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tegamini

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Dopo aver strabiliato le genti del mondo con le prodezze dell’alpaca, la patologica idiozia della sula dai piedi azzurri, l’eroico struggimento del narvalo e il ripugnante grugno dell’infernale babirussa, l’acclamata rubrica “Gli animali ti guardano” torna a illuminare le vostre esistenze con una nuova spedizione nei recessi faunistici più oscuri del nostro bel pianeta.
Oggi, con coraggio e autentico spirito dell’avventura, ci occuperemo di una delle creature più infide dei sette mari: la Nerita Peloronta, la lumaca che vorrebbe strapparci gli occhi a morsi e dilaniare le nostre carni.

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Umani, non avete scampo!

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Provo una sincera avversione gastronomica nei confronti dei molluschi del mare. Eʼ una sensazione di schifo puramente legata alla masticazione: quello che mangio deve avere un livello minimo di stabilità molecolare e una polpa compatta, concentrata in un confine ben delimitato e rassicurante. Non cʼè al mondo niente di più spaventoso di unʼostrica, una roba che si deve inghiottire per scivolamento. Ed è proprio la consistenza a mettermi addosso questʼinfinito malessere: si va dal blando mollicciume delle conchiglie liquefatte alle temibili creature che associano mollezza e gommosità, come le lumache dʼacqua salata. Ne ho mangiata una quando avevo dodici anni e me lo ricordo ancora adesso.
Eravamo a Nizza, in uno di quei ristoranti con il vascone pieno di pesci fotonici e lʼarredamento da veliero pirata. Il papà del mio amichetto della spiaggia era un tipo metodico, inghiottiva bottigliate di Fernet Branca a orari poco consoni, ma era un signore davvero risoluto. Dopo aver pescato una lumachina da un mucchio di bestie col guscio, aveva trafitto la polpa scura con un forchetta molto piccola e, con unʼabile rotazione del polso, era riuscito a tirare fuori dalla conchiglia una roba brutta, storta e bagnaticcia. Poi, tutto garrulo, me lʼaveva cacciata in gola. A due decenni di distanza dallʼepisodio, anche se provo un travolgente stupore per qualcosa, mi guardo ben bene dallo spalancare la bocca.

 

Mi hanno regalato un estintore.
L’ho sempre voluto, sin da bambina. A Santa Lucia si chiedevano solo pony ed estintori, perchè se il pony correva troppo e s’incendiava, poteva comunque essere salvato dal provvidenziale strumento spegnifiamme.
E poi arreda, l’estintore arreda. È allegro, di un bel rosso vivo. Ti ci difendi anche, metti che ti arrivi in casa un malfattore, non c’è niente di più versatile di un estintore se si decide di sfondargli la mandibola con un colpo ben assestato. E non parliamo di quell’aria un po’ industrial-chic che si porta dietro: l’estintore è un oggetto di design senza tempo, capace di trascendere la mera funzionalità per sorprendere con le sue forme accattivanti, sempre attuali.
Perchè non è un caso se nei musei c’è pieno di estintori appesi. E poi, ammettiamolo una buona volta: che Natale è, se non ti viene da dar fuoco a qualche consanguineo.

Anche la meno immaginativa delle persone riuscirà a farsi venire in mente almeno un migliaio di cose più allegre di quest’edicola. Un pozzo senza fondo è più allegro dell’Edicola Allegra. I manichini di Zara che somigliano a Hitler sono più allegri dell’Edicola Allegra. Ma pure una torbiera falciata dal maestrale o un gatto con tredici chili di petardi legati alla coda.  Soffitte infestate da spettri e tarantole grosse come palette. Mucche zoppe che allattano vitellini orbi. Intossicazioni da muffa e parrucchini spazzati via dal vento. Sacchetti dell’aspirapolvere che scoppiano e cordate di alpinisti che precipitano giù per un crinale ghiacciato. Lo schiocco di una tibia che si spezza. Una capra legata a un palo in mezzo a una pianura deserta. La sabbia negli occhi. Un’epidemia virulentissima che sbarca sul continente coi ratti di una nave. I cani che escono dal veterinario con quell’imbuto parabolico al collo. I piedi tutti attorcigliati delle vecchiette coi capelli blu. Il singhiozzo perenne. Gambe ingessate e morbillo, in contemporanea. Il Natale quando si odia il Natale. Insomma, a questo mondo tutto è più allegro dell’Edicola Allegra. E anche un bel po’ più sincero.

tié, ti sferzo col fuoco, Dio dall’ingombrante copricapo!

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Va detto che siamo arrivati in ritardo e abbiamo perso per sempre i primi dieci minuti. È successo perchè ci siamo andati a sedere nella sala sbagliata, quella del Re Leone 3D. E niente, ce ne siamo accorti solo quando il sole è sorto sulla savana. Quel cinema ha seri problemi di segnaletica, non ci sono i numeri sulle porte, non c’è uno straccio di foglio di carta appeso, i tizi che ti rifilano gli occhialini indicano la direzione molto vagamente… e che dovevamo pensare, siamo andati dritti dritti da un’altra parte. E in quattro, che se c’eravamo solo io e Amore del Cuore capirai, era tutto normale. Arrivati nel posto giusto, però, il film ci ha accolti bene: un traditore – compaesano di Teseo – siede a gambe divaricate con la schiena appoggiata contro il muro. L’hanno frollato e seviziato ben bene, ha pure la faccia sfigurata da tre sfregi verticali, dalla fronte al mento. Davanti a lui, un energumeno con una struttura cornuta in testa si prepara ad assestargli una martellata nelle palle. Perchè Iperione non gradisce i guerrieri di dubbia moralità e ancor meno gradisce la loro eventuale progenie.

fate luogo, sono la Dea Atena, la mia chioma splende di saggezza!

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Coglioni spiaccicati a parte, Immortals racconta della lotta tra l’eroe Teseo – atletico contadino, figlio di chissà chi – e il malvagio re Iperione – uomo dalla faccia disastrata – intenzionato a liberare i Titani, nemici giurati degli Dei dell’Olimpo. I Titani sono rinchiusi nelle viscere del monte Tartaro, dentro a una gabbia che sembra un po’ un biliardino e un po’ una di quelle lavapiatti cubiche dei bar. Per infrangere le catene che imprigionano i Titani, all’affabile Iperione occorre un arco supersonico, forgiato da Marte e diventato esageratamente leggendario, così leggendario da essere finito non si sa dove. E chi mai potrà ritrovarlo? Il segreto è custodito da quattro gnocche veggenti, sacerdotesse illibate col dono della profezia. O meglio, una sola è il vero oracolo, le altre tre fungono da scudi umani, in un gran turbinio di vesti scarlatte con lo spacco.

Le uova sono universi chiusi, assolutamente ermetici ed impenetrabili. E poche cose mi confondono come le uova. Che cosa succede all’interno della gallina? Potrebbe capitare di rompere un uovo e di trovarci dentro un pulcino accartocciato? E se si mangia un uovo un po’ antico, che succede? Si muore? Si vive, ma contorcendosi in un’eternità di spasmi?
Ecco, l’uovo mi allarma. Mi allarma ancora di più se apro il frigo e m’accorgo che ho accidentalmente strappato l’etichettina della data di scadenza dalla confezione delle uova BIG – per frittate di un certo spessore. E resto lì, con in mano queste tre uova tutte uguali, mute e anonime, senza nessuno che mi aiuti a disinnescarle. L’unica cosa che il guscio mi fa sapere è che le uova sono emerse da una gallina circa un mese prima.
E quindi?
Si può o non si può mangiare? Si può mangiare solo con coraggio? Non solo non si può mangiare, ma non si deve nemmeno guardare? Che utilità possono avere le mie due lauree se non so comprendere le uova?
Sapendo di non sapere, ho deciso di buttare per aria un’iniziativa di maieutica collettiva:  ho chiesto consiglio su Twitter. Perchè là fuori ci deve essere qualcuno meno disadattato di me. E almeno su quello ho avuto ragione, perchè molti, spinti da carità e genuino altruismo, si sono fatti avanti per condividere la propria preziosa conoscenza in materia di uova.

Come il borametz, la mandragora confina col regno animale, perchè grida quando la svellono; questo grido può far impazzire chi lo sente (Romeo e Giulietta, IV, 3). Pitagora la chiamò antropomorfa; l’agronomo latino Lucio Columella, semiuomo; e Alberto Magno potè scrivere che le mandragore figurano l’umanità, con la distinzione dei sessi. Prima, Plinio aveva detto che la mandragora bianca è il maschio e la nera è la femmina. Quelli che la colgono, aveva anche detto, le tracciano intorno tre cerchi con la spada, e guardano a ponente; l’odore delle foglie è così forte da lasciare ammutoliti. Sradicarla, era mettersi a rischio di spaventose calamità; nell’ultimo libro delle sue Antichità Giudaiche, Flavio Giuseppe consiglia di ricorrere a un cane addestrato. Sdradicata la pianta, l’animale muore; ma le foglie servono a usi narcotici, magici ed emollienti.
La presunta forma umana delle mandragore ha suggerito alla superstizione l’idea che crescano al piede dei patiboli.

La mandragora

Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero
Manuale di zoologia fantastica
Einaudi – ET Scrittori

***

Non so da dove cominciare, con questo libro, “un’opera, come altre di Borges – scrive Glauco Felici nella prefazione – difficile da collocare all’interno di un genere determinato e concluso: un compendio di nozioni mitologiche, paragonabile a uno scolastico Dizionario delle favole per uso de’ fanciulli; o il dotto divertissement d’un appassionato di creature (e scritture) fantastiche; o, semplicemente, l’ennesima occasione per praticare la letteratura”.
Ma in fondo, che ce ne importa.

Quel che importa davvero è scoprire che l’anfesibena “è serpente con due teste, una al suo luogo e l’altra sulla coda; e con le due può mordere, e corre via con leggerezza, e i suoi occhi brillano come candele”. Ma anche che sia Keplero che Giordano Bruno pensavano ai pianeti come a grandi animali tranquilli, animali sferici dal sangue caldo e dalle abitudini regolari, dotati di ragione. Scopriamo pure che le antilopi dell’alba dei tempi avevano sei zampe invece di quattro e che, grazie a tutte quelle estremità, erano quasi impossibili da raggiungere. Per ripristinare un po’ di giustizia, il dio Tunk-poj decise di mettercisi d’impegno e, dopo aver costruito dei super pattini col legno di un albero sacro che scricchiolava molto, ne catturò una e le mozzò un paio zampe, perchè “gli uomini diventano ogni giorno più piccoli e deboli. Come potrebbero cacciare le antilopi a sei zampe, se io stesso appena ci riesco?”. Impariamo che le arpie sono schifose e pallide di fame, che l’ambra in realtà è la cacca dell’asino a tre zampe e che il Baldanders è un mostro “successivo”, perchè si trasforma continuamente in qualcos’altro. Al nutrito sottoinsieme delle creaturone appartiene il Bahamut, immenso e splendente, che regge il mondo sul suo dorso di pesce. E con discreta fatica, se pensiamo che sopra al pesce c’è un toro, e sopra il toro una montagna di rubino, e sopra la montagna un angelo, e sopra l’angelo sei inferni, e sopra gl’inferni la terra e sopra la terra sette cieli. Il basilisco del Medioevo era un gallo dalle piume gialle, con le ali coperte di spine e la coda di serpente. Quel che rimane costante nei secoli è però lo sguardo che pietrifica – ogni serpente che si rispetti è nato dal sangue di Medusa – e la capacità di rendere deserto e sterile ogni luogo stupido abbastanza da ospitarlo. Il borametz è un ibrido tra il vegetale e l’animale, una pianta con quattro o cinque radici e le fronde ricoperte di lana, è un albero-agnello, che i lupi divorano con grande passione. Il Cerbero ipotizzato da Esiodo aveva cinquanta teste, ma il numero fu ridotto a tre “per maggiore comodità delle arti plastiche”. Una roba che non mi ricordavo è che l’ultima fatica di Ercole consisteva nel cavare il Cerbero dall’Inferno e portarlo in superficie, alla luce del sole. Lucrezio argomentò l’impossibilità dell’esistenza del centauro osservando che un cavallo di tre anni è un cavallo adulto, mentre un bambino di tre anni è solo un “fantolino balbettante”. A mettere insieme due creature con tale disparità di ritmi di sviluppo, il pezzo di sotto del centauro morirebbe circa cinquant’anni prima del pezzo di sopra.

E via così, creatura dopo creatura, ripescando tradizioni mitologiche occidentali e orientali, richiamando testi classici e strampalate testimonianze di viaggiatori.
Insomma, fate un favore alla vostra immaginazione e leggetele questo libro.

MADRE – flagello dei mondi – e Padre – maestro zen in levitazione – sono in visita-lampo nel capoluogo piemontese per recapitare alla loro unica figlia una preziosa scarpiera. Che a Torino le scarpiere non le vendono. Comunque, molte meraviglie sono capitate… e tutte nell’arco della mia sontuosa ora di pausa pranzo.

***

MADRE mi scorge all’orizzonte, dopo due settimane di lontananza.

TEGAMINI – Mamma! Ciao!
MADRE – Hai in casa delle ragnatele che non ci si può credere. Sono tutte nell’angolino in alto a destra, ma non ce l’hai più lo Swiffer? Te li avevo presi, l’altra volta. Grosse così sono, devi tirarle via!
TEGAMINI – ….mamma! Ciao!

***

Corpi estranei assalgono Padre.

PADRE – Ma che diavolo è questa roba rosa.
TEGAMINI – Credo che siano pelucchi della sciarpa della mamma, ti hanno colonizzato.
PADRE – …e non si tolgono.
TEGAMINI – Diventerai il Tenerone!

***

MADRE, Padre e Tegamini si siedono al ristorante. MADRE dà le spalle al tavolo vicino.

MADRE – Tieni la mia giacca, mettitela lì dietro sulla tua spalliera della sedia.
TEGAMINI – Cos’ha che non va la tua spalliera?
MADRE – Sono troppo vicina a questi qua dietro.
TEGAMINI – Tienti la tua benedetta giacca come fanno tutti quanti.

Mezz’ora dopo, i due del tavolo dietro a MADRE assestano un manrovescio a un bicchiere d’acqua. Alcuni schizzi colpiscono di striscio la giacca di MADRE.

MADRE – Ecco, te l’avevo detto.
PADRE – Vedi, con tua madre succedono continuamente cose di questo genere.
TEGAMINI – Ha i poteri.
PADRE – Sono spaventato.

***

C’è coerenza. E c’è anche ostruzionismo.

MADRE – Francesca, ma guarda che collino secco che hai. Ma mangi? Sei tutta pelle e ossa. Ma stai bene? Devi mangiare, anche la frutta.
TEGAMINI – La probabilità che io muoia d’inedia è remotissima. Prenderò la carbonara.
MADRE – …ma che schifo, è grassa! Mangia il rollé di coniglio.
PADRE – Io mangio il persico con le verdure.
MADRE – …per carità, guarda che il persico lo pescano in quel golfo con dentro il piombo.

***

Si rimpiangono i bei tempi andati.

PADRE – Valeria, te lo ricordi Eta Beta?
MADRE – Certo, che mangiava quelle palline… ma cos’erano.
TEGAMINI – Naftalina.
PADRE – Naftalina! …erano belli i nostri fumetti, mica come quelli che ci sono adesso.
TEGAMINI – Vabè papà, adesso non venirmi a dire che uno che mangia la naftalina è il genio del secolo…

***

Con un rispettabile pezzo di pane, faccio la scarpetta nel sughetto di coniglio.

MADRE (in dialetto piacentino – che non so nemmeno trascrivere -, mentre mangia patatine con le mani) – FRANCESCA! COSA FAI ANCHE IL PUCCIO? IN PUBBLICO?

***

Si affrontano difficoltà indicibili.

MADRE – Tuo padre ne ha fatta subito una delle sue. Abbiamo parcheggiato davanti al portone e non riuscivamo ad aprirlo.
PADRE – Eh, pensavo che fosse il mazzo di chiavi nuovo, son stato lì un bel po’ e non andava bene neanche una chiave.
MADRE – Certo che se andiamo al 35 invece che al 33…
PADRE – Ma sono i portoni. Sono assolutamente identici.
MADRE – Tuo padre sta perdendo colpi. Ci manca solo che si perda sotto casa e poi le ho viste tutte.

***

Una cosa l’ho imbroccata.

MADRE – Ho visto che stai coltivando una zolla d’erba.
TEGAMINI – Già.
MADRE – …brava!

***

Ci fermiamo al semaforo per fare la lista della spesa.

PADRE – Adesso ti andiamo anche a fare un po’ di spesa, che se no qua.
TEGAMINI – Ma ho tutto, papà, non imbarcatevi in sbattimenti assurdi.
PADRE – La carta da cucina ce l’hai? E la cartaigienica? E la birra?
TEGAMINI – …mah, la birra è finita. Se proprio passi davanti al supermercato…

***

Padre mi telefona alle sei di sera.

TEGAMINI – Papà, siete arrivati?
PADRE – Macchè, siamo appena partiti.
TEGAMINI – Ah, ma avete fatto un giro?
PADRE – Eh sì, magari.
TEGAMINI – Ma perchè no?
PADRE – Tua madre ti ha sterilizzato la casa.
TEGAMINI – Dovevi fermarla, in qualche modo.
PADRE – …e come? Davvero, come?

***

Basta, li amo immensamente.

Le mie vacanze al mare sono sempre state molto avvincenti. Madre mi portava a seimila mercatini dell’antiquariato, ci si inerpicava sulle alture liguri a cercare paesi composti unicamente da sassi e salite, si mangiavano grissini molto lunghi mentre si tornava a casa dalla spiaggia su delle orride Grazielle cigolanti, si andava in libreria tutte le sere a comprare un Istrice nuovo e capitava pure che sulla passeggiata si incontrassero persone con un leoncino da compagnia. Una foto spettacolare documenta lo storico incontro. Ci siamo io, il leoncino e il mio pannolone. Con una mano tengo il guinzaglio della belva neonata mentre con l’altra faccio l’artiglio. E ho pure l’espressione del ruggito.
Insomma, capitavano cose di questo tenore… e non stupiamoci, dunque, se una sera siamo finite alla mostra dell’occultismo e degli strumenti di tortura e abbiamo comprato una sfera di cristallo.
Abbiamo scelto la sfera perchè la vergine di ferro poi era un casino da riportare a Piacenza.

Con la palla di vetro abbiamo felicemente convissuto per anni, senza paura, senza prevedere il futuro e senza invocare gli spiriti. Una coabitazione pacifica, basata sul sano tedio che ogni soprammobile ha il dovere di ispirare. Noia, rassicurante e ovattata noia.
O almeno così pensavo.

———-

MADRE (flagello dei mondi) – …pronto?
TEGAMINI – Ciao Madre!
M – Oh, ciao. Sei arrivata bene?
T – Sì, sì, ho preso il treno stamattina, tutto a posto. Che fate oggi?
M – Mah, andiamo a giocare a tennis, che c’è ancora bel tempo.
T – Bravi. Ma giochi te col papà?
M – Eh, se ha voglia… te lo passo?
T – E passami il papà.
PADRE (maestro zen in levitazione) – Ciao Bimba, come va? Hai preso il treno? Tutto a posto?
T – Sì, sì, sono arrivata, niente di strano. Adesso vado a mangiare.
P – Brava, anche noi siamo a tavola.
T – Eh bene allora, ci sentiamo dopo…
P – Ah no aspetta, ti passo tua madre…
Tegamini gesticola disperata in mezzo alla strada.
M – Francesca! Oggi ho quasi dato fuoco alla casa!
T – ……..EH?!?!
M – Guarda, abbiamo riso un sacco con il papà!
T – …mamma, non va bene così. Ma che roba è, divertirsi nel dare fuoco alla casa, ma cosa vi è preso, non potete rincoglionire in modo pacifico, senza farvi del male.
M – Ma no, poi non è successo niente. Si ma insomma non vuoi sapere come ho fatto?
T – …non lo so, forse no.
M – Niente, stavo spolverando in salotto, sai dove abbiamo tutte le foto, no? Ecco. Spolveravo le cornici e le mettevo sul tappeto, che poi dovevo pulire il tavolino e alla fine ho spolverato anche la palla e l’ho messa sul tappeto, te la ricordi la sfera di cristallo, no?
T – Eh, come no. Io volevo le piramidine magiche, ma poi non me le hai prese.
M – Facevano schifo, quelle piramidi. Comunque, ho pulito il tavolo e mi sono girata per prendere la roba e rimettercela su e ho visto che c’era tutto del fumo intorno alla palla…
T – Oh Signore.
M – …e allora ero lì che pensavo “ma guarda che fenomeno strano, che c’è tutto del fumo lì, incredibile, ma viene dalla palla” e allora ho chiamato tuo padre… “MIMMO MIMMO VIENI CHE LA SFERA STA FACENDO DEL FUMO!”
T – Cristo santo.
M – No ma te lo passo che ti spiega lui perchè. Guarda, mai avrei pensato, aspetta, eh… MIMMO!
Tegamini allontana il telefono dall’orecchio.
P – Pronto. Tua madre ha quasi incendiato il soggiorno.
T – Ti prego, dimmi che c’è una spiegazione razionale a tutto questo.
P – Ha appoggiato la palla sul tappeto, al sole. Il cristallo ha concentrato tutta la luce in un punto e il tappeto ha preso fuoco.
T – …solo alla mamma può capitare una roba del genere.
P – Solo a tua madre.
T – Però mi piace questo tuo approccio scientifico all’accaduto. Sobrio e scientifico.
P – E che altro dovrei fare, tua madre scatena combustioni spontanee in salotto.
T – Bisogna avere pazienza.
P – Bisogna avere pazienza.

Sono figlia di una fattucchiera piromane.
…ma la amo moltissimo.

 

Taratararatararararrà…
Taratararatararararrà…
Taratararatararararrà….
Taratararatar –

SIGNORA DELLE PULIZIE DELL’UFFICIO – Si pronto?
(TEGAMINI è alla scrivania, ma cerca di non intralciare)
SDP – Eh! Bene sto. Checc’è?
(PARENTE DELLA SIGNORA DELLE PULIZIE DELL’UFFICIO dice molte cose al telefono)
SDP – Ora devo? Ma sono al lavoro, mica ci posso andare ora… e abbi pazienza! …Che? E dove scrivo? Ma ora proprio me lo devi dire, aspettare non puoi? ….Eeeee, eeee, eee, arrivo, va bene, fammi cercare che lo segno.
(TEGAMINI è raggiunta alla scrivania dalla Signora delle Pulizie)
SDP – …che hai un foglio, cara?
T – …ah, come no, tenga.
SDP – …e la posso usare questa penna?
T – Certo, ci mancherebbe… no ma usi questa, che quella non va.
SDP – …e qui sono, si, si. Dai, dimmi. Quattro?
PARENTE  TELEFONICO (che ormai si sente benissimo) – Quattro.
SDP – …poi?
PT – Sette.
SDP – …sette.
PT – Ventidue.
SDP – Quattro, sette, ventidue… ci vado domani, però, che ormai è tardi, c’è chiuso. Ma ti ha detto altro?
PT –  Ha detto la ruota nazionale.
SDP – Maccch’è, la ruota nazionale, una ruota dobbiamo scegliere. Torino? Va bene Torino?
PT – Tutte le ruote, terno secco, devi giocare. 
SDP – Ma che metto, cinque euro?
(PT risponde con una raffica di calcoli probabilistici impossibili da trascrivere)
SDP – …eeee, ho capito! …vabbè, vabbè, domani vado. E adesso ti saluto, che ho da lavorare. Vabbè, ciao, cià… cià, si. Signorina, mi scusi sa, non volevo disturbarla.
T – Ma non si preoccupi, stavo spegnendo…
SDP – E’ che mia madre è mancata da qualche mese… e mio fratello la sogna, sa. E mamma gli dà sempre i numeri.

I Puffi sono una di quelle cose dell’infanzia che non smetteranno mai di perseguitarti. Un po’ come il compito in classe degli articoli e delle preposizioni, con la maestra che si aspettava di vedere un cerchiolino rosso intorno agli articoli e un cerchiolino blu intorno alle preposizioni, una roba semplice e lineare, assolutamente diversa dalla pagina piena di tragedia che avevi consegnato tu, zeppa di cerchiolini verde pisello intorno a tutte le piccole parole di due o tre lettere. I Puffi sono anche un po’ come quei ricordi che sono imbarazzanti di riflesso, perchè se stai scavando fossili dalla riva limacciosa dell’Arda e ti rendi conto che un tuo compagno si è fatto la cacca addosso, là in mezzo, con un secchiello pieno di conchiglie del periodo Devoniano in mano, non serve che la cacca sia tua, ti senti tremendamente male lo stesso. E una volta, in seconda elementare, avevo pure scritto “dorata” con l’apostrofo, come se l’universo fosse interamente composto di minuscoli mattoncini fatti con le orate.
Ma insomma, chi se ne importa.
Era per dire che i Puffi sono pericolosi. Ti fanno ricordare un tempo lontano in cui potevi stupidare senza tante preoccupazioni, perchè pomeriggi trascorsi ad ascoltare un cane rosa di nome UAN o un dodo di pezza domiciliato in un albero azzurro non possono che trasformarti in una persona piuttosto ridicola. A mia discolpa dirò che non ero poi così fissata coi Puffi. I cartoni li guardavo quando capitava, ma la sigla mi piaceva moltissimo e la ballavo senza sosta sul tappeto del salotto. L’altra cosa che avevo era il camper Puffi… che non usavo per i Puffi ma per trasportare un fantasmino di tulle che avevo chiamato L’ANIMA DANNATA.

MADRE (flagello dei mondi) – Tata, cos’hai lì nel camioncino dei Puffi?
MINI-TEGAMINI – ….L’ANIMA DANNATA!


Comunque. Visto che mi regalavano il biglietto, la settimana scorsa sono andata all’anteprima dei Puffi. C’eravamo io, Amore del Cuore e un centinaio di bambini sadici. Che i bambini siano sadici un po’ lo sospetti… ma lo scopri con assoluta certezza solo quando nei film iniziano a capitare cose cruente, rigorosamente non funzionali alla trama. Gargamella viene travolto da un autobus? Puffetta conficca le sue scarpine col tacco nelle cornee di Birba? Tontolone inciampa e scivola, provocando una devastante reazione a catena che distrugge mezza Pufflandia? Ecco, bambini in visibilio. Bambini che saltano sulle poltrone, che si spellano le manine d’applausi sbilenchi con un entusiasmo che neanche gli antichi romani al Colosseo. I bambini vogliono vedere fratture esposte, tombini aperti, carriolate di viscere, maledizioni infrangibili, teste mozzate e fiamme di drago, altrochè principesse coi pettirossi in testa.
Ma cerchiamo di capire che cosa succede in questo benedetto film.