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Penso capiti di rado di imbattersi in una voce narrante come quella che Barbara Kingsolver decide di donare a Demon Copperhead, il caparbio protagonista di quest’epopea di disastri premiata col Pulitzer e approdata qui da noi in libreria grazie a Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino – che non invidio e molto ammiro per il coraggio.
Demon condivide con David Copperfield l’ambizioso arco narrativo – sono nato… ed ecco qua tutto quello che mi è successo – e con Rosso Malpelo il colore dei capelli e una specie di bersaglio invisibile dipinto sulla schiena. Demon in miniera non ci arriva, ma la sua contea natia è un centro estrattivo degli Appalachi già avviato al declino, popolato da gente che si arrabatta, griglia anche quello che non si potrebbe grigliare, coltiva tabacco, venera i giocatori di football del liceo e accoglie a braccia aperte il ristoro che le pillole della Purdue Pharma promettono di dispensare.

Demon nasce senza tante cerimonie sul pavimento di una casa mobile, da una diciottenne con già alcuni percorsi di disintossicazione (non molto ben riusciti) alle spalle. L’unico dono che il destino pare tributargli sono dei vicini che diventano una sorta di seconda famiglia. Pure loro sono hillbilly da manuale, ma in confronto a Demon e a sua madre – privi di mezzi, privi di radici, di direzione o di magici piani a lungo termine – sembrano il Rotary Club di Corso Magenta. Demon oscilla tra un’iperconsapevolezza della propria condizione di svantaggio “materiale” e una struggente capacità di assorbimento delle disgrazie. Non solo cerca di cavarsela, ma resta “intero”, anche se chi dovrebbe prendersi cura di lui non si dimostra mai all’altezza della situazione, anzi.

Ricapitolarvi anche solo a grandi linee la sua fosca parabola fatta di povertà, fondi di magazzino di Walmart, pezze al culo, assistenti sociali oberate dalla vastità delle catastrofi da gestire, fame, fornelli luridi, fratelli di sventura e genitori affidatari che si vendono pure i cotton fioc usati al banco dei pegni sarebbe sciocco, perché il punto di vista del piccolo Demon vale il prezzo del biglietto. La Lee County del libro è un posto che asseconda da un bel pezzo la narrazione di disfacimento del Sogno Americano, che qua resta in piedi per riti collettivi e per un’attitudine quasi comica alla venerazione della celebrità – status che in questo contesto di pochissime pretese è raggiungibile anche da quel tuo amico che piscia più lontano di te in mezzo a un bosco. Demon non ha mai potuto beneficiare del lusso dell’ambizione, perché arrivare indenne alla fine di una giornata è già un traguardo sufficiente, ma spicca strano e meraviglioso ovunque lo si piazzi. È piccolo e più che adulto insieme, disegna per sfogarsi e per immaginare supereroi che raddrizzino le storture del suo mondo… ma chi salverà lui?

Che da questa serie di sventure non scaturisca una narrazione dolente e lacrimevole è una specie di miracolo. Credo dipenda da come viene tratteggiato Demon, ma anche dall’intento di esplorare un contesto che ha una presa forte sulla realtà – piaga degli oppioidi venduti come caramelle assolutamente innocue compresa. Demon cresce e la sua voce cambia, creando un certo stacco tra la prima parte del libro – quella dell’infanzia – e la seconda, che è una prova generale di un’età adulta azzoppata dalla carenza di “esempi” virtuosi e da circostanze sistemiche che finiscono per risucchiarlo. La famiglia è un’entità ondivaga, inaffidabile, monca. Per Demon l’idea di “casa” perde senso molto presto, per essere sostituita dalla Lee County in generale, quasi. Ma è proprio quel posto, con le sue storture che affliggono chiunque resti, ad avvelenare ogni possibilità di riscatto. Quello che per noi potrebbe essere percepito come degrado, marginalità o circostanza “estrema” per Demon è ordinaria amministrazione, “prodotto tipico” della contea. Come si fa a salvarsi se l’unico punto di riferimento che si possiede è anche la radice di quello che ci fa più male? La grande sfida di Demon sarà proprio quella. E a ogni istante tiferemo sinceramente per lui. Anche nei momenti peggiori, anche quando ci deluderà o lo vedremo prendere decisioni sciagurate, non smetteremo di volergli bene e di provare a regalargli tutti i pennarelli del mondo.

[Un doveroso commento all’immagine di copertina: “o almeno ci provo”].

I libri che ho letto più volentieri nel 2023 non sono necessariamente i libri più belli del 2023. O i libri più meritevoli dal punto di vista letterario o contenutistico. O i libri più “importanti”, quelli che cambieranno le sorti del mondo e ci renderanno collettivamente esseri umani meno schifosi. Magari non sono nemmeno tutti usciti nel 2023, ma per fortuna i libri non scadono e possiamo leggerli quando ci pare.
Insomma, questo agglomerato di letture è un esercizio riepilogativo che non ha mai avuto l’ambizione di configurarsi come classifica d’assoluta nobiltà all’interno dell’impervio cammino della civiltà umana. Sono i libri che ho letto più volentieri quest’anno e che, per un motivo o per l’altro, mi hanno sorpresa per inventiva, son riusciti a intrattenermi quando ho sentito la necessità di essere intrattenuta – mi hanno “fatto bene”, in parole povere – o hanno risvegliato in me dell’ammirazione per chi ha saputo congegnarli.
Se son libri che ho amato vuol dire che sono libri di cui ho già parlato a tempo debito, quindi qua li mettiamo in fila e per approfondire vi rimando ai pezzi originali. 

Vado. E no, non sono in ordine di preferenza o roba simile.


A. K. Blakemore
Le streghe di Manningtree
Fazi
Traduzione (splendida) di Velia Februari


Sam Kean
La brigata dei bastardi
Adelphi
Traduzione di Luigi Civalleri


Coco Mellors
Cleopatra e Frankenstein
Einaudi
Traduzione di Carla Palmieri


R. F. Kuang
Babel
Mondadori
Traduzione di Giovanna Scocchera


Kate Beaton
Ducks
BAO Publishing

Traduzione di Michele Foschini


Eleonora C. Caruso
Doveva essere il nostro momento
Mondadori


Niccolò Ammaniti
La vita intima
Einaudi


Gabrielle Zevin
Tomorrow and tomorrow and tomorrow
Nord

Traduzione di Elisa Banfi


Maria Grazia Calandrone
Dove non mi hai portata
Einaudi


Michael McDowell
La saga di Blackwater
Neri Pozza

Traduzione di Elena Cantoni

È bellissimo. Leggetelo.
L’udienza è tolta.
Potrebbe bastare, ma vi attaccherò comunque un piccolo pippone d’incoraggiamento. Gabrielle Zevin e il suo Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow – che trovate in libreria per Nord con la traduzione di Elisa Banfi – se lo meritano.

Nel 1995, Sam e Sadie si incontrano per caso in metropolitana. Sono entrambi arrivati a Boston dalla California per studiare – MIT e Harvard, per non smentire il percorso da bambini prodigio già ben consolidato. Si conoscono già da un’infanzia più tenera (e nel caso di Sam anche molto più impervia) ma non si parlano da anni e, senza quella zampata del destino e qualche decisione deliberata presa al momento giusto, resterebbero probabilmente degli estranei, privando il mondo di alcuni videogiochi straordinari. Giocare insieme è stato il cemento della loro amicizia, uno spazio in cui entrambi hanno accantonato maschere e paure per immaginare un posto sicuro e deporre le armi. I loro cervelli si completano, ma è sui loro cuori che si può fare meno affidamento.

Il romanzo parte da questo riavvicinamento fortuito per accompagnarci nei mondi di Sam e Sadie, quelli che hanno inventato e programmato insieme – invitando al gioco una vastissima moltitudine di altri gamer in erba – e quelli che hanno attraversato fianco a fianco vivendo, accapigliandosi e cercando di fare a meno l’uno dell’altra – fallendo sempre, come in un livello particolarmente frustrante di Donkey Kong. In mezzo troviamo genealogie che non bastano a definire un’identità, seconde generazioni di “nuovi” americani, mentori viscidi e magnetici, amicizie che sono famiglia, dispute lavorative, testardaggini creative, rivalità, bolle tecnologiche non ancora scoppiate, dilemmi etici mascherati da gioco, un piede inaffidabile – e mai accettato, nella sua fallibilità -, pizzerie coreane, attrici e attori, Macbeth e l’Iliade, successi clamorosi e cantonate.
C’è, con decisione, un impianto filosofico che unisce il gioco alla fiducia nel domani. Perché giochiamo? Per sconfiggere la morte, per convincerci che si possa sempre ricominciare da capo e fare meglio, anche se sappiamo fin troppo bene che non ci è mai davvero concesso.

“Cos’è un gioco? È domani, e domani, e domani. È la possibilità dell’eterna rinascita, dell’eterna redenzione. L’idea che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre”.

Non c’è Game Over che regga, in un universo costruito per stupirti e per farti continuare a giocare: quell’infinita e inesauribile possibilità di afferrare un altro “domani”, indipendentemente da quanto tu possa aver fatto schifo nell’oggi, è una corazza confortante. Non ripara dal male, dal caso, dal caos e dal dolore – come Sam e Sadie ben sanno -, ma è un orizzonte che mantiene intatta quell’idea di potenzialità infinita, di “nessuna strada mi è ancora preclusa” che è la magia vera della giovinezza. Forse si gioca da “piccoli” con così tanta convinzione proprio perché ci si rispecchia in quell’attitudine da pioniere libero di scovare percorsi non ancora bruciati dal fallimento, dalla paura, dalle aspettative disattese. Non è una metafora d’originalità devastante, ma qua dentro funziona e trova un’anima degna – anche se le produzioni universitarie di Shakespeare non possono vantare un budget faraonico.

Ribadisco: è bellissimo.
È necessaria una vasta cultura videoludica? Secondo me no. Aiuta che v’interessi? Penso di sì. Ma non precludetevi un romanzo così meritevole e “vivo” (nonostante le ovvie licenze) per ipotetici deficit sul fronte dei giochi, specialmente se siete stati adolescenti nel primo decennio del Duemila. E se vi intrigano le storie aziendali (eccomi!), ancora meglio. Altra nota: siete da sempre team-Achille? Ne riparleremo a fine lettura. Tornate a dirmelo. 🙂

 

La lettura è sicuramente una delle mie oasi di decompressione, uno degli spazi mentali che utilizzo come scudo, bilancia e metaforica copertina calda. Quando leggo tanto mi sento meglio, più centrata, lucida, presente. Non ne faccio una questione performativa – ma guarda che brava che sono, guarda quanti libri ho letto questo mese! – ma una faccenda di equilibrio personale. Mi rendo anche conto, però, di quanto il meccanismo che finisce per innescarsi sia circolare: leggo di più quando sto “meglio” o mi sento meno sopraffatta dalle circostanze e questo leggere di più è anche un rinforzo alla condizione propizia di partenza. Può capitare, quindi, che quando le circostanze di partenza non sono poi così propizie, io finisca anche per piantarmi sul fronte libresco, innescando una spirale opposta di stallo, perplessità e multiformi sensazioni di sconfitta incombente.
Disastro!
Abisso!
Inclementi disamine esistenziali!
Data una certa predisposizione al melodramma, dunque, leggere meno non si trasforma in un legittimo momento di discontinuità ma tende a causarmi del sincero disorientamento. È come se mi venisse sottratto un ingranaggio fondamentale. A livello razionale, sono assolutamente in grado di ridimensionare la gravità del fenomeno e so anche che non esiste nessun ente superiore preposto all’assegnazione della Coppa Glitterata della Lettrice Infaticabile, so che non c’è una classifica e che non è una gara, così come so bene che leggere non sia sinonimo di superiorità antropologica o di particolari vette di saggezza. Nonostante i libri siano un elemento cardine anche della mia identità di produttrice di contenuti – oltre che della mia identità professionale e “umana” -, sono quasi sempre riuscita a proteggerli da ansie produttive e smanie d’efficienza. Se c’è un’oasi felice dove posso beneficiare di una sana lungaggine, senza ingerenze esterne o obblighi e scadenze, è proprio quella dei libri. Sono la mia Valle Incantata, dove i dinosauri prosperano e gozzovigliano.

Ciò detto, se coi libri mi pianto la vivo comunque come una specie di sconfitta personale. Ma non tanto perché mi servono per posizionarmi in chissà quale Gerarchia delle Menti Illuminate, ma proprio perché mi sento zoppa e disancorata, sfrattata all’improvviso da quel cuscinetto di tempo e spazio che mi aiuta a raccogliere le idee e a digerire nuove prospettive. Insomma, quando leggo sto meglio e se sto bene è più probabile che legga, se vogliamo riassumerla in qualche modo.

Quand’è che mi è capitato di leggere meno?
È successo quando sono diventata “stanziale” e ho perso le mie due ore e passa quotidiane di treno. Succede quando traduco qualcosa di molto corposo e pervasivo – è un po’ la sindrome della studentessa che sta preparando gli esami e perde d’improvviso la capacità di leggere per diletto. È successo durante i periodi intermittenti di lockdown – perché l’assurdità della situazione surclassava ogni tentativo d’invenzione narrativa, forse – ed è successo, in generale, ogni volta che il mio tempo complessivo ha subito delle particolari metamorfosi – penso alla maternità o anche solo ad antichi (per fortuna) orari d’ufficio molto onerosi. Succede quando le mie possibilità di coltivare la solitudine si restringono. Si tende spesso a considerare il tempo solitario come un non-luogo abitato soltanto da malinconia e tetraggine, ma nell’economia generale di una quotidianità popolata da tanti stimoli e interazioni umane diverse, ho imparato a percepirlo come una parentesi che mi restituisce energia, perché la rimetto in circolo in un sistema chiuso – il mio – e non la devo impacchettare e rovesciare qua e là.

Che faccio quando mi areno?
Dipende.
Come per tutti i problemi che mi paiono complessi, cerco di buttarla sul pratico.
Qua ci sono un paio di strategie che per me, storicamente, hanno funzionato. Non è detto che funzionino anche per voi – perché l’approccio alla lettura è personalissimo – ma magari vi offriranno uno spunto per costruirci sopra un’impalcatura comoda per arrampicarvi a modo vostro. Insomma, come provo a risolverla?

  • Brevità: visto che funziono come un topo da laboratorio – sei uscito dal labirinto, piccolo ratto? Eccoti un pezzo di formaggio! -, provo un’infantile soddisfazione nell’arrivare in fondo a un libro. Se il libro è corto, arrivo in fondo prima e, in situazioni di paralisi, dove non ti va di leggere manco quello che ti piace e la sola vista di un tomone imponente tende a sconfortare, testi brevi e snelli sono d’aiuto. Ah, che gioia, sono ancora capace di finire un libro! Tiè.
  • Fumetti – o graphic novel, che dir si voglia: il disegno mi ringalluzzisce perché credo risvegli dei meccanismi di assimilazione diversi rispetto a una pagina di testo fitto. È anche possibile che il testo contenuto in un fumetto sia volumetricamente inferiore rispetto a quello che troverei in un romanzo.  Tra quello e l’euforia grafico-visiva che puntualmente m’assale, si crea una propizia combo brevità-imprevedibilità che mi fa macinare pagine con ottima lena.
  • Saggistica: non sono particolarmente convinta che i libri debbano offrire per forza uno spunto didattico o pedagogico. Quando leggo narrativa sono ben felice di cimentarmi con storie piene di gente orrenda e non vado per forza in cerca di morali edificanti. Quando affronto la saggistica mi piace pensare, però, di avere l’opportunità di assimilare qualcosa di “utile”. Sto imparando, sto riflettendo sul presente, sto approfondendo qualcosa che non so, sto nutrendo una curiosità specifica, sto mettendo del materiale da costruzione nel mio carrettino. Specialmente quando mi blocco, insomma, mi sono resa conto che un saggio che promette di accrescere la mia consapevolezza sulla realtà può fornirmi una spinta ulteriore.
  • Sghiribizzi: mi capita di perdere l’abbrivio anche quando in mezzo ai tremila libri che mi son comprata nel passato più o meno recente e che mi osservano dallo scaffale dei “da leggere” mi pare che non ci sia niente che davvero mi vada di cominciare. Da quei medesimi libri, in un periodo più propizio, pescherò poi con rinnovato ardore, ma quando mi pianto non c’è niente da fare, restano lì. Ecco, quando mi tramuto nel cavallo Artax che si dibatte nelle sabbie mobili, trovo corroboranti gli acquisti d’impulso. Mi capita spesso di comprare online, ma funziona ancora meglio far fagotto e vagare in libreria, scegliendo senza tante sovrastrutture e recensioni da consultare. Spirito d’avventura, sei l’arma segreta in grado di mollarci un necessario sganassone? Forse sì.

Nella speranza di avervi fornito almeno uno straccetto di potenziale ispirazione, concluderei con l’unico consiglio davvero sensato: portiamo pazienza. Mi ci metto anch’io, che son la prima che tende a strillare NON SO PIÙ FARE L’UNICA COSA CHE AL MONDO FACCIO VOLENTIERI E MI RIESCE FACILE. Ecco, quello che per noi è strutturale prima o poi torna. Anche nei grandi amori capitano quelle serate in cui ci si dice poco ma si sta comodi a sonnecchiare insieme e si sta benone lo stesso. Si possono oliare gli ingranaggi, certo, ma quel che serve talvolta è semplicemente ricaricare le benedette batterie.

Una piccola introduzione molto semplicistica.
La letteratura è (anche) una vasta collezione di disperazioni. È assai raro che la gioia possa fungere da solido motore narrativo, così come non è una coincidenza che il lieto fine stia dove stia: all’ultima pagina, senza la necessità di aggiunte o di particolari approfondimenti. E vissero tutti felici e contenti. Che altro vuoi? Metti in saccoccia e arrivederci. Lo spettacolo è finito, si prega cortesemente di dirigersi alle uscite.

Ma che cosa accade, però, quando l’intento fondamentale di un libro è quello di sviscerare e amplificare la sofferenza, il trauma, la vergogna, il malessere fisico e spirituale, la morte perpetua della speranza, la disfatta e il disfacimento? Accade Una vita come tante di Hanya Yanagihara, romanzo che ha conquistato a mani basse la sommità del mio personalissimo podio della tristezza in letteratura e che, in questi anni, si è trasformato in una sorta di oggetto di culto, in una vetta da scalare, in una sfida aperta ai rivenditori all’ingrosso di fazzoletti da naso.

Mesi fa, colta dal comunissimo raptus del “che diamine, solo io non l’ho ancora letto”, mi sono procacciata A Little Life e me lo sono girato un po’ tra le mani. La mole mi era già nota – l’edizione originale veleggia sulle 800 pagine -, ma prima di iniziare qualcosa attraverso sempre uno di quei momenti da pesatura egizia del cuore sulla soglia del regno dei morti. Metto il libro su un piatto della bilancia e, dall’altra parte, sistemo energie, forza di volontà e stati d’animo. E inizio davvero a leggere solo quando mi sembra che i due piatti raggiungano l’equilibrio. Ecco, con la Yahagihara ci è voluto un po’, ma il coraggio è arrivato.
Piangerai un casino!
Sarà orribile!
Ho provato a leggerlo ma l’ho mollato, si sta troppo male!
Stupendo… però che sofferenza.
No, zero, già sto da cani di mio, una roba del genere non la leggo neanche se mi pagano.
Quando l’hai finito dimmi che ne pensi, devo parlarne con qualcuno.

Ed eccoci qua.

Che cosa succede in questo libro, in estrema sintesi?
Una vita come tante racconta i rivolgimenti esistenziali di quattro amici.
Willem, Jude, JB e Malcolm si incontrano poco meno che ventenni al college e, fra alti e bassi, allontanamenti e riavvicinamenti, carriere che svoltano e battute di arresto, le loro esistenze continuano a intrecciarsi per i tre decenni successivi.
Il centro di gravità è New York, che tutti finiscono per abitare in modo diverso ed emblematico.
Il protagonista – anzi, il mistero da risolvere – è Jude. Ed è a Jude che ne capitano di tutti i colori.

Nella prima parte del romanzo, Jude resta nelle retrovie. Conosciamo meglio i suoi compagni di stanza, le loro lotte interiori per trovare una direzione e un posto nel mondo – Malcolm vuole fare l’architetto, JB vuole fare l’artista e Willem fa il cameriere mentre sgomita per diventare un attore. Il terzetto si destreggia tra zavorre dell’infanzia, ambizioni, dubbi e fatiche “pratiche” correlate al diventare grandi… e Jude pulisce casa. Cucina. Li osserva. Aggiusta quello che si rompe. Studia legge e matematica – rivelando la sua prodigiosa intelligenza. Zoppica. Digrigna i denti per il dolore e si scusa continuamente, perché si sente d’impaccio. Quel che sappiamo di Jude è che, in un momento imprecisato del suo passato, un tremendo incidente gli ha danneggiato in maniera invalidante la schiena e le gambe. Cammina male e amministra quotidianamente un dolore cronico, che a volte lo investe con una forza tale da paralizzarlo, cancellando anche i pensieri. Jude, però, non ne parla. Glissa sulla sua provenienza, glissa sulle sue strane abitudini, si scansa bruscamente quando qualcuno cerca di toccarlo – anche solo per dargli una pacca sulla spalla – e non si fa mai sorprendere a braccia scoperte – o nudo, figuriamoci.


Il disvelamento di Jude, se così possiamo chiamarlo, è la spina dorsale del libro. Il suo ostinato ermetismo è una strategia per arginare i ricordi di un passato indicibile, ma anche per limitare il disgusto che Jude è convinto di suscitare negli altri. È una corazza difensiva, piena di falle e spiragli, è il tentativo di cambiare pelle e di diventare una creatura nuova, un uomo che si rimette insieme un pezzo alla volta, piegando la realtà ai suoi molti segreti, elaborando strategie per rimanere al sicuro. Jude assorbe il male che gli è stato fatto e finisce per assumersene la responsabilità, tramutandolo in qualcosa di irreparabile, da custodire per non allontanare chi, nella sua “nuova” vita, gli sta facendo conoscere un universo nuovo, dove sono possibili l’amicizia, l’amore e la fiducia.

Scopriamo poco a poco che cosa è successo a Jude. Perché Jude “è così”. E, con il procedere del romanzo, le nostre conoscenze sono comparabili a quelle degli altri personaggi. Finiamo anche noi per domandarci come “gestire” Jude, lo ammiriamo per la sua tenacia e per i suoi successi – perché intuiamo che arriva da una moltitudine di posti che, tipicamente, non sfornano giuristi di spicco, matematici brillanti o esseri umani di una tale sensibilità. Restiamo con lui perché la sua fatica e il controllo costante che cerca di esercitare sul suo corpo e sulla sua mente sono esercizi titanici e vorremmo alleggerirgli il fardello, pur sapendo che non ce lo permetterà. Lo seguiamo perché ci fa arrabbiare, perché scopriremo che cosa è stato e vorremmo dirgli che non è colpa sua, che può smettere di farsi del male.

Spulciando un po’ in rete alla ricerca di notizie sull’autrice, mi sono imbattuta in diverse interviste – e anche in un diario di bordo “visivo” che ha accompagnato Yanagihara durante la stesura del libro. Una domanda ricorrente è “ma perché così TANTO dolore?”.
È una domanda legittima. Una vita come tante è un romanzo sul dolore. Ed è un romanzo che esplora gli estremi dello spettro emotivo e gli strascichi eterni del trauma… ma si sofferma anche sull’enigma delle fortune umane. Tutto sembra governato da una forma sghemba di giustizia ultraterrena: si può ottenere un risarcimento per le sofferenze patite, ma non sarà mai un risarcimento sufficiente a guarirti dove più ne hai bisogno. Sarà una compensazione parziale, imperfetta, quasi malvagia nella sua inadeguatezza. Jude ci sottrae l’illusione di una felicità riparatrice o, se proprio, ci mostra la natura effimera dei periodi di tregua, pace, appagamento.
L’autrice ha più volte raccontato che questo calcare la mano è voluto e che il suo intento, scrivendo, era di amplificare fin quasi al paradosso tutto quello che di terribile può capitare a una persona, di spingersi fino ai confini più estremi dell’oscurità. Non c’è sfiga che a Jude venga risparmiata. E queste sventure – che si tratti di patimenti della carne o dello spirito – vengono anche descritte con puntiglio, chirurgicamente. A che scopo si continua a vivere, se il prezzo da pagare è questo?

La copertina dell’edizione originale, così come quella di Sellerio, che ha pubblicato Una vita come tante in Italia con la traduzione di Luca Briasco, è una fotografia di Peter Hujar – e sempre di Hujar sono le immagini che accompagnano questo post. Sembra un tizio che sta male, così di primo acchito. Il titolo dell’opera, in realtà, è Orgasmic Man. Leggendo, la scelta iconografica appare perfetta. Tanto, in questo romanzo, ruota attorno al corpo (spesso traditore), al sesso, all’intimità e all’abbandono. Ai segni che rimangono e alle cicatrici invisibili. Al fatto che un’esperienza possa risultare normale e meravigliosa per qualcuno e, contemporaneamente, traumatica e irreparabile per la controparte, innescando un meccanismo che somiglia alla dipendenza, a una catena infinita di compromessi che facciamo per tenere insieme i cocci e restare aggrappati a quello che abbiamo di più caro. Di indispensabile.

Anche il titolo è una specie di camaleonte. In originale, questo libro si chiama A Little Life. Man mano che si macinano pagine, ci si rende conto delle sue molte facce. Una di quelle più significative, secondo me, è anche un’esortazione impossibile da assecondare. “Forza, dai. Un po’ di vita!”. Jude se lo sente ripetere spesso… sia testualmente – durante specifiche situazioni traumatiche della sua infanzia e prima adolescenza – che velatamente, da una moltitudine di personaggi che costituiscono la sua famiglia allargata, la sua zattera di salvataggio. E forse è proprio questo il punto. Possiamo pensare di salvare davvero chi non si ritiene degno di essere salvato? Chi vuole arrendersi perché non ha più le energie per combattere?

Sono felice di aver letto questo libro. Non sono certa di poterlo consigliare. Non è un libro che si può consigliare. È come augurare a qualcuno di star male. Ma è un libro che spero possa essere letto e capito come merita, perché è una specie di monumento. Contiene l’ombra più fosca e uno spirito combattivo difficile da intravedere, ma potentissimo. Raramente – o forse mai – mi è capitato di “conoscere” personaggi così complessi, spregevoli, disarmanti e “buoni”. Non ho parlato di paternità, degli ambienti, di carriera e lavoro, di autolesionismo, di menzogne. Non ho parlato davvero di fluidità nell’approccio ai rapporti amorosi… e chissà quante altre cose ci sarebbero da dire. Ho la sensazione di poter parlare di questo libro per anni, perché porterò sempre con me un brandello di Jude e una rabbia senza soluzioni. È un romanzo terribile. È un romanzo bellissimo. E non ho la minima intenzione di sfoderare la bilancia per illudermi che esista un equilibrio. Prendo atto dell’impossibile. E spero di averne colto, almeno in parte, la complessità.