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Tra le esternalità positive dell’aver figliato, almeno per me, c’è la possibilità di frequentare impunemente negozi di giocattoli di ogni genere. Comprando possibilmente delle cose, pure – al grido di SONO PER IL BAMBINO CHE COSA AVETE CAPITO.

Quando Nano Bleu mi ha scritto per invitarmi a fare un giro da loro allo scopo di procacciarmi un dono per Cesare e un nuovo pupazzo per il mio pregevole fotoromanzo digitale – per chi ancora non conoscesse PuPAZZI, la serie che ha cambiato per sempre il mondo dell’intrattenimento, nei contenuti in evidenza su Instagram c’è un pratico circoletto con le ultime puntate -, INSOMMA, quando Nano Bleu mi ha proposto di andarli a trovare sono stata investita da una felicità di rara potenza. Perché, a parte la sensatezza generale dell’operazione, ho ricordi antichissimi di quel negozio. Bimba bionda e occhialuta di Piacenza si reca periodicamente in gita a Milano con i pazienti genitori. E, dopo la tappa obbligatoria da Fiorucci, attraversavamo Corso Vittorio Emanuele per fare un giro da Nano Bleu, noto anche in provincia per la sua strabiliante selezione di peluche, fissazione che mi caratterizza dalla più tenera età.
Oggi, che di anni ne ho ben 33, a Milano ci vivo in pianta stabile e ne apprezzo ogni giorno di più la voglia di crescere, di inventare qualcosa di nuovo e di ospitare quello che di bello capita nel resto del mondo. Ma anche la volontà di continuare ad essere accogliente per le realtà indipendenti, che con la loro presenza hanno spesso fatto la storia di una via, di una piazza o di un pezzo di città. Ecco, Nano Bleu è un po’ un posto così. Una specie di istituzione, una vera attrazione (che potrei comodamente definire “turistica”, nella miglior accezione del termine) e, per chi è stato fortunato quanto me, una macchina del tempo tra le meglio riuscite.

Il negozio è stato fondato nel 1949, all’indomani della ricostruzione di piazza San Carlo al Corso, completamente rasa al suolo durante i bombardamenti della seconda Guerra Mondiale. Nano Bleu non ha mai cambiato indirizzo, né “categoria merceologica”. Vende giocattoli da sempre e, per la perseveranza ultracinquantenaria, si è guadagnato il titolo di “Negozio storico” – l’unico di Corso Vittorio Emanuele. Bancone e vetrine sono ancora quelle d’epoca, mentre gli interni sono cresciuti, con la recente aggiunta di un terzo piano piuttosto mastodontico. Prima di parlare della giraffa di tre metri e venti che campeggia nel bel mezzo dell’anfiteatro dei peluche, vi informerò anche sugli indefessi orari d’apertura – sempre, in sintesi – e sulla possibilità di farsi consegnare gli acquisti a domicilio per chi abita a Milano.

Insomma, c’è dell’impegno. E la giraffa ha anche un amico orso del peso di (credo) seicento chili che siede serafico in vetrina a beneficio dei passanti. Ci sono tanti giochi che appaiono con marziale regolarità nelle pubblicità in televisione, ma anche giocattoli (e sono la maggioranza) selezionati con evidente cura e attenzione. Insomma, chicche avvincenti e Superpigiamini. Il mix funziona, soprattutto per l’atmosfera e per la concentrazione altissima di potenziali meraviglie. E un negozio così, che tiene aperto in Corso Vittorio Emanuele, penso sia una specie di tesoro da preservare.
Grazie per l’ospitalità, Nano Bleu. Siete meglio di come vi ricordavo.
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Per coordinate, orari e informazioni puntualissime, vi consiglio l’agile visita al sito del negozio.

 

Il mio amore per la cancelleria è vasto è smisurato. Colleziono quaderni troppo belli per essere utilizzati, penne mirabili e graffette a forma di cose assurde – tra cui pinguini e orsi polari. Adoro i bigliettini, gli adesivi, i portamatite e i blocchetti. Rubo pure le biro degli alberghi, ma anche quelle brutte. Perché comunque sono delle biro. E le biro sono il bene.
Di tanto in tanto, poi, vengo travolta dalla necessità di rendere più sistematiche le mie passioni. E mi ritrovo a costruire ordinatissime cartelline di bookmark in cui cerco di far confluire tutto quello che amo da mesi in maniera dispersiva e caotica. Ecco, questo post nasce esattamente dalla nobile esigenza di compilare un affidabile mini-database delle cartolerie online che vorrei monitorare con più attenzione e sensatezza. E visto che il grosso dello sforzo consiste nel ritrovarli, questi benedetti shop o quel che vi pare, buttare giù un elenchino anche qui mi sembrava faccenda di poco conto. La speranza è quella di donarvi emozioni impareggiabili e, magari, di raccogliere anche qualche suggerimento aggiuntivo – a beneficio mio e della collettività tutta.

Pronti?

Pronti.

Ecco un po’ di cartolerie virtuali (più o meno definibili “cartolerie”) che vorrei sommergere di soldi.

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Libri Muti (Slow Design)

Dei Libri Muti avevo già parlato in una Weekly Wishlist, credo – oltre ad aver condiviso su Instagram un regalo bellissimo di Rigadritto -, ma visto che sono incredibilmente meravigliosi mi pare opportuno ribadire il concetto. Che cosa sono i Libri Muti? Sono dei quaderni. Che somigliano a dei libri. Perché sono legati come dei libri. E hanno la copertina. E le pagine di un’ottima carta. Bianche, però. Quindi voi potete prenderli e scriverci dentro quel che vi pare. Quelli di Slow Design – impresa fiorentina di rara saggezza – riprendono le copertine classiche di capolavori letterario-scientifici di ogni epoca e sono oggetti splendidi, oltre che quaderni funzionali e rispettabilissimi.

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Present /&/ Correct

P&C è stato fondato nel 2009 da una coppia di grafici londinesi. Inizialmente doveva ospitare le creazioni dei fondatori, opere meritevoli di altri designer e chicche vintage scovate in giro per l’Europa, ma si è ben presto trasformato in un progetto in perenne evoluzione. Tra le ispirazioni dichiarate: i compiti, gli uffici postali e la scuola.
Oggi c’è praticamente di tutto. Dai multicassettini di legno per organizzare la scrivania ai francobolli bulgari degli anni ’60. Ogni oggetto è deliziosamente retrò e selezionato con palese passione e cura maniacale.

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Kawaii Pen Shop

Un vasto deposito votato alla diffusione globale dei colori pastello e della cancelleria nipponico/asiatica. Non è un’accozzaglia di quaderni di Hello Kitty, tanto per capirci, ma un posto interessante dove trovare accessori “orientali” che conservano la loro giocosità pur non somigliando in maniera smaccata ai patacconi che potremmo trovare nell’uovo di Pasqua. Altra nota positiva, spedizione gratuita.

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Season Paper Collection

Julie Costaz e Mélissa Le Vaguerèse, designer tessili, hanno fondato Season Paper nel 2012. Il brand sforna due collezioni l’anno di prodotti cartacei (quaderni, biglietti, carta da parati, carta da regalo…). Tutto viene realizzato a Parigi con materiali provenienti da foreste sostenibili europee. La specialità delle estrose signorine sono i poeticissimi pattern disegnati con le loro manine d’oro.

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Write Sketch &

Un po’ di made in Italy milanese, che gioia. Anche in questo caso, dobbiamo la nostra gratitudine a una coppia di creativi – Matteo Carrubba e Angela Tomasoni – che, dopo una decina d’anni di militanza nell’art direction per la moda e il design, hanno deciso di dedicarsi alla cancelleria di qualità eccelsa. WS& nasce nel 2014 con una linea di quaderni geometrico-postmoderni a cui si sono aggiunti, negli anni, formati e prodotti diversi. Oggi troviamo copertine metalliche, tutto l’occorrente per scrivere e favolosissime tote-bag plissettate.

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Jo & Judy

Brand tedesco ad altissimo coefficiente di instagrammabilità, Jo & Judy è un po’ più orientato al “design da scrivania” che alla cancelleria in senso stretto. Ci sono soluzioni esteticamente armoniosissime per numerose esigenze fin troppo reali (che ne so, trovate anche i planner per ricordarvi i compleanni), ma anche piccoli gioielli e ninnoli per rendere bellissimo il vostro spazio di lavoro. Lo shop è consultabile per aree tematiche e per filtri cromatici… e tutto grida fortissimamente MOODBOARD.

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Paperchase

Paperchase è una colossale catena britannica specializzata in cancelleria di ogni forma e dimensione (da quella più pacata alle assurdità totali), con un occhio di riguardo allo scemenzame variegato e all’occorrente per il crafting. L’assortimento è vastissimo e l’attenzione ai “fenomeni pop” del momento è decisamente spiccata. Volete i cactus? Volete gli unicorni? Volete i glitter? Volete le frasi motivazionali – ma non quelle zuccherose? Volete i fenicotteri? Bene, da Paperchase c’è. E finalmente hanno deciso di spedire in tutto il mondo.

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Penso che Camilla – già superlativa di suo – non abbia bisogno di presentazioni. E forse nemmeno il suo shop, ma parliamone lo stesso. Perché Camilla è riuscita a tirare fuori dal cassetto un po’ il sogno di tutte/i: fare (anche) la cartolaia. Da lei, oltre all’ormai proverbiale agenda annuale, troverete quaderni, adesivi e accessori per lettori incalliti, come i segnalibri a barchetta con gli elastici colorati. Evviva!

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Out of Print

Out of Print non è precisamente un brand di cartoleria, ma una specie di paradiso per i lettori che non sanno come vestirsi. L’impresa è cominciata con le magliette letterarie – con stampate sopra le copertine “vintage” dei grandi classici – e l’assortimento si è gradualmente espanso per ospitare le sportine di tela, gli astucci, le calze, le spillette, i quaderni e centomila altri articoli per chi ama leggere e (probabilmente) anche scrivere. Amore del Cuore si è abbigliato per anni solo da Out of Print.

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Sticker Stack

Un negozione britannico – ancora una volta – specializzato in adesivi tenerelli, cancelleria vergognosamente appagante dal punto di vista visivo e accessori funzionalissimi per organizzare lo studio, il lavoro e l’esistenza in generale. Tutto arriva dall’Asia – in particolare dalla Corea e dal Giappone – e, cosa non frequentissima, è anche possibile una ricerca per brand – il che è ancor più invasante perché poi finisci a cercarti anche quei brand lì, trasformando la tua wishlist in una specie di abisso senza fondo. La componente kawaii, in questo caso, è praticamente nulla. Ma giuro che non se ne sente la mancanza.

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Bonus finale, un libro che credo mi comprerò fra cinque minuti.

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Il mondo è vasto e sono certa di ignorare l’esistenza di un’infinità di luoghi pieni zeppi di cancelleria che invece voi conoscete come le vostre tasche. Ecco, raccontatemi tutto, se vi va. Che nella mia cartellina di bookmark c’è ancora un sacco di spazio. Per il resto, in alto i pennarelli!

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EDIT MIGLIORATIVO

Grazie ai preziosi contributi raccolti su Facebook – tanto amore per voi! – ecco qualche altro link favolosissimo per proseguire con lo shopping.

Pleased To Meet
Papier Tigre
kikki.K
Erin Condren

È all’incirca dal Black Friday che medito di esternare la mia inettitudine in fatto di shopping. E, a saldi inoltrati, mi sento finalmente pronta. Perché sì, ho un problema. Nulla di paragonabile, per gravità e rilevanza, a un incombente conflitto nucleare o al recente abbassamento della copertura vaccinale, ma comunque un problema, una fonte di disagio e di fondati sentimenti d’inferiorità evoluzionistica.
Non sono capace di gestire gli sconti.
Ecco.
Pur rendendomi perfettamente conto che gran parte delle mie difficoltà derivino da una tara personale, sono anche convinta che comprarsi delle cose in santa pace stia diventando sempre più arduo.

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Ma procediamo con ordine.
All’alba dei tempi, i posti dove fare acquisti erano relativamente pochi. E, per la proprietà transitiva, anche la mole di iniziative promozionali in cui potevi imbatterti non era particolarmente ingente. Anche i canali comunicativi capaci di convogliare fino a te una notizia tipo “I saldi cominciano il 6 di gennaio” o “Rinnovo locali! -30% dall’1 al 5” erano scarsi – e quasi sempre privi di approcci mirati. Scoprivi un po’ per caso, magari da un cartellone del Trony, che i tostapane erano in offerta così come scoprivi, passando nella via principale della tua città, che gli sconti sulle scarpe che ti piacevano erano lì lì per iniziare. Insomma, la faccenda era gestibile. Due grandi periodoni di saldi sostanziosi e sconti estemporanei (piuttosto rari) in cui potevi imbatterti di tanto in tanto. Comprare a prezzo pieno era normale, trovare il modo di incamerare l’articolo X pagandolo di meno era spesso un colpo di culo di cui vantarsi anche un po’.

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E fin qui ce la potevo fare anch’io.
Poi hanno “inventato” gli outlet.
E lo shopping online.
E le newsletter.
E gli alert via SMS.
E i programmi-fedeltà con le tessere a punti.
E gli sconti personalizzati basati sui programmi-fedeltà con le tessere a punti.
E i saldi privati.
E le svendite segrete a cui puoi accedere solo se hai un cugino nella Massoneria.
E le private-week per i clienti VIP.
E i pre-saldi.
E i saldi-flash prima dei saldi-saldi.
E gli “ULTERIORI RIBASSI!” a saldi già cominciati.
E lo sconto solo online su una specifica categoria di prodotto.
E lo sconto solo online a scaglioni progressivi con spese di spedizione incluse.
E i coupon.
E i coupon da aggiungere agli sconti già in corso applicando il codice MENOMILLEMILAPERCENTO al checkout.
E il coupon che ti regalano per il primo acquisto.
E il coupon “Francesca, ci sei mancata, torna a trovarci! Ecco qua un regalo per te”.
E il coupon che ti elargiscono quando ti iscrivi alla newsletter.
E il coupon che ti aggiudichi se riesci a far iscrivere alla newsletter anche le tue amiche.
E il codice-sconto che screenshotti dalle Stories di una tizia su Instagram.
E i gli outlet virtuali.
E gli outlet virtuali con assortimento a rotazione e conto a rovescia per la promozione settimanale.
E il Black Friday.
E il Cyber Monday.
E le offerte pre-Natalizie.
E lo sconto speciale per il tuo compleanno.
E che ansia, perbacco.

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Ebbene, qual è l’effetto – almeno su di me – di questo proliferare di occasioni promozionali e di comunicazioni perfettamente personalizzate che ci informano nei momenti più disparati delle nostre vite della relativa convenienza di un potenziale acquisto in un limitato lasso temporale?
La paralisi.
Il congelamento.
L’immobilità assoluta.
Io mi blocco e basta. Come un opossum in mezzo all’autostrada.

Perché ormai sento il dovere di non comprare più niente a prezzo pieno. È diventato quasi obbligatorio. Ma per ragioni d’autostima, all’incirca.
Cos’è, l’unica cretina che non usufruisce dell’onnipresente convenienza che il progresso tecnologico-commerciale ha messo a nostra disposizione sono io?
Giammai!
Perché è così che finisce.
Ti senti imbecille a comprare qualcosa se non c’è uno sconto. E, dopo un po’, ti senti imbecille anche a comprare qualcosa con poco sconto. E, parzialmente, hai ragione.
Perché, quando ti compri un mascara usufruendo dello sconto del 20% garantito dalla tua preziosa tessera fedeltà, due giorni dopo ti fanno sapere che l’intero assortimento – sia online che nei negozi – è in promozione al -25%. Ma tu il mascara l’hai appena comprato, maledizione. E la discrepanza di prezzo è minima, va bene, ma è sufficiente a farti incazzare.
Ti senti poco razionale, poco preparata, in balia dei forze che sfuggono al tuo controllo.
Ma è anche vero che non puoi dedicare ogni tua energia a mappare con un foglio Excel le fluttuazioni degli sconti sui tuoi store preferiti, nel vano tentativo di elaborare un modello predittivo che ti assicuri di poter usufruire in maniera infallibile del miglior ribasso possibile sul prodotto X nel periodo Y, in assoluto. E non potrai fare a meno di pensare che, da qualche parte negli angoli più remoti dell’Internet – o in una bottega sperduta di Guastalla, perché manco dei negozi fisici riesci a dimenticarti -, ci sia un posto che vende quello che vuoi tu a un prezzo ancor più conveniente rispetto ai quello che sei riuscita a stanare durante le tue estenuanti ricerche online. E nel frattempo continuano ad arrivarti messaggini, avvisini, newsletterine con le scritte lampeggianti, tweet funzionalissimi pieni di link cliccabili e svariati FRANCESCA CI SEI MANCATA. Ma senza un ordine, senza una struttura. All’improvviso. Le promozioni possono assalirti in ogni momento. E se vai a vedere, se approfondisci, è pure peggio. Guardi una roba su Amazon? Ti soffermi su una borsa su Yoox? Vai un po’ in giro su Asos? Per i dieci giorni successivi i banner di ogni possibile sito che visiterai si trasformeranno in una sorta di reliquiario delle occasioni perdute, riproponendoti per sempre quello che hai analizzato ma, lì per lì, non hai comprato.
Perché era disdicevolmente a prezzo pieno.
O perché non era abbastanza scontato.
O perché, con tutto quello che c’è da vedere, valutare e soppesare – a fronte di risorse che perseverano nell’essere tristemente scarse -, non riesci più a governare una tale complessità d’offerta e, alla fin fine, non decidi e basta.

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Sono diventata una vecchia signora convinta che ci sia sempre qualcuno in agguato pronta a truffarla? Perché non riesco più godermi un acquisto che mi pare quasi oculato senza essere assalita da quella raggelante sensazione di fregatura – che arriva solitamente un millisecondo dopo aver schiacciato su PAGA? Ecco, ho preso il rossetto. Ma ci scommetto le rotule che domani m’arriva un bel CIAO FRANCESCA DA OGGI UN BEL -70%! Ma così, a caso. Senza una logica, un motivo.
E molto spesso succede davvero. Non sempre, per fortuna. Ma con una frequenza sufficiente a minare le mie già vacillanti certezze.
Perché un conto è comprare volontariamente un capo della nuova collezione anche se a mezzo metro di distanza ci sono montagne di vestiti in saldo. Un conto è cadere vittima di un’imboscata, quando per di più hai già speso dei soldi.

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C’è una soluzione?
Dobbiamo forse tornare a un’economia di pura sussistenza, cucendoci le vesti per nostro conto e rattoppando le suole bucate del nostro unico paio di scarpe fino alla fine dei tempi? O magari metterci in coda davanti a un negozio per 14 ore perché COMPAGNI, OGGI HANNO I CALZINI, SONO TUTTI UGUALI E COSTANO DUE RUBLI – MA CI SONO come nell’Unione Sovietica?
Io non lo so.
Ci adatteremo, immagino.
Probabilmente impareremo a filtrare e a ignorare – sia le comunicazioni brandizzate che le comunicazioni provenienti da quelle amiche che magicamente riescono sempre e solo a fare affaroni (CIOÈ NON PUOI CAPIRE, COSTAVA DUECENTONOVANTANOVE EURO VIRGOLA NOVANTANOVE EURO MA L’HO PAGATO VENTIDUE, CON SPEDE DI SPEDIZIONE EXPRESS INCLUSE!) – e ci rassegneremo placidamente all’esistenza di un margine d’errore inevitabile. O forse completeremo il cerchio. Disorientati fino alla paralisi dalle offerte e dall’intricato mondo degli sconti, ritroveremo la pace e la serenità del prezzo pieno. Il romanticismo perduto di un acquisto lineare e semplice. Quando ci pare. Quando qualcosa ci serve veramente. Quando qualcosa ci piace sul serio. E basta.

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Dunque, con Amore del Cuore abbiamo sviluppato questa specialità di andare in inverno dove c’è freddo. Un talento che ci ha portati a Berlino nel 2010 – durante la tempesta di neve più impetuosa che l’Europa ricordi -, ad Amsterdam nel 2011 – coi cigni che agonizzavano, incastrati nel ghiaccio dei canali – e a Oslo, pochi giorni fa. C’è da dire che c’era da ibernare molto meno del previsto (zero gradi, cinque gradi, tre… narvali in bermuda), il che ci ha un po’ spiazzati, anche se la nostra delusione da (relativa)  mitezza del clima è stata più che compensata dal crepuscolo perenne. Ma se inizio a divagare subito è un disastro, perché ho tutta questa idea di proiettarvi con massimo rigore cronologico un numero impressionante di foto delle ferie e mi son segnata che dell’oscurità delle tre del pomeriggio dovrei parlare dopo. Direi quindi di non indugiare oltre e di procedere con coraggio, come veloci pinguini che scivolano di pancia giù per un bel canalone surgelato.

Avventure!
Panorami!
Cibo che costa come un anno d’università!
Fiordi giganti!
Gatti grossi!
Mal di talloni!
Fortezze sorvegliate da burattini!
Animali che mai dovrebbero essere mangiati!
Slitte di regine vichinghe!
Norvegia!
…!

Comunque, per dimostrarvi la mia serietà di travel blogger, parto subito con l’intramontabile classico della foto alle nuvole dal finestrino dell’aereo. Così, tanto per farvi presente che la roba peggiore l’avete già smaltita all’inizio del post.

…sorvoliamo, valà.

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A Oslo ogni porta è una cassaforte. Sono riuscita a imbroccare tutti i numeretti senza sbirciare il bigliettino solo l’ultima volta che ho dovuto aprire il grevissimo uscio della camera, al terzo giorno di permanenza. Che poi non era una camera, era un appartamento, vicino a un fiume pieno di papere chiacchierone. Va bene, c’erano dentro sei mobili in tutto – più un barattolo di gelato, gusto fragola-cheesecake, da noi aggiunto strada facendo -, ma il salotto poteva tranquillamente ospitare una lezione di aerobica, una di quelle ambite, con l’istruttore severo ma giusto.
A questo punto, mi chiedo che cosa spinga un popolo così civile, un popolo capace di dimostrare una tale prodigalità nell’edificazione di spaziose dimore a rifiutarsi di trovare quattro misere piastrelle su cui incastrare un bidet. Che vi ha fatto, il povero bidet. E ci stava pure lui, ve lo assicuro.

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Amore del Cuore cartografo, armato di sestante e bussola, si impegna moltissimo per aumentare il livello medio di senso dell’orientamento della coppia. Lui sa sempre dove si trova. Io cerco di individuare il nord cercando il muschio in terra (anche in città) ed evidenzio in giallo solo le cose inutili della guida, tipo “nei mesi caldi, ricordate di portare un contenitore per raccogliere i mirtilli”.

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Il delicatissimo e cruciale momento della vestizione, reso ancor più impervio dai quarantasei gradi centigradi della stanza. Poi esci che ce ne sono 2.5 e ti si squarcia la pelle, come nel terzo Alien, quello con Ripley nel carcere di massima sicurezza adibito ad allegra fonderia.

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Il primo momento di travolgente entusiasmo ci ha assaliti in mezzo alla piazza della cattedrale, di fronte a tre galline moschettiere. Una roba bella di Oslo è che la città è piena di queste sculture zoologiche che spuntano in giro, senza un apparente perché. Oltre alle adorate gallinone ci siamo imbattuti in una foca, un orso polare, un cervo, una cantante lirica e due leoni. I due leoni stavano a guardia di un posto chiamato Mini Bottle Gallery, un tempio dedicato al culto delle mignon. Dalla vetrina siamo riusciti a scorgere diversi armadietti pieni di bottiglie vestite nei modi più disparati (la bottiglia in frac, la bottiglia scout, la bottiglina ballerina), un acquario lungo un dieci metri buoni – pieno zeppo di pesci enormi, tipo lucci – e un lampadario con tutte queste bottigline appese come preziosi cristalli. Che vi devo dire. In compenso, uno dei due leoni a guardia dell’uscio aveva la coda rotta. E Amore del Cuore mi ha impedito di salirgli in groppa, anche se era palesemente lì per quello.

Per quanto riguarda il secondo momento d’entusiasmo, invece, direi che si potrebbe parlare del palazzo reale che fa capolino in fondo a un viale che bisognerebbe percorrere esclusivamente a bordo di carrozze-slitta. La rigorosa prospettiva del disegno urbanistico rende ancor più bizzarre ed evidenti le mie gambe storte. E mi sento di consigliare a chi fosse afflitto dal medesimo problema a mettersi in posa un po’ di profilo, magari con un piedino all’insù e un fazzoletto bianco in mano, come nella miglior tradizione dei sovrani che fanno ciao alle moltitudini.

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Cafè Skansen – Radhusgata 32

Straziata da un improvviso moto di nostalgia per le straordinarie uova con speck e patate che si mangiano in settimana bianca, ho ingurgitato con grande allegria la variante norvegese dello stimatissimo piatto altoatesino. Nonostante la sublime nobiltà del luogo, le patate erano un po’ buffe.

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Nasjonalgalleriet

Che siamo gente di cultura.
E finché riesco a farmi passare per studentessa universitaria persevero nel chiedere il biglietto ridotto.


Edvard Munch is in da house.

Allora, la sala di Edvard Munch fa paura sul serio. A parte l’infinita e sincera angoscia che ti assale davanti all’Urlo, ci sono anche tutte queste persone inseguite da ombre giganti, signore rigidissime, che ti fissano come se sapessero che stai per essere colpito da una catastrofica sventura, letti di morte, feste danzanti sul punto di finire male, imponenti siepi verdissime, a forma di panettone, che chissà cosa c’è dentro (e forse nemmeno lo vuoi sapere). Tutti i colori, compresi quelli allegri, hanno qualcosa di opaco e sinistro. E le tizie con lo sguardo fisso somigliano pure un po’ a come m’immagino diventerà Bianca Balti da vecchia.

Insomma, ci siamo spaventati, nella sala di Munch. E abbiamo anche deciso di andare a vedere il museo one-man-show, ospitato dal ridente sobborgo di Grünerløkka e messo lì apposta per popolare gli incubi del vicinato. Comunque, la mia vera e adorata scoperta alla Galleria Nazionale è il pittore e illustratore norvegese Gerhard Munthe, uno che aveva tre pannelli appesi nel luogo più scalognato dell’intero museo ma che ha comunque colmato il mio cuore di autentica meraviglia. Perchè il Munthe è un artista di miticherie e un esploratore delle leggende della tradizione norvegese. Ci sono i draghi, i cavalieri, le decorazioni che somigliano a manoscritti miniati, i troll nelle caverne, le principesse da salvare, le armature luccicanti e delle belle brocche molto arzigogolate. E chi lo sapeva, che là fuori c’era un Munthe. Insomma, iniziamo ad amarlo tutti in coro.


Un angolino dei pannelli (scalognatamente appesi) di Munthe.

Un’altra roba, trovata SULL’Internet, delle bellissime bestie molto aerodinamiche di Munthe.

Che felicità.
E un paio di altre ciccionate della galleria:

 

 


Una sala conferenze-concerti in cui non riuscirei mai a stare attenta perché ho un debole per le gigantesche Vittorie alate.


Un ritratto molto ben riuscito di Harry Potter.


Gatti furtivi che rallegrano scene di pesante macelleria.


Amore del Cuore mi asseconda pazientemente, in mezzo ai funzionalissimi armadietti-guardaroba.

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Passeggiatine all’Aker Brygge

Si sa, le banchine portuali tutte rimesse a nuovo sono molto TRENDI, anche nel bel mezzo del crepuscolo degli dèi e con tutti i negozi chiusi, che in Norvegia alle 16-17 si sbaracca e si va a cena. E sono belle, con le lucine calde e gli edifici di vetro nuovi di pacca, i ristoranti e i bar con i tavoli fuori e le seggiole con copertina in dotazione. E già, l’Aker Brygge è un luogo molto fascinoso, nonostante riesca a insinuare nella tua mente il dubbio di esserti smarrito nel quarto livello di sogno di un qualche sventurato protagonista di Inception. All’Aker Brygge, poi, partono traghetti di ogni genere e attraccano pescherecchi, portati a riva da garruli marinai che – sosteneva la guida – hanno l’abitudine di lanciare gamberi appena pescati sulla folla. Noi di gamberi croccanti non ne abbiamo visti, ma siamo andati al banco informazioni per capire se la remota penisola dei musei – perché c’è una penisola con su mille musei – fosse raggiungibile, in qualche modo, anche solcando le onde del mare novembrino.

TEGAMINI – Hi!
THOR DELLE INFORMAZIONI – Hello there!
TEGAMINI – We have a question on how to reach the Bygdøy peninsula… we would like to go to the Viking Ship Museum and we read on our guide that it’s possible to get there by ferry…
THOR DELLE INFORMAZIONI – Oh, I see. Well, no, not at this time of the year.
TEGAMINI – I was afraid you’d said so. But the guide… they say that ferries are still traveling, just on a shorter schedule…
THOR DELLE INFORMAZIONI (con infinito sdegno) – THERE IS ICE IN THE FJORD!!! …but you can take the bus number 30, at the Theatre.

Diamine, avvenente vichingo biondo delle informazioni, mica ce l’ho messo io il ghiaccio nel fiordo! Mi sono sentita come Loki dopo una sgridata di Odino. Che ne so che al 4 di novembre dovete navigare ramponando in mezzo ai lastroni. Insomma, il servizio traghetti si interrompe in settembre, più per una sensata valutazione sull’afflusso turistico invernale che per effettiva glaciazione del fiordo. Che ce n’erano semila, di imbarcazioni che lo solcavano serenamente, le ho viste con questi occhi.
Comunque.


Non è detto che edifici che somigliano all’incontro fatale tra dei panbauletto e un manicomio criminale siano fonte di melodie inquietanti. Tipo, questo qua suonava come un bel carillon.

Tra i mille ristoranti sulla passeggiata finto-rustica dell’Aker Brygge, poi, abbiamo preso due decisioni. A) Domani sera veniamo qua a mangiare il pesce, anche se appena entri hanno la teca con le aragoste vive e c’è pure la cucina a vista, che son sempre cose che ti fanno capire che spenderai un casino di soldi – B) L’umidità mi sta demolendo le ossa, prendiamoci un bel tè del pomeriggio a questo Cafè Sorgenfri (Bryggetorget 4).


Tègamini.


Bella. Due tazze di tè, dieci euro.
Però l’assortimento di ciarpame fantastico che ricopriva ogni genere di superficie ciarpamabile era davvero molto coreografico. Questo qua sopra è il soffitto, con tutti i giocattoli, gli slittini, i lampadari e le paccottiglie vintage. Qua sotto, invece, c’è un angolo con un posatoio per colombe.

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Intermezzi di poca rilevanza

Ma smettiamola con queste scene di calore e ospitalità. Il gelo della sera è tragicamente incisivo… e ci si può difendere solo con cappucci a criniera di leone, spessi mezzo metro. Basta, voglio un titolo nobiliare russo. E un manicotto.


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Viking Ship Museum, per Odino!

Gloriosamente ospitato dalla penisola che non si può raggiungere via mare se non in due mesi dell’anno, il museo delle navi vichinghe è meraviglioso e anche super istruttivo. Per dire, io non lo sapevo che i re e le regine vichinghe venivano seppelliti dentro a una nave. Avevo quest’idea di piccole imbarcazioni spinte al largo con sopra un cadavere fiammeggiante, tipo chiatta-pira-funeraria, ma niente di più. E invece no, c’è tutta una gestione complicata dei morti importanti.
Il museo contiene tre navi-tomba – una BELLISSIMA e vezzosa, una bella e solida, una che è poco più di uno scheletro di legno -, più buona parte dei tesori che vichinghi molto previdenti avevano deciso di far portare al defunto nell’aldilà, comprese delle slitte fascinosissime, piene di decorazioni, mostri aggrovigliati e metallo che brilla.


La prua a ricciolone della nave della regina. Vascello bellissimo ma poco coriaceo, veniva utilizzato per gitarelle nel fiordo e placide escursioni. Mi ci farei seppellire anch’io, dentro a una roba del genere.

Meno carinerie, più legno da battaglia.

I vichinghi sono i vincitori morali di ogni olimpiade di slittino mai disputata al mondo.

I veri costruttori di vascelli iniziano ad esercitarsi da piccoli.

 

 


Modeste dimore di abitatori della penisola di Bygdøy.

 

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Intermezzi di poca rilevanza

I gatti norvegesi delle foreste vivono anche in città. Tu sei lì bello contentone, perché stai camminando verso un posto che nella vita non hai ancora visto e senti un albero che miagola forte. Poi ti giri e ti accorgi che su questo albero c’è un gatto grossissimo e che sta miagolando proprio a te. Che fai, gattone pelosissimo, in bilico sull’albero? Devo chiamare un pompiere biondo perché ti aiuti a scendere? Ti sei incagliato? Macché. Il gatto grosso norvegese delle foreste cittadine ti miagola dietro solo perché è simpatico e vuole essere osservato mentre salta giù, senza un problema al mondo. E poi che devi fare, t’inginocchi in terra, in mezzo alle foglie umide e pasticci il gatto gigante più socievole della Scandinavia con infinita contentezza. Gli vuoi già così bene che ti accorgi di non avere nemmeno un po’ di voglia di starnutire o grattarti gli occhi… e allora capisci che ai gatti scrausi e spelacchiati sarai anche allergica, ma a quelli meravigliosi e costosissimi no.


Natura morta con gatto espansivo che cambia ramo.

 


Natura vivissima e allegra con coccole estemporanee.

 

 


La perentoria reazione di MADRE  – del tutto ignara delle politiche Ryanair in fatto di bagagli – all’avvistamento del gatto megapoffoso di Norvegia.

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Il Vigeland Park

Questo posto è titanico, imponente, insieme molto aggrovigliato e razionalissimo. Le statue tondeggiano, tutto il resto è regolare e squadrato. Tutto il parco scolpito da Vigeland è una metafora del ciclo della vita e ovunque ti giri c’è gente di granito, ferro e bronzo alta due metri che ride, piange, si sbraccia verso il cielo, si raggomitola o salta in groppa a qualcuno. Vi dirò, io sono una ragazza semplice… mi piace Canova. Mi piacciono i marmi candidi, gli eroi, i serpenti di mare, i ponti pieni di angeli guerrieri, le tombe nella basilica di San Pietro, i drappeggi e le vene delle mani che affiorano delicatamente dalla pietra. Insomma, ho difficoltà a trovare soddisfazione estetica in figure come quelle di Vigeland, ma il parco mi ha molto impressionata. Mettetevi lì voi a tirar fuori tutta quella gente da dei sassoni. Trovate un posto a tutti e raccontate una storia. È brutto da far paura, il parco di Vigeland, ma è assolutamente maestoso.

Tegamini (ancora molto lontana dalle statue ciclopiche) saltella felice tra le foglie morte.


L’obelisco di Vigeland, nella mia personale hit-parade delle cose peggiori che potrebbe capitarmi di sognare in una notte di tempesta.


Stanchi delle vostre vecchie poltrone? Sedetevi su una renna.


Qua m’ero appena ricordata di avere mezzo litro di crema di whiskey nella borsa.

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Teatri a forma di iceberg

Perché c’è un teatro in centro, ma c’è anche un nuovo teatro dell’opera, che galleggia in mezzo a fantascientifici cantieri come un grosso zatterone di marmo bianco. L’idea è quella di farlo somigliare a un iceberg e, a giudicare dall’affluenza di felicissimi gabbiani, direi che ci sono riusciti. Il palazzo è fatto in modo da risultare completamente calpestabile: ci si può arrampicare da tutte le parti, tetto incluso… anche se non so bene come facciano quando ghiaccia, che se metti male un piede e inizi a scivolare è matematicamente impossibile fermarsi prima di raggiungere il mare. Forse prendono un cannone, lo posizionano a riva e iniziano a bombardare la struttura a salve di sale. Comunque, sul teatro dell’opera la gente di Norvegia ci porta a giocare i bambini, che impazziscono per piani inclinati e gradini. Son bambini con molta immaginazione, o bambini malvagi, che i genitori sperano di uccidere facendo passare tutta la faccenda del “qual disgrazia, la mia prole è rotolata nel gelido mare da una delle pendici del teatro” come un incidente.


Ormeggiato a poca distanza dal teatro (la distanza sufficiente a creare un effetto di straordinaria fotogenia), c’è un iceberg di vetro ancora più iceberg del teatro di marmo. Superman ci va dentro ad abitare quando si stufa della Fortezza della Solitudine.


Vietato ruzzolare. In effetti, avevo molta paura che Amore del Cuore ruzzolasse. Con la massa che ha sarebbe stato impossibile da fermare.


Tegamini realizza il sogno di riempire di ditate un teatro dell’opera.

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Andrò all’inferno – Lofoten Fiskerestaurant


Massì, uscire a cena in Norvegia è una roba che possono permettersi solo i trafficanti d’organi, ma chi se ne importa, si vive una volta sola, vuoi non andare a mangiare il pesce? E poi oggi non ci siamo nemmeno concessi il lusso di un beverone pomeridiano al caffè del teatro, un posto dove va solo la gente col monocolo, forza e coraggio, abbiamo pure prenotato… ora, però, urge una premessa.
Magda Szabó, che se non l’avete mai letta ve la consiglio molto, era una bambina un po’ gracile e malaticcia. All’improvviso, di fronte a un piatto di carne di non so bene che animale, capì che quella che stava per mangiare era stata una bestia viva e venne colta da una profonda disperazione. Niente, la carne – che così bene le avrebbe fatto – non la voleva più nemmeno veder passare. I suoi genitori, personaggi di meravigliosa fantasia e sensibilità fuori dal comune, le spiegarono pazientemente che certi animali, ad un certo punto della loro vita, si stancano di stare al mondo e decidono, in tutta libertà, di offrirsi volontari per finire sulla tavola degli esseri umani. La Szabó, tra una pertosse e l’altra, si lascia persuadere, e ricomincia a rimpinzarsi di salutari proteine.
Ecco.
Sono sicura che la balena che ho mangiato era una di quelle bestie lì, stanche della vita.

CAMERIERINA – So, our five courses fish menu starts with grilled whale, followed by a mussel soup with vegetables and cod, cooked in the oven with lentils and red wine sauce. After the fish…
TEGAMINI – Hold on, hold on. Whale, like a…
CAMERIERINA – Yes, whale, you know, the huge fish…
TEGAMINI – Technically it’s not a fish but… WHALE! Is it even legal?
CAMERIERINA –  In Norway and Japan.


Mi chiamo Ismaele: l’antipasto di balena grigliata.
E lo devo dire, poverona, la balena sa del più buon filetto che mai vi capiterà di inghiottire finché siete al mondo. Mi sento come Homer quando mangiò Pizzicottina. E anche se era una fettina grossa come un Oro Saiwa, mi sento ormai marchiata per sempre dall’anatema del dio Poseidone. Perché diamine, gli animali dei documentari non si dovrebbero mangiare.


La zuppa di pesce con cozze galleggianti.


Il merluzzo al forno, col vino rosso e le lenticchie.

E comunque una mia amica ha mangiato il delfino. Mangiare un delfino è molto peggio. I delfini salvano i naufraghi, fanno divertire i bambini e vengono a riva a farsi accarezzare.
La verità è che merito di essere trafitta da un narvalo vendicatore.

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Intermezzi di poca rilevanza


Anche in Norvegia si fa draping.

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Il Munch Museet – The Modern Eye

Anche qui, super scoperte. Nonostante al bookshop vendano la tristerrima tavolozza di Munch (composta unicamente da colori che non riesco a descrivere in altro modo che con l’immagine di uno spartito musicale fatto solo di note in bemolle), quello che si trova in The Modern Eye è davvero insolito, per quello che l’essere umano medio conosce dello strambo artista. Perché è vero, c’è poco da stare allegri, ma la collezione che sta fuori dalla Galleria Nazionale (e che abbiamo visto finire nella mostra di questo periodo) è vivace e stramba: ci sono stanze che raccolgono innumerevoli varianti dello stesso soggetto (dipinte a intervalli regolari per una vita intera), gli autoritratti fotografici e pittorici, strade in mezzo ai boschi (sepolte da una nevicata, ostruite da tronchi di un giallo brillantissimo o occupate da cadaveri e assassini che scappano), ossessioni per le trasparenze e le sovrapposizioni (nate, all’epoca, dai primi utilizzi dei raggi X), le scene cinematografiche dei lavoratori che camminano per strada (come nei primi esperimenti di fratelli Lumiére, che a Munch interessavano immensamente), gli interni che sembrano fotografie di scene di teatro (cose che succedono dopo il lavoro di Munch agli spettacoli di Ibsen) e tutto quel che accade quando a un artista scoppia una vena in un occhio.
E chi lo sapeva, che a Munch era esploso un occhio. Non solo cercò di ripigliarsi dall’accaduto immaginando il suo occhio come una specie di pianeta infestato da un uccello minaccioso, ma cominciò anche a dipingere esattamente quel che riusciva a vedere in quella nuova condizione. E ci sono quadri pieni di macchie pennute, ombre ancora più grosse, tinte distorte e buffe brillantezze.
Mamma mia, sono più divulgativa di Alberto Angela. Ma sarà uscito dal sottosuolo di Roma? Tutte le volte che accendo la tv e mi imbatto in Alberto Angela, sta vagando da qualche parte, nelle viscere di una catacomba capitolina. Ma solo a me succede, o lui effettivamente vive là sotto?
Comunque.


Matite di Munch, con l’alberello di vene rotte che diventa un cattivo mini-ibis.


Dentro alla testa di una persona preoccupata ce n’è sempre un’altra. E tutte le cose diventano anche un po’ trasparenti.


Cavalli che scappano nella nostra direzione.


Al bar del museo di Munch urlano anche le tortine. E visto che l’
Urlo è da un’altra parte, è l’unico urlo disponibile.

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Super Fortezze Volanti Fantastiche: Akershus Festning

Qua ci metterò le foto un po’ più grandi, valà, che c’è tutta una magia di cielo-acqua-mattoni. E vi risparmierò ogni tipo di autoscatto romantico, anche se Amore del Cuore che si staglia sul fiordo è un bel vedere.

TEGAMINI – …Amore del Cuore, ma non c’è nessuno!
AMORE DEL CUORE – Ma no dai, c’erano quelle due tizie del viale, quelle che si tiravano addosso le foglie per fare le foto.
TEGAMINI – Ma ho paura, è deserto! Metti che adesso spunta un cavaliere fantasma o qualcosa del genere…
Da dietro l’angolo fa la sua comparsa la guardia in alta uniforme, con tanto di braccio rigido che fa su e giù, fucile in spalla e sguardo fisso. Amore del Cuore e Tegamini si immobilizzano.
TEGAMINI – Non ce la faccio, non ce la faccio, mandalo via, mi viene da ridere!
AMORE DEL CUORE – Guarda, guarda, adesso batte i tacchi e torna indietro. Però dai, abbiamo avuto fortuna, è sicuramente il cambio della guardia. Vuoi che passi la giornata ad andare in giro così?
TEGAMINI – Ma poverino, chissà che freddo, non ha nemmeno una sciarpetta! Quanti anni avrà, poi?
AMORE DEL CUORE – Sedici.


Ancor meno rispettato delle guardie col cappello di gorilla della regina d’Inghilterra, l’indomito soldatino di piombo, ultimo baluardo difensivo della fortezza Arkershus e prima fonte di gaudio per i turisti più sadici.


Il super fiordo (se vedete dell’ICE IN THE FJORD vi prego di segnalarmelo) color piombo. L’impressione che ho avuto è che l’acqua, in questo posto qua, sia molto pesante, come se avesse una densità da petrolio. E poi fa quasi paura perché è fermissima, appena un po’ increspata. Insomma, molta meraviglia.


Qua è da dove si sparava quando i kraken cercavano di attaccare Oslo.


Le tegole sono fatte con le scaglie corazzate dei draghi.


Tegamini e doverose espressioni di grande e soavissimo stupore.

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Intermezzi di poca rilevanza

…anche perchè era un po’ che non si parlava di roba da mangiare.


Sarà anche un tapas bar (Delicatessen, Sondregate 8), ma la splendida legnosità minimal è tutta da paese dove ci son freddo e razionalità. E comunque, nessuno di noi ha preso tapas, per ragioni di costo-opportunità.

AMORE DEL CUORE – Secondo te quante tapas dovrei mangiare per non avere più fame?
TEGAMINI – Ah, sei, tipo.
AMORE DEL CUORE – Non si può fare. Costano troppo. Mangio il panino, guarda quella tizia lì, è grosso il suo panino. Te?
TEGAMINI – C’è la frittatina… e poi queste croquetas col prosciutto, secondo me sono buone. Toh, costano anche 20 corone.
AMORE DEL CUORE – 20 corone, te ne portano una.
TEGAMINI – Ma figurati, che roba è, una crocchetta.

Eh, una ne è arrivata.

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Negozi strambi e belli

Dunque, volevo moltissimo un maglione norvegese, di quelli con tutti i ricami a fogliette, fiocchi di neve, germogli dai colori squillanti e compagnia. Quando ho visto che il maglione norvegese più scalognato del negozio costava 250 euro ho pensato che magari potevo permettermi una sciarpa, che se c’è meno stoffa magari ci sto dentro. Niente, sciarpa, 140 euro. Per un attimo ho valutato la possibilità di acquistare un paio di guanti a muffola, ancora più piccoli, ma ho poi ricordato di essere fiera e orgogliosa, e ho mandato tutti a pagaiare sul fiordo, ripromettendomi di non mettere più piede in un negozio di abbigliamento, salvo strambe eccezioni in quel di Grünerløkka, che pare sia un po’ diventato il luogo YEAH-creativo-hipster della città.
Qualche angolo di negozietto… a quel che ho poi effettivamente comprato credo proprio che riserverò il gran finale. Anzi, ci dovrò fare un altro post, perché ci sono cose che splendono con troppo fulgore per rimanere confinate in un piccolo spazio.


Il negozio ACNE, che ha il pregio di metter fuori scarpe numero 41, il che conforta molto noi genti coi piedi del 39, mica come  in Italia, che si vedono solo dei graziosi 36-37 e poi quando ti arriva la scatola del numero giusto sembri sempre il pagliaccio del circo.


Inquietanti (e arianissimi) bambini, uno diverso per ogni lattina, sorridono come piccoli e malefici androidi. Quello che ci sia nelle lattine non è comunque ancora chiaro.


Battagliere falangi di animalini di plastica Schleich (Riktige Leker – Haakon VII’s gate 1)


Il paradiso del genitore hipster-multicolor (Sprell – Korsgata 24)


Inestimabili tisane che comprendono i tuoi sentimenti e vogliono essere bevute esattamente al momento giusto. Magari sanno tutte di fieno unto, ma le confezioni sono pregevoli.


Sano disordine in una libreria dell’usato. Dopo un po’ che vedi scaffali organizzati con squadra e righello, lavagnette e menu scritti a mano da eccelsi calligrafi (non professionisti) e adorabili muri di regolarissimi mattoni al vivo, insomma, le cose abbandonate in terra fanno molto piacere.


Suggerimenti per lavoretti natalizi da Norwegian Designs. Perchè là fuori c’è gente che usa le mani per mettere insieme biglietti d’auguri, deliziosi ornamenti e interi plotoni di folletti di carta. E poi ci sono io che uso le mani solo per cambiare canale quando salta fuori Paint Your Life. Barbara, vai a fare un bel giro in Norvegia e lascia in pace le povere sedie impagliate.


Scatole, cestini, contenitori, cosetti, non lo so, mi piacciono tantissimo. Tutte queste scatole dei mille colori dell’arcobaleno, poi, erano anche telate e morbidine. Il reparto carta di Norwegian Designs è ufficialmente il male.


Accessori svedesi per case di bambola. Perché la Svezia non arreda solo posti per umani, anche i giocattoli hanno diritto a un po’ di design scandinavo. C’erano milioni di lucette, impianti elettrici perfettamente funzionanti, microscopiche zuppiere, salotti, piastrelle… tutto svedese e ben separato dal normale mobilio per bambole, quello coi tavoli di legno con i piedi intarsiati e i piatti di ceramica col disegno blu. La meta-casa-Ikea, per una bambola che già abita nella casa Ikea della sua proprietaria. – (Riktige Leker – Haakon VII’s gate 1)


I gioielli di Bjorg, tutti belli tranne quello là in fondo che sembra una mezzaluna-spazzettone… o i bracciali a forma di spina dorsale (con costole), che però qua non ci sono. Meglio per voi che non li avete visti.

L’angolo delle farfalle di un negozio di vestiti usati per dive cadute in disgrazia. Stavo per provarmi un costume tradizionale norvegese quando mi sono domandata (rigorosamente in quest’ordine): ma, non sarà un po’ grande? E, ma poi, dov’è che ci vado, con questa roba qua?

TEGAMINI – Amore del Cuore, secondo te ce ne sta uno, nel bagaglio a mano?
AMORE DEL CUORE – Ma va, sono giganti.
TEGAMINI – Ma nemmeno il bisonte, che è tondeggiante? Non ha le corna, magari si riesce… eh?
AMORE DEL CUORE – Come fa a starci. Dai, ti porto via, che poi ti affezioni.
TEGAMINI – Lasciami qui, te vai avanti.
(Sprell – Korsgata 24)

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Fyret (Youngstorget 6): due etti e mezzo d’animale di foresta

Per concludere degnamente la scampagnata, abbiamo deciso di lanciarci sulla cucina tipica norvegese, al Fyret. Cibi sinceri, esuberanti, salmoni salterini, carte geografiche polari appese ai muri, gente che si squarta d’acquavite, birra scura e hamburger d’alce. Perché dopo aver mangiato una balena, nutrirsi d’alce diventa all’improvviso una cosa normale, soprattutto dopo aver constatato che a Babbo Natale la slitta la tirano le renne, che sono bestie di tutt’altro genere.

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Bene. Spero sia stato istruttivo. E magari anche un po’ ameno.
Per chi volesse amare tutto questo anche su Instagram, c’è parecchia roba anche lì.
Per chi crepa dalla curiosità di scoprire cos’ho comprato a Oslo, state sereni un attimo che arriva anche l’apposito post.
Per tutti quanti, viva i fiordi, ghiacciati e non!
E mettetevi due paia di calze, che è sempre saggio.


Ciao Norvegia, ciao soldatino di piombo della fortezza!