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tegamini

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Il genitore piacentino medio, se la sua prole decide di andare all’università a Milano, è molto difficile che dica “O prole mia, ma che sarà mai, ti affitto una simpatica e ammiccante garçonnière in zona Colonne, che così puoi razzolare felice coi tuoi compagnucci di corso… e se poi trovi anche il tempo di studiare, insomma, tanto meglio. Uscire di casa, uscire di casa vi sveglia, a voi giovani!”
Ecco.
Il genitore piacentino medio, invece, prenderà il suo studente-figlio e gli dirà “C’è il regionale delle 7.08 che fa Rogoredo, Lambrate e Milano Centrale. T’ho preso l’abbonamento… e se anche solo pensi a finire fuori corso ti sego le dita dei piedi e poi ti diseredo”.
Molti dei senzatetto che bevono birrette da due euro in Colonne con gli studenti dotati di garçonnière sono ex-studenti piacentini pendolari, tragicamente deragliati fuori corso e scacciati come cani. Stanno lì insieme a quelli con la garçonnière per farli svaccare definitivamente. Il loro scopo finale – a parte la conquista del mondo – è di mettere insieme un’armata di ex-studenti piacentini senza fissa dimora e assaltare gli atenei che li hanno ripudiati prima che a ripudiarli fosse la famiglia.

Ma stiamo divagando.

Io il su e giù Piacenza-Milano l’ho fatto per cinque anni, col papà che mi comprava l’abbonamento in prima classe perché non poteva credere che i treni fossero ancora uguali a quelli che prendeva lui trent’anni fa, quando lavorava da qualche parte vicino a Lodi. In prima classe c’era tutta la gente che arrancava verso l’ufficio, poi c’eravamo io e il mio amico delle superiori col genitore ferroviere. Se hai un genitore ferroviere, si è scoperto, tu e tutti i tuoi consanguinei sarete automaticamente ammessi gratis sul treno che più vi piace. Lo invidiavo un casino. Aveva anche questo tesserino che testimoniava la sua appartenenza alla stirpe dei ferrovieri… e secondo me avrebbe dovuto vantarsene un po’ di più.
Insomma, grazie al mio papà che finanziava la prima classe, capitava addirittura che si trovasse posto a sedere. Lo stare seduti, però, non assicurava che tutto il resto andasse a finire bene. Se avevo un esame alle 10 – orario che all’intero mondo sembra, giustamente, onestissimo e normale – partivo in media alle sei e venti del mattino, che se un caribù sveniva sui binari vicino a Secugnago, a Milano non c’era speranza di arrivare. Certe volte rinunciavo proprio al viaggio e la notte dell’esame stavo a casa della mia amica Flavia, che aveva una gatta grassissima che mi svegliava sempre. Paprika era l’unica gatta del mondo ad avere il passo pesante.  Arrivava in salotto e faceva scricchiolare tutto il parquet… e io mi svegliavo, sbraitando modelli macroeconomici e indici di bilancio.
Ma stavamo parlando di treni. Anzi, dell’orrore dei treni… però non siamo qua per fare del blog-dolore, come delle Barbare d’Urso qualsiasi. Siamo qua per parlare dell’evoluzione fenomenologica della ferrovia, del passeggero che muta al mutare del vagone che lo ospita, delle distanze che si accorciano perché le velocità si impennano, dei “salumi di alta qualità” e del “scegliete una pausa di gusto!”.

Siamo qua perché da settembre prendo due Frecciarossa al giorno (pagandoli profumatamente, questa volta di tasca mia).
E siamo qua perché, più di tutto, non riesco a capire com’è che si siedono le persone.

Ora, se compri un biglietto Frecciarossa ti assegnano il posto. Se, invece, compri un abbonamento mensile, il posto non ce l’hai e devi vagare come una trottola in cerca di un cantuccio libero dalle terga di qualcuno che, al contrario di te, non ha dato 295 euro (in anticipo) a Trenitalia. E pace per il Milano>Torino delle otto del mattino, che è tutto un susseguirsi di folkloristici riti propiziatori e balletti di “scusi, mi sa che lì ci sono io” e “prego, mi alzo subito”. Alla mattina si sta pigiati e buonanotte… capirai, ci sono esperienze pendolaristiche ben più cruente e chi sono io per fare la zarina sulla slitta. Quello che però non comprendo è che cosa spinga la gente ad agglomerarsi e ammassarsi anche quando non è necessario. Per dire, il Torino>Milano delle 18.40 mi regala sempre momenti di fragoroso stupore.
Ho addirittura prodotto dei diagrammi.

Ecco. Si sale a Porta Nuova e il treno è vuoto. Una roba commovente. Allora ti scegli bene il posto, ti ammucchi intorno tutti i necessari generi di conforto e, finalmente, ALLUNGHI LE GAMBE. Ora, io non sono una modella siberiana di due metri e dieci, sono solamente una persona di un metro e settanta che non vuole passare il tempo rattrappita e compressa. Io le voglio allungare, le gambe. E non mi sembra un’ambizione così bizzarra, anzi, mi è sempre sembrato un desiderio condivisibile da ogni altro essere umano. A chi piace scalciarsi col passeggero davanti? Chi ha voglia di dribblare le centosei borse per il pc che il consulente-medio non può fare a meno di piazzare in terra, sotto al maledetto tavolino e in mezzo ai tuoi piedi innocenti? L’unica cosa che mi consola, quando mi mollano le borse sui piedi è che, quando mi addormento tiro calci. Comunque. Sarò io misantropa, ma non ne voglio di gente davanti, voglio potermi distendere come una paciosa foca monaca sul suo scoglio levigato.

È per questo che, se fossi una che sale a Torino Porta Susa, deciderei di comportarmi in questo modo:

Dove mi siedo?
Semplice, fuori dalle balle.
Mi siedo nel mio cantuccio e allungo le gambe pure io, senza generare disordine, senza offendere le articolazioni del prossimo e obbligarlo a regredire dalla situazione felice e serena del tragitto Porta Nuova-Porta Susa. Che a star bene ci si abitua alla svelta e poi col cavolo che vuoi rimetterti lì con le ginocchia in gola.
Qualcuno potrebbe dire “Eh, ma scusa, il posto che mi hanno assegnato non è mica quello lì dove si possono distendere le gambe”. E pace. Pace e bene. Ci siamo in due, sul treno, ma che ti frega, vai lontanissimo e non intralciare la mia posizione-yoga numero centotredici, diamine. Se poi arriva qualcuno che effettivamente quel posto ti rimetti a obbedire al biglietto. Ma finché non c’è nessuno perché condannarci all’artrosi?
Perché è illogico e insensato, ma quello che succede a Torino Porta Susa è questo:

Perché.
Perché.
Perché.
C’è tutto il treno. Che cosa vuoi da me. Ma non puoi essere un po’ misantropo anche tu, viaggiatore sottovuoto che arrivi all’improvviso a turbare la mia tranquillità?
All’inizio non mi spostavo, che magari sembrava maleducato. Adesso, invece, ho deciso di infischiarmene dei sentimenti altrui e di rispondere con boria e tracotanza all’insensatezza della gente che non si sa sedere. Di solito, stacco il caricabatterie dalla mia spinetta personale, lo attacco alla spinetta vicina (anche se è distante tipo un centimetro) e, sbuffando come un bufalo con gli zoccoli scheggiati, mi trasferisco pesantemente nel sedile LIBERO alla mia destra. Tiro la levetta sotto al sedile e, facendo tutto il rumore che posso, allungo il sedile con cattiveria. E basta, mi rimetto com’ero prima, viva Dio. E non avrei più nessun problema con l’illogico passeggero appena arrivato se non mi accorgessi, tutte le maledette volte che, appena mi sposto, anche lui distende le gambe. E anzi, le distende con un certo scocciato sollievo, come se ogni sua scomodità fosse tutta colpa mia. “Oh, finalmente ti sei levata. Ma pensa te, sta stronza, neanche le gambe mi faceva stendere, che è tutto il giorno che lavoro come un bastardo in un campo di patate, brava, brava, mettiti da quella parte, fuori dai coglioni”.
E ve lo giuro, è così che va.
Ed è questo quello che davvero mi sconforta. Che posso quasi quasi capire che uno voglia sedersi dove il biglietto gli dice di sedersi, ma il resto no. Il resto è di una stupidità che sfiora la superstizione.
E allora, come salvarsi?
Niente, mi siedo nei sedilini appaiati, quelli che hanno davanti solo gente messa di spalle. E mi guardo bene dal lasciare la giacca nel posto libero che mi rimane vicino, che questi posti sono preziosi e vanno condivisi con chi è ancora in grado di sedersi normalmente.

È un po’ che non parliamo dell’alpaca e che non gli dedichiamo l’attenzione che merita. Perché l’alpaca è l’animale più sublime di tutte le galassie! Paladino di poffosità, amico di ogni creatura visibile e invisibile, protettore dei pascoli erbosi e della gioia più splendente!
Ecco.
Per ricordarvi perché l’alpaca è straordinario, oltre a suggerirvi l’attenta lettura della prima e indimenticabile puntata della rubrica Gli animali ti guardano, sento anche il bisogno di rinvigorire il vostro entusiasmo con questa raccolta di dotti aforismi e illustri osservazioni. Che a me magari potete anche non credere, ma vi sfido a contraddire Darwin, padre della teoria evoluzionistica.

La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli alpaca.
Gandhi

La crudeltà verso gli alpaca è tirocinio della crudeltà contro gli uomini.
Publio Ovidio Nasone

L’alpaca è la virtù che, non potendo farsi uomo, si è fatta bestia.
Victor Hugo

Quando gioco col mio alpaca, chissà se sono io che mi sto divertendo con lui o lui con me.
Michel de Montaigne

L’etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata finora limitata ai rapporti tra uomini. Ma questa etica è limitata. Abbiamo bisogno di un’etica più vasta, che includa anche gli alpaca.
Albert Schweitzer

Non c’è una differenza fondamentale tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dell’alpaca. Per quanto grande sia la differenza fra la mente umana e quella degli alpaca, si tratta certamente di una differenza di grado e non di genere.
Charles Darwin

 

Bene. Ma perché siamo qui? Siamo qui perché questi momenti d’oblio non si ripetano più. Mesi e mesi in cui il mirabile quadrupede andino è rimasto confinato in un minuscolo angolino del nostro cuore, senza poter galoppare liberamente su e giù per le praterie d’amore che meriterebbe invece di percorrere e abitare in ogni istante della vita del mondo. Eccoci dunque qua, pronti a partire alla perigliosa ricerca di un simbolo immortale, pronti a dar prova della nostra solidissima devozione.  E come, con cosa? Con un’icona, che domande, con un simulacro d’alpaca da tenere in bella vista nelle nostre abitazioni, così lontane dal Sud America e dall’ambiente naturale del nostro beniamino. Così su due piedi sembrerebbe impossibile trovare un oggetto capace di racchiudere e riassumere in se stesso tutta la nobiltà dell’alpaca. Ma, dopo attente e meticolose ricerche, sono qua per darvi speranza. Perché, da qualche parte nell’estremo oriente, c’è chi crea pupazzi a forma d’alpaca, pupazzi di rara bellezza… alti fino a quaranta centimetri e super accessoriati!
Giubilate!

Ora, rimanendo sempre sui modelli di jumbo-alpaca, sono indecisa fra questi tre esemplari… e gradirei un vostro consiglio. Ve li presento.


Alpaca UNO. Con un’inspiegabile tortina al collo.
Quel che non mi garba è la forma dimessa e malinconica delle orecchie, che dovrebbero essere ben svettanti e vigili, invece che spiaccicate all’ingiù come le tristi fronde di un salice.

*

Alpaca DUE.  Con orecchie infiocchettate e cravattino.
Mi piace il portamento, ma il muso è da imbecille.

*

Alpaca TRE, con accessori tartan.
Mi piace il portamento, mi piace l’espressione spavalda. Il cappello lo getterei nel fuoco.

 

Io propenderei per l’alpaca TRE. Ma è importante che ci sia consenso popolare, visto che finirebbe per diventare una delle numerosissime mascotte di Tegamini, nonché tormentone incancellabile e gradita aggiunta allo stemma araldico del mio casato. Comunque vada a finire, però, aggiungerò allo stupidissimo ordine un’irrinunciabile minipochette rosa a forma di cucciolo d’alpaca, che porterei con me in ogni dove e cullerei senza sosta e senza posa.

Ovviamente, chi fosse a conoscenza di qualche altro genere di morbido simulacro d’alpaca è pregato di segnalarmelo senza indugi. Perché limitarsi a un piccolo altare, quando si può erigere un maestoso tempio?

 

I libri divertenti sono molto necessari. Almeno, a me i libri divertenti servono moltissimo. Mi riposano. Mi fanno delle sorprese. Mi scarrozzano in posti improbabili. Si fanno leggere in fretta e lasciano quella piacevole sensazione di contentezza cicciottella che, di solito, sopraggiunge appena dopo aver mangiato uno di quei cioccolatini giganti al RUM. Dovrei leggerne di più, di libri divertenti, dovrei mettermi in piedi su una bianca scogliera e gridare alla vastità degli elementi una roba tipo “leggetevi un libro divertente, ogni tanto!“.
Ecco.
Vi griderei anche qualcosa sull’Atletico Minaccia Football Club di Marco Marsullo, che è uscito da poco per Einaudi Stile Libero rallegrandomi quasi quanto mille foto di cuccioli molto piccoli. Potevo mettermi qua a far fatica, ma poi ho pensato che magari era più bello per tutti quanti se a dirvi delle cose ci veniva il Marsullo in persona. E allora gli ho fatto un po’ di domande. Qualcuna è seria, qualcuna per niente. Lui però è sempre impeccabile. Insomma, divertitevi qua e divertitevi col libro.

***

Messer Marsullo, direi di procedere con ordine e precisione. Che faceva prima di diventare un giovane scrittore?

Studiavo con scarso profitto all’università, facoltà di giurisprudenza: media del 21.9. Un salasso dell’anima. Poi una mattina Einaudi mi ha chiamato e sono diventato, automaticamente, un giovane scrittore.

Lo sa, vero, che sarà considerato un giovane scrittore fino ai cinquant’anni (indipendentemente da come se li porta)?

Lo so, da queste parti è così. Infatti io mi definisco, talvolta, uno “scrittore liquido amniotico”, a 27 anni giovane è pure troppo.

Il suo libro è pieno zeppo di gente che piglia a calci il pallone. Lei come se la cava?

Sono un difensore centrale senza fronzoli. Per me palla e gamba sono la stessa cosa. Chiaro: non entro mai duro per far male apposta, però può capitare. Diciamo che ho dovuto sopperire con il cuore ciò che madre natura non mi ha dato nei piedi. Ah, e sperdo (quasi) sempre il pallone fuori dal campo quando faccio un tiro al volo.

Scusandomi in anticipo per lo sfoggio di stereotipi, c’è una vicenda che mi stupisce. Che cosa spinge un napoletano a tifare Milan con travolgentissima passione?

Quando ero piccolissimo (5 anni) mio zio mi chiese quale fosse il mio calciatore preferito. La risposta fu Van Basten. La conseguenza fu AC Milan. E per fortuna, amo la mia squadra in modo viscerale. PS: Forza Lotta / Vincerai / Non ti lasceremo mai!

Come devo comportarmi con la mia maglietta di Ibrahimovic, ormai obsoleta?

Be’, io Ibra lo rispetto. Nel senso: lui è un mercenario, lo ammette, lo ha sempre dimostrato. Ma mercenario non in accezione negativa, come tanti calciatorini che si baciano la maglia e il giorno dopo trattano con altre squadre per guadagnare il doppio. Zlatan è così: non fa promesse, non si innamora, in campo dà tutto per i suoi colori del momento. Poi dopo un paio d’anni se ne va, cambia. Devo tanto a lui e ai suoi gol. Gli voglio bene, possiamo dirlo.

Continuo ad essere invaghita di Zvonimir Boban, dovrei preoccuparmi? È bello pure il nome: ZVONIMIR.

Anche io ho un problema con Zvonimir “Zorro” Boban. Era un numero 10 fantastico, un giocatore geniale. Lo amo ancora, infatti quando lo becco a commentare in tivù mi impallo lì davanti a fissarlo. Grazie, Zorro.

Un giorno si è svegliato – magari anche un po’ tardi – e ha deciso che avrebbe scritto un libro. Insomma, da dove viene l’Atletico Minaccia?

Viene da un’intuizione. Una sera guardavo Mourinho in televisione e in venti secondi si è materializzato Vanni Cascione (il mister sfigato dell’Atletico Minaccia). Il resto è venuto fuori in tre mesi, una storia che si è davvero scritta da sola. E poi l’Atletico è la squadra che tutti vorrebbero vedere in campo: non ortodossa ma piena d’onore, un’accozzaglia di pazzoidi con i tacchetti ai piedi.

Giocatore preferito dell’Atletico Minaccia. (Io adoro il quarantenne che in carriera ha superato la metà campo solo tre volte).

Voglio bene a tutti, però ne ho due. Peppe Sogliola, il centravanti, perché lui è il vero trascinatore, quello che più di tutti salva la panchina di Cascione in più riprese. E Sasi Mocciardi: il numero 10 arrogante e presuntuoso, col suo tatuaggio del “Pocho Lavezzi che si ammocca (bacia, per i non napoletani, ndr) con la Madonna” che gli ricopre la schiena. Ecco, lui mi è piaciuto proprio scriverlo, quando lo rileggo rido io per primo di gusto.

Tifoso preferito dell’Atletico Minaccia. (Io voto Renetta. E deve anche sapere che ero in treno, quando mi sono imbattuta nella meravigliosa storia del soprannome del Renetta. Ero in treno e ho riso da Asti a Milano Centrale, suscitando la curiosità di tutti i consulenti incravattati che mi circondavano e facendole così vendere almeno dieci copie, controllore compreso).

Michele Caputo: l’ex ultrà del Benevento che, senza nessun motivo, comincia a diventare folle dell’Atletico Minaccia Football Club. Però a Renetta e Caracas voglio proprio bene, come due amici.

Mourinho l’ha ricevuto, un Atletico Minaccia?

Gliene abbiamo mandata una copia, sì. Sono quasi sicuro che quando l’ha ricevuto, ha detto: “Marsullo? Non lo cunosco. Io cunosco Marzulo, presentatore tivù, marsupio, borza per purtare ojetti, ma Marsullo non lo cunosco”.

Consigli un bel libro alle nuove generazioni.

“I frutti dimenticati”, di Cristiano Cavina. Commovente e sincero ritratto del rapporto padre-figlio, e delle sue difficoltà. Oh, anche io riesco a essere serio, ogni tanto.

Lei da cucciolo che cosa leggeva?

Ho letto poco, e questo, seriamente, è il più grande rimpianto della mia vita. Ho iniziato con Paulo Coelho a 17 anni (!!!), poi ho incontrato (il primo) Ammaniti. Non proprio due cose accostabili. Da lì ho capito cosa mi piaceva.

Ma i calciatori, scrivono e basta o leggono anche qualcosa?

Non saprei, credo qualcuno legga, non sono così capre come sembra. Mi piace immaginare che qualcuno prenda (o gli venga regalato, va’) il mio Atletico Minaccia. Si farebbero un sacco di risate.

Fifa o PES? Ma soprattutto, che ci trovate in quelle robe lì?

Fifa, rigorosamente Fifa. Da più piccolo ero un accanito giocatore di PES (l’allora: Winning Eleven), ma da un paio d’anni (da quando, in pratica, ho preso l’Xbox) Fifa ha divorato il suo concorrente. Non c’è più partita. In “quelle robe lì” ci troviamo la cosa più sacra e forte che fa di noi uomini, Uomini: la Sfida. È tutto lì.

Fornisca alla popolazione italica qualche buon motivo per leggere il suo romanzo.

Fa ridere, fa pensare, fa appassionare alla vicenda, umana e non solo calcistica (le migliori recensioni le ho avute da donne, ad ora!), di questo allenatore scalcagnato, Vanni Cascione, un po’ canaglia e un po’ sognatore. E poi c’è il rapporto con sua figlia 14enne, che in tutto il romanzo è una specie di filo di Arianna che condurrà alla fine con una soluzione. Ma soprattutto, e vi parlo col cuore: l’ho scritto con tutta l’onestà e la sincerità del mondo. Volevo solo raccontare una storia, ho provato a farlo nel modo più vero possibile.

E ora, che cosa accadrà? Il tour promozionale le spezzerà per sempre le gambe o ha già in mente delle nuove storie?

Dopo i primi giorni in libreria posso dire solo una cosa: non ci sto capendo niente, e non me lo aspettavo. Ricevo ogni giorno messaggi via mail, su Twitter, su Facebook, dove tantissimi sconosciuti (gli amici l’hanno già preso, eh) mi fanno i complimenti e dicono di aver letto/preso il romanzo. Uau. È tutto stupendo. Poi sono stato a “Quelli che il calcio” e mi sono divertito un sacco. Diciamo che è una lavatrice, per ora. Ma detto questo: sto scrivendo il romanzo di dopo, sono a un ottimo punto, non dimentico mai una cosa: io sono uno che racconta storie. È la cosa che più mi piace fare. Non smetterò facilmente.

Per concludere, vorrei ricordarle che una volta, su Twitter, mi ha mandato un DM che così recitava: FIDANZIAMOCI IA’! Così, senza nemmeno un ciao.

Ti risponderò con una citazione finale di uno dei miei film (e romanzi) preferiti: “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”. E in ogni caso, Francesca: “Fidanziamoci, ià!”. E il “Ciao” lo aggiungo ora. A te e ai tuoi lettori. Stare su Tegamini è il mio sogno fin da quando non ero ancora un giovane scrittore einaudiano. Adelante! E grazie.

***

Tegamini qua e Tegamini là! E prima che possiate dire “Tegamini anche basta”, vi informerò di una nuova collaborazione che mi rallegra immensamente e che, per osmosi e umana solidarietà, dovrebbe far saltellare anche voi. Perché da oggi potrete leggere delle Tegaminate anche su Gazduna!
Và che gioia, mi hanno anche fatto un foto-trailer:

Questo felice ritratto – che ha anche il pregio di nascondere le occhiaie – viene dal pratino verde dei TweetAwards 2012, luogo che ha sancito e benedetto l’incontro tra me+borsagallina – qui in veste di agente – e le adorabili fondatrici di Gazduna, che mi hanno pure donato quel magnete lì. Poco tempo dopo, le protettrici dei colibrì hanno segnalato Tegamini tra i blog indispensabili alle vostre esistenze, esortandomi a prendere parte all’ultimo blitz dell’anno. I blitz – momento tutorial – sono gli argomenti mensili di Gazduna, gli allegri contenitori tematici che ospitano, di volta in volta, i contributi dei fortunati postatori di articoli. Ecco, io a quell’ultimo blitz dell’anno non ho fatto in tempo a partecipare… ma poi ho comprato un quaderno per segnarmi le cose da fare e sono finalmente riuscita a saltare sull’allegro carrozzone.

Ecco il blitz di questo mese:

Cari gazduni, con questo Blitz! vi sveleremo alcuni dettagli della biografia del Buon Gaz che vi lasceranno con la boccuccia a O.
Ora, voi dovete sapere che quando gli uomini primitivi, dopo una notte di tempesta, trovarono un legno in modalità “tizzone arroventato” e inizarono a cuocersi costolette di pterodattilo, Gaz c’era. E che dire diquando l’uomo si accorse che le cose tonde corrono in discesa che è una meraviglia e inventò la ruota? Ebbene, Gaz aveva già la sua bicicletta. Si dice poi che all’altro capo del telefono senza fili di Marconi ci fosse un tal MacGaz.

Questi scintillanti e finora misconosciuti accenni biografici servano per rendervi noto che il prossimo argomento sarà: l’invenzione.

Saccheggeremi gli uffici brevetti, ci spremeremo le mengingi assieme ad Etabeta, ci faremo chiamare Genius (soprattutto in intimità), disegneremo macchine volanti che useranno l’Estathe come carburante, saremo un pacchetto di neuroni in preda alla follia creativa.

Ed ecco il mio post:

Il reggipetto di Neil Armstrong
Le tute spaziali della missione Apollo e i loro 21 strati di fashion


 

TEGAMINI – Cosa dite allora, apriamo i regali?
PAPA’ – Ma che regali? Guarda che noi non te ne abbiamo mica fatti.
TEGAMINI – Eh, fa niente. Ve li ho portati io. Guarda che roba. Tò papino.
PAPA’ – Oh vacca, che bello. Ma che bello. La biografia di Newton!
TEGAMINI – Lo sapevo che ti piaceva. Volevo prenderti l’ultimo di Stephen Hawking ma poi ho pensato che ami comunque di più Newton. Poi hai visto il sottotitolo? Cos’è, “genio, alchimista o psicopatico?”
PAPA’ – Grazie, guarda, hai proprio fatto bene.
TEGAMINI – MADRE, vieni qua che c’è il tuo regalo.
MADRE – Ecco, ecco. Cosa lascio, tutti i piatti nel lavandino?
TEGAMINI – Ma se non abbiamo ancora finito di mangiare, DIOSANTO. Tò, tieni, eccoti un dono.
MADRE – Chiara Frugoni. La voce delle immagini.
TEGAMINI – Lei è bravissima. In questo libro qua ci sono tutte le storie sull’iconografia medioevale, con le illustrazioni belle, i santi e compagnia. E scrive così bene che vedrai che ti diverti, non è mica un mattone.
MADRE – Oh, ma pensa. Ma mi piace già.
TEGAMINI – Hai sentito, papà? Le piace!
PAPA’ – Incredibile.
MADRE – Te taci, che hai due regali. C’è anche il mio. Tieni, tieni.

Padre apre il suo regalo. È inequivocabilmente un pigiama. Di quelli beige, felpatini ma comunque leggeri, con la casacca a righe BORDO’ e blu. Tre bottoncini e taschino. È un bel pigiama. Niente da eccepire.

PADRE – Oh, ma che bello, grazie!
MADRE – È una tuta da casa.
PADRE – Bellissima. Ne avevo proprio bisogno.
TEGAMINI – Una tuta da casa? Ma cosa stai dicendo. Ci vedete? Ma è un pigiama, cazzo.
MADRE – Ma come ti esprimi!
TEGAMINI – Ma MADRE, come fai a dire che è una tuta da casa? È un pigiama!
MADRE – Non è vero. Guarda che bei colori da giovane.
TEGAMINI – MADRE, potrebbe anche essere a fiori hawaiani, ma quello lì è un pigiama, santo il Dio! Ma non lo vedi? È sottile, non è mica di felpa. È così un pigiama che non riesco nemmeno a spiegarti perché è un pigiama!
MADRE – Mimmo, ma la senti?
TEGAMINI – Papà, anche tu, è un pigiama! Vi prego, accettiamolo!
PADRE – Io non lo so. Mi piace.
TEGAMINI – Non ho detto che è brutto. Ho detto che è un pigiama! È un bel pigiama.
MADRE – Sà Mimmo, provatelo.

Mio padre si denuda in mezzo al salotto e indossa il suo nuovo pigiama. Poi torna comodamente a tavola per il panettone.

TEGAMINI – Senti, adesso che ce l’ha su è inequivocabile! Siamo tutti qua, e il papà è in pigiama!
MADRE – Gli sta benissimo, la sua tuta.
TEGAMINI – AAAAAAAHHHHHHH!!! Dov’è il gatto? Solo lui mi capisce!
MADRE – Lascialo stare, mio nipote, che stava dormendo.
TEGAMINI – …aspetta, però. Forse ho capito, MADRE. La tua astuzia non conosce confini!
MADRE – È una tutaaaaaa.
TEGAMINI – È una mistificazione! Sappiamo benissimo che il papà odia i pigiami e creperebbe piuttosto di dormirci dentro.
PADRE – Solo all’ospedale me lo sono dovuto mettere.
TEGAMINI – Ecco. Quindi tu, MADRE, subdola e scaltra, gli hai rifilato un pigiama spacciandolo per tuta da casa, sperando che un giorno si converta! Papà, fuggi, è una trappola!
PADRE – …
MADRE – Oca.
TEGAMINI – Quando mi insulti vuol dire che ho ragione.

 

Succede, a volte, che si avverta l’inderogabile necessità di rischiarare con una stupidaggine l’oscuro deserto di disperazione e patimento che ci troviamo ad abitare. Questo karmico meccanismo di auto-conservazione si innesca con frequenza variabile da individuo a individuo. A me, tipo, succede spessissimo. È successo tempo fa, quando decisi di mettermi al collo una sciarpa a forma di volpe e succede anche adesso che posso avvolgermi in un golfino tempestato di folli gattini con gli occhi pallati.
Funziona così: c’è un residente dello stato del Rhode Island che va a cercare golfetti di ogni forma e colore per trasferirci su delle cataste di gatti. Quando li trova, ci stampa sopra queste sagome di gatti e poi dona loro la vista, applicando sui loro musetti – ancora orbi e informi – dei bulbi oculari di singolare fissità (anche per dei felini).
Il risultato finale è questo:

 

***

Risultati ancora più sublimi – e concrete possibilità di aprire un portale verso una dimensione sconosciuta e avvincentissima – possono essere raggiunti indossando uno dei maglioni di Pretty Snake mentre si tiene in braccio Ottone von Asgard, Ironcat Supremo, Implacabile Minaccia Fantasma.
Eccomi, nel pieno di una combo maglione-Ottone,  all’interno di una fotografia più ampia (che non mi aspettavo sarebbe mai stata scattata) che ho però deciso di ritagliare per consentire a vittime incolpevoli di raggiungere la salvezza.

***

Per i fan di Ottone von Asgard, gli ultimi avvenimenti che lo riguardano sono i seguenti:

– il veterinario ha predetto che si tufferà dal soppalco al divano fra circa un mese.

– il manzo ci fa ORRORE. Orrore e paura invincibile.

– l’unico oggetto che Ottone ama sinceramente e cerca senza requie è il rotolino di scotch che tento invano di nascondere nel portamatite. Ottone sale sul tavolo e, con perizia chirurgica, se ne impossessa tutti i giorni per farlo ruzzolare in giro. Ogni tentativo di rimetterlo a posto e farlo desistere si è rivelato vano.

– Ottone è riuscito a correre sotto al lavandino e a scardinare il tubo di plastica dello scarico. Vero, il tubo partiva già da una condizione di scarsa solidità, ma il contributo di Ottone alla silenziosa alluvione verificatasi in cucina è significativo. Dopo questa performance, ai titoli onorifici di Ottone von Asgard, Ironcat Supremo, è stato aggiunto anche quello di Implacabile Minaccia Fantasma.

– Amore del Cuore lo sogna di notte. Nei sogni di Amore del Cuore, Ottone ha il dono della parola e afferma cose sconvolgenti: “guarda che capisco tutto quello che vi dite”. Siamo fottuti.

 

***

TEGAMINI – Mamma mamma mamma possiamo avere un gatto?
MADRE – …a me piacerebbe molto, lo sai, ma devi chiedere a tuo padre.
TEGAMINI – Papà papà papà possiamo avere un gatto?
PAPA’ – No.
TEGAMINI – Ma perché!
PAPA’ – Perché no.
TEGAMINI – Ma la mamma…
PAPA’ – No.

Una ventina d’anni dopo:

AMORE DEL CUORE – Per Natale non ci facciamo i regali.
TEGAMINI – …ma come non ci facciamo i regali. Il cazzo! Io lo voglio il regalo di Natale, che cosa vuol dire che non ci facciamo i regali, dobbiamo anche fare il primo albero di Natale insieme, vuoi non metterci sotto niente, io non…
AMORE DEL CUORE – Non ci facciamo i regali perché adesso ci mettiamo qua e cerchiamo un gattino. E visto che sei allergica dobbiamo prendere il siberiano. Quindi no, niente regali, ci regaliamo il gatto. Volevo farti la sorpresa, ma poi ho pensato che era meglio se lo sceglievamo insieme… Ecco.

Ora, prima che qualche paladino dei deboli s’indigni perché “con tutti i gatti abbandonati e pieni di croste che ci sono in giro io non capisco che bisogno ci sia di prendere un siberiano con genitori provvisti di pedigree e di questo passo dove andremo a finire e piovegovernoladro e tutti i giovani sono dei drogati”, ci terrei molto a precisare che, per ragioni d’allergia, il siberiano è un po’ l’unica alternativa (CHE DISGRAZIA!). Questo nobile gatto nasce (senza bisogno d’interventi di scienziati pazzi) con una minor concentrazione nella saliva della proteina responsabile delle allergie. Che non è il pelo che fa starnutire, è la proteina distribuita sul pelo a vigorose leccate che gli conferisce questo potere di far lacrimare gli occhi e ponfare le cavità nasali. Va così.

E così sono partite le audizioni per trovare il Gattini del Cuore.

La prima concorrente provinata è stata una gattini tutta nera. Per arrivare alla sua dimora abbiamo cambiato in tutto tre tram, finendo poi in un complesso residenziale simile al labirinto del Minotauro, un posto circondato dal nulla, coi palazzi con le porte impossibili da trovare, i lampioni fiochissimi e la nebbiolina umida ad altezza polpaccio, tipo b-movie dell’orrore. Comunque, nella casa della gattini nera vivevano circa altri milleduecento gatti siberiani. Coricati ovunque, dai pensili della cucina alla cima dei lampadari, in un vorticare di pelo, polvere e crocchette masticate. La nostra potenziale gatta era un po’ secca e di pelo non molto poffoso. E pure iettatrice, forse. Ora, non ho mai avuto particolari pregiudizi verso i gatti neri, prima d’incontrare questa gattini. È anche vero che mai nella vita avevo preso una multa per non aver timbrato il biglietto su un mezzo pubblico. Poi niente, scendiamo dal millesimo tram e incappiamo in una falange armata di controllori ATM che, dovendo scegliere chi fermare tra me, un ciclope, una coppia di troll di caverna, un sosia di Kratos lo spartano, un borseggiatore con tanto di terzo braccio finto a tracolla, scelgono me. E al “signorina posso vedere il suo biglietto?” mi accorgo di aver dimenticato di timbrare. Ventisei euro di multa e l’insindacabile decisione che no, la gattini nera se la potevano pure tenere.

Il giorno successivo, animati da una fiducia quasi profetica, veniamo ricevuti dal gatto più bello e affabile mai vissuto – nero pure lui. E sulla via di casa decidiamo che si dovrà chiamare Ottone von Asgard, Ironcat Supremo.

Al secondo giorno dal suo insediamento sul trono, Ottone contempla il suo regno, coccolando i cuscini-frollini.

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Il venerdì, giorno designato per il ritiro di Ottone, Amore del Cuore – già nel mood padre-modello – si reca al negozio di animali e acquista:

– cassettina pipìpupù con filtro antiodore, setaccio e porticina basculante
– lettiera magica (in pratica funziona che se un gatto fa una cacca o una pisciatina, la deiezione attira verso di sè tutta la sabbia che, formando una palla, si auto-isola dal resto della sabbietta pulita e può essere così agevolmente eliminata. Son questi i momenti in cui adoro la scienza)
– tiragraffi a due piani con topino penzolante incorporato
– due chili di crocchette
– venti scatolette al tonno e al pollo
– spazzola
– pupazzetto di topino frinfrillante
– trasportino…

AMORE DEL CUORE – Eh, avrei anche bisogno del trasportino.
ANIMALAIO – Ne ho di tre misure. Piccolo, medio e grande.
AMORE DEL CUORE – Quello piccolo potrebbe andare? È un gattino di quasi quattro mesi…
ANIMALAIO – Ma di che razza è?
AMORE DEL CUORE – Siberiano.
ANIMALAIO – HAHAHAHAHAHA, quello piccolo, HAHAHAHAHA! Ti dovrei già dare la misura grande!
AMORE DEL CUORE – …vabè, facciamo il medio.

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The cat is on the table.

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Eventi salienti e casistica casuale delle prime due settimane di convivenza con Ottone von Asgard.

– A Lotto Fiera, in un bel vagone affollato della metropolitana, Ottone von Asgard – ben avvolto in una copertina di PAIL rosso e inserito nel trasportino medio – decide di fare la pipì.

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Ottone, il gatto più preso male della Lombardia, appena giunto nella magione dei Tegamini del Cuore.

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– La prima sera, atterrito dall’ambiente sconosciuto, Ottone von Asgard respira velocissimo e sfiora più e più volte l’infarto. La mattina successiva lo troviamo incastrato nella nicchia delle scope e dell’aspirapolvere, luogo ritenuto molto più comodo e salubre del cestino imbottito predisposto per il suo sonno. E comunque, quando l’ho visto incagliato tra spazzole e palette, immobile e addormentato, ho gridato la seguente cosa ad Amore del Cuore: “È MORTO! ODDEEEEEO, È MORTOOOOOOOOOOH”. Poi ho pianto, perché era vivo.

– Ottone von Asgard elegge gli scaffali rasoterra della scala-libreria come nascondiglio strategico e dimostra di avere molto giudizio in fatto di letteratura: tra tutto quel che c’è, sceglie di masticare solo il Supercorallo di Accabadora di Michela Murgia.

La letteratura offre un salvifico riparo a Ottone von Asgard. E un po’ a tutti quanti, valà.

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– Ottone von Asgard non miagola, emette dei pigolii. Ogni volta che salta giù da qualcosa, i pigolii diventano molto simili agli SQUIK che fanno quei giocattoli gommosi schiacciabili e trombettanti . A ogni atterraggio corrisponde uno SQUIK. I suoni mutano nuovamente quando Ottone von Asgard deve imprimere una certa accelerazione al suo incedere: se inizia a correre o deve fare la scala in salita, Ottone von Asgard farà FRRRUIUIUIUI.
Tutta questa collezione d’espressioni sonore risulta più vicina ai versi di un qualsiasi Pokemon rispetto a quanto ci si potrebbe ragionevolmente aspettare da un gatto.

– Ogni volta che ti giri e vedi che c’è Ottone von Asgard, lo ami un po’ di più.

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Giorno 2: Ottone non riesce più a nascondere il suo buon carattere e passa la mattina a farsi avvolgere nell’amica vestaglietta.


Sempre nel glorioso giorno 2, Ottone si rovescia senza ritegno sui miei ospitali arti inferiori.
Và, non c’è nemmeno bisogno di usare Instagram, per far venire bene questo sublime felino.

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– Ottone von Asgard produce fusa istantanee appena lo tocchi e, in generale, si comporta come un pupazzo vivo. Sta in braccio, si ribalta in terra per farsi strafugnare la pancia ed è intimamente convinto di essere una pagnotta di pane.

– I film più graditi da Ottone von Asgard, in questo periodo, sono stati Zodiac e The Hurt Locker.

– Ottone von Asgard è riuscito nel miracolo di suscitare telefonate spontanee da parte di MADRE. Lei, che mai al mondo si sogna di chiamare per prima ma anzi, si lamenta sonoramente se non mi faccio sentire due volte al giorno, ebbene, da quando c’è Ottone, MADRE mi telefona. Per sapere come sta il gatto, ovviamente. Non paga, ha intimato a mio padre di utilizzare più spesso Face Time e ora, a giorni alterni, passiamo le serate e giocare con Ottone in videoconferenza.

– Ottone von Asgard, a seguito di un regolare consumo di scatolette inestimabili, è in grado di produrre flatulenze portentose. E sempre nelle immediate vicinanze del cranio di Amore del Cuore. O in presenza di amici e ospiti.

– Se una palla (da tennis, di carta o d’alluminio… basta che rotoli) finisce incastrata in qualche disagevole pertugio, Ottone non si sforza di tirarla fuori ma, semplicemente, la osserva con risentimento, attendendo che qualche servitore accorra per restituirgliela. Se ciò non accade, Ottone ne piange brevemente la scomparsa e torna a farsi le unghie nel tappeto.

– Quando è arrivato, Ottone pesava 2.1 chilogrammi. Ora siamo ingrassati di un etto. Da grande dovrebbe arrivare a pesare otto o nove chili (di cicciotte, pelo e fulgido amore).

– Nessun omino di Fifa12 può sfuggire agli artigli di Ottone von Asgard.

– Siamo tutti quanti percepiti come giganteschi giocattoli. Soprattutto io, in tenuta domestica con mocassino indiano fiocchettato e vestaglietta con cintura penzolante. La vestaglietta, anche se non mi contiene, è comunque amatissima.

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Ottone, sempre pronto ad aiutare nei lavori domestici.

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– Ottone von Asgard è l’unico che sa quel che deve fare quando suona la mia sveglia, alle 7. Quando suona, Ottone si presenta e salta sul letto, dando ufficialmente il via al festival delle coccolerie. Da una parte, Amore del Cuore ruzzola nella mia direzione e, oltre a dispensare abbracci e incoraggiamenti, tenta di gettarmi giù dal letto – importantissimo servizio – e, dall’altra, il gatto calpesta il telefono, mastica il filo della lampada, si capotta, mi assesta piccole craniate e unghia la trapunta.

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Ti svegli, e vicino alle pantofole c’è questa situazione.

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– Tutta la bellezza del mondo, per Ottone von Asgard, si può trovare nel polistirolo espanso.


Il gatto Maru dovrebbe iniziare a temerci.

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– Data la particolare conformazione delle zampe – cuscinettate e foderate a ciuffoni di pelo anche sotto -, Ottone von Asgard non ha molta aderenza sul legno. Dopo alcune derapate poco dignitose, però, sembra aver compreso come sconfiggere la forza centrifuga e calibrare il proprio impeto per rimanere in carreggiata. MADRE, preoccupata per gli sbandamenti del nipote, si è comunque offerta di confezionare per Ottone dei guantini col gommino antiscivolo e lo spazio per cacciare comunque fuori le unghie.
Ve lo giuro.

– La prima volta che mi è salito sulla pancia e ha iniziato a fare la pasta con le zampe davanti ho gridato ad Amore del Cuore: “GUARDAAAAAAAAAA STA FACENDO LA PASTAAAAAA È TUTTA LA VITA CHE ASPETTO QUESTO MOMENTO!”.

– Se sei un umano e non sai che cosa fare, spazzola il gatto.

– Se sei un gatto e non sai cosa fare, mettiti comodo e contempla il declino della civiltà occidentale.

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Insomma.
Amiamo follemente Ottoncino.
Lui crediamo ci tolleri.

Per chi fosse (giustamente) ignaro di tutto, dirò che sono andata a fare un giro a Oslo, qualche settimana fa. Pessima idea, andare in vacanza all’inizio del mese, a stipendio praticamente intatto. Vai in giro in mezzo ai fiordi e ti convinci di avere addirittura un po’ di potere d’acquisto… ma poi torni a casa e ti viene in mente che non hai ancora pagato l’affitto e, mentre ancora trascini il trolley nell’androne, scopri anche che sono arrivate le bollette. Amore del Cuore vive un perpetuo lapsus, quando c’è da pagare la luce e il gas:

TEGAMINI – Ma quand’è che c’è da pagarle, insomma?
AMORE DEL CUORE – Che cosa, le multe?

Comunque.
Per chi volesse leggersi tutta l’avventura e vedere un mucchio di foto bizzarre e gioiose, c’è tutto un post pieno di cose divertenti e indicazioni > Oslo: una mini-guida per gente buffa.
Per chi sa già tutto, invece, procedo senza indugi con lo sbandieramento degli irrinunciabili articoli acquistati in Norvegia. Perché se mai qualcuno proporrà di interdirmi, sarà ben necessario fornire alle autorità un ragguardevole malloppo di tangibili prove di squilibrio e scarsa attitudine allo stare al mondo.

Splendido.

Il primo palpitante oggetto trascinato in patria dalle terre di Odino è un capiente, pratico e inutile lunchbox di foresta.

Il cerbiattino parla con lo scoiattolo, mentre moltitudini di uccellini festanti e altri scoiattolini – sicuramente sodali di quello che chiacchiera – si agitano senza posa tra la rigogliosa vegetazione. Perché è vero che in ognuna di noi c’è una principessa Disney.

***

Siamo anche entrati in un negozio dell’usato. Mai visto tanti piatti di porcellana arzigogolata in vita mia. Ho addirittura pensato che mi sarebbe piaciuto moltissimo sceglierne a caso una dozzina e apparecchiarci la tavola per sempre. Che si sa, gli assortimenti vintage che simulano disordine fanno tanto “guarda che stile, e non ci sforziamo neanche”. Date le costrizioni sul bagaglio a mano, però, ho lasciato perdere piatti e piattini per lanciarmi su una coppia di incomprensibili uccellini. Burberi e gonfi come cornamuse.

VICHINGO DELL’USATO – Are you getting the birds, then?
TEGAMINI – Absolutely, they’re so pretty!
VICHINGO DELL’USATO – I know. They remind me of my grandma.
AMORE DEL CUORE – …seh, altroché ricordi, questi qua erano proprio quelli di sua nonna!

Mi chiedo da quanto sia morta, quest’anziana sconosciuta.

***

Ma il vero tesoro, ripescato da un vascello spezzato a metà dal tentacolo di un kraken di fiordo, è ben altro. Perché nei negozi di giocattoli norvegesi si trova di tutto. E ci sono anche i polli arrosto di peluche.

Nota bene, sia le ali che i cosciotti sono staccabili. C’è il velcro, così li puoi riappiccicare e mettere da parte gli avanzi… metti che qualcuno non riesca a finire quello che ha nel piatto (uno scandalo, con tutti i bambini che muoiono di fame in Africa). Per una corretta conservazione del pollo-pupazzo, poi, vi consiglio animatamente di cacciarlo in frigo.

Per tirarla ancora un po’ per le lunghe, vi racconterò anche che questo pollo era destinato a me. Lo scorso anno, in un negozio di giocattoli di Amsterdam – anche là, negozi di giocattoli straordinari, devono avere qualcosa, i nordici, per i giochi… che sia la maggiore prossimità geografica con Babbo Natale a ispirarli? – avevo visto un pollo di peluche uguale uguale. Stupidamente, però, avevo evitato di comprarlo. Sarà che stavamo andando a visitare la casa di Anna Frank… e probabilmente avrò pensato “non puoi andare alla casa di Anna Frank con un pollo di pezza in mano”. E niente, l’ho lasciato dov’era, rimpiangendolo amaramente per mesi. Poi niente, si è verificato questo miracolo norreno. Ed era pure l’ultimo rimasto. Insomma, il fato ha voluto che io e il pollo ci incontrassimo di nuovo. E questa volta non ho vacillato.

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Ci eravamo anche presi benissimo con questi esotici cranio-pupazzi ma, si sa, Ryanair ti dissangua, se osi proporti al check-in con un bagaglio anche di poco più grande di una risma di fogli A4.
Il bufalo!
Parliamo del bufalo!
È straordinario, lontanissimo da casa mia, ma straordinario.

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero. Del resto, cos’è una rappresentazione realistica se non una forma di rappresentazione convenzionale come tante altre? Non è radicalmente diversa, né costituisce un progresso. Se non si cogliesse questo aspetto, non si capirebbe niente né dell’arte medievale né della storia delle immagini. Nell’immagine tutto è convenzione, compreso il “realismo”.

Michel Pastoureau
Bestiari del Medioevo

Saggi – Einaudi

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La meraviglia. Questo libro è la meraviglia.
Sul nostro pianeta, Michel Pastoureau è la persona che più sa di zoologia medievale. Ed è anche la persona che te la sa raccontare meglio.
Suddiviso in sezioni che rispecchiano le classificazioni originarie dei bestiari miniati –  quadrupedi selvatici, quadrupedi domestici, uccelli, pesci e creature acquatiche, serpenti e vermi -, il super saggio di Pastoureau è divertentissimo da leggere e straordinario da guardare: ogni animale viene presentato ricostruendone le proprietà, i vizi, le virtù e le valenze simboliche che gli erano attribuite nel Medioevo. E ogni bestia-capitolo è accompagnato da una miriade di illustrazioni e riproduzioni di venerabili pagine. Le illustrazioni non solo aiutano a comprendere meglio l’universo di significati che ruota intorno all’animale rappresentato, ma vengono utilizzate da Pastoureau per espandere il discorso e avvicinarlo, allo stesso tempo, all’uso dell’illustrazione così com’era inteso nel Medioevo. Per dire, il cervo, reso impetuoso dal suo sangue caldo, non riesce quasi mai a star fermo dentro i bordi di una miniatura… e c’è sempre qualcosa che esce, uno zoccolo che spunta, un corno che sconfina. Il testo di ogni Bestiario continua a raccontare delle cose (utili e didattiche per l’uomo Medievale) anche attraverso le immagini, che non sono solo un ornamento, ma un necessario proseguimento della trattazione.
Quadrupedi selvatici e domestici, uccelli, pesci, serpenti e vermi, si diceva. In questo libro, così come nei Bestiari europei che Pastoureau ha analizzato, troviamo bestie comuni, o meglio, bestie comuni per la sensibilità dell’uomo Medievale, con sporadiche incursioni di creature mitologiche. Ci sono l’aquila, l’asino, il bue, il gatto, la lupa… ma pure il leone, l’elefante. Animali che per noi, oggi, sono esotici abitatori della savana, nel Medioevo erano o molto presenti nell’iconografia – e quindi reali, roba da tutti i giorni – o attrazioni formidabili che poteva capitare di vedere, almeno una volta nella vita. I sovrani si scambiavano doni di ogni genere, inclusi orsi polari – dispensati con grande generosità dal re di Norvegia -, e l’arrivo di queste creaturone era spesso un evento per gli abitanti di sterminati territori, attraversati spesso e volentieri anche da serragli itineranti, gioia infinita per grandi e piccini. Insieme a queste apparizioni da documentario, i Bestiari, anche quelli di zoologia “standard”, non specializzati in mostri e mitologia, includevano spesso gli animali leggendari come l’unicono, la manticora, il centauro… capitava perché un milione di diverse tradizioni e variegate testimonianze dirette – da Plinio in poi – ne parlava e li raffigurava come il più reale dei conigli da cortile, giudicandoli al massimo un po’ più “rari” e difficili da scorgere del benedetto coniglio. Altro fattore, a rendere del tutto equivalenti gli animali (per noi) veri da quelli (per noi) mitologici, è l’onnipresente strato di insegnamenti e significati religiosi che la società Medievale utilizzava per interpretare il comportamento degli animali, trasformandoli in esempi di vizio o virtù.

Cavolo, se ho studiato.

Al di là di tutta questa erudizione, Pastoureau rende avvincentissimo anche il più scalognato dei serpenti di mare. Ogni animale è una minera di divertimento e stupefacenti rivelazioni, tra incredibili metafore cristiane, orribili pregiudizi e grande disapprovazione per gli appetiti sessuali più smodati (peste vi colga, se vi comportate come la lupa!).

Qualche pagina, così vi innamorate pure voi.
Và, che storia.

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Per i bestiari, (il riccio) è una bestia “nociva”, “avida e piena di spine”, che cerca di rubare l’uva dalle vigne. Quando è matura, il riccio si dirige furtivamente nel vigneto, scuote i pampini, fa cadere i chicchi e ci si rotola sopra: gli acini gli si conficcano negli aculei, conferendogli l’aspetto di un pesante grappolo; il riccio, allora, torna nella tana col bottino e si rimpinza a volontà. E’ un ladro che, come il cinghiale biblico, “devasta le vigne del Signore”. I bestiari ne fanno un ritratto negativo, molto lontano dall’immagine che ne abbiamo noi oggi.

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Altre proprietà restano più enigmatiche, non essendo state commentate a sufficienza. Secondo i bestiari, il leone ha paura di un unico animale, il gallo bianco, e due cose sole lo spaventano: il fuoco e il cigolio delle ruote di un carro. Da dove viene questa credenza, presente già in Solino? Che senso ha? Non lo sappiamo. E poi, perché il gallo bianco, e solo lui, fa paura al leone? I bestiari non ce lo rivelano direttamente, ma ricordano che fu un gallo ad accompagnare per tre volte con il suo canto il rinnegamento di Pietro (associato al leone) e che, da allora, tutti i galli accompagnano con il loro verso lo scoccare delle ore del giorno in onore di Dio. Al crepuscolo, quando il gallo tace, scende la notte con il suo corteo di demoni malefici: la notte è nera, il gallo è bianco.
Il leone si distingue anche per altre caratteristiche, meno diffuse. Quando è arrabbiato, pesta per terra: è Dio che colpisce gli uomini per allontanarli dal male; castiga coloro che ama. Quando vuole andare a caccia, traccia un cerchio con la coda; tutte le bestie che vi entrano non vogliono più uscirne: il cerchio è il paradiso; la coda la giustizia divina; le bestie gli eletti chiamati in Cielo.

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Quelli a sinistra, anche se non si direbbe, sono struzzi. E non importa che non somiglino a com’è davvero lo struzzo, per dire: “la maggior parte degli autori presenta lo struzzo con testa e corpo da uccello, ma gli attribuisce zampe da cammello. Altri lo assimilano al misterioso camaleonte, creatura polimorfa che cambia colore a suo piacimento. Del resto, non soltanto non vola, ma non costruisce nemmeno il nido. Non può essere un uccello!”
Altre magimagie dello struzzo:

Stando ai bestiari, lo struzzo può ingoiare qualsiasi cosa. Il suo stomaco è in grado di digerire tutto, anche il metallo: la sua natura calda fa sciogliere ciò che vi si introduce, come in una pentola. Di qui, nelle immagini, la scelta di un attributo metallico che aiuta a riconoscere lo struzzo: un chiodo o un ferro di cavallo nel becco.

Lo struzzo depone uova enormi, che non cova: le nasconde sotto la sabbia del deserto, poi le dimentica, preferendo passare il tempo a guardare le stelle. Per alcuni autori, la femmina è una cattiva madre, pigra, smemorata, indifferente. Altri le trovano qualche giustificazione: è così pesante che schiaccerebbe le uova, se le covasse; spetta dunque al sole riscaldarle con i suoi raggi.

Quelle a destra, invece, sono gru. Occhio a quella davanti, col sasso nella zampa.

Tutti i bestiari raccontano che durante i loro lunghi viaggi le gru si posano a terra per dormire. Una sola monta la guardia, e per non scivolare nel sonno stringe un sasso con una zampa. Se si addormenta, la pietra cadrebbe sull’altra zampa e la sveglierebbe.

La gru, paladina dei Metronotte.

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Sembra un libro di favole. Ed è anche scritto come un libro di favole. Solo che è anche un saggio storico, una bellissima collezione di immagini che mai al mondo avrei sospettato che i miniatori del 1200 potessero fare pavoni così “moderni”, un’avventura artistica, un trionfo per i curiosoni e uno spaccato di vita quotidiana in un tempo lontano… molto meno buio di quanto siamo abituati a pensare.
Insomma, io mi sono divertita immensamente. E ho anche scoperto che le donnole venivano ritenute molto più abili dei gatti a cacciare i topi. E ora so anche perché i delatori li chiamiamo “corvi”. Ma è lunga da spiegare, bisognerebbe avvalersi di una volpe e di una foresta… e poi Pastoureau è molto più bravo a raccontarvelo. Vi affido a lui, senza indugi.
Fatevi un regalo. E campate mille anni, come il cervo.

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Le collaborerie di Tegamini con variegate entità che mi mandano dei sorprendenti Pasqualoni proseguono con avventure salottiere. A questo giro, Doimo ha deciso di farmi sporcare un divano… e non ci sono riuscita, nonostante anni e anni di sfolgoranti successi.


Che cosa mai conterrà, questo conturbante scatolone?
Confesso che all’inizio speravo fosse un POUF, ma poi mi sono divertita lo stesso.

Il Paccozzo del Mistero di Doimo, pieno zeppo di altri Paccozzi del Mistero. Quel tessuto lì, sotto al fascicoletto nero, è probabilmente già utilizzato dalla NASA per foderare l’interno delle stazioni spaziali.

Bene. Sommamente intrigata dall’esperimento, ho letto ben bene le istruzioni della “sfida antimacchia” e mi sono messa a scartocciare i pacchetti con grande trepidazione. Ho anche bevuto un po’ della Coca Cola in dotazione, che per fare i vandali c’è bisogno di energia. Poi, però, ho deciso che il succo di frutta poteva essere più dannoso e mi sono allegramente preparata a produrre uno scempio senza precedenti.

Il tessutone magico e salvadivani inventato dal team di alchimisti di Doimo, pronto per essere devastato dall’arancia rossa. E vi dirò, mi sono improvvisamente sentita vicina a MADRE, sempiterna nemica delle macchie. Ogni volta che mi avvicinavo al divano con in mano qualcosa da bere o da mangiare, MADRE appariva da nulla per scaraventarmi lontano, manco fossi un Balrog fiammeggiante. Ecco, MADRE e papà hanno lo stesso divano da trent’anni, solo che abbiamo vissuto male.

Ho comunque scelto di mettere da parte i miei ricordi e ho obbedito alle istruzioni. Qua c’è il supertessutomagico pieno zeppo di succo di frutta. Solo che il succo di frutta, non chiedetemi per quale prodigio, non si è malignamente infiltrato, ma è rimasto a galleggiare in felici pozzangherine sulla superficie. Non a caso, le mie pozzanghere si sono distribuite in modo tale da produrre una chiarissima espressione di sconvolta sorpresa.

Và, che storia. Un’impermeabilità quasi inquietante… e molto ludica. Visto che non sono riuscita a produrre macchie definitive, son stata per un quarto d’ora carponi sul pavimento a spostare le pozzanghere di qua e di là. Insomma, ho capito che è un tessuto che va bene per salvarvi il divano ma anche per affascinarvi con effetti ipnotici di raro intrattenimento.

E poi niente, ho preso un fazzoletto – pure quello parte di un Paccozzo veramente ben assemblato – e ho risucchiato le multiformi pozzanghere di succo. Così, come se fosse una roba normale che mezzo litro di arancia rossa non riesca a sfigurare per sempre un divano. Un po’ speravo che ci rimanesse qualche schifoso alone, ma niente, basta ricordarsi di rincorrere anche le goccioline più piccole e tutti amici come prima.

Tiè, zero. E vi giuro che mi sono impegnata tantissimo.

Bene. Ringrazio Doimo per avermi fatto divertire e per le donerie d’accompagnamento al kit del piccolo chimico sporcadivani. L’aggeggio arancione lo devo ancora gonfiare… o meglio, lo deve gonfiare Amore del Cuore, se mai si riprenderà dal materassino di quest’estate. Divani fatati, chi l’avrebbe mai detto.