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Mi sembrava scorretto produrre una lista di potenziali doni per lettori cresciuti e tralasciare le vaste praterie dell’infanzia. Eccoci dunque qua per rimediare a questa grave e lacunosa ingiustizia. Prima di cominciare con i suggerimenti “nuovi”, voterei per un rapido ricapitolone delle risorse già presenti e sempre utili per trarre ulteriore ispirazione. Cos’è già uscito? Ta-da:

Ciò detto, ecco qualche spunto da recapitare agli elfi di Babbo Natale per propiziare le letture delle creaturine che popolano le vostre vite. Precisazione sull’età di riferimento: il mio bambino ha cinque anni e troverete qua una rassegna di quello che ha apprezzato in questo periodo (o nel periodo dell’asilo, tanto per chiarirci). Legge autonomamente? No, ma siamo piuttosto dell’idea che anche proposte più “difficili”, se c’è qualcuno che spiega e accompagna, siano avventure felicemente affrontabili.

Vado.

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Aina Bestard
Paesaggi perduti della terra
(L’ippocampo)

Di Aina Bestard avevamo già adorato Una nuova vita – Come nascono i bebè animali (sì, sono riuscita a piangere con i pinguini e le tartarughine) e ho accolto con la medesima ammirazione questo bellissimo volume dall’aria un po’ rétro. Sembra un atlante d’altri tempi, da sfogliare meravigliandosi delle illustrazioni e dei capitoli tematici che ripercorrono le tappe dell’evoluzione della terra, dalle rocce agli pteranodonti.

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Andrea Antinori
Sulla vita dei lemuri – Breve trattato di storia naturale
(Corraini)

Dunque, Corraini si sta addentrando – con il consueto gusto per il surreale – in un fascinoso filone di storia naturale. Data la sua passione sconfinata per gli invertebrati, Cesare si è sciroppato con curiosità e partecipazione anche Sulla vita sfortunata dei vermi di Noemi Vola, che è un po’ il cugino meno sintetico di questo trattato illustrato sui lemuri. L’approccio è estroso: notizie zoologiche “realistiche” presentate con un pazzissimo approccio narrativo e illustrazioni mai banali.

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La nave cervo - Gallucci editore

Dashka Slater & The Fan Brothers
La nave cervo
(Gallucci)

Che meraviglia visiva. E che grande abilità nella navigazione ci nascondevano gli animali – nonostante l’assenza del pollice opponibile! Un inno alla curiosità e all’allargamento dei confini del proprio mondo, ma anche una rinfrancante conferma che l’amicizia e la collaborazione possono portarci dove mai avremmo immaginato di arrivare.

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Lara Albanese & Tommaso Vidus Rosin
Mappe spaziali
(Nord Sud)

Questo è l’atlante che ho fornito a mio padre – competente e assiduo astronomo amatoriale – per allietare suo nipote su un terreno familiare. Oltre alla presentazione (visivamente dinamica e molto d’impatto) degli elementi strutturali del cosmo, troverete anche i pianeti del nostro Sistema Solare e le nozioni base per avvicinare i più piccoli ai misteri dell’universo.
Intanto che ci siamo, segnalo volentieri anche Il sole e i pianeti di Patricia Geis. Ha uno squisito stile d’impaginazione “vintage” e si avvale di numerose soluzioni cartotecniche (alette, lancettine, finestrelle…) che animano le illustrazioni e sostengono l’impianto concettuale.

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I viaggi di Ulisse. Ediz. a colori - Ricardo Gòmez - copertina

Ricardo Gómez & Mariona Cabassa
I viaggi di Ulisse
(Nomos Bambini)

Cito questo titolo per ricordarvi in realtà un’intera collana che Nomos Bambini ha inaugurato – e già ben popolato – quest’anno. Si chiama Miti Classici e, dalle Amazzoni alle fatiche di Ercole, punta a rendere fruibili le grandi storie della tradizione mitologica “occidentale” anche ai più piccoli e alle più piccole. I libri sono tutti illustrati e sviluppano una narrazione compiuta che abbraccia uno specifico episodio mitologico. Alla fine di ogni volume troverete qualche pagina di inquadramento storico e letterario.

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Tom Froese
Mummie svelate
(Franco Cosimo Panini)

Che cosa c’è di più festoso e natalizio di una storia illustrata dell’imbalsamazione, mi chiedo! So bene che quella per l’antico Egitto è una fase quasi obbligata della curiosità infantile e, dopo puzzle, kit di scavo a forma di piramide che m’hanno intoppato pure l’aspirapolvere e momenti di autentico terrore semantico quando s’è trattato di descrivere la composizione morfologica del Dio Anubi, eccoci qua con le mummie e con un altro volume che arriva dalle splendide edizioni del British Museum. Dai vasi canopi al destino ultraterreno dei faraoni, una panoramica accurata e godibilissima di questo affascinante pilastro della civiltà egizia.

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Harry Potter – Il libro di cucina ufficiale
(Magazzini Salani)

Per la rubrica “giocose attività da svolgere con la prole ma che sarebbero molto più agevoli da svolgere se la prole si limitasse a mangiare ma vuoi mettere il divertimento che ci perderemmo”, ecco qua una nuova emanazione dell’universo potteriano. Dai grissini-bacchetta ai dolci di Mielandia, 40 ricette ispirate al mondo di Harry Potter per allietare i fan in erba e far felici pure noi vecchi bacucchi cresciuti con la saga. L’edizione, in tutta onestà, è magnifica.

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Mike Lowery
Cose pazzesche su dinosauri e altre bestie preistoriche
(Nord Sud)

Mike Lowery, volevo dirti che anch’io sono una tua grande fan. Sarà lo stile del disegno e la vispa organizzazione delle pagine, sarà quel senso dell’umorismo un po’ slapstick e la capacità di sintetizzare con giocosità anche concetti non immediatissimi, ma riesco a rendermi perfettamente conto del perché Cesare abbia apprezzato così tanto questo libro e torni periodicamente a sfogliarlo anche da solo. La struttura è piuttosto classica – da dove vengono i dinosauri? Come sono fatti? Come si collocano su un pianeta in evoluzione? – ma ben poco ci si annoia. Nozioni utili, umorismo, fracassonate!

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Sergeij Kozlov & Jurij Norstein | Illustrazioni di Francesca Yarbusova
Il riccio nella nebbia
(Adelphi)

Il riccio nella nebbia nasce negli anni Settanta come progetto d’animazione della premiatissima ditta – è proprio il caso di dirlo – Kozlow/Norstein/Yarbusova. Per curiosità, eccolo qua. La storia, poetica e onirica, è quella di un riccio che si smarrisce in una foresta impestata da una nebbia impenetrabile mentre tenta di raggiungere il suo amico orso. Quest’edizione è un prezioso adattamento “statico” della versione animata, diventata un classico sia per la narrativa russa per l’infanzia che per il pubblico internazionale – perché il viaggio dell’eroe è un concetto universale… ma non capita spesso di affidarlo a un riccio come questo.

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Tom Curtis
Allo zoo con papà
(il Saggiatore)

Tom Curtis è il detentore di una delle pagine Instagram più cretine e geniali di sempre: su @thingsihavedrawn raccoglie le versioni “realistiche”, da lui medesimo FOTOSCIOPPATE, dei disegni sbilenchi dei suoi bambini, prevalentemente a tema zoologico. È una roba esilarante, imbecille e dolcissima che ha ora trovato una sua versione narrativa: Allo zoo con papà raccoglie le perle più indimenticabili di questo bestiario assurdo, ma è anche una sorta di carrellata – raccontata in forma di filastrocca – degli incontri salienti di una gita padre-figli in mezzo agli animali.

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Si potrebbe come di consueto proseguire all’infinito, ma si fa quel che si può. Spero di essere riuscita a lanciare qualche spunto intrigante e vi auguro felicissime letture coi bambini e le bambine della vostra orbita – o pure per conto vostro, chi può dirlo. Un libro valente non ha età.

 

Ogni tanto saltano fuori quegli articoli coi consigli di viaggio a tema, con le stanze d’albergo ispirate ai grandi capolavori della letteratura o con la mappetta delle residenze-museo di scrittori e scrittrici che ogni bibliofilo degno di rispetto dovrebbe visitare. Ecco, in queste occasioni non posso fare a meno di pensare a Shirley Jackson. Un po’ perché, oltre a scrivere, Jackson mandava avanti il tran tran domestico praticamente da sola – con numerosi figli irruenti in un’epoca che non ancora poteva fregiarsi di Dyson superpotenti e infallibili sgrassatori universali – e un po’ perché tanta della sua abbondante produzione letteraria fa dello spazio domestico il teatro ombroso di un abisso strisciante. Le case di Shirley Jackson sono edificate sulla promessa di una minaccia costante e spesso inafferrabile: sono posti in cui ci si illude di essere al sicuro, labirinti relazionali che nascondono il terrore di un “fuori” dal quale difendersi, ambienti di conflitto mentale e personificazioni di un’instabilità individuale in bilico tra pazzia e rituali rassicuranti.

Insomma, il focolare domestico di Shirley Jackson somiglia più al falò di un sabba in grado di evocare incubi, diffidenze che intaccano la trama stessa del reale e, in questo specifico caso, un’apocalisse conclamata.
“La meridiana” potrebbe essere il degno gradino preparatorio per Hill House – la residenza stregata per eccellenza, nella vasta fantasmagonia di Jackson – ma ha anche i tratti di una partita di Cluedo disputata da giocatori svagatissimi e inclini agli esperimenti divinatori, per quanto amatoriali.

Il palcoscenico della vicenda è questo villone inaccessibile ai cittadini “comuni”, abitato dai superstiti della famiglia Halloran e da un manipolo di scrocconi che fungono da dame e damerini di compagnia – sono lì pure loro, ma nessuno pare davvero ricordarsi quale dovrebbe essere la funzione che svolgono, sempre che ci sia. La villa, con i rispettivi terreni e giardini di rappresentanza e un impenetrabile muro perimetrale, è stata progettata da un estroso patriarca a testimonianza imperitura della posizione raggiunta, per fungere da ipotetica isola felice per una stirpe di eletti rivelatasi poi scarsamente all’altezza delle aspettative. Attorno alla villa orbita una cittadina come tante – per quanto dotata di una ex scena del crimine trasformatasi in attrazione turistica -, che gli Halloran osservano con condiscendenza e che onorano di tanto in tanto ordinando provviste all’emporio locale, mantenendo però il doveroso distacco che immaginano debba ammantare una classe superiore.

Che succede? Succede che zia Fanny, figlia del costruttore della villa e relegata dalla “vera” padrona di casa – la tirannica moglie del fratello – al ruolo ancillare di vecchia bisbetica, riceve una visione mistica: il mondo sta per finire, me l’ha detto mio padre! Mi è apparso mentre vagavo nel labirinto! Nessuno si salverà, soltanto noi! Dobbiamo restare qui dentro, solo in casa nostra saremo al sicuro!
Stranamente, tutti sembrano prendere sul serio zia Fanny – un evento che già di per sé ha dell’eccezionale, dato il poco peso che le viene di solito attribuito. La prendono sul serio perché, forse, il suo vaticinio pare confermare in maniera finalmente “ufficiale” – cosa può esserci di più importante di una profezia? – il destino di prescelti che gli Halloran si attribuiscono sin dalla costruzione di quella casa eccessiva e surreale. Solo noi verremo risparmiati, perché solo noi siamo speciali e meritevoli. Ci faremo carico del reset della civiltà e da noi dipenderà la nascita di un mondo nuovo! ANDIAMO BENE.

Il libro, di fatto, copre con diabolica ironia ed esplorazioni di interiorità minate da vanaglorie e fissazioni l’arco temporale che separa la famiglia dall’arrivo di questo ipotetico armageddon. Non occorre precisare che non c’è un solo abitante di casa Halloran che non scaraventerei in una fossa colma di furetti mannari, ma nel loro insopportabile snobismo e nella loro insensibilità patologica – tratto caratteriale che non esitano a scatenare anche nei più basilari rapporti di convivenza, con esiti spesso esilaranti e godibilissimi per chi legge – si intravede un interrogativo tragico, che poi ci accomuna tutti quanti: che diamine ci facciamo qui? Perché siamo vivi? Che cosa mai ci si aspetta da noi? Possiamo ambire alla felicità?

Gli Halloran accolgono la prospettiva dell’apocalisse quasi come un diversivo, un avvincente passatempo, un grande evento che finalmente donerà loro la prospettiva dell’attesa: anche noi ora abbiamo un traguardo da raggiungere, una promessa (per quanto potenzialmente orrenda per il resto degli abitanti del pianeta) di rilevanza e futuro. Non si agitano più di tanto perché vivono già in un dramma conclamato fatto di tangibilissima inutilità e mancanza di scopo. Nemmeno l’apocalisse farà la differenza, perché l’insoddisfazione meschina che provano nell’oggi – tra screzi futili e nessun vero interlocutore che possa farli sentire realizzati nella loro presunta superiorità – è la maledizione che si trascineranno in qualsiasi altra emanazione del mondo.

Il futuro apparterrà davvero a questo manipolo di personaggi spregevoli, opportunisti e sprezzanti, che fondamentalmente si sono inventati di essere più “su” degli altri per risparmiarsi la fatica di un confronto vero con una realtà che indubbiamente li smentirebbe? Shirley Jackson – che nell’edizione Adelphi trova magnifico specchio nella traduzione di Silvia Pareschi – ci lascia liberi di immaginarlo, avendo già ben tessuto la sua trappola. Che può esserci di peggio del continuare ad abitare nella villa degli Halloran, potendo contare solo sulla compagnia di altri Halloran, con i loro dispetti e le loro manie? Lasciatemi fuori, buttatemi oltre il muro – sempre che si possa davvero scappare: la vera apocalisse è un’eternità insieme a voi. Insomma, in uno splendido ribaltamento di prospettiva – che somiglia di più a una restituzione d’equilibrio all’ordine delle cose – non sono gli Halloran che si arroccano in una villa per sfuggire alla “gente”, ma la “gente” che ha trovato il modo di confinarli là dove possono nuocere il meno possibile – e auspicabilmente estinguersi, una buona volta. Shirley Jackson, signore e signori: regina del karma a lento rilascio e della più sublime cattiveria dialogica. Tiè!

 

I libri sono una delle possibili cartografie che può assumere il nostro paesaggio mentale. Ci sono lettori, come Roberto Calasso, che negli anni con i libri hanno edificato galassie tentacolari e coltissime, invitandoci anche ad esplorarle. Il catalogo Adelphi è lo specchio di un’erudizione curiosa e profonda, che ritroviamo in questo testo breve che indaga il nostro rapporto con il tentativo impossibile di portare ordine in una materia – quella della lettura – strutturalmente propensa a collegare e intrecciare, spalancando di continuo nuove strade.

Qui troverete quattro temi principali, tutti sviluppati come narrazione autobiografica e riflessione che sfiora la sistematizzazione storica.
Da dove spuntano le recensioni?
Da dove vengono le riviste letterarie e come hanno mosso i primi passi?
Qual è la funzione “vera” di una biblioteca e come sarebbe più avventuroso e ricco organizzarla?
Come dovremmo trovare disposti i libri in vendita?

Per chi ama i libri che parlano di libri – ma anche per chi ama farsi raccontare “la cultura” da un personaggio che sulla cultura in cui siamo immersi ha lasciato un’impronta indimenticabile e destinata a durare – Come ordinare una biblioteca è un testo snello che con molta meno spocchia di quella che l’autore si potrebbe legittimamente permettere riflette sulle fisime che affliggono e benedicono ogni lettore, fornendoci una sorta di “origin story” collettiva. Perché anche noi, con i nostri tre scaffalini, siamo in viaggio nel nostro territorio di parole in evoluzione… e una bussola (molto meno dogmatica e più giocosa di quanto potremmo sospettare) può tornarci senz’altro utile.

Qua si potrebbe sprecare l’antico adagio UN SAGGIO CHE SI LEGGE COME UN ROMANZO, ma non vi farò una tale violenza, anche perché credo che nel caso di Labatut e di Quando abbiamo smesso di capire il mondo – uscito in Italia per Adelphi nella traduzione di Lisa Topi – si tratti più che altro di un romanzo che si camuffa da saggio. Anzi, per metterla giù con le parole di quel volpone di Labatut, è “un’opera di finzione basata su fatti reali. La quantità di finzione va aumentando nel corso del libro”.

Su cosa andiamo fantasticando? Sulle discipline umane che più tendiamo ad associare al rigore, al determinato e al rigido: la fisica (spesso e volentieri quantistica), la chimica, la matematica.
Labatut, tra ricostruzione fattuale e indagine psicologica di cui nessuno può garantirci l’esattezza, stabilisce un collegamento fantasmagorico tra il nostro bisogno strutturale di certezze (la scienza deve spiegarci con precisione come funziona il mondo!) e i percorsi assai più accidentali,  accidentati, tormentosi e tortuosi delle grandi menti che hanno provato a svelare e sistematizzare i meccanismi della materia, dello spazio e del tempo.
Scoprire e “dimostrare” qualcosa di immane, insomma, finisce più per somigliare a un viaggio fra ossessioni labirintiche, rivalità titaniche e rivelazioni quasi mistiche. Per come ce la racconta Labatut, almeno…

Ci può stare? Sì, perché uno dei misteri più grandi da svelare abita proprio nei crani illustri degli studiosi che incontriamo. Da Heisenberg a Schwarzschild, quello che spicca è l’apparente impossibilità del compito: descrivere con modelli “funzionanti” quello che ci sovrasta o quello che costituisce l’essenza infinitesimale delle cose. Quello che è troppo grande, piccolo, antico, lontano, complesso o vicino sfugge all’osservazione diretta e alla linearità dell’esperienza, allenata a misurarsi con nessi causa-effetto verificabili, visibili, intuitivi. E ogni cambio di paradigma, come scopriremo, comporta anche una profonda rivoluzione della prospettiva e del linguaggio.

Labatut trasforma tutto in una specie di grande avventura e, quando la matematica minaccia di farsi troppo complessa, ci ipnotizza con collegamenti imprevedibili e coi tormenti di scienziati ambiziosi che son lì lì per perdere la brocca – o soccombere alla tubercolosi. Non ho mai preso più di 3 in una verifica di fisica, ma forse Labatut – splendido venditore di fumo – ha capito almeno come farmici riflettere su: bombardandomi di storie (storie, in prima istanza, di esseri umani che hanno saputo proiettarsi in uno spazio che prima di loro non avevamo nemmeno intravisto).

 

[Bonus track: vi lascio qui il link a una bellissima intervista di Francesca Pellas all’autore].

 

 

Che ne avrebbe fatto Barbero della gemma più celebre del mondo? Non lo sappiamo – anche se immaginare Barbero sul Trono del Pavone mi provoca irrimediabilmente un certo spasso -, ma con Anita Anand e William Dalrymple caschiamo altrettanto bene.
Attualmente esposto alla Torre di Londra, il Koh-i-nur è un diamante avvolto nel mito – la tradizione vuole che uno dei proprietari sia stato, immemorabili secoli fa, addirittura il dio Krishna – e protagonista di un’epopea secolare, sanguinosa e intricata. Questo saggio storico cerca di ricostruirne il percorso, tra fonti dubbie, leggende e opachi passaggi di mano.

Che aveva di tanto speciale? Le dimensioni, tanto per dirne una. Nella sua forma originaria – AKA prima che Lord Wellington in persona tagliasse la prima faccetta per renderlo più appetibile ai sudditi della Regina Vittoria (è una lunga faccenda, ma ci arriverete) – era grosso come un uovo e, per quanto il metro qualitativo della gemmologia sua assai cambiato dai tempi dei Moghul regnanti, la sua limpidezza e luminosità erano incomparabili. Una pietra degna di un dio, “la montagna di luce”, l’ornamento perfetto per i sovrani più potenti. Valore inestimabile, insomma, ma anche fama di portare rogna, perché un sasso di tale importanza non può che agitare i sonni anche del più fortunato tra i suoi proprietari.

Il libro, avvalendosi di fonti relativamente nuove e mai tradotte prima, ipotizza la traiettoria storica del diamante, fornendoci anche una ricchissima panoramica del contesto. Tra Lahore, il Punjab, l’Afghanistan, la Persia e Golconda, la sorte del Koh-i-nur è quella di un oggetto dal valore intrinseco e simbolico fuori scala, una sorta di talismano che, passando di mano in mano, si è ritrovato al centro di momenti di svolta irripetibili per le dinastie Moghul, per i Sikh e per l’ultimo maharaja del regno più eminente e prospero dell’India, un bambino di dieci anni messo con le spalle al muro dalla Compagnia Britannica delle Indie Orientali.

Da ex-studentessa inevitabilmente immersa in una prospettiva eurocentrica delle sorti del mondo, un libro simile è una lettura che illumina una fetta di realtà che tendiamo ad approcciare – confermando proprio quell’eurocentrismo di base – in ottica coloniale. Le fonti, qui, abbracciano invece una pluralità di voci a cui il nostro orecchio non è abituatissimo a prestare ascolto.
A farci da faro in questo viaggio è un diamante sfolgorante che, tra abbondanti spargimenti di sangue, resta conteso e problematico ancora oggi. Feticcio della prima Esposizione Universale della Regina Vittoria, il Koh-i-nur ha demolito destini e aiutato a edificare imperi e, senza smettere di sfavillare, continua ad essere uno degli “oggetti” più ricchi di sottotesti e storia per un ventaglio di civiltà che, a turno, si sono specchiate nella sua luce, finendo per riportare a galla una faccia sempre diversa delle capacità dell’essere umano, nel bene e nel malissimo.

Tanti libri ci arrivano come oggetti compiuti, stabili e “chiusi”, altri sono deliberatamente costruiti per mostrarci cosa succede quando si cambia idea strada facendo, per motivi che spesso sfuggono alla volontà e andrebbero classificati come cause di forza maggiore. Certo, anche renderci partecipi dei movimenti che il burattinaio compie per mettere in scena la sua versione della realtà inseriscono un indubbio livello d’artificio, ma prendiamo per buone le premesse. Nel caso specifico di Carrère, poi, al filtro che la scrittura impone inevitabilmente a qualsiasi fatto che si scelga di trasportare sulla pagine (anche il più assodato e inequivocabile) si aggiunge un ulteriore domandone: ma fino a che punto sarà vero? Ma è poi così importante che lo sia?

[Per approfondire un po’ di traversie personali che sconfinano nel romanzesco – o in quello che viene dichiarato come romanzesco ma poi chissà – vi rimando a questo articolo].

La veridicità e l’aderenza autobiografica, secondo me, in Carrère riescono ad essere allo stesso tempo questioni centrali e del tutto marginali. Credo capiti perché sono balle eccellenti – se propendiamo in toto per il partito delle balle – o perché anche lui, scrivendo, si inserisce nell’artificio e ne parla con quel candore tra il misterioso e il reticente di chi ti sta fregando perché, forse, anche lui ha bisogno di rifugiarsi in quella versione lì della storia. Insomma, ce la racconta… ma probabilmente se la racconta anche. E ci ritroviamo sulla stessa barca.
Si ritorna anche un po’ all’idea di partenza: i fatti saranno anche fatti, ma il mero atto di raccontarli ne restituirà inevitabilmente una versione che passa per il ricordo, per uno stato emotivo che comprende chi eravamo quando una cosa ci è successa e chi siamo diventati mentre la rievochiamo. Se c’è un posto dove saremo sempre candidamente disonesti, deliberatamente infedeli o un misto dei due estremi forse è proprio quello della memoria.

Ma insomma, di che parla Yoga?
Parla di uno scrittore che pratica yoga, meditazione e tai chi da tanti anni e che si accinge a partecipare a un ritiro “intensivo”, durante un periodo felice della sua vita. Gli sembra di essersi avvicinato a quello stato di “meraviglia e serenità” che tiene a bada sia gli autosabotaggi che l’impulso a dubitare che la pace raggiunta sia fragile e transitoria. A coronamento di questo cammino, vorrebbe scrivere un libro sullo yoga per condividere la bellezza di quest’armonia tra corpo e mente anche con il lettore più svagato, a cui di solito toccano solo manuali raffazzonati di self-help che tendono a buttarla in ginnastica pura o in scemenze pseudospirituali da guru del supermercato.
Quel libro lì, quello rassicurante e luminoso sullo yoga, non è questo libro.

Yoga parla di yoga, ma parla soprattutto del perché Carrère non sia riuscito a rispettare gli intenti iniziali. Si passa da Charlie Hebdo e una diagnosi psichiatrica, transitando anche per un campo che “ospita” rifugiati, spesso giovanissimi, su un’isola greca. Si parla di una mente che si disgrega all’apice di un momento che pareva felice e sicuro e del pantano buio che ne consegue. È soprattutto un libro che parla di lacune, perché tanti sono i vuoti che ci separano da quello che vorremmo essere. È come se anche questo resoconto – dichiaramente non accurato – abbia subito una lunga sequela di elettroshock.

Insomma, a parte quello che “succede” nella testa del Carrère che incontriamo sulla pagina – un viaggio che già si rivela ricchissimo e terribile -, quel che ci rimane davvero è una forma di meditazione. È il riflesso deformato di un lungo e lentissimo movimento verso l’unico obiettivo che forse tutti quanti condividiamo: stare un po’ meglio di come stiamo, pian piano. Sbagliando. Sprecando calma, demolendo involontariamente porti sicuri. E raccontandoci le palle che servono.

Dopo aver molto amato Felici i felici, mi sembrava opportuno continuare a fare amicizia con Yasmina Reza, che qua torna a dedicarsi agli spigoli e alle meschinità degli esseri umani addentrandosi nel mondo dorato dei palcoscenici parigini, dove i cialtroni abbondano e le invidie prosperano rigogliose.

Il libro è il lungo (ma neanche tanto) monologo di questa Anne-Marie, intenta a rispondere con dovizia e vaste divagazioni alle domande di un’intervista. La stanno intervistando non tanto per i suoi meriti e le sue mirabili conquiste, ma in qualità di ex collega – non altrettanto famosa e acclamata – di Gigi, defunta attrice mollazzona ma fatalmente fascinosa.

Quel che ne scaturisce è un affilato dissing, ma anche una riflessione sul tempo, sull’effimero, sull’ambizione spesso frustrata e sulle fondamenta sabbiose (per quanto glitterate) della fama. Anne-Marie è una signora ormai anzianotta (e a tratti rancorosa) che non ha dimenticato di essere stata una bambina capace di immaginare l’impossibile e di afferrare, per quanto fugacemente, un brandello di luce. Yasmina Reza, dal canto suo, si conferma micidiale e intelligentissima.

 

 

 

Bentornate e bentornati a questo tentativo – con solo vaghi fini di periodicità – che ambisce a riordinare i vari stimoli che sparpaglio in giro e che vorrei cercare di conservare con un po’ più di raziocinio.

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LEGGERE

Incredibile ma vero, ci sono numerose segnalazioni da raggruppare… alcune delle quali sono addirittura articolate! Gennaio, hai fatto schifo per tante ragioni, ma sul fronte libri ci è andata bene.
Dunque, potete recuperare i seguenti post su due libri meritevolissimi:

Bernardine Evaristo – Ragazza, donna, altro (SUR)
Michele Masneri – Steve Jobs non abita più qui (Adelphi)

Visto che abbiamo nominato Adelphi, gli sconti durano ancora per qualche tempo. Qua c’è un antico listone che avevo preparato con qualche consiglio per una campagna precedente. Si sono aggiunti di sicuro altri titoli degnissimi, ma quello che c’è qua è sempre vero. Mi cimenterò in un aggiornamento, ma ormai aspettiamo il prossimo giro.

Anche Mirella, la nostra fida topa di biblioteca, si è prodigata in suggerimenti e spiegoni. Ecco qua gli ultimi, recuperati a imperitura memoria dalle fugaci Instagram Stories.

Il ritorno della famigerata e schiettissima Olive Kitteridge in Olive, ancora lei di Elizabeth Strout (uscito per Einaudi con la traduzione di Susanna Basso).

Poi, visto che sono evidentemente in un periodo “anziane signore che riflettono sull’esistenza”, ecco anche Anne-Marie la beltà di Yasmina Reza, scoperta da queste parti con Felici i felici. 

Per completare l’opera, su Storytel sto finendo di ascoltare Disobbedienza di Naomi Alderman – sì, è l’autrice di Ragazze elettriche e questo è il suo romanzo d’esordio – e mi sembra di essere piombata in uno spin-off di Unorthodox.
Se siete in vena di collaudi, qua ci sono sempre 30 giorni di prova gratuita per cimentarvi con gli audiolibri.

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GUARDARE

Ho sviluppato una sincera partecipazione per le vicissitudini di Kipo e dei suoi multiformi amici. Ma proprio che alzo le braccia al cielo ogni tre minuti e di tanto in tanto piango pure.
Dunque, è difficile da riassumere, ma comincia più o meno così. Kipo è una ragazzina con i capelli rosa che cerca di ricongiungersi a suo padre in un mondo popolato da corgi alti cinquanta metri, megascimmie, gatti boscaioli, vipere rocker, puzzole motocicliste, lontre da avanspettacolo e pesci parlanti. La superficie è dominata da animali mutanti – alcuni dotati di favella e altri no – e solo parzialmente organizzata sotto la monarchia assoluta e terrorizzante di Scarlomagno, mandrillo megalomane (con mandrillo intendo proprio la specie scimmiesca e non alludo ad alcuna disinvoltura nella sfera sessuale) che va in giro a bordo di un fenicottero gigante a due teste (coi denti) e suona il pianoforte. Gli esseri umani si nascondono in società sotterranee e frammentate e cercano, di base, di tirare avanti… anche se tramano nel buio per levare di mezzo i mutanti che rendono inabitabile la superficie. Non vi spoilero niente, ma è una storia super ramificata, viva, più realistica di quel che sembra e piena di cuorosità, saggi propositi, amicizia e STRUGGLE adolescenziale variamente metaforizzato. Io e Cesare siamo super fan. È una produzione Dreamworks e si può vedere su Netflix.

Kipo e l'Era delle Creature Straordinarie, la recensione della serie animata Netflix

Kipo and the Age of Wonderbeasts: Contro un mondo in guerra - SpaceNerd.it

Sempre su Netflix – e senza l’ambizione di fornirvi suggerimenti particolarmente originali, dato che l’avrete già finito tutti un mese fa – abbiamo cominciato a guardare SanPa. Bisognerebbe scriverci trecento tesi di laurea, credo.

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SPERPERARE

Mi sono comprata la versione scura e un po’ più pesantina dei jeans che ho messo di più quest’estate. Per la rubrica “se trovi una roba con cui ti senti a tuo agio prendila in molteplice copia e in diverse gradazioni di colore”. Sono di Benetton e li trovate qua (in ambo le alternative).

Ho ordinato uno spruzzino fighetto per nebulizzare l’acqua sui vegetali di casa.

Anche se poi non me li so asciugare come si dovrebbero asciugare i ricci, questo shampoo sta funzionando super bene.

Mi arrivano sempre più spesso materiali promozionali stampati su carta piantabile. Sono fogli “normali” che contengono dei semini. Voi li spezzettate, li sotterrate in un vaso, li innaffiate e vi vengono su germogli e foglioline. Sento che la situazione del verde domestico sta per sfuggirmi di mano. Non so dove i miei svariati mittenti si siano procurati la loro carta piantabile, ma a giudicare dalle iconcine vengono da qua.

Non si pianta, ma ho comunque trovato un quaderno che ben si adatta alla mia calligrafia ingombrante e che mi aiuta ad arginare il disordine. È un po’ rétro.

 

 

Michele Masneri mi sta suscitando un certo risentimento perché dopo aver letto Steve Jobs non abita più qui sento il bisogno di tornare in California, affrontando i luoghi e i costrutti antropologici locali con una consapevolezza che da turista giuggiolona mi è mancata. Il senso di inadeguatezza che provo – da ex visitatrice svagata di uno dei luoghi più carichi di mitologie stratificate tra le più varie ed eventuali del mondo – è, in realtà, un fattore positivo. Ci si può sentire manchevoli solo quando ci troviamo davanti a qualcosa di ricco, gustoso e approfondito… che poi forse è anche un po’ quello che mancava alla Valle oscura – se vogliamo dar voce a una delle obiezioni principali in cui Anna Wiener è incappata. Ma tenderei a staccarmi da lì, perché a parte la collocazione geografica e il tema del “tech”, son due faccende assai diverse.

Che fa Masneri?
Steve Jobs non abita più qui è una raccolta di multiformi reportage che nascono da una prolungata permanenza sul campo. Masneri ha stazionato abbondantemente a San Francisco ed è tornato a più riprese in California come inviato del Foglio – che poi è anche il primo posto in cui versioni più stringate di questi pezzi sono approdate dal 2016 in poi.
Di che parlano questi pezzi? In soldoni, di un contesto che riesce ad essere significativo in più dimensioni tematiche e dimensioni temporali contemporaneamente. Eleggendo San Francisco a campo base, per dire, ne ricordiamo la centralità storica per la comunità queer, ma studiamo anche la città come centro di smistamento di cervelli e capitali che, coi loro sforzi congiunti, ambiscono a scaraventarci verso il futuro. Ogni quadro tematico resta fluido e allunga i suoi tentacolini cablati verso un altro pezzettino della città o dell’umanità che lo occupa, restituendoci un mosaico di abbondanti sovrapposizioni.

Si parla inevitabilmente di tecnologia, ma troviamo anche Jonathan Franzen che dal suo villino quasi-boschivo riflette sul perché così tanta gente lo detesti, troviamo la storia di un nuovo filone stilistico-culinario, combattiamo con il mercato immobiliare – ossessione onnipresente prodotta da reali sconvolgimenti socio-economici – e ci addentriamo nella leggenda degli Hearst, passando anche a fare quattro chiacchiere con Bret Easton Ellis, che alle feste ci va molto meno di prima e fa finta di scrivere solo per la TV.
Da dove spunta Uber?
Come funzionano le serrature?
Che ne è stato del grande terrore dell’AIDS?
Com’è il funerale di un mostro sacro del surf?
È il Pride o una manifestazione fagocitata dalle PR aziendali?
Economia, innovazione, cibo, viabilità, personaggi mitologici, fissazioni, creatività… tutto contribuisce al grande puzzle del surreale presente californiano, che Masneri ci restituisce con senso dell’umorismo, arguzia e una salutare dose di spesso meritato disincanto.

[Le foto arrivano da una delle più grandi fonti di MA VERAMENTE del libro: la casa progettata (mobili compresi) da Ettore Sottsass a Palo Alto per David Kelley – designer a sua volta leggendario tra le cui gesta possiamo ricordare l’invenzione del primo mouse. Kelley sta vendendo la casa ma è molto preoccupato, perché teme che i potenziali acquirenti siano interessati solo alla “terra” – vera risorsa scarsa del circondario – e non tanto al lavoro di Sottsass. Insomma, “me la buttano giù e chissà poi cosa ci fanno”. STEI TIUND per futuri aggiornamenti].

Non è rilevante a livello macroscopico ma, in scala ridotta, un pezzo della mia parabola professionale somiglia un po’ a quella di Anna Wiener. Abbiamo entrambe esordito nel mondo del lavoro con un impiego editorial-librario – lei a New York come assistente in una piccola agenzia letteraria – e ci siamo successivamente spostate nel “tech”. Lei ha fatto i bagagli e si è trasferita a San Francisco per trovare la rampetta di lancio a cui sentiva di poter ambire nella terra promessa delle start-up, io mi sono stabilita a Milano e ho cominciato a lavorare in pianta stabile coi social. La mia era un’agenzia digital e, al contrario di Wiener, mi occupavo effettivamente di contenuto, ma trattandosi di un memoir che usa la cultura aziendale come chiave di lettura per tratteggiare un paradigma umano più ampio, qualche punto di contatto – mio malgrado – l’ho percepito a livello epidermico, innescando un certo meccanismo di riconoscimento che ha sicuramente aiutato il libro a far presa sul mio cervello aggrovigliato e perennemente distratto dai social.
Il fatto che si fatichi a spiegare che lavoro effettivamente facesse Wiener è un aspetto che oscilla tra lo sfizioso e il terrificante. Assistenza clienti. Prima per una start-up di analisi dati e poi per una blasonata piattaforma open-source. Non si fanno mai nomi, ovviamente, perché gli avvocati dei giovani miliardari della Silicon Valley sono molto più agguerriti di quelli che potrebbe permettersi l’autrice, quindi la si piglia sempre un po’ alla lontana… anche se non ci sono dubbi su come identificare il “il grande negozio online” o “il social network che tutti odiano”. Al di là delle pressanti necessità di raccontare la sua parabola professionale parandosi al contempo il deretano, Wiener costruisce una ricca cronaca socio-manageriale di un settore che ha completamente sballato le “proporzioni” finanziarie del passato e che, al contempo, è riuscito a modificare radicalmente le nostre abitudini e le nostre scelte di consumo, informazione, intrattenimento. Non mi impegnerò troppo a compilare un elenco, perché non ci sono elenchi da fare. L’impatto è totale, capillare, onnipresente. Così tanto da superare, di fatto, le nostre capacità di valutarne a pieno le implicazioni. Un po’ perché è complicato analizzare un fenomeno che sta ancora succedendo – e che ci coinvolge – e un po’ perché l’ambiente tecnologico in cui ci muoviamo è strutturato per darci l’illusione di essere decisori attivi. Siamo incoraggiati a compiere, di continuo, miriadi di micro-azioni, ingegnerizzate per generare soddisfazione istantanea e risposte immediate. E quello che si intuisce ancora meno è l’ordine di grandezza dei soldi che girano, soprattutto rispetto ad altre aree dello scibile produttivo umano e del mercato del lavoro.
Wiener parte per San Francisco anche perché a New York la vita è cara e l’editoria è pezzente. A venticinque anni non ha prospettive concrete di carriera e tutti i suoi amici che condividono con lei una medesima matrice lavorativo-antropologica fanno altre trentasette cose per mantenersi, perché lo stipendio che portano a casa con il loro impiego “nobile” e intellettualmente gratificante non è sufficiente. Nella Silicon Valley, i venticinquenni sono già navigati amministratori delegati che con una manciata di ingegneri che si occupano del codice e l’idea di un’app – spesso destinata a sorgere e tramontare nel giro di due anni – riescono a raccogliere milioni di dollari di finanziamenti. Si parla una lingua fittizia, fatta di slogan spiritosi, stronzate motivazionali, meme rimasticati e slang tecnico. Si allestiscono uffici giocosi e accoglienti perché ci si aspetta, più o meno tacitamente, che il tempo trascorso al lavoro superi quello da trascorrere “fuori”, come individui disgiunti dall’azienda. Si incoraggia artificiosamente il cameratismo, perché la narrazione della grande famiglia felice crea devozione alla causa. Perché c’è una causa, ovviamente. Nessuna start-up fa semplicemente quel che fa: implementare e vendere un prodotto tecnologico. Le aziende salvano il mondo, creano legami indissolubili, fanno fiorire la creatività e coltivano sogni. E i primi a cui si vende il sogno sono i potenziali dipendenti. L’offerta è attraente: alloggio, assicurazione sanitaria e dentistica, benefit materiali e possibilità di intrattenimento di cui tendenzialmente non avrai tempo di usufruire, perché stai lavorando. Sempre.

Wiener non smette mai di oscillare tra il desiderio di entrare a pieno titolo a far parte di quella specie di confraternita di eletti – brillanti, ricchi, realizzati, integrati nel contesto – e quello di fare un passo indietro per ricordarsi “chi era” e analizzare con più lucidità le evidenti storture di quel nuovo ambiente umano.
A più riprese ci fa notare con veemenza che sì, desiderava moltissimo che l’amministratore delegato di turno le dicesse quanto era brava e quanto il suo contributo fosse prezioso, ma era anche consapevole di trovarsi in un contesto dove il problema della diversity e del sessismo più smaccato erano talmente interiorizzati e “normali” da essere parte integrante, insieme al frigo delle birre, alle felpe col logo aziendale e ai giri in skateboard per l’ufficio, di quella stessa cultura aziendale finto-compagnona che continua a rappresentare uno dei benefit più gettonati del settore.
Tra scandali per molestie gestiti come scocciature periodiche da disinnescare mettendo in piedi un bel dipartimento per le pari opportunità – come diremmo noi con un gergo forse un po’ vetusto – da utilizzare come efficace leva per le pubbliche relazioni senza però generare nessun mutamento strutturale e il graduale riversarsi verso l’esterno, verso la città, verso i quartieri e gli appartamenti delle dinamiche della nuova bolla tecnologica, che di fatto finisce per inglobare anche il mondo materiale circostante, Wiener racconta il suo nuovo universo professionale e cerca di mapparne le implicazioni. Urbanistica, economia, mercato del lavoro, risvolti psicologici, consumo, cultura, controllo. Il punto di vista è ovviamente soggettivo e parziale… e l’intento non è quello di fornirci soluzioni per demolire un sistema che alimentiamo quotidianamente anche noi. Non percepiremo uno stipendio dal social network che tutti odiano (tanto per citare una delle tante entità), ma di fatto forniamo al social network che tutti odiano il materiale indispensabile al suo funzionamento e alla sua redditività: il nostro tempo, i nostri dati, le nostre interazioni, i nostri pensieri e la nostra attenzione. Non è un libro che ambisce tanto a farci impugnare i forconi. Forse è un libro che vuole farci riflettere – fornendoci un po’ di informazioni di contesto e qualche dritta su “quello che c’è dietro” – sul perché, tutto sommato, non ci dispiaccia lasciare i forconi dove stanno.

[La valle oscura è uscito per Adelphi nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra. È una traduzione leggibilissima che, qua e là, si ingoffa un po’ sul gergo tech o economico. Il problema, secondo me, è più che altro di definizione del pubblico di riferimento per questo libro. Perché venture capitalist resta così mentre flagship store diventa “negozio di bandiera”? Tanto gergo aziendale, tecnologico e di marketing è mutuato dall’inglese e viene usato correntemente anche nel nostro contesto – risultando dunque, comprensibile -, ma stabilire la linea di demarcazione che separa l’uso corrente dal lessico ancora troppo specialistico non è mai di semplice definizione e, inevitabilmente, a un pubblico più vicino al tema certi adattamenti balzeranno di più agli occhi e appariranno forzati.]

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