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Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

Non mi sforzerò nemmeno lontanamente di compilare una classifica, che già è stato arduo arrivare a queste sintetiche conclusioni. Quella dei libri preferiti dell’anno è senza dubbio la lista più difficile da assemblare e mi getta puntualmente in un gorgo di dubbio, tentennamenti e FOMO retroattiva. Non si può nemmeno sfuggire a una certa ridondanza, perché se nell’arco degli ultimi dodici mesi ho apprezzato un libro è raro che non l’abbia già dichiarato qua e là, chiacchierandone su Instagram o scrivendone qua sul blog. Insomma, al netto di tutte queste menate, dedichiamoci a quest’impresa di sintesi che risponde alle seguenti coordinate:

  • i libri che mi sento di segnalare fra i preferiti dell’anno X non sono necessariamente usciti nell’anno X, anzi. La mia scarsa reattività al nuovo è tendenzialmente assai spiccata, quindi c’è un po’ di tutto – anche se nel 2021 sono caduta dal pero un po’ meno del solito, mi pare.
  • i criteri son più “sentimentali” e istintivi che rigorosi e bilanciati. Insomma, per una volta mi concedo il lusso di non pensare a equilibri ferrei tra fumetto, narrativa, saggistica, editori e cento altre interpolazioni possibili.
  • nel caso ci siano luoghi dove ho elaborato un po’ meglio le mie impressioni non esiterò a indirizzarvici per approfondire.
  • no, Crossroads di Franzen non l’ho ancora finito. Abbiate pietà per i ritmi altrui.

Benone, ribadendo l’onnipresente problema della fallibilità umana, ecco qua il mio miglior 2021 libresco.

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Bernardine Evaristo
Ragazza, donna, altro
(Sur)
Traduzione di Martina Testa

Un esperimento narrativo corale che sintetizza senza retorica o condiscendenza tanto del dibattito (finalmente) attuale su rappresentazione, genere, identità e privilegio. Un libro prezioso per innovazione strutturale, piglio bellicoso e per rifocalizzazione del punto di vista.

Ecco qua dove ne avevo parlato in origine.

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Elizabeth Strout
Olive, ancora lei
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Il ritorno di Olive Kitteridge, la bisbetica più amata del Maine, ha rinnovato la mia ammirazione per Elizabeth Strout, che si conferma splendida ritrattista delle minuzie del tran tran quotidiano e delle testarde meschinità con cui tendiamo a complicarci la vita. È anche un libro che indaga gli effetti del trascorrere del tempo e il coraggio necessario per concederci una seconda possibilità, per quanto tardiva e monca ci possa sembrare.

Serve un approfondimento? Accomodatevi qua.

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Teresa Ciabatti
Sembrava bellezza
(Mondadori)

Cianciamo tanto della necessità di dipingerci “forti” e poco inclini a compromessi, ci dichiariamo pronte ad accogliere ogni genere di sensibilità – inclusi i personaggi femminili capaci di concedersi l’indubbio lusso di una spigolosità palese e impenitente – e applaudiamo senza remore i più vari elogi dell’imperfezione, ma quanto ci crediamo davvero? Quanto li digeriamo senza subirne con stizza l’urto inevitabile? Forse Teresa Ciabatti non è facile da leggere. Anzi, non è piacevole da leggere. Nella voce narrante che sceglie per Sembrava bellezza non c’è nulla di comodo, edulcorato o strutturato per rassicurarci. Ecco, reduce da un biennio in cui il mondo sembra essersi accorto (con comodo) che anche il pensiero positivo perenne e onnipresente può risultare tossico e colpevolizzante, ho trovato questo romanzo particolarmente liberatorio. Ma non tanto per il gusto di seguire le peregrinazioni di una ragazza “cattiva” che mai metabolizza fino in fondo delle ombre dell’adolescenza, credo sia più una questione di zone grigie. Non c’è desiderio di rivalsa senza insoddisfazione e non c’è narratrice inaffidabilissima che non sia anche profondamente consapevole delle proprie storture e delle proprie mancanze. Non c’è ambizione all’ascesa – sia estetica che di “status” – che non parta da un’intima conoscenza di una distribuzione disomogenea delle fortune. Credo sia anche per questo che ho amato questo libro: è probabile che i personaggi imperfetti la sappiano più lunga di noi perché conoscono sia i loro deficit che quel che occorrerebbe per raggiungere la felicità e l’appagamento. Vivono all’interno di quella distanza impossibile da colmare e ci abitano concedendosi il loro unico guizzo sincero: un’insoddisfazione sacrosanta, velenosa, più vera di ogni tentativo di dipingersi meglio di quel che sono e, nel non sapersi vendicare in prima persona, vendicano noi.

Per una cronaca un po’ più lineare di questo libro, qua si può riguardare la diretta con la sottoscritta, Daniela Collu e – in coda – Teresa Ciabatti, che appare come un cigno-fantasma.

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Kazuo Ishiguro
Klara e il sole
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Ishiguro è stato uno dei graditi e attesi ritorni – non pochi, devo dire – del 2021. Anche a questo giro il tema al cuore del romanzo è il seguente: che cosa ci rende umani? Per ipotizzare una risposta, Ishiguro si fa aiutare da una schiera di simulacri – molto realistici e credibili, ma pur sempre artificiali – che popolano un mondo rarefatto e socialmente atomizzato. Si piange pure con gli androidi? Già.

Il post provvisto di tutti gli optional e degli upgrade più moderni si può leggere qua.

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Giulia Caminito
L’acqua del lago non è mai dolce
(Bompiani)

Ho tifato tanto allo Strega – non è servito -, ma Giulia Caminito ha avuto la sua rivincita al Campiello e ne sono stata immensamente felice, di certo per il valore del romanzo ma anche per la soddisfazione di veder riconosciuto, per una volta, il talento di un’autrice limitrofa alla mia condizione anagrafica e che di sconfitte generazionali ha parlato senza piagnistei e deferenza verso l’ordine costituito. Gaia, la protagonista, è una piccola gorgone di lago e anche la lingua che Caminito sceglie per guidarci nella sua lotta quotidiana sconfina quasi nell’incisività e nel piglio del mito. Si parte da una famiglia disastrata, tenuta insieme solo dalla forza di volontà e dall’impermeabilità all’umiliazione dell’ingombrantissima madre, Antonia. Si procede per tappe, verso un riscatto imposto che passa per lo studio e le violentissime reazioni all’accumulo di ingiustizie di quegli anni che ci vengono spesso venduti come i più verdi e belli, ma sono verdi e belli quanto il fondo limaccioso e buio del lago di Bracciano, cornice di questa storia. Non ci si lamenta, non ci si rassegna, non si mostra il fianco. Ma dopo tutta questa fatica, tutta questa brace incandescente che coviamo e che man mano diventa sempre più fredda e rassegnata, dov’è tutto quello che ci è stato promesso? È forse mai esistito?

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Leigh Bardugo
La trilogia di Shadow and Bone 

La serie di Netflix, almeno nel mio caso, ha prodotto quell’auspicabile esternalità positiva che prevede la trasformazione dello spettatore televisivo in lettore del materiale di partenza. Di solito preferisco arrivare “preparata” alla visione di una serie, ma in casi più rari può anche capitare che ci si trasformi in salmoni che compiono all’inverso il naturale percorso di avvicinamento. I tre romanzi di Tenebre e ossa mi hanno egregiamente tenuto compagnia, generando anche quell’effetto “devo vedere subito come va a finire” che non si manifestava da un po’. Per quanto trovi Alina irritantissima e per quanto io sia perfettamente in grado di scorgere più di un difetto nell’impianto generale e nella “resa” di questi libri, non è stato affatto impervio sedermi là a godermeli lo stesso. Innumerevoli sono stati gli incoraggiamenti a proseguire con Sei di corvi – se non proprio i “lascia perdere i primi tre, puoi leggere direttamente la duologia che è molto meglio”, ma m’è sembrato più opportuno farmi un’idea meno raffazzonata del mondo e dunque eccoci qua con un timbro nuovo di pacca sul passaporto del Grishaverse. Grazie per aver fornito il necessario intrattenimento, Leigh Bardugo. E un saluto anche a te, Ben Barnes.

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Emmanuel Carrère
Yoga
(Adelphi)

Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala

Che anno denso di attesi ritorni (non deludenti) e di narratori splendidamente inaffidabili, è il caso di dirlo. Carrère continua a menarci per il naso? È possibile, ma a questa ipotetica grande mistificazione – che forse poi è la mistificazione strutturale che passa per la soggettività del ricordo e di quello che ci raccontiamo per sopportare quello che succede, forse – continuo a cedere volentieri.

Per impressioni un po’ meno nebulose, il post era qui.

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A cura di Sheila Williams
Relazioni – Amanti, amici e famiglie del futuro
(451)

Dodici racconti – raccolti da Sheila Williams per l’annuale impresa antologica della longeva serie tematica Twelve Tomorrows del MIT – per ipotizzare altrettante nuove strutture dello “stare insieme” in un contesto più o meno dominato dalla tecnologia. Coppia, figli, dating, eredità e memoria… cosa ci riserverà il futuro nel vasto calderone del legame sentimentale, dell’ordine sociale e della relazione umana? Grandi nomi della speculative fiction e della fantascienza cercano di immaginare una risposta – e no, non è detto che sia catastrofica.

Per approfondire, ecco qua.

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Anna Maria Ortese
Il mare non bagna Napoli
(Adelphi)

Qua c’è un racconto che chissà in quale maniera sconclusionata avevamo letto a scuola. È il racconto della bambina che non ci vede e finalmente riceve un paio d’occhiali, per poi scoprire che tutto sommato stava meglio prima, in una realtà ovattata e nebulosa che le risparmiava l’orrore di una messa a fuoco precisa dell’esistente. E quel che esiste attorno a lei è Napoli, una vertigine urbana che sobbolle e digerisce a ciclo continuo ogni possibile configurazione dell’umano. Non rammento una lezione su Anna Maria Ortese, a scuola, ma il racconto della bambina mezza orba sì. Gli altri quattro movimenti di questa sinfonia dissonante e magnifica sono un tardivo recupero e, credo, anche una prova di coraggio – non tanto per me che leggo, ma più per Ortese che scrive senza pentimenti. Il tempo per pentirsi e limare sarebbe poi arrivato, ma quel che resta è una capacità magnetica di creare una distanza, il distacco necessario ad esercitare la libertà dello sguardo, a inforcare quegli stramaledetti occhiali per esercitare una soggettività unica, inclemente, poetica, mostruosa e viva.

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Madeline Miller
Circe
(Marsilio)

Traduzione di Marinella Magrì

No, non so ancora dirvi nulla sulla Canzone di Achille. Dopo aver così apprezzato Circe, però, sono certa che lo affronterò presto e con una certa fiducia. Figlia del Sole e della ninfa Perseide, Circe cresce fra i Titani imparando a schivare le folgori delle nuove divinità olimpiche. Da sempre poco malleabile e incomparabilmente meno luminosa dei suoi fratelli, compatisce Prometeo e crea mostri, cercando un luogo dove potersi sentire davvero a casa. Paradossalmente, la vita di Circe sembra germogliare davvero da quella che per dei e mortali potrebbe somigliare alla peggiore delle condanne: l’esilio eterno sull’isola di Eea. Tra animali e piante, Circe asseconda la magia e diventa il cuore pulsante di un universo di prodigi, incontri, lotte secolari e sorti illustri. Una rivisitazione godibilissima e colta che espande il mito e trasforma in protagonista indimenticabile una figura in cui siamo abituati a imbatterci quasi di sfuggita: la comparsa infida ed egoista nella grande epopea dell’astuto e nobile Odisseo assume qui rotondità, mente, cuore e potere. Non solo equipaggi trasformati in maiali, insomma, ma una maga che pur andando ben poco a spasso contiene moltitudini. Viva Circe. E occhio a Scilla.

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Paolo Cognetti
La felicità del lupo
(Einaudi)

Allora, io a Fontana Fredda non ci vivrei in pianta stabile, ma mi fa piacere soggiornarci per qualche tempo per andare a trovare i personaggi di Cognetti. Forse no, non ho ancora finito la mia decrescita cittadina e non sono ancora pronta a confrontarmi con l’immensità glaciale delle vette montane, ma anche questa volta il sortilegio d’alta quota si è ripetuto. È un romanzo che rallenta il ritmo del quotidiano e lascia intravedere un’alternativa che ha poco della negazione e del rifiuto e molto della ricostruzione ragionata. Pur restando dove sono, è un libro che mi ha fatto bene.

Per qualche impressione un po’ più articolata, vi indirizzo volentieri qui.

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Concluderei con un ringraziamento un po’ ridicolo. Vorrei ringraziare i libri che sono riuscita a leggere quest’anno – pure quelli brutti o deludenti – per avermi accompagnata per un pezzo di strada. Neanche il 2021 è stato un anno semplice o particolarmente ricco di speranze provenienti dal mondo esterno e poter costruire, leggendo, un rifugio o un’oasi di sano svago ha rappresentato per me un buon punto fermo. Pochi o tanti che siano, i libri che ho letto o ascoltato – e qua nei preferiti ce ne sono diversi che ho ascoltato, da Circe a Il mare non bagna Napoli, ma anche Giulia Caminito – sono stati un puntello e un posto diverso dove far lavorare il cervello. Pochi o tanti che siano, è andata bene così.

Ulteriori rotte per la navigazione:
– siete in ritardo coi regali ma volete fare dei regali “letterari”? Vi lascio un memo per Storytel. Ci sono un casino di gift card e qua c’è sempre il mese gratis che vi donano perché siamo amici.
– a parte Instagram, anche qua nella vetrina Amazon cerco sempre di tenere traccia di quello che leggo man mano.
la lista di Natale “generale”.
la lista di Natale per i piccoli e le piccole.

Lo dichiaro all’istante: Love, Death + Robots è una delle mie cose preferite al mondo. La prima stagione ci era piombata addosso senza particolari fanfare, generando un entusiastico effettone-sorpresa dato dalla struttura e dal trattamento visivo estremamente eclettico delle storie. E anche la seconda – uscita il 14 maggio su Netflix – non smentisce il folle spirito delle operazioni. Al comando della ciurma ci sono David Fincher e Tim Miller (qui showrunner/ideatore e già regista direi assai applaudito dalla popolazione del globo per Deadpool), con Jennifer Yuh Nelson a fare da coordinamento registico e da collante creativo.
Love, Death + Robots, per far ambientare bene anche chi si fosse perso il primo giro in giostra, è una serie antologica d’animazione che funziona come una specie di multiverso sci-filosofico. Coi robot. E i mostri. E le navicelle spaziali. E i sentimenti. E lo spazio-tempo. E ROBA. Le puntate sono indipendenti le une dalle altre e hanno una durata variabile – alcune ve le vedete in 4 minuti e altre superano i 20 -, ma sono tutte accomunate dal tentativo di immaginare come l’umanità si proietterà nel futuro o come il mistero, l’ignoto e “l’alieno” possono innestarsi nella normalità che conosciamo, deformandola in mille modi rivelatori. È un grande esperimento narrativo che esplora le vaste potenzialità dell’animazione digitale – ci sono puntate che sembrano film con attori in carne e ossa ed episodi che potrebbero comodamente diventare anime che stanno in piedi da soli, più incursioni che combinano CGI e stop-motion – e che, pur ponendoci immancabilmente di fronte a questioni totalizzanti di vita o di morte non rinuncia al gusto per il bizzarro, l’ironia e il divertimento puro dello spettacolo. Sono due stagioni di paradossi e di ipotesi su quello che la tecnologia potrà farci – o ci ha già fatto. E sono estremamente piacevoli da guardare per varietà, durata ben modulata e imprevedibilità sia visuale che tematica.

Tim Miller ha già confermato che ci sarà una terza stagione – che vedrà il ritorno di un trio di robot EPICI già apparsi al debutto della serie e che sarà composta da otto puntate. In questo secondo volume c’è anche la partecipazione (in una motion-capture di un realismo assurdo) di Micheal B. Jordan, pilota precipitato su un pianeta desertico che se la vedrà brutta proprio nel modulo di salvataggio che dovrebbe tenerlo al sicuro.
Chicche letterarie aggiuntive: un episodio arriva da Joe Lansdale ma, soprattutto, c’è la trasposizione di The Drowned Giant di Ballard. Il racconto è stato una fissazione di lunga data di Miller, che dopo aver perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard è finalmente riuscito a ottenere la loro autorizzazione per lavorarci – ci aveva già provato per gli otto episodi d’esordio, ma le eredi l’avevano mandato a stendere. Siamo felici che abbiano acconsentito, anche se a scoppio ritardato. Il risultato è surreale, malinconico, struggente e assurdo… un po’ come tutta la serie.


Pur non essendoci un filo rosso esplicito a legare tutti gli episodi, le puntate si strizzano l’occhio e si passano la palla, mostrandoci quello che succede se decidiamo di fare un passo in più e di superare i tradizionali confini della fantascienza, della robotica, dell’intelligenza artificiale e dei what if classici del cinema o delle narrazioni libresche. Nonostante i robot malevoli, i mutanti fosforescenti, lo spazio profondo e le miracolose rigenerazioni cellulari, al cuore di ogni storia ci sono degli esseri umani che si specchiano nella loro solitudine o nel loro bisogno di stupirsi davanti alla vastità di quello che può esistere – Babbo Natale compreso.
Insomma, è un bel parco giochi… con ottovolanti senzienti che faranno tutto il possibile per uccidervi o per accartocciare in maniera meravigliosamente creativa e inquietante ogni vostra certezza.

Bentornate e bentornati a questo tentativo – con solo vaghi fini di periodicità – che ambisce a riordinare i vari stimoli che sparpaglio in giro e che vorrei cercare di conservare con un po’ più di raziocinio.

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LEGGERE

Incredibile ma vero, ci sono numerose segnalazioni da raggruppare… alcune delle quali sono addirittura articolate! Gennaio, hai fatto schifo per tante ragioni, ma sul fronte libri ci è andata bene.
Dunque, potete recuperare i seguenti post su due libri meritevolissimi:

Bernardine Evaristo – Ragazza, donna, altro (SUR)
Michele Masneri – Steve Jobs non abita più qui (Adelphi)

Visto che abbiamo nominato Adelphi, gli sconti durano ancora per qualche tempo. Qua c’è un antico listone che avevo preparato con qualche consiglio per una campagna precedente. Si sono aggiunti di sicuro altri titoli degnissimi, ma quello che c’è qua è sempre vero. Mi cimenterò in un aggiornamento, ma ormai aspettiamo il prossimo giro.

Anche Mirella, la nostra fida topa di biblioteca, si è prodigata in suggerimenti e spiegoni. Ecco qua gli ultimi, recuperati a imperitura memoria dalle fugaci Instagram Stories.

Il ritorno della famigerata e schiettissima Olive Kitteridge in Olive, ancora lei di Elizabeth Strout (uscito per Einaudi con la traduzione di Susanna Basso).

Poi, visto che sono evidentemente in un periodo “anziane signore che riflettono sull’esistenza”, ecco anche Anne-Marie la beltà di Yasmina Reza, scoperta da queste parti con Felici i felici. 

Per completare l’opera, su Storytel sto finendo di ascoltare Disobbedienza di Naomi Alderman – sì, è l’autrice di Ragazze elettriche e questo è il suo romanzo d’esordio – e mi sembra di essere piombata in uno spin-off di Unorthodox.
Se siete in vena di collaudi, qua ci sono sempre 30 giorni di prova gratuita per cimentarvi con gli audiolibri.

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GUARDARE

Ho sviluppato una sincera partecipazione per le vicissitudini di Kipo e dei suoi multiformi amici. Ma proprio che alzo le braccia al cielo ogni tre minuti e di tanto in tanto piango pure.
Dunque, è difficile da riassumere, ma comincia più o meno così. Kipo è una ragazzina con i capelli rosa che cerca di ricongiungersi a suo padre in un mondo popolato da corgi alti cinquanta metri, megascimmie, gatti boscaioli, vipere rocker, puzzole motocicliste, lontre da avanspettacolo e pesci parlanti. La superficie è dominata da animali mutanti – alcuni dotati di favella e altri no – e solo parzialmente organizzata sotto la monarchia assoluta e terrorizzante di Scarlomagno, mandrillo megalomane (con mandrillo intendo proprio la specie scimmiesca e non alludo ad alcuna disinvoltura nella sfera sessuale) che va in giro a bordo di un fenicottero gigante a due teste (coi denti) e suona il pianoforte. Gli esseri umani si nascondono in società sotterranee e frammentate e cercano, di base, di tirare avanti… anche se tramano nel buio per levare di mezzo i mutanti che rendono inabitabile la superficie. Non vi spoilero niente, ma è una storia super ramificata, viva, più realistica di quel che sembra e piena di cuorosità, saggi propositi, amicizia e STRUGGLE adolescenziale variamente metaforizzato. Io e Cesare siamo super fan. È una produzione Dreamworks e si può vedere su Netflix.

Kipo e l'Era delle Creature Straordinarie, la recensione della serie animata Netflix

Kipo and the Age of Wonderbeasts: Contro un mondo in guerra - SpaceNerd.it

Sempre su Netflix – e senza l’ambizione di fornirvi suggerimenti particolarmente originali, dato che l’avrete già finito tutti un mese fa – abbiamo cominciato a guardare SanPa. Bisognerebbe scriverci trecento tesi di laurea, credo.

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SPERPERARE

Mi sono comprata la versione scura e un po’ più pesantina dei jeans che ho messo di più quest’estate. Per la rubrica “se trovi una roba con cui ti senti a tuo agio prendila in molteplice copia e in diverse gradazioni di colore”. Sono di Benetton e li trovate qua (in ambo le alternative).

Ho ordinato uno spruzzino fighetto per nebulizzare l’acqua sui vegetali di casa.

Anche se poi non me li so asciugare come si dovrebbero asciugare i ricci, questo shampoo sta funzionando super bene.

Mi arrivano sempre più spesso materiali promozionali stampati su carta piantabile. Sono fogli “normali” che contengono dei semini. Voi li spezzettate, li sotterrate in un vaso, li innaffiate e vi vengono su germogli e foglioline. Sento che la situazione del verde domestico sta per sfuggirmi di mano. Non so dove i miei svariati mittenti si siano procurati la loro carta piantabile, ma a giudicare dalle iconcine vengono da qua.

Non si pianta, ma ho comunque trovato un quaderno che ben si adatta alla mia calligrafia ingombrante e che mi aiuta ad arginare il disordine. È un po’ rétro.

 

 

Più per ordine mentale mio che per presunti slanci di utilità nei confronti del mondo, benvenute e benvenuti a questa prima Settimanini, un angoletto con ambizioni ricapitolesche che dovrebbe aiutarmi a mappare, raggruppare e rendere comodamente ricercabili i numerosi spunti che lancio qua e là. Nelle mie troppo ottimistiche ambizioni, dovrei periodicamente raccogliere in questi spazi quello che leggo, vedo e bramo (o mi compro con soddisfazione). Si fa prima a fare che a spiegare, quindi tenderei a procedere e buonanotte al secchio.

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GUARDARE

Dunque, abbiamo concluso con trepidazione e buon gradimento La regina degli scacchi – una serie che ha suscitato in me una solidarietà sconfinata per la produzione, che ogni cinque secondi doveva imbastire partite a scacchi realistiche e super intricate, girando ogni roba 800 volte (sospetto) perché se qualcuno sbagliava a muovere il cavallo bisognava rifare tutto da capo – e abbiamo iniziato Workin’ Moms, altra serie che segue le peripezie di un coraggioso manipolo di neomadri che tentano di abitare il mondo come delle persone normali (o come le persone che erano) anche se hanno figliato. E che sarà mai, direte voi. E che sarà mai UN CORNO. Nel guardarlo, oscillo tra il pianto e una veemente sensazione di sorellanza, invidiando a morte quelle che dispongono di una babysitter efficiente.

Area Pixar.
Non so bene cosa non vada più nel mio cervello, ma Soul ha generato una scarsissima presa su di me. Che il filone necrofilo-filosofico abbia esaurito il suo potenziale? La musica non mi piace abbastanza? Sarò satura di vedere ore di film che tentano di indagare i nostri sogni più reconditi per poi risolverla con massì, il senso della vita è nelle piccole cose? Tiè, pigliati una fetta di pizza! Non lo so. Sono diventata arida. Ho adorato il trattamento visivo del aldilà (o dell’aldiprima) e il broker che a un certo punto scaglia il monitor per terra e ricomincia a campare ci offre un istante di pura e limpida felicità, ma resto tiepida. Un film intero su 22 che maltratta i suoi mentori, però, lo guarderei all’istante.

Il film della Pixar “Onward” è stato vietato in quattro paesi mediorientali per la presenza di un personaggio omosessuale, dice Deadline - Il Post

Su Onward, invece, avevo aspettative scarsissime. La gestione delle nostre aspettative credo sia una delle sfide più monumentali che la Pixar dovrà affrontare nel futuro. Siamo stati ben abituati e questo felice bagaglio di esperienze cinematografiche condivise mi rende di sicuro una spettatrice fidelizzatissima, ma è anche vero che posso guadarmi un Onward in pace senza pretendere che mi appaia Santa Teresa che va in estasi per gli unicorni randagi. Comunque. Nella mia testa doveva essere una cazzata inutile (non so perché), ma Onward è riuscito a intrattenermi abbondantemente e anche a farmi piangere senza il minimo ritegno. Esperimento riuscito! Datemi delle creature mitologiche a caso e mi farete felice! W la manticora!

Death to 2020: uscita, cast, trama e streaming su Netflix

Su Netflix ho trovato anche Death To 2020, una sorta di speciale dedicato all’anno infame che abbiamo appena attraversato. Girato sotto forma di mockumentary con interpreti blasonatissimi che si prestano a cialtronate più o meno riuscite, è di una cattiveria corroborante e scacciapensieri.

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LEGGERE

Con il supporto della mia fida Mirella – la topa di biblioteca – un romanzo e la seconda puntata di un manga già amato. Se siete in vena di leggere saggi socio-tecnologici, invece, ecco qua dove recuperare qualche pensiero su La valle oscura.

Nives di Sacha Naspini
(Edizioni E/O)

 

La taverna di mezzanotte (vol. II) di Yaro Abe
(BAO Publishing, traduzione di Prisco Oliva)

 

Per riassumere un tema che appare ricorrente: CORNA.

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SPERPERARE

Niente, ho scoperto che Lego ha deciso di darsi alla botanica e adesso voglio costruire dei bouquet di fiori da piazzarmi sul tavolo. Non appassiscono. Non vengono assaltati dagli insetti. L’acqua nel vaso non vi si impaluda. Una soluzione durevole e graziosa. Che favola! 😀

These Beautiful Lego Flower Bouquets and Bonsai Tree Sets Are Perfect for People Who Always Kill Plants | Travel + Leisure

 

Potrei (e dovrei) dedicarmi a circa 953 cose più rilevanti del tema “maglioni brutti di Natale che in realtà sono STRAORDINARI”, ma quando distribuivano il buonsenso ero al bar… ed eccoci qua.
La faccenda dell’Ugly Christmas Sweater è una tradizione assai poco autoctona. A Natale, quand’ero piccola, mi vestivano come un fagiano impagliato alla corte dello zar di tutte le Russie e, in generale, si tende a pensare che per le feste comandate sia necessario presentarsi a tavola con degli indumenti decorosi. E mettiti una camicia, non vorrai mica far venire uno scioppolone alla nonna Rina, no? Lo sai che ci tiene! Ecco, pare che i riguardi nei confronti della salute psicofisica delle nonne stiano scemando, lasciando il posto all’anarchia vestimentaria più virulenta. Il mondo anglosassone (non si sa bene con quale autorità) sembra incoraggiarci con veemenza a far quel cavolo che ci pare. Anzi, a fare scientemente del nostro peggio, conciandoci con roba talmente improbabile da risultare geniale (o anche solo cretina in maniera simpatica). Maglioni natalizi inguardabili come performance artistica, tipo. Panettoni e dadaismo. Postmodernità e anolini in brodo. L’andazzo è quello.

Ecco.

Chi sono io per tirarmi indietro, mi domando.
Anzi, come ho fatto ad affrontare più di 30 Natali senza indossare un maglione imbarazzante.
È arrivato il momento di sceglierne uno.
E, visto che le fandom che mi affliggono sono numerose, ho deciso di buttarla definitivamente in vacca. Senza badare alla composizione del tessuto e neanche alla quasi sempiterna dicotomia sartoriale maschio/femmina. Non è importante, in questo frangente.

Ecco qua, dunque, una selezione di rivoltanti maglioni natalizi pieni di… COSE. Dei film. E delle serie TV. E della sempre cara cultura pop.

Procediamo.


In ben pochi lo direbbero, ma Darth Vader fa l’albero di Natale già a novembre. Ed è pronto a strangolare con il solo ausilio della Forza chiunque non si dimostri abbastanza garrulo.
Eccolo qua.

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Dress-code più che obbligatorio per il party natalizio delle Stak Industries.
Ecco!

*

Lo so, spezza il cuore. Ma fa anche molto ridere.
Shame! Shame! Shame!

*

Hai mai danzato con Babbo Natale nel pallido plenilunio?
Adesso sì.

*

A livello di analogie climatiche con il più rigido degli inverni, Hoth è una scelta assolutamente azzeccata.
Riscaldiamoci con le budella fumanti di un tauntaun! 

*

Under his eye.
E a fuoco Gilead.

*

Per Amore del Cuore. Inevitabilmente.
Eccolo!

Ah, c’è anche quello Atari.
E qui c’è pure una variante in rosa del tema Playstation.

*

La prima slitta trainata dai velociraptor.
Qui non si bada a spese!

*

I Guardiani addobbano Groot, per Natale? Sarebbe la vita.
(Perdonatemi per la gag tragica. Il maglione è qui).

*

Per mia fortuna non sono mai entrata nel tunnel di Candy Crush ma, all’occorrenza, c’è un maglione brutto anche per quello.

*

Chi non festeggia il Natale è un Mangiamorte.
Riddikulus!

Se ne sentite il bisogno, qui c’è anche un maglione con uno scorcio del castello e delle leggiadre candele danzerine.

*

Per chi predilige un approccio più fumettistico ai supereroi Marvel, ci sono anche i maglioni “vintage”. Potrete rallegrare i vostri congiunti con Thor, Ironman, Wonder WomanSpiderman e Superman, tanto per pescarvene alcuni.

*

Concluderei in “bellezza” con una perla di maestro Yoda. E vi esorterei anche ad abbandonare ogni esitazione. Siate imbarazzanti. E fieri.
Fare o non fare. Non c’è provare!

Nella vita è inevitabile raccontarsi un po’ di menzogne.

No, davvero – non ho più fame.
Vuoi andare a farti un weekend a Cracovia coi tuoi amici? Ma certo, non c’è problema.
Guarda, cinque minuti e sono lì.
I baffi? Non li ho mica, figuriamoci.
Non ti alzare, faccio io.

Alle palle che sfoderiamo nel quotidiano (e che ci aiutano a risultare meno insopportabili al resto del mondo) si accompagnano anche le baggianate programmatiche che sforniamo per le faccende più importanti – tipo l’educazione e la crescita di una prole garbata, vergognosamente intelligente e profondamente empatica.
E la cosa interessante è che finiamo per crederci veramente.

Ah, io a Cesare farò vedere solo i documentari della BBC, Rai Storia, Ian McKellen che recita Shakespeare e film polacchi d’autore. E per non più di dodici minuti al giorno – che si sa, la tv è il male e Mozart mica ce l’aveva… e non si può certo dire che fosse un bambino imbecille.
Ecco.

Il problema, però, è vasto e ramificato. E ad un certo punto, mentre intrattieni tuo figlio sul tappeto con giocattoli in legno dal dirompente potere pedagogico, ti accorgi che devi fare la cacca. O che hai il bucato da stendere. Il lavandino pieno di piatti da scagliare in lavastoviglie. Il gatto da nutrire. Il letto da rifare. Dei panni da piegare. Ventisette mail a cui rispondere. I capelli da lavare. Delle verdure da bollire.
Potresti sbrigare tutte queste utilissime faccende ancorandoti addosso un infante di undici chili per mezzo di un marsupio o di una fascia (magari la doccia no, ecco), va bene, ma ormai hai la schiena rotta e le clavicole incrinate e, in tutta sincerità, non ti va. E il tuo infante neanche ci vuole stare addosso a te mentre carichi una lavastoviglie.
Che fare, dunque?

Box. Giochi. Planet Earth su Netflix – nello specifico, la puntata con il giovane guerriero della Mongolia meridionale che si arrampica su uno sperone roccioso per procurarsi un pulcino d’aquila reale direttamente da nido, sfuggendo ai ripetuti attacchi (assolutamente legittimi) di aquile adulte con artigli lunghi una spanna e gli occhi animati da un furore omicida.
E per dieci minuti sono a posto, pensi.
Posso precipitarmi a fare la lavatrice.
Posso pelare tre carote e buttarle in una pentola.
Posso, perché è li che gioca in un luogo sicuro, con uno speaker assai rassicurante che, in un italiano forbito e correttissimo, narra le eroiche gesta di un giovane guerriero martoriato dalle aquile. Se proprio vorrà guardare, poi, non vedrà altro che favolose carrellate di steppe innevate, nuvole che si rincorrono e possenti ali che fendono il vento.

Favola.

E invece un cazzo.

Perché tuo figlio se ne frega delle aquile della Mongolia. Così come dei tuoi nobili progetti educativi e/o delle goffe strategie d’intrattenimento intermittente che metti in campo quando devi andargli a tagliare la frutta per la merenda.
Tuo figlio non li vuole i documentari, i monologhi teatrali e la musica sinfonica.
Tuo figlio vuole una cosa sola.

PEPPA PIG.

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Peppa Pig è un mistero, per me.
Come la trinità di nostro Signore.
Come il teorema di Ruffini.
Come la Cappella Sistina.
Peppa Pig può tutto. Ed è in grado di placare ALL’ISTANTE ogni malumore. Non ci ho mai provato, ma sono sicura che se lasciassi Minicuore per sedici ore davanti a Peppa Pig potrei anche uscire per andare dal parrucchiere e, una volta rincasata con la piega fatta, lo ritroverei nella stessa posizione, come un monaco che medita su un cocuzzolo innevato.
È incredibile.
Ed è un fenomeno assolutamente inspiegabile.

Nel mondo di Peppa Pig sono tutti animali. Ma questi animali hanno anche degli animali domestici. E la veterinaria è la Dottoressa Criceto – che, nell’universo che abitiamo, è a sua volta un animale da compagnia. E gli animali domestici non parlano, mentre tutti gli altri sì. Non parlano i rettili e non parlano i volatili, ma i maiali, i cani, le volpi, i conigli e le zebre dicono moltissime cose. Gli adulti, salvo rare eccezioni, sono definiti unicamente dal loro grado di parentela con Peppa o con i compagni d’asilo di Peppa. Nessuno sa come si chiami davvero Mamma Pecora, mentre Susy Pecora è una Susy, ha un nome suo. Come diavolo si chiamava Mamma Pecora da ragazza? Nella versione originale, poi, l’intero serraglio ha nomi e cognomi con la medesima iniziale. Freddy Fox. Danny Dog. Zoe Zebra. Rebecca Rabbit. In italiano diventano, inevitabilmente, Freddy Volpe, Danny Cane, Zoe Zebra (che culo!) e Rebecca Coniglio. L’unico animale non tradotto è il maiale. Quindi Peppa Pig rimane Peppa Pig. E questa discrepanza mi tormenta. Va bene perdere l’assonanza tra le iniziali, ma che Pig non diventi almeno Maiale mi distrugge. Ma mi rendo anche conto che PEPPA PORCA fosse un po’ troppo, per il traduttore. E George? Già lo odiano, è palese, ma chiamarlo pure con un nome che inizia per G invece che per P è una palese dichiarazione di guerra.

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Ma parliamo anche delle abitazioni. Perché tutti vivono sulla cima di ripidissime colline? E perché sono così felici di fare la raccolta differenziata? Perché non riescono a ridere in posizione eretta, ma finiscono regolarmente a gambe all’aria, sbellicandosi sul pavimento come dei piccioni stecchiti dal freddo? E com’è possibile che l’intrattenitore televisivo più celebre sia una gigantesca patata senziente? Perché il Signor Patata cammina e parla mentre le patate che compongono il 1000% della dieta della famiglia Pig sono inesorabilmente inanimate? Da dove viene il Signor Patata? E perché TUTTI i nonni hanno una barca? Quali droghe assume l’intera comunità degli animali per accogliere una coda infinita dovuta ai lavori stradali del Signor Toro con una tale esuberanza? Ma soprattutto, che cos’è quest’ossessione collettiva per le pozzanghere di fango? Adulti, bambini. Tutti adorano saltare nelle pozzanghere di fango – una roba che, se la vedessi fare a Minicuore, mi verrebbe un infarto. Che lavatrice hai, Mamma Pig? E come fai, Papà Pig, ad andare a ripescare dei preziosi documenti di lavoro che Peppa ti ha tirato nel laghetto delle papere – devastandoli irrimediabilmente – con quell’incredibile serenità? Perché Susy Pecora va sempre in giro vestita da infermiera? Com’è possibile che l’intera economia del luogo si regga sulle capacità di multitasking della Signorina Coniglio? Non può fare tutto lei. Gli altri non hanno bisogno di lavorare? QUANTI ANNI HA ESATTAMENTE MADAME GAZZELLA? Papà Pig non ha dei genitori? Perché dobbiamo sucarci solo i nonni materni? I nonni paterni sono diventati prosciutti? Come si fa ad appassionarsi così tanto al compostaggio? Fa schifo. Puzza. I vermi. Ma perché! Con che coraggio si decide di affidare un gruppo di dodici bambini a Nonno Pig, che si addormenta regolarmente al timone della sua bagnarola? Perché l’asilo cade continuamente a pezzi ed è necessario organizzare raccolte di beneficienza ogni quindici minuti? Di che cos’è fatto quell’asilo, di mollica di pane? Perché il Signor Toro è scapolo? Affiancargli una Signora Vacca sarebbe stato contrario alla pubblica decenza? E potrei continuare, ve lo giuro. Le domande sono potenzialmente infinite.

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Ma, per quanto io non capisca e abbia passato anni a prendermi gioco di Peppa Pig, c’è evidentemente qualcosa che non riesco a captare… ma che per Minicuore è palese. Ed è in questo mistero che si annida l’amore degli infanti per Peppa. Saranno le musichine allegre? Saranno le forme tondeggianti, gli improvvisi versi che ogni animale fa tra una battuta e l’altra? Oggi è una splendida giornata *GRUGNITO*! Oh, adoro carro attrezzi di Nonno Cane, *BAU BAU*! Saranno i colorini? La chitarrina ipnotica di Madame Gazzella? L’irresistibile bikini di Mamma Pig? L’esasperante cortesia di tutti quanti? Buongiorno di qua. Buonanotte di là. Non ho mai visto un cartone animato con così tanti convenevoli, santo il cielo.
Ma forse tutto questo non è importante. 
Perché c’è una sola cosa che conta: Peppa Pig FUNZIONA.
Grazie, dunque, Peppa. Sei una maialina di una saccenza insopportabile – e tratti sempre malissimo tuo fratello -, ma grazie a te posso fare la cacca per conto mio, senza dovermi imbragare addosso un bambino assolutamente incontenibile. E, per quanto mi ripugni ammetterlo, ti sarò per sempre debitrice.
Maledizione.

P.S. Egregio Netflix, ma un po’ di episodi nuovi non li vogliamo caricare, PERBACCO?

Ho salutato Amore del Cuore, prima di partire, con un sincero “Ti invidio tantissimo”. Stavo per affrontare una settimana al mare in compagnia dei miei genitori – esseri umani con cui non abito più dal 2009 – e di un sempre più irruento Minicuore – creaturona con cui, invece, abito moltissimo da 10 mesi -, mentre Amore del Cuore sarebbe rimasto a Milano per i fatti suoi. Sette giorni SETTE di perfetta solitudine. Giorni lavorativi, va bene, ma pur sempre giorni completamente privi di pannolini, pastine, piantini e passeggini.
“Ti invidio tantissimo”, dunque.
Ma anche “Cosa credi, la vera vacanza te la fai a Milano quando non ci siamo”.
“Ma no, non è vero. Mi mancherete. Tornerò a casa e non ci sarà nessuno”.
“MA MEGLIO PER TE, AMORE DEL CUORE”.
Tralasciando queste nostre divergenze prospettiche sul tema dell’alienazione e delle gioie domestiche, comunque, ho lasciato ad Amore del Cuore un collaudo da sbrigare. Un’incombenza veramente gravosa. Un fardello quasi intollerabile. Un peso sconfinato. Una menata apocalittica.
Insomma, mentre MADRE mi ordinava di stendere fuori le salviette ogni volta che mi asciugavo le mani – perché altrimenti in bagno c’è umidità e si ammuffisce tutto -, Amore del Cuore ha fatto del suo meglio per obbedire a un semplice imperativo: goditi una serata estiva. A casa tua. In pace. Trovi tutto nella scatola. Fai quello che ti pare.

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Mentre io e i valorosi nonni percorrevamo per la quindicesima volta il lungomare di Loano (garrula località del savonese) spingendo un euforico Minicuore tra palme, gelaterie, gabbiani, anziani col deambulatore e maldestri mimi di strada, Amore del Cuore faceva del suo meglio per mettere a frutto le sconfinate potenzialità di un kit di intrattenimento domestico in grado di capirlo davvero. I Navigli sono pieni di gente sudata che fa l’aperitivo in una di quelle mangiatoie con le frittatine molli e i tramezzini umidicci? Lascia perdere. Cucinati qualcosa di decente, scandaglia Netflix e goditi il wi-fi in una corroborante nuvola di Autan.
“Mi mancherete tanto”.
Ma figuriamoci.

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Foto di Amore del Cuore, che intendeva dimostrarmi tutto il suo impegno.

Lo scopo dell’operazione affidata al mio consorte, comunque, non era prettamente culinario… anche se devo dire che si è decisamente applicato molto. L’idea di base era di collaudare il Fritz WLAN Repeateruno scatolino in grado di amplificare il segnale wi-fi domestico, rendendo la rete fruibile – in tutta la sua potenza – anche negli angoli più remoti della casa.
Ora, noi non abitiamo in un maniero e nemmeno possediamo dieci ettari di giardino, ma il wi-fi non circola con la medesima baldanza da tutte le parti. In salotto siamo messi bene, ma in camera – dove io, teoricamente, avrei il mio “studio” – va col freno a mano. Idem per la stanza da letto e per il bagnettino limitrofo – e che te ne fai del wi-fi in bagno? Presto lo scopriremo. Mi domando come facciano quelli che abitano in posti tipo il castello della Bestia – LUMIÉRE! PERCHÉ NELL’ALA OVEST NON RIESCO A NAVIGARE? Padrone, l’incantesimo che ci ha maledetti genera drammatiche interferenze, porti pazienza e faccia in modo di trovare l’amore, invece di prendersela con un candelabro. -, ma ho poi compreso che, in effetti, ci sono arguti stratagemmi in grado di sostenerci.
Amore del Cuore, in casa nostra, è senza dubbio il più fervente cultore del bagno nella vasca. Non vede l’ora di tornare a casa in motorino sotto a un temporale devastante per potersi concedere una corroborante mezz’ora di ammollo – “Ho preso freddo, mi faccio un bagnetto”. Di solito legge, quando si ritira nella vasca. Un po’ perché ha già buttato il cellulare nell’acqua e non vuole più correre rischi e un po’ perché col cellulare ci farebbe poco, visto che nel bagnetto il wi-fi è storpio. MA ORA NON PIÙ, a quanto pare.
“Amore del Cuore, sono contenta che tu abbia mangiato bene, ma l’aggeggio l’hai provato? Lo devi fare, è importante. Dobbiamo dire se funziona”.
“Sono in bagno. Adesso metto l’iPad sulla seggiola, attacco il coso e finisco di guardare Netflix”.
Ed è andata così. Dalle frammentarie informazioni ricevute da un uomo nudo che riempie una vasca da bagno ho potuto apprendere che il Fritz funziona in maniera assolutamente elementare – potete piazzarlo dove vi pare, basta che ci sia una presa. Per attivarlo e associarlo alla rete di casa vostra bisogna schiacciare un bottone, punto e stop. Non ci sono fili, mostruosità, ponti intergalattici da costruire e, in generale, l’arnese ha un aspetto poco invasivo e assai lineare. Ci sono delle lucette in grado di comunicarvi la solidità del segnale e, per farla breve, Amore del Cuore è finalmente riuscito a godersi un bagno guardando quello che gli piace. Perché diciamocelo, ci sono cose che su Netflix si guardano insieme e cose che, invece, preferiamo coltivare in solitudine. Amore del Cuore, ad esempio, in mia assenza mangia l’amatriciana (perché non sono fan né degli spaghetti né dei sughi prevalentemente a base di pomodoro CHE VI DEVO DIRE DENUNCIATEMI) e guarda i documentari sulla seconda guerra mondiale.
Ma non possiamo certo farci liquidare così, Amore del Cuore.
Ecco, dunque, la lista dei suoi preferiti.

– Better Call Saul
– Designated Survivor
– Limtless (ebbene sì, c’è anche una serie)
– Master of None
– The Propaganda Game
– Going Clear
– Auschwitz: nascita, storia e segreti di un incubo (ma si può?)
– Missione Anthropoid (questo non so come sia, ma se il tema vi appassiona vi consiglio di leggere HhHH)
– E, teniamoci forte, una pietra miliare che è riuscito a descrivermi solo così: “Hitler in Argentina o una roba del genere”

Mi piacerebbe molto mostrarvi il Fritz che garrisce spavaldo dalla presa del bagno di casa mia, ma non dispongo di documentazione fotografica.
“Amore del Cuore, le foto della cena sono utilissime e saresti un favoloso food-blogger… ma lo scatolino l’hai fotografato?”.
“Ah, quello no. Ma serviva?”.
“…”.
Tutto questo, ovviamente, mi è stato comunicato quando era già in autostrada.

Gli saremo mancati davvero? Chissà. Ma sono certa che il prossimo autunno sarà un tripudio di gite nella vasca da bagno. Il bisogno di relax – sostenuto da una solida rete domestica – non conosce stagioni, dopotutto.
Grazie, Amore del Cuore. E ben arrivato al mare, anche se fotografi solo piatti di pasta.

Come sicuramente sapranno anche i sassi bagnati, la gloriosa sapienza dell’universo ha finalmente deciso di far approdare Netflix in Italia. Travolti dall’entusiasmo e animati da un ottimismo che raramente ci appartiene, ci siamo abbonati – ritornando a credere nel potere meraviglioso delle serie tv. Io e Amore del Cuore, purtroppo, dobbiamo convivere con le nostre inconciliabili differenze. Io, se posso, guardo tutto in inglese. Amore del Cuore detesta doversi impegnare e si addormenta all’istante davanti a qualsiasi genere di sottotitolo. Indipendentemente dalla lingua, il problema principale è che ci piacciono proprio cose diverse. Se guardiamo insieme la prima puntata di una serie, i risultati tendono ad essere imponderabili – nonostante la buona volontà che ci mettiamo.

Daredevil!
Tegamini – Che due balle. Ma che è, una storia di avvocati? Io le odio le robe legali. Non me ne frega niente. E lui è insopportabile.
Amore del Cuore – Carino! Ci sta!

True Detective!
Tegamini – Glorioso.
Amore del Cuore – Non lo so. Cioè, dobbiamo rivederlo. Sono crollato dopo dodici minuti.

Narcos!
Tegamini – Insomma, mica è brutto. Ma c’è quella vocetta fuori campo dello sbirro che vuole parlare da sbirro. Non t’infastidisce? Se la crede troppo. E poi… mah, non è un po’ lento?
Amore del Cuore – Sembra un documentario. Mi piace un casino.

Sense8!
Tegamini – Allora, mi sembra interessante. La faccia di Daryl Hannah mi fa paura, ma sono curiosa di capire che fanno. Se s’incontrano. Che vuol dire. Perché sono così.
Amore del Cuore – Io sono rimasto a lei che si spara in bocca. Poi è il buio.

Insomma, siamo riusciti a guardare insieme solo Breaking Bad, Game of Thrones e – incredibile ma vero – Downton Abbey. Se pensiamo alla quantità di prodotti teleludico-narrativi che il mondo sforna, non è un risultato particolarmente brillante… ma ci amiamo lo stesso. Anche se Amore del Cuore non ha apprezzato Penny Dreadful.

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Ho accolto la ferale notizia con la medesima espressione incoraggiante di Miss Ives.

 

Ora, è un sacco di tempo che non mi prendo bene per una serie tv. Io, di base, sono una persona ossessiva. È raro che qualcosa mi piaccia davvero ma, quando succede, il mondo può anche finire. E adesso, finalmente, ho una nuova serie preferita. E tutto è bellissimo.
Penny Dreadful è mirabile. E Netflix mi capisce. Non devo restare appiccicata al COMPIUTER per guardare Netflix. E nemmeno la tv è strettamente necessaria. Ti scarichi l’app e vai felice. Vista la tragica natura frammentaria del tempo che ho effettivamente a disposizione per vivere la mia vita, è un bel passo in avanti. Anche la pausa-cacca diventa un prezioso momento per approfondire il tuo immenso amore per i tarocchi scalognati della signorina Ives. In una settimana, mi sono sparata le prime due stagioni di Penny Dreadful… e ora non so più che cosa fare, a parte cercare di convertire chi ancora riesce a vivere senza saperne niente.

Ma parliamone, vi prego.
Ah, SPOILER!

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Penny Dreadful mi fa felice perché ci sono tutti i “mostri” canonici del romanzo gotico – e pure i poeti romantici. E, anche se mi vergogno ad ammetterlo, sono super allegra perché c’è il demonio ovunque. Detesto gli horror e li trovo sommamente spiacevoli, ma ho un debole per i film con gli esorcismi. Occhi ribaltati, gente che grida in aramaico, telecinesi, acqua santa, profezie, terrificanti rivelazioni. E io là, felice come una crostata. Ma lasciamo perdere. Dicevamo… le prime due stagioni di Penny Dreadful si distinguono per due grandi “nemici”. Nella prima, oltre a conoscere i personaggi in tutta la loro tetraggine, combattiamo degli pseudo-vampiri. Nella seconda, oltre ad imbatterci in splendidi archi evolutivi per i nostri sempre più tormentati paladini, cerchiamo di annientare delle streghe fabbricatrici di bambole che corrono nude nella neve lanciando alte grida. In mezzo al pandemonio – splendidamente abbigliata dalla Pescucci, che il cielo la protegga sempre – c’è Eva Green, una ragazza complicata. Non si sa bene perché, ma tutti i demoni dell’inferno bramano Eva Green. Legioni di entità tenebrose la inseguono giorno e notte, facendola ammattire per lunghi periodi e contribuendo in maniera significativa allo sfacelo della deliziosa carta da parati delle sue stanze.

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Il demonio in persona – onnipresente burattinaio del vampiro o della strega di turno – vuole ghermire Eva Green, “sposarla” e regnare sulle ceneri del mondo insieme a lei. Ed è proprio questa presenza pervasiva e perpetua del male ad unire i due primi capitoli della serie e a trasformare l’intera baracca in una riflessione molto malinconica, nobile e saggia sul significato dell’agire umano. E dell’essere umani, alla fin fine. Nel superbo minestrone che ne deriva, incontriamo il dottor Frankenstein e le sue creature – John Clare spezza il cuore… e anche qualche collo -, Dorian Gray – dopo dieci melliflue puntate trascorse a sussurrare cose nelle orecchie alla gente, la seconda stagione gli ha regalato qualcosa di un po’ più serio da fare… che qualcuno distrugga il ritratto, presto! -, Van Helsing – in versione anziano ematologo -, Patty LuPone che fa la fattuchiera in mezzo alla brughiera, Timothy Dalton – esploratore iracondo e tormentato – e il lupo mannaro più interessante dell’ultimo secolo. Ciao, Josh Hartnett, non t’avevo mai dato due lire… ma ora ti lancerei l’intero cassetto delle mutande. A parte l’intreccio, che mi fa quasi più felice del demonio che s’impadronisce ogni quindici minuti dell’anima fosca di Eva Green, Penny Dreadful è un’assoluta gioia visiva. La sala da ballo di Dorian Gray dovrebbe diventare patrimonio dell’UNESCO. Il salotto di Sir Malcolm, pieno di carte geografiche e di aggeggi d’ottone, mi fa quasi venire da piangere. Anche le streghe, per quanto mi riesca difficile condividere il loro operato, avevano un certo gusto in fatto di arredamento. Certo, non andrei ad abitare in un ossario, ma due colonne coi gargoyle non mi dispiacerebbero. E CHE QUALCUNO MI REGALI IL MAZZO DI TAROCCHI DI MISS IVES. Non ho alcuna fiducia nei poteri divinatori delle carte, ma voglio incorniciarli e appenderli ai muri del boudoir che non ho.
Ma calmiamoci. Facciamo un bel respiro e teniamoci per mano. Perché, per quanto ami le storie d’amore osteggiate dal destino e dalle mostruosità che cerchiamo di seppellire nel nostro animo, Vanessa e Ethan devono assolutamente ritrovarsi. Era da Spike a Buffy che non volevo così bene a due prodotti dell’umana immaginazione. Bramo un lietofine per loro, anche se finirebbe per distruggere il tessuto narrativo della serie e, di conseguenza, l’intero universo. Vanessa, maledizione, attraversa l’oceano e vai a riprendertelo! Fate dei mini-bambini mannari e veggenti. Devastateci con la vostra felicità!

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E basta, insomma. Volevo solo fangirlare un po’. Volevo esternare in qualche modo il mio dolore per una stagione che termina con un WE WALK ALONE. Se la serie fosse stata ambientata a Liverpool, invece che a Londra, non saremmo a questo punto. E INVECE NO, siamo qui a guardare personaggi splendidamente caratterizzati che vagano solitari nel mondo, in preda alla colpa e alla tristezza. Consolatemi, non trovo pace. Il pensiero che non possano più riunirsi mi getta nello sgomento più assoluto. Voi lo guardate, Penny Dreadful? Parliamone insieme. Ditemi delle cose. Aiutatemi a smaltire questa entusiasmante fissazione. Ricamatemi delle perline sui vestiti. Donatemi una vestaglia di pizzo. CHE QUALCUNO MI INSEGNI A BALLARE IL VALZER O A SCACCIARE IL DEMONIO. Basta. Mi taccio. Anzi, no. Lo sanno tutti, in fondo: che cosa c’è di meglio di una nuova passione per ritrovare l’equilibrio dopo un gran turbine di sentimenti scatenati da personaggi immaginari? Raccontatemi, dunque. Che cosa mi consigliate di vedere, ora che mi sono riappacificata con le serie tv? E no, non accetterò In Treatment come risposta. Qua siamo vittoriani. La gente la chiudiamo in manicomio e la curiamo con l’idrante.