?
No. Pecché quelli altri li trattano male.
Quelli belli ti piacevano?
No. Solo i brutti. Tutti coloati.
Ma sei più contento o più triste.
Contento.
E le canzoni?
Cantano tanto. Ma mamma pecché tu hai pianto?

Eh, la mamma ha pianto perché ormai la mamma piange per qualsiasi cosa. È un fenomeno che sta diventando imbarazzante. Ma non reprimiamo la nostra emotività. Cantano tanto, è vero, ma ci sta. E anche le voci italiane fanno un ottimo lavoro. Tra i doppiatori ci sono Federica Carta, Shade, Elio (FORZA PANINO!) e Achille Lauro.
Su Achille Lauro mi soffermerei perché Cesare è fan. Cioè, non ha idea di chi sia e non ha ancora afferrato il concetto di doppiaggio – se un pipistrello rosso parla è il pipistrello rosso che parla, non Achille Lauro – ma lui e suo padre mettono Achille Lauro a palla e ballano. Una sera hanno anche bruciato un ragù perché erano troppo impegnati a ballare Achille Lauro. Insomma, Achille Lauro mi deve un ragù ma gli voglio comunque bene.
Menzione d’onore a Gatto Farfuglio, che appare per credo sei secondi in tutto ma ha fatto ridere Cesare per una ventina di minuti – anche in questo caso, reazione sacrosanta.
Annotazione conclusiva che spero tornerà utile alle altre mamme di bambini vivaci: CESARE È RIMASTO SEDUTO COME UN SOLDATINO E HA GUARDATO TUTTO. Favola.

Insomma, un successone. Torno ad abbracciare la mia Pandora. E anche il mio Cesare, ormai pronto a darsi alla critica cinematografica impegnata. Pupazzi alla riscossa è nelle sale dal 14 novembre, dilettatevi. 

CI SARANNO MILIONI DI SPOILER.
Regolatevi, dunque.

Star Wars è una delle cose che amo di più al mondo. E ci tengo tantissimo. Il risveglio della forza mi è piaciuto un sacco – nonostante tutto – ed ero super carica per Gli ultimi Jedi. Ma presa bene a livelli incontenibili. Poi niente, sono uscita dal cinema e mi è venuto un mezzo magone. Per la precisione, mi sono sentita un po’ così:

Ma che cosa ho visto, di preciso?
Da dove scaturisce questa sensazione di profondo smarrimento?
E chi lo sa.
Proviamo a capire.

Gli ultimi Jedi non è una tragedia conclamata. È che, in millemila momenti, non sembra un film di Star Wars. O se ne esce con un “tono” – un mood? – che lascia semplicemente perplessi. Senza star lì a fare paragoni con il senso dell’umorismo della trilogia originale, mi è sembrato che qualcuno, da qualche parte, stesse disperatamente cercando di farmi ridere ogni sei minuti. Un po’ come quando ridi perché ti fanno il solletico. Per un istante può anche essere divertente… ma poi, nel caso il solleticatore persista nel suo assalto, lo implori di smettere perché la faccenda sta diventando spiacevole e ti è venuta voglia di morire e basta.
Ecco, il film comincia con uno scherzo telefonico di rara mestizia – una roba che persino Bart Simpson avrebbe accuratamente evitato di propinare al povero Boe – e da lì basta, gag a non finire. Gag a base di animaletti goffi di un’invadenza incredibile. Torneremo ad occuparci degli animaletti – perché meritano una riflessione a parte – ma per ora mi viene da dire che tutti questi interventi un po’ alla Guardiani della Galassia non solo non fanno ridere, ma devastano anche abbastanza i sentimenti che ti travolgono mentre guardi il film. Ci sono sequenze in cui la tensione narrativa è vera e ben orchestrata che vengono rovinate irrimediabilmente da manipoli di suore-pesce col grembiule e una carriola. Inseguimenti stellari tra il Millennium Falcon e gli Starfighter in cui ti auguri che Chewie si schianti in una miniera di cristalli di sale solo per liberarci di quei maledetti porg che continuano a interrompere una battaglia altrimenti favolosa. ABBIAMO CAPITO CHE SONO CARINI E FANNO I VERSI MA STIAMO BENE ANCHE SE NON LI VEDIAMO DI CONTINUO LEVATELI DI MEZZO NON NE POSSIAMO PIÙ.

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Umorismo forzato a parte, ci sono proprio dei momenti di assoluto MA CHE MA CHE MA CHE.
La principessa Leia – pace all’anima di Carrie Fisher – che sfreccia nello spazio come una Statua della Libertà coi razzi sotto alle scarpe.
L’ammiraglio Ackbar – colui che pronunciò il memorabile IT’S A TRAP! ed eterno eroe della Resistenza – ucciso come un cane qualsiasi all’inizio del film. E tanti saluti.
Quell’assurda videochiamata alla tartaruga saggia con gli occhiali grossi.
Tutti i tre quarti d’ora che abbiamo trascorso sul pianeta Las Vegas. Ma che era quella roba lì? Perché.

Insomma, succedono cose sbagliate al momento sbagliato mentre personaggi di ogni tipo dicono roba anche quella po’ sbagliata in mezzo a vasti branchi di creature più o meno tondeggianti che cercano di farci tenerezza inciampando, farfugliando in strani idiomi o facendo le faccette. 

Che diavolo, non ce lo meritiamo.

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Comunque.
Gli animalini.
QUANTI ANIMALINI CI SONO.
Va bene, un film intero di Star Wars si svolge in un bosco pieno zeppo di orsetti alti mezzo metro che indossano adorabili tunichette da combattimento. Ma gli Ewok sono gli Ewok. Il fenomeno a cui assistiamo negli Gli ultimi Jedi somiglia di più a un’invasione di Gremlin. O a una puntata dei Pokémon. O a un Animali Galattici e Dove Trovarli.
Ovunque, li troviamo.
OVUNQUE.
Potrei sforzarmi tantissimo e cercare di elencarli, ma so già che fallirei in partenza. Tralasciando i porg, parecchi hanno anche un’utilità – le volpi di cristallo salato indicano la via, le mucche-tricheco dissetano Luke ANCHE SE FANNO SCHIFO MALEDIZIONE CHE BRUTTE SONO QUELLE BESTIE GRAME, i levrieri-alce-fennec alti dodici metri che corrono pure sulle pareti verticali permettono a Finn e Rose di scappare, il piccolo goblin rincoglionito che usa BB8 come una slot-machine gli fornisce involontariamente dei proiettili -, ma finisci per irritarti lo stesso. Perché sono troppi. E tutti visibilmente ansiosi di piacerci o di colpirci molto con la loro arguta stravaganza.
Meno, perbacco.
Meno.

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Ma torniamo alle faccende di struttura, di equilibrio e di senso. Perché pure lì mi sembra che ci siano un po’ di problemi. Ho avuto l’orribile sensazione che tanti personaggi venissero “buttati via” – soprattutto considerando il primo episodio della nuova trilogia – e che venisse regolarmente dedicato molto più tempo a parti della trama che mi interessavano poco o niente, quando invece avrei amato immensamente soffermarmi in altri posti.
Per dire. Finn. Finn era praticamente il co-protagonista del primo film. E qua che fa? Lo impegnano per secoli in una missione che si rivelerà un vicolo cieco insieme a una compagna d’avventura letteralmente incontrata per caso. Non che di Finn mi sia mai importato un granché, francamente, ma sembra proprio uno che “massì, ce l’abbiamo sul groppone anche a questo giro. Troviamogli due fotocopie da fare”. E dove va a finire tutto il gran legame con Rey? Si rivedono, si fanno due ciao e poi entrambi tornano a farsi i fattacci loro. Ma io dico.
Snoke, amici. SNOKE. Un personaggio così misterioso ed enigmatico da mostrarsi per un film intero unicamente in guisa di ologrammone monumentale che impartisce ordini senza che nessuno osi dirgli BA! Il leader supremo! Il male in persona! Colui che corruppe e avvelenò il cuore di Ben Solo, fino a convincerlo a compiere l’irreparabile! Ma scusate, ma ditemi chi è. Da dove viene. Qual è l’estensione dei suoi temibili poteri. Che vuole fare davvero. Com’è che ha incontrato Ben Solo. Dateci qualcosa, prima di segarlo in due. È incredibile!
E Phasma? Che senso ha mettere Gwendoline Christie in quell’armatura FANTASTICA se poi la fai tornare in scena solo per morire come una cretina? E io che pensavo che nel secondo film avrebbe finalmente avuto un ruolo un po’ meno ridicolo!
E Benicio del Toro? Benicio del Toro in questo film è un espediente narrativo che parla e cammina, e basta.

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A salvarci parzialmente dalla rovina, però, ci sono quelli che maneggiano la Forza. Ora, sarò strana io, ma Star Wars lo vado a vedere perché mi piacciono i Jedi e i Sith, perché amo le spade laser e i conflitti interiori che solo il Bene, il Male e Destino possono scatenare nell’animo degli abitanti di galassie lontane lontane. Certo, ci piacciono anche i robot che rotolano, la Resistenza che pilota navette che somigliano alla Uno Hobby che mi ha regalato mia zia quando ho fatto la patente – “Guida questa, Francesca. Che se ti pialli da qualche parte non rovini la macchina, anzi” – e gli alieni strani che suonano il piffero al bar, ma al cinema ci andiamo perché la Forza scorre potente dentro di noi.
FATEMI VEDERE I JEDI E I SITH, ALLORA.

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Ero molto felice perché, date le premesse del Risveglio della Forza, sembrava molto probabile che Rey avrebbe fatto la fine di Luke quand’è andato a trovare il maestro Yoda. Ecco, non è andata esattamente così – e Luke ha fatto ben poco per impartire a Rey dei concreti insegnamenti -, ma la nostra volitiva amica si è data da fare comunque. Dal punto di vista narrativo, la trovo molto meno affascinante rispetto al primo film – perché mai dovrebbe convertirsi al Lato Oscuro? Nessuno lo ritiene plausibile nemmeno per un secondo -, ma ho adorato la bieca invenzione di farla parlare su con Kylo Ren con quella specie di Face Time buttato in piedi grazie alla Forza. Ma quante cose si possono fare con la Forza? Tutto, cavolo. Pure Face Time. Ecco, per me tutto quello che Rey e Kylo Ren fanno insieme ha funzionato bene. La scena in cui incontrano Snoke e poi triturano i pretoriani-samurai è favolosa. FAVOLOSA. Forse è il mio duello preferito con la spada laser, altroché quelle boiate coreografatissime dei prequel coi musiconi in sottofondo. Il dilemmi che cercano di risolvere, i problemi che si creano a vicenda, il fatto che – alla fin fine – non hanno davvero nessun altro con cui parlare – ecco, è questa la roba che vogliamo vedere. Ma mica perché nutriamo la recondita speranza che che si amino con foga. Un po’ anche quello, va bene, ma perché è solo quando ci sono loro due che questi benedetti film trovano un po’ di vita o ci mettono di fronte a una strada inesplorata. Coi personaggi contenti e realizzati ci si fa poco. Sono i tormentati e gli irrisolti che creano le storie.
A tal proposito, dunque, che il cielo benedica Kylo Ren
. Anche questa volta.

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In un film pieno di personaggi gettati alle ortiche, lui continua inesorabilmente a complicarsi splendidamente la vita.
Ripensando alla paura vera che faceva nel Risveglio della Forza – nella prima metà del film, almeno – vederlo conciato così è affascinante. Non solo Snoke lo tratta come un rincoglionito dal minuto zero – confermando che, senza maschera e senza tutte le sovrastrutture da NONNO IO CONCLUDERÒ QUELLO CHE HAI COMINCIATO, quel che resta è un groviglio di nervoso, delusioni, vanagloria e solitudine -, ma pure lui ha un bel po’ di orgoglio ferito da amministrare e delle decisioni francamente pessime con cui venire a patti. Ora, Luke Skywalker che si avvicina di soppiatto al letto di un ragazzone che russa per tranciarlo in due con la spada laser è una roba un po’ strana – perché Luke, insomma, è sempre stato l’eroe puro, quasi un simbolo dell’innocenza e del bene senza sfumature oscure -, ma introdurre quel trauma lì nella storia di Kylo Ren è un raro caso di DIAMO DELLE MOTIVAZIONI SOLIDE A QUESTI PERSONAGGI. Snoke aveva già fatto danni irreparabili? Ben sarebbe stato recuperabile, se Luke non si fosse spaventato per tutti quei poteroni grezzi e incasinati? Chi può dirlo, Snoke è crepato male prima di poterci spiegare la sua versione dei fatti. Comunque.
Dopo la figuraccia finale – cercare di abbattere un’illusione ottica con la spada laser e accorgersi dopo tre ore che Luke Skywalker non sta veramente lì è piuttosto imbarazzante – Kylo Ren si ritrova rabbiosamente alla guida di un impero senza manco un cane che, quando se lo merita, possa dirgli BRAVO, COCCONE, ANDRÀ TUTTO BENE. E a questo punto, credo, potrebbe succedere di tutto.  Gli equilibri della Forza sono diventati molto più fluidi e “grigi” rispetto a quello che conoscevamo. Rey e Kylo Ren sono dei personaggi in movimento che sono in qualche modo riusciti a demolire quello che c’era prima – certo, è maestro Yoda che brucia il tempio Jedi, ma senza la visita di Rey dubito che Luke avrebbe abbandonato la sua routine di pesca e mungitura di quelle immonde vacche-tricheco. Sono senza maestri, hanno potenzialità piuttosto devastanti e delle discrete rogne di famiglia. Dobbiamo credere a Kylo Ren, quando dice a Rey che i suoi genitori non sono nessuno? E che ne so. Kylo Ren di balle ne racconta, ogni tanto, ma la faccenda della caverna potrebbe dargli ragione, così come la propensione di Star Wars in generale a far emergere eroi e paladini dai posti più anonimi. Lo scopriremo solo perseverando, credo.

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Insomma, Gli ultimi Jedi è un film a tratti fastidiosissimo – e manco ci hanno dato la soddisfazione di vedere Chewie che divora un porg di fronte agli altri intollerabili esponenti della specie -, mal costruito, punteggiato di momenti WTF, troppo disomogeneo nel tono e nella distribuzione dei “pesi” delle molteplici (forse troppe) vicende che prova a raccontare e a sprazzi sceneggiato dal trio di fenomeni degli Occhi del Cuore, ma a fare faticosamente capolino c’è anche del buono. Continuo a non capire questa necessità di “alleggerire” l’atmosfera buttandola sulla comicità – cioè, è già un film di Star Wars, di quanta altra leggerezza abbiamo bisogno? Mica stiamo andando a vedere un dramma polacco popolato da tossicodipendente orfani, indigenti e storpi che vivono ai margini di una discarica di scorie radioattive – e spero con veemenza che nel prossimo episodio questi super sbilanciamenti e svarioni ci abbandonino definitivamente, ma continuo a crederci. Ci voglio credere, proprio. Star Wars ci tiene prigionieri generando una specie di sindrome di Stoccolma? È possibile. Ma nemmeno questa volta posso dire “no, basta. Io Star Wars non lo voglio più vedere”… anche se la mia faccia, ricordiamolo, è un po’ sempre questa.

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Altre cose belle A CASO che mi sono venute in mente solo ora.
– l’unica gag che mi ha fatto ridere è quella del ferro da stiro.
– la spada di Kylo Ren continua ad essere in cima alla lista dei regali di Natale che mi piacerebbe ricevere. E mi sono accorta che gli somiglia, anche. Cioè, i Jedi in pace col mondo o i Sith nel pieno controllo della situazione hanno spade molto lineari, “pulite”. Kylo Ren ha una spada gigantesca, sborona, fracassona – fa un baccano infernale, fateci caso -, tutta frastagliata e guizzante. Dai, sono identici. Chissà se le ha dato un nome.
– Laura Dern, ti voglio bene.
– Generale Organa, abbiamo bisogno di sapere dove hai comprato la cappa con il colletto svettante. Anche noi vogliamo metterci di vedetta su una spianata di sale con un bavero imponente a riparare il nostri delicati lineamenti.

 

(Preparatevi a un massiccio tornado di foto eterogenee, euforie, videini riassuntivi, difficoltà d’abbigliamento e strane capigliature. Pronti? In carrozza!).

*

Agatha Christie era una signora portentosa. Autrice di un’ottantina di romanzi – fra i più amati e venduti di sempre – e viaggiatrice instancabile – in un’epoca in cui le signore che andavano a spasso da sole venivano osservate con un certo sospetto, soprattutto se erano felicemente divorziate -, ha intrigato e incuriosito milioni di lettori e spettatori che, negli anni, si sono goduti le sue storie anche a teatro, al cinema e in tv.

One must do things by oneself sometimes…Either I cling to everything that’s safe and that I know, or else I develop more initiative, do things on my own.

Durante la Prima Guerra Mondiale lavorò come infermiera – faccenda che le permise di imparare nozioni disparatissime sui veleni – ed esordì nel 1919 con Poirot a Styles Court. Nel 1925 sparì misteriosamente da casa per vendicarsi in maniera FAVOLOSA del marito che la cornificava e nel 1928 partì per conto suo a bordo dell’Orient Express, girando in lungo e in largo l’impero britannico con la sua fidatissima macchina da scrivere. I viaggi di Agatha sull’Orient Express sono stati parecchi e ciascuno l’ha aiutata a raccogliere pezzettini di varia ispirazione per scrivere il suo giallo (forse) più celebre, pubblicato nella sua interezza nel 1934 dopo essere uscito a puntate l’anno prima sul Saturday Evening Post.

All my life I had wanted to go on the Orient Express. When I had travelled to France or Spain or Italy, the Orient Express had often been standing at Calais and I had longed to climb up into it.

A parte gli EVVIVA che Agatha Christie mi ispira, le sono anche molto debitrice – un po’ come lo sono tutti i suoi discendenti, che la signora Christie continua egregiamente a mantenere. Senza di lei, infatti, non sarei mai finita a Londra a mangiare tartine sull’Orient Express e, con ogni probabilità, nemmeno mi sarei ritrovata a zampettare su un red carpet per la prima di un film in cui Kenneth Branagh sfoggia dei baffi a dir poco maestosi.

Ma andiamo con ordine, che qua l’entusiasmo potrebbe travolgerci come una tempesta di neve nella località turca di Çerkezköy.

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Assassinio sull’Orient Express è appena diventato un film – il secondo LUNGOMETRAGGIO tratto dal romanzo, dopo quello del 1974 diretto da Sidney Lumet – con un cast vastamente stellare e un gran tifo da parte della Agatha Christie Foundation – che gestisce con puntiglio l’eredità letteraria di della scrittrice, assicurandosi che ogni trasposizione delle sue opere sia molto bella e rispettosa del materiale originale. Il film uscirà in Italia il 30 novembre, mentre il libro è già reperibilissimo ed è stato puntualmente ristampato da Mondadori.

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Per l’arrivo del film nelle sale, la 20th Century Fox ha ben deciso di caricare un gruppo di bookblogger europee (sconfinatamente più celebri di me) su un vero Orient Express parcheggiato alla stazione di St Pancras. Non è il treno che è stato utilizzato per le riprese – Kenneth Branagh ha insistito per farsene fabbricare uno come diceva lui, con una resa scenica RAGGUARDEVOLE -, ma se come me vi siete dilettati per svariati anni col pendolarismo potrete facilmente comprendere lo stupore che un susseguirsi di vagoni con poltrone vellutate (GIREVOLI) e lampadari di cristallo è in grado di generare. Mai avrei pensato di prendere un aereo per andare a vedere un treno, ma si è poi scoperto che ho fatto benissimo.

Dopo aver ingurgitato l’equivalente del mio peso in champagne – senza comunque perdere la dignità, anche se ci ho mangiato insieme solo una tartina al salmone di rara precisione geometrica – e aver ammirato con una certa soggezione la macchina da scrivere da viaggio che Agatha Christie utilizzava quando andava in giro per il mondo – macchina da scrivere presidiata da un affabile energumeno che ci ha giustamente vietato di toccarla e/o di rovinarla sbavandoci sopra come dei labrador -, abbiamo fatto amicizia con James Prichard, bisnipote dell’illustrissima autrice e presidente/CEO dell’Agatha Christie Foundation. Che lavoro fa? Questo.

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Con il signor Prichard abbiamo discusso di baffi e della caratterizzazione di Poirot – che in questo film vince anche una sorta di backstory e una presentazione quasi da supereroe -, di quanto sarebbe bello vedere Meryl Streep che interpreta Miss Marple e del lavoro che serve per rendere interessante e “cinematografico” un romanzo che si svolge principalmente su un treno popolato di gente che dialoga, si arrovella e pensa, senza roba che esplode all’improvviso.

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James Prichard ci ha anche comunicato la sua immensa felicità per un ritorno al cinema così sontuoso per Agatha Christie, ma anche un po’ di rammarico per il destino della bisnonna. Perché il giallo è un genere quasi sempre considerato “inferiore” rispetto alla Grande Letteratura, ma quando uno scrittore è sostenuto dall’acume, dall’inventiva e dall’inesauribile ingegno di un’Agatha Christie, sarebbe molto liberatorio poter fare a meno delle categorizzazioni o della condiscendenza che, troppo spesso, accompagnava e accompagna le donne che scrivono. Insomma, Agatha Christie si merita di più. E un film così “potente” è un’occasione grandiosa per avvicinare nuovi lettori a un’eredità letteraria che merita di essere approfondita. 

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Dopo aver declinato il quattordicesimo bicchiere di vino (scandalizzando il cameriere), mi sono goduta l’albergo per ben un’ora e ventitré minuti. E ho pure scoperto di avere 75 £ “caricati” sulla camera (GRAZIE, 20th CENTURY FOX, QUESTA È SIGNORILITÀ) e pure un certo appetito. Mi devo cambiare-truccare-pettinare per non fare una figura eccessivamente imbarazzante su un red carpet, santo il cielo, ma HO FAME. Abbandonandomi a uno dei sogni più fastosi mai elaborati durante la mia vita adulta, dunque, ho chiamato il servizio in camera. E visto che i miei entusiasmi sono solitamente paragonabili a quelli di una bambina di quarta elementare, anche l’ordinazione è stata conforme alla mia età interiore. Ti hanno messo al Mayfair Hotel – che è tipo il Gesù degli alberghi di Londra – e tu chiami il servizio in camera perché vuoi un fish & chips. Che leggiadria. 

Quando per la prima volta nella vita hai la facoltà di avvalerti del servizio in camera ma resti un’ignorante. Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Dopo essermi doverosamente alimentata, ho fatto del mio meglio per prepararmi. Sono dovuta salire in ginocchio sul piano del lavandino perché lo specchio era troppo lontano e non ci vedevo a truccarmi. Ho anche pensato “ecco, adesso cadi, sbatti la testa sul marmo di Carrara e muori”, ma me la sono cavata senza riportare contusioni. Ero abbastanza in ansia per l’abbigliamento perché A) Faceva un gelo porco, B) Di solito sto a casa in vestaglia e non ho idea di come ci si debba presentare su un red carpet quando non fai l’attrice ma nemmeno vuoi sembrare la Piccola Fiammiferaia della Val Padana. L’ho risolta avvalendomi delle seguenti componenti:

– Vestito di Guess da ancella delle Olimpiadi dell’oscurità comprato in 9 minuti quando ormai avevo perso le speranze. Costava 129 euro ma mi hanno fatto il 25% di sconto perché quando fai la tessera di Guess ti accolgono con un -25% di default sul primo acquisto. Mi sono sentita incredibilmente intelligente e ho sperato con tutte le mie forze che la gente finisse per pensare che era il vestito più inestimabile del mondo.
– Giacca di Blumarine in vellutino nero che mi ha comprato MADRE al primo anno di università perché dovevo andare al compleanno di una mia amica ricca che ci aveva invitate in Costa Azzurra. Una giacca che ha dieci anni ma il velluto è tornato di moda quindi CIAO, sono una principessa russa e non butto via niente.
– Jimmy Choo glitterate che mi sono messa al mio matrimonio e poi mai più. Mi si erano spellati i tacchi nel prato ma, se andate in Rinascente e spiegate il problema, Jimmy Choo vi ordina un altro paio di tacchi e poi vi manda dal suo scarparo di fiducia che ve li cambia. Ecco, io ho fatto tutte queste manovre nell’autunno del 2014, convinta che sarebbero stati sforzi inutili, ma invece no, un posto dove andare in giro con le Jimmy Choo l’ho trovato di nuovo. Ora le rimetto nella scatola – in attesa di ritirare il Nobel per la Letteratura che un giorno vincerò.
– Pochette da sera con fiocco di vernice che si comprò MADRE negli anni Settanta nella speranza che mio padre la portasse a ballare. La uso da quando a ballare ho cominciato ad andarci io visto che era nuova.
– Collana di Trifari del secolo scorso che ho trovato da una signora che vendeva gioielli vintage in un vicolo di Ortigia e che mi risolve con grazia qualsiasi AUTFIT che abbia una qualche tendenza al dorato.

Poi niente, ho visto passare Penélope Cruz e mi sono ricordata che sono di Piacenza. E che non sono capace di pettinarmi.

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Uno non lo direbbe, ma i red carpet sono cruentissimi. Anche se stai alla Royal Albert Hall. Da una parte ci sono quelli che hanno il biglietto (più o meno regalato) per assistere alla prima del film. E transitano su una loro corsia mentre dei tizi enormi e furibondi li incitano continuamente a spicciarsi e a non fermarsi per fare foto da mettere su Instagram. E con “li incitano” dovete immaginarvi dei pastori sardi che gridano cose irripetibili alle loro pecore per incanalarle verso l’ovile, solo che le pecore si sono impegnate per vestirsi bene e hanno lo smartphone. Dal lato opposto c’è un’altra corsia, riservata agli attori e alla gente importante che deve parlare con tantissimi giornalisti, ordinatamente confinati dietro a una transenna. Simmetricamente al transennone dei giornalisti ce n’è un altro, dietro al quale è relegata la gente che vuole bene a Johnny Depp e vuole vederlo e/o sventolargli in faccia dei grandi cartelli con scritto JOHNNY MARRY ME.  

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Noi avevamo un pass molto grosso che diceva SOCIAL e ci hanno messe in una specie di arena circolare in mezzo alle due corsie, ai piedi di un palco dove a intervalli di dieci minuti salivano svariati fenomeni del cinema mondiale, reduci da una lenta transumanza – irta di domande e convenevoli – lungo la transenna dei giornalisti.
Non credo di essermi mai trovata in una posizione così bizzarra.
Io, con Judi Dench a tre gradini di distanza. Ero così felice che mi sono anche dimenticata di vergognarmi per quest’immane fortuna. Si sono materializzati Willem Dafoe (è la coccosità in persona), Daisy Ridley (CHE LA FORZA SIA CON TE, CUORINA), Josh Gad, Johnny Depp (che benissimo non stava), Kenneth Branagh (che è talentuoso… ma pure un gran bell’uomo – mi sia concesso dirlo), Santa Rosalia, Optimus Prime e pure la Madonnina di Civitavecchia. Sono tristissima perché Michelle Pfeiffer è arrivata prima di noi e non sono riuscita a volerle bene anche da vicino, ma tutto sommato va bene così – che diamine dovrei dire a Michelle Pfeiffer. Come ci si approccia a Michelle Pfeiffer. Nemmeno Batman l’aveva capito, figuratevi io.

Comunque.

Visto che dubito di aver spiegato in maniera comprensibile tutto quello che è capitato, ho messo insieme un po’ di clippine delle Instagram Stories che ho concitatamente prodotto durante la giornata/serata e le ho piazzate qui: 

Ma il film com’è, alla fin fine?
Ma lo devo vedere?
Ma se non ho letto il libro?
Il film è pensato per presentare al grande pubblico – anche quello completamente ignaro dell’esistenza di Hercule Poirot nel panorama letterario dell’universo – il mondo di Agatha Christie. È sontuoso e visivamente bellissimo, e Kenneth Branagh fa del suo meglio per non tenervi inchiodati sul treno troppo a lungo, anche se il ritmo non è sempre scoppiettante – ogni indagine ha dei tempi tecnici, alla fin fine. È stupendo vedere così tanti attori di talento che lavorano insieme a un progetto così complesso, così come è apprezzabilissima la cura maniacale per i dettagli e per i dialoghi. Ma così, tanto per dirvela in due parole. Io, in tutta onestà, al cinema ci andrei anche solo per vedermi due ore di baffi giganti.

Grazie a Mondadori, 20th Century Fox e alla Agatha Christie Foundation per avermi invitata a girellare per Londra in compagnia di Agatha Christie – riuscendo nella difficile impresa di farmi rivalutare il trasporto su rotaia. E grazie anche al cuoco del Mayfair Hotel che alle 23.40 mi ha preparato un club sandwich col pollo, il bacon croccante e l’uovo fritto.

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Che dire… rifacciamolo presto.
Magari per il prossimo caso di Poirot.
:3