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Reduci dalla NOTEVOLE mole di 4321 – che possiamo aver amato o molto ammirato o possiamo magari ricordare in prevalenza per la fatica che ci ha fatto fare -, trovarsi alle prese con un Auster così snello, in libreria per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Cristiana Mennella, è già una notizia.

Il Baumgartner del titolo è un professore di filosofia di Princeton che ha perso l’amatissima moglie da una decina d’anni. Vive da solo, lavorando ai suoi saggi per tenersi occupato e ordinando libri online in maniera compulsiva solo per il piacere di scambiare due parole con la fattorina che glieli consegna di solito – potrebbe sembrare un’abitudine inquietantissima, ma nel caso specifico non c’è da prendere paura. Baumgartner non è giovane, ma non è nemmeno decrepito. Non si è rassegnato alla dipartita di Anna, ma il dolore non l’ha incattivito. È spesso un po’ imbranato, ma se la cava con un certo piglio. È proprio un brav’uomo, mi verrebbe da dire. Ha poca pazienza per le rotture di palle, ma chi è che può dire di averne? Dalla scomparsa improvvisa di Anna ha cercato con fatica di recuperare un’identità individuale, anche se il compito di riempire il solco lasciato da una personalità così calorosa e vulcanica gli appare quasi impossibile. Non può lasciarla andare perché non sa come fare, ma osserviamo con affetto vero i suoi volenterosi tentativi di vivere “lo stesso” nel solco della sua memoria… anzi, ci viene da tifare per un nuovo inizio, per l’intervento di una forza propulsiva inaspettata che in qualche modo lo ricompensi per la sua tenacia gentile.

Auster ci racconta pian piano chi è Baumgartner – e chi è stata Anna – mettendo lo stesso Baumgartner nelle condizioni di ricordare, di aprire dei cassetti (in senso letterale) e di riportarci quello che ci trova dentro. Le memorie riemergono con una naturalezza splendidamente calibrata dai piccoli intoppi del quotidiano o per decisione deliberata di Baumgartner, che mentre dovrebbe pensare ad altro (dove sono finiti gli occhiali? Perché diamine sono venuto al piano di sopra? Ho già telefonato a mia sorella?) si concede qualche ricognizione approfondita nel passato. Sono “viaggi” che nella loro essenza non risolutiva – e nella loro strutturale impossibilità di rimediare all’assenza di Anna – rendono però il presente meno asfittico, meno buio, ancora capace di fare da base al futuro. Baumgartner usa la nostalgia come una specie di arma difensiva, per ricordarsi della felicità di cui è stato capace. Non ricorda più con rancore o con senso di rivalsa, ma con la fierezza di chi sa di aver per tanti anni vissuto una parentesi di grande appagamento, il genere di felicità che augureremmo a chi amiamo.

Va bene che ha insegnato filosofia, ma da dove gli viene questo talento? Chi è, un santo eremita? Forse il contrario, credo. All’atto pratico, Auster configura Baumgartner come un solitario, ma gli regala un istinto di apertura al mondo, di fiducia negli altri. E il mondo risponde – coi suoi tempi, ma risponde. E anche Anna finisce per ordinargli di “liberarla”, di permetterle di diventare un fantasma benevolo, di lasciare che siano le tante cose che ha scritto (e che si sono scritti) a fare da “museo” al loro legame ma senza tramutare anche sé stesso in un reperto.
È una storia che parte da una premessa deprimente e si muove nel territorio del malinconico, ma lo fa con grazia – e non perché nel dolore ci sia grazia o sia obbligatorio produrne, anzi -, seguendo un imperativo che lascia speranza: rendere giustizia a un amore “ben riuscito”, nonostante l’imprevedibilità crudele del destino.

Premio MalaparteIl Premio Malaparte 2023, che si assegna a Capri a personalità letterarie internazionali, è stato conquistato quest’anno da Benjamín Labatut, che da queste parti era già transitato con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il suo debutto per Adelphi. Fluttuando nei pressi dei Faraglioni ho vissuto una delle esperienze di mal di mare più devastanti e inconcepibili della mia vita ma, per fortuna, il Malaparte e i numerosi momenti d’incontro collegati al premio si svolgono sulla terraferma e le vertigini sono affidate unicamente alla letteratura. Gli autori e le autrici che se lo aggiudicano trascorrono un fine settimana isolano ricco di impegni, ragguardevoli momenti gastronomico-conviviali e dibattiti pubblici, compresa la cerimonia di accettazione del riconoscimento alla Certosa di San Giacomo. Per quest’edizione, la ventiseiesima dalla “fondazione” e la dodicesima dal rilancio a cura di Gabriella Buontempo e Ferrarelle Società Benefit, Labatut ha presentato Maniac, il suo nuovo lavoro, e ha dialogato con Guido Tonelli, fisico tra i più autorevoli del CERN e magnifico “duellante”. Perché sì, Labatut di base non concorda, ma anche la sua è una potentissima e abissale forma di ricerca. Ho avuto la vasta fortuna di poterci conversare e qui trovate la generosa intervista… con tanto di intervento divino, abbiamo ipotizzato. 


Uno dei temi che emerge più di frequente, quando si discute del tuo lavoro, è la relazione tra scienza, verità fattuale e letteratura. Quanto possiamo fidarci dei fatti e dove comincia la finzione? Perché partire proprio dalla scienza – che collettivamente suscita aspettative di certezza – per fare letteratura?

La scienza deve descrivere la realtà, ma non è quello il compito della letteratura. Il ruolo della letteratura è raggiungere i posti che la scienza non può raggiungere. Riguarda significati più oscuri, più insoliti, parla del mondo nella nostra testa. Qui non c’è esperimento che tenga o che possa condurci a una verità “psicologica”, come si può invece fare quando si indagano gli atomi. La scienza si basa sul principio che il mondo si possa comprendere, che sia ordinato e si possa decifrare, anche se ci sono molti aspetti che restano impossibili da afferrare. Per quel che ne so, non è possibile comprendere la fenomenologia dell’umano usando soltanto i fatti. Non è così che viviamo. Non è così che le nostre menti funzionano. Siamo esseri fatti di desiderio, dolori, sogni, incubi. Le nostre immaginazioni sono portentose, siamo inseguiti da strati e strati di significato, molti dei quali sono finzione pura, che scaturisce solo dalle nostre menti. Nei miei libri c’è una commistione voluta, non una distorsione della verità, perché la letteratura può arrivare ad aspetti che nessun altro metodo permette di scorgere. Ce lo siamo dimenticato, abbiamo finito per credere che da un lato ci sia la verità e che dall’altro ci sia l’immaginazione, quello che inventiamo – ma non funziona così. Ogni istante delle nostre vite è una mescolanza orrenda, spaventosa e caotica di tutto questo… e ci sono altri elementi ancora che si aggiungono. E la verità, la parte più importante del mio lavoro di scrittura riguarda questi elementi aggiuntivi che né la scienza né la letteratura possono gestire. Non abbiamo un linguaggio, un metodo per avvicinarli. L’incognito assoluto è qualcosa che esiste oltre la scienza, oltre la letteratura, oltre le parole. Ecco qual è il cuore di quello che provo a scrivere. So che è là, da qualche parte. Non posso descriverlo, ma so che c’è.

È da qualche parte, ma è anche dentro di noi?

Dentro e fuori di noi, ma più che altro fuori. Se guardiamo dentro di noi ci troveremo il mondo, il mondo con la M maiuscola. Il mondo è di una stranezza estrema e inconcepibile. Tendiamo a separarcene, ma quando torniamo a guardarlo – e quello è il fulcro di molte delle storie di Quando abbiamo smesso di capire il mondo – all’improvviso ritroviamo quello che pensavamo di aver perso strada facendo. Troviamo cose caotiche, indocili e incomprensibili che superano le capacità delle nostre menti. Siamo abituati a credere che i misteri abitino “fuori” – il mondo era popolato dagli déi, pullulava di spiriti -, ma ora pensiamo che sia tutto nella nostra testa. La verità è una via di mezzo fra questi due estremi e arrivarci è molto difficile.

In Quando abbiamo smesso di capire il mondo, i matematici e i fisici che utilizzi per esplorare questa frontiera si trovano spesso alle prese con un limite espressivo: le loro teorie sembrano difficilmente codificabili. La scoperta “profonda” rende necessari linguaggi nuovi?

No, in realtà. Usano i linguaggi che abbiamo già a disposizione. Le nostre menti funzionano manipolando dei simboli – possono essere parole o può essere la matematica – ma la nostra intelligenza ha a che fare con la manipolazione dei simboli. Certo, è solo una delle porzioni delle nostre menti, la parte con cui siamo in comunicazione e che riusciamo a spiegarci. Ma esistono anche creature come i corvi, che non usano simboli ma sono intelligenti, immagazzinano ricordi, hanno coscienza di sé. C’è una forma di intelligenza che scaturisce dall’attività connettiva dei neuroni – è un’intelligenza molto diversa dall’esperienza “conscia” ed è qualcosa che stiamo iniziando a costruire ora con le nuove tecnologie, come l’IA. L’IA funziona così, è un’intelligenza scorporata e senz’anima.
Insomma, non penso che si tratti della creazione di linguaggi nuovi, non so se esista una via capace di superare la matematica o le parole. Non lo so. Io posso arrivare solo fin lì… e non è che sia andato chissà quanto lontano.
Visto che scrivo, però, sono pienamente conscio – come ogni scrittore – di cosa sono le parole e di cosa possono fare, dell’impatto che producono su di noi. Ma sono anche tragicamente consapevole di quanto poco contino. È l’aspetto più superficiale e meno rilevante di chi siamo. Ci siamo del tutto consegnati alla ragione, al linguaggio, al pensiero – e oggi anche alla frangia più patetica di questo aspetto: l’opinione. Le opinioni sono come il buco del culo, tutti ne hanno una. Il centro di tutto diventa quello, ciascuno si preoccupa unicamente del proprio buco di culo. È incredibile. [ride] Ma le cose che ci interessano davvero, come esseri umani, sono le cose che sentiamo, che intuiamo, che patiamo, le cose che ci travolgono. Quello che cerco di fare nei miei libri, il motivo per cui i miei protagonisti si comportano così, è che sono invasi, posseduti, innamorati… ed è un’esperienza dolorosa.

E leggendo lo si avverte. Non c’è scienziato fra le tue pagine che non attraversi un momento di crisi profonda o che possa dirsi allineato ai ritmi del mondo. Sono ricerche che li assorbono completamente, isolandoli dalla realtà e facendoli sprofondare nell’ossessione.

L’ossessione è una forma d’attenzione potenziata, è l’attenzione che si trasforma in arma. E l’attenzione, per citare Roberto Calasso, è il potere che permette agli dèi di costruire l’universo. È ardore, calore, energia sessuale, oltre che intellettuale. È la mente che costruisce, pensiero dopo pensiero, qualcosa degno di sacrificio. Ecco perché porto i miei personaggi a quegli estremi, perché è lì, quando si patisce questa sorta di possessione, che rinunci a te stesso e che ti esponi al tormento. È il nucleo fondamentale, perché sfugge a ogni controllo ed è in quel momento che le cose nuove vengono messe al mondo. Ho incontrato persone così, parecchie. Ci si aspetta che gli artisti siano ossessivi… e quello che ammiravo negli artisti, crescendo, era proprio questo atteggiamento “religioso”. Ti consegni a qualcosa che è più grande di te e lo fai anche se sai che ti distruggerà. Quello per me era il fulcro della questione. Ci vuole coraggio.

E fede, magari?

No, la fede non basta.

[Siamo seduti sotto a un albero. In questo preciso istante un frutto si stacca da un ramo, chissà dove, e precipita in mezzo a noi sul tavolo. Non posso fare a meno di esclamare FLEABAG!]

Esatto! [ride]

La volpe di Fleabag, se ci pensiamo, è “il segugio dei cieli” – e sarà anche il titolo del mio discorso di accettazione del Premio Malaparte. Il segugio dei cieli è una figura molto importante per me: è Dio che insegue chi più ama, incalzandolo senza tregua. Quella è l’esperienza a cui voglio arrivare. Non sei tu che cerchi qualcosa, è quel qualcosa che insegue te. E le persone che mi interessano sono quelle inseguite dal segugio. La fede non basta. È la morte del pensiero, per me. Non si crede nell’amore, lo si subisce. Se hai fede puoi anche smettere di pensare. Ma il pensiero è doloroso proprio perché serve a dubitare, ti scava dentro come ogni cosa che è davvero importante. Il punto è non essere lasciati in pace, mai. Non siamo esseri intellettivi, siamo senzienti… cioè sentiamo, soffriamo e ogni conoscenza che otteniamo si guadagna con il dolore. Quanto vorrei che non fosse così… [sorride]

Anche il tuo processo di scrittura risponde a questa dinamica? Gli argomenti ti inseguono e ti impongono di trovare risposte? Si scrive per ossessioni?

Certo, non si può scrivere in altro modo. Cioè, dovresti essere capace di perdere momentaneamente la ragione, dovresti riuscire a scrivere senza distruggere chiunque ti circondi, dovresti riuscire a cercare la verità senza perdere te stesso, ma non è possibile… non veramente. Ci sono parti di te che perderai – e dovrai farci i conti. Se vuoi scrivere bene e se il libro è autentico, ti modificherà, se glielo permetterai. Ti mostrerà aspetti orribili di te e ti obbligherà a prenderne atto. Sfogliando quel libro non ti verrà mai in mente di esclamare “Oh, ma è meraviglioso!”… sarà proprio il contrario. La copertina italiana di Maniac mi piace moltissimo, perché esprime esattamente quello che dovremmo scorgere. Dobbiamo vedere l’ombra, questa tenebra che aleggia alle nostre spalle. La scrittura migliore viene dall’ombra e questo spiega perché così tanti miei colleghi sono disperati e finiscono per ammazzarsi.

E cosa succede a chi legge?

Non mi interessa. Voglio dire, i calciatori non prestano la minima attenzione agli spettatori in tribuna. Sono innamorati della palla e non pensano ad altro. Non ci si può concentrare, non si può fare gol altrimenti. Badare al resto non è nemmeno un’opzione. Chiaro, alcuni possono essere gentili con i loro fan e dar corda alle persone che li ammirano… e possono anche essere degli stronzi – entrambe le alternative sono assolutamente legittime, ma sono innamorati del gioco. Io sono innamorato della scrittura. I lettori leggono, ma io sono uno scrittore.

È interessante perché molti lettori cercano l’immedesimazione, invece. Vogliono ritrovarsi nei personaggi e capita che apprezzino di più le storie in cui si riconoscono…

Ma quello non è leggere. Quello è specchiarsi. Dovrebbero guardare la tv. Non parlo di buon cinema, intendo proprio la tv. Quella fa per loro. Perché nemmeno il cinema funziona in quel modo. Un libro non dovrebbe mostrarti chi sei. Dovrebbe mostrarti il mondo.

O quello che per conto tuo non sei capace di vedere.

Assolutamente, nel migliore dei casi. O dovrebbero mostrarti gli aspetti più terrificanti di te. C’è una meravigliosa tradizione di mostri, in letteratura. Uomini mostruosi e donne mostruose. È fondamentale che esistano anche libri scritti da mostri perché l’immagine del mostruoso ci mette di fronte a quello che davvero abbiamo più bisogno di vedere. Dovrebbe essere uno spettacolo difficile da guardare, dovrebbe spaventarci. I libri dovrebbero farci paura.

Pensi che questa ricerca di rassicurazioni e certezze riguardi anche la scienza? Scienza, spiegami il mondo. Dimmi in cosa devo credere e come funzionano le cose.

Non bisogna confondere il pubblico – e il consumo “generalista” della scienza – con la scienza in sé e per sé. La scienza funziona scavando dei buchini minuscoli nelle cose. Gli scienziati sono ossessionati da dettagli infinitesimali. Sono artigiani… anzi, rispetto agli altri esseri umani appartengono proprio a una specie diversa. I veri scienziati sono le persone più strambe che si possano incontrare. Ho un amico ossessionato dall’apparato riproduttivo degli scarafaggi. Ma quella è scienza. Può riguardare un dettaglio simile o l’origine dell’universo. Chiunque possa davvero definirsi scienziato è fin troppo conscio – in senso platonico e socratico – di quello che ancora non comprende, di quello che ancora non sa. E se sa qualcosa si chiederà quanto è approfondita la conoscenza che abbiamo accumulato, quanto ancora possiamo scoprire. È una disposizione estremamente diversa. Il consumo pubblico è religioso, semplicemente. Mostrami come funziona il mondo, giusto? Rassicurami. Va benissimo, anch’io mi sono prefissato di imparare il più possibile sul funzionamento del mondo. Non sto assolutamente deridendo l’impulso di chi vuole imparare qualcosa in più – lo facciamo tutti. Ma quello che mi interessa somiglia a un atto di magia, a un gioco di scatole cinesi: vogliamo afferrare gli aspetti dell’universo che superano la nostra comprensione… ed è quello che ci tiene in vita, che permette a tutto di evolversi. È il caos bizzarro che rende le nostre vite vivibili.

Abbiamo perso la magia? Intendendola come strumento “laterale” che può aiutarci ad allargare la prospettiva e a concepire l’assoluto.

La magia è incasinata e anche molto, molto pericolosa. È sempre stato così. Gli sciamani vivono fuori dalla comunità. Sono emarginati. Puzzano. La società li esclude. Ma il ruolo dello sciamano è proprio quello. Fanno paura, sono ossessionati dal sesso e mangiano i bambini. [ride]. Al giorno d’oggi non c’è spazio per la conoscenza occulta. Le persone vogliono sapere tutto, vogliono che ogni cosa venga loro spiegata, ma la magia non funziona così. Chiunque si avvicini anche solo tangenzialmente alla magia è disposto a mettere in pericolo la propria anima e non penso che in molti lo vogliano fare. Non oggi.

Anche la scrittura può diventare un pericolo per l’anima?

A volte. Voglio dire, dipende dal periodo specifico. Non lo si può fare sempre, altrimenti si finisce per diventare degli idioti pomposi. E so benissimo di cosa sto parlando perché anch’io sono un idiota pomposo. Ma bisognerebbe lasciar filtrare un pezzettino di mondo. Crescendo, si impara a sentirsi coraggiosi quando ci si imbatte in un’idea, si pensa di conoscersi perché sono tante le cose che si apprendono. Uno scrittore pensa anche di saperla più lunga della gente che lo circonda, ci cresci proprio. Leggi tutti i libri possibili e immaginabili… e poi ne leggi degli altri. Pensi di capire benissimo le cose. E poi la vita ti dimostrerà che non è vero. È durissima. Quando l’ego di uno scrittore viene calpestato è un’esperienza davvero lancinante, perché di solito è tutto quello che ha, è l’unica cosa che ha davvero sviluppato. Ha sviluppato il suo ego perché è con quello che si scrive. Non si scrive con chissà che altro, scrivi col tuo ego. Cerchi di lucidarlo per benino, ma quando viene calpestato – e se fai bene il tuo lavoro – corri un grande pericolo. In più, come chiunque, devi evitare l’alcolismo, l’egotismo, il narcisismo. Funziona così per tutti, ma gli scrittori ne sono più consci. Ce l’hai sempre in mente: rovinerò la mia vita se vado avanti così.

Ma si va avanti lo stesso?

Non lo so. Adoro gli scrittori che smettono di scrivere. Ho un giardino anch’io… magari mi dedicherò a quello.

Cosa succede quando scrivi? C’è un processo di ricerca e poi di stesura?

Preferisco non parlarne. Perché una grande componente è un po’ esoterica. Devi chiedere, devi implorare. Il nocciolo sta lì. La ricerca… [ride]… la ricerca è facile, è facilissima. Basta leggere! Bisogna leggere e sottolineare… quanto può essere complicato da fare per chi già legge per il piacere di farlo? Non è difficile. Il difficile sta nel raggiungere la verità della cose, ecco perché sono ossessionato da scrittori come Eliot Weinberger, Juan Forn, Roberto Calasso. Loro capiscono, che è molto diverso dall’accumulare documentazione. Un libro ben documentato può essere del tutto morto, ma cos’è che serve a un libro per essere vivo? Quella sì che è una questione complessa e ogni scrittore deve trovare una risposta, in qualche modo. Il processo, insomma, è caotico, prevede diversi rituali ma la costante è che bisogna sempre chiedere e implorare – in ginocchio, se possibile. [ride]

E Maniac dove ci porterà?

È un libro sull’intelligenza, raccontata attraverso tre storie. La prima è la storia vera di un fisico, Paul Ehrenfest, uno dei migliori amici di Einstein. Era un buon fisico… ma di “fascia media” in Europa, dove a quei tempi venivano svolte le ricerche più brillanti del Ventesimo secolo. Soffriva di depressione melanconica, aveva un figlio piccolo con la sindrome di Down ed era anche un ebreo che vedeva nazisti spuntare da tutte le parti. All’improvviso, sprofondò in una crisi enorme. Sparò a suo figlio e poi si suicidò. Nella parte del libro che è totalmente basata sui fatti, racconto di quella che Ehrenfest definì come “peste matematica”, un tipo preciso di razionalità che stava prendendo vita. Quel genere di razionalità, per me, si esprime pienamente nel vero protagonista del libro, il matematico John von Neumann. Era una specie di “dio infantile”. Per lui ho usato il linguaggio della religione perché sarebbe stato molto difficile descriverlo in un altro modo. Era un computer prima ancora che i computer venissero concepiti. La realtà è che è stato lui a creare il computer moderno. Era una mente di un’acutezza affilatissima. L’elemento che ha preso vita in von Neumann era la logica, il Dio della logica. E racconto la sua storia fino al giorno della sua morte, farneticante, con il cervello divorato dal cancro. Il libro si chiude con le partite disputate tra un’intelligenza artificiale – che all’epoca era la più avanzata che ci fosse – e un campione di go, un autentico artista che credeva nella bellezza come traguardo a cui aspirare. L’intelligenza artificiale lo distrugge, sebbene oggi il nostro problema non sia la distruzione… il problema è la creazione.


Vi rimando al sito Adelphi per appuntamenti e risorse di ulteriore approfondimento.
Il mio post su Quando abbiamo smesso di capire il mondo – che ho linkato anche in cima – è sempre qua.

 

 

Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Mi pare che a Coco Mellors sia globalmente toccato un lancio editoriale che riassumerei più o meno così: “Sally Rooney, ma simpatica e vestita meglio!”. Cleopatra e Frankenstein, il suo esordio – in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, dunque, ha automaticamente raccolto l’odio di chi già detestava Rooney ma anche le tradizionali accuse di frivolezza, disimpegno e “semplificazione” del Vero Dramma Della Condizione Umana. Mellors non pare averci badato, anzi. Si è comprata degli stivaletti dorati e una cappa di Valentino e ha danzato leggiadra a firmare un contratto con la Warner – se non sbaglio – per trasformare il libro in una serie. Destinazione perfetta, perché il romanzo ha proprio quel passo lì.

L’intrigo in prevalenza sentimentale si svolge a New York nel 2007 e anni limitrofi, un’epoca pre-tracolli economici in cui era ancora vagamente possibile far fortuna a Manhattan (o anche solo pagasi una stanza) lavorando nei settori creativi e artistici. Cleo ha 24 anni ed è arrivata da sola dall’Inghilterra per studiare pittura. Bella, misteriosa e sofisticata – almeno all’apparenza – pare destinata a un radioso futuro. Il suo è il tempo della gioventù e delle potenzialità che ancora devono esprimersi, ma il tempo della realtà la insegue: il visto da studenti sta per scadere e Cleo non ha progetti solidi e nemmeno una Green Card. L’universo provvederà? Forse. Mentre abbandona a un orario fantozziano una festa di Capodanno, incontra Frank in ascensore e i pianeti promettono di allinearsi. Lui ha superato i 40 e dirige un’agenzia pubblicitaria. Istrione di successo, Frank rimane folgorato da Cleo e sei mesi dopo si sposano in comune reclutando come unico testimone un venditore di hot-dog. Cosa non si fa per avere una bella storia da raccontare… forse ci si sposa anche.

Il romanzo è una cronaca a più voci del matrimonio sghembo di Cleo e Frank. Attorno a loro orbita una compagnia di amici, sorelle piccole, colleghi, pessimi genitori, madri tragiche e segretarie che funzionano narrativamente da superfici riflettenti o da “carte imprevisto” e che, insieme a una città che a suo modo funge da personaggio, da cornice che definisce una maniera peculiare di stare insieme e di concepirsi nel mondo, da gorgo che maschera col divertimento tanti scogli aguzzi che attendono sotto la superficie INSOMMA, tutto questo contribuisce a delineare i confini di una pessima idea travestita da colpo di fortuna, da fato favorevole.

L’idea che ci si salvi insieme vale per chi non ha ancora trovato il modo di stare in piedi per conto suo? Quanto perdiamo la capacità di concepirci nel futuro se il bagaglio che ci trasciniamo in giro è troppo pesante? Quanto “costa” rendersi finalmente conto che non saremo mai dei talenti sprecati perché di talento da sprecare non ce n’era poi molto? Come si fa a costruire qualcosa di reale se attorno a noi resiste l’idea che tutto è transitorio, tutto è di passaggio o tutto è una festa da aggiungere alla povera narrazione delle nostre imprese?

Dunque, non sapendo bene cosa aspettarmi e diffidando dei miracoli, non ero ottimista, ma l’ho trovato molto godibile. Diciamo che le parti “facili” sono le meno interessanti e anche quelle che forse patiscono di più la ricerca di un effetto. I dialoghi sono una specie di ottovolante – alcuni sono splendidi e i personaggi litigano con particolare piglio, così come mi è piaciuto davvero tutto quello che ha a che fare con Eleanor, ma tanti altri scambi che vorrebbero essere argutissimi e/o fascinosi sono un po’ debolini. Ma davvero si sono innamorati dicendosi questa roba? Chissà, i sentimenti che sbocciano ci rendono indiscutibilmente ridicoli. Mellors gioca molto anche sul fatto che Cleo sia un’inglese in mezzo agli americani – anche se poi il loro “giro” è estremamente cosmopolita – ma, nella resa finale, non è che vengano fuori trovate strabilianti. Alcuni tra i comprimari sono delle macchiette – Santiago e specialmente Quentin -, mentre per altri ci si augurerebbe più spazio. C’è una sensazione di generico déjà-vu che un po’ dipende dalla New York festaiola e un po’ dal tema trito del “guarda quanto sono speciale ma non lasciarti ingannare perché anche la mia vita è un dramma anche se sono pieno di soldi e siamo tutti di una bellezza fuori scala”.
Insomma, si potrebbe dire che é una commedia romantica che quando vuol fare la commedia romantica funziona meno mentre fila via con disinvolta bellezza – e una scrittura che ha visibilmente un altro passo – quando si affaccia su panorami meno scintillanti. Ci sono tanti temi “pesanti” e per nulla frufru, dalla malattia mentale all’alcolismo, dalla solitudine al terrore di tagliare i ponti con quello che conosciamo, anche se quel che conosciamo non ci basta. Lì c’è qualcosa di brillante che resiste e che, almeno per me, ha tenuto in piedi la costruzione, ma non tanto perché occorra il tema “pesante” per farsi prendere sul serio, ma perché è lì che ci ho visto più coraggio, più sincerità, quello che meno mi aspettavo e che esce dall’inquadratura.
Ciao, Coco Mellors. Piacere di conoscerti. Dove li hai comprati quegli stivaletti epici?

The End di Anders Nilsen – in libreria per Add con la traduzione di Francesco Pacifico – ha conosciuto diverse iterazioni, revisioni e limature. Descrive un sentimento complesso – la perdita – e l’ha fatto negli anni cercando di rendere giustizia ai nuclei più significativi di quella circostanza, avvalendosi di volta in volta di quel prezioso “senno di poi” a cui sarebbe bello potersi appoggiare per non affrontare con strumenti irrimediabilmente inadeguati il peggio che può succederci. Ogni lutto è di tutti, perché la morte è un destino comune, ma chi rimane lo assorbe come se fosse un evento unico e incomparabile rispetto alle esperienze altrui, perché quel che perdiamo non è un concetto astratto ma una persona vera, che ha occupato uno spazio “pratico” e ideale nel nostro orizzonte concreto.

Nilsen ha messo insieme The End, disegnando e scrivendo, dopo la malattia e la morte della sua fidanzata – una morte che tenderemmo a definire inopportuna e precoce, data la giovane età – nel tentativo di ricavarci consolazione e anche una sorta di messaggio “universale” capace di attutire l’insensatezza delle condanne irreparabili e arbitrariamente distribuite. Tra metafore visive e documentazione delle minuzie di una quotidianità che pare aver smarrito il suo centro, Nilsen analizza il rapporto con un’assenza inaccettabile e con la fatica di abitare un presente monco, perché per concepirci davvero nel punto mediano tra passato e futuro deve esistere un futuro possibile, una vita da costruire con la persona che amiamo e che non c’è più.

È legittimo continuare a vivere? È rispettoso? È auspicabile? Nessuno verrà a rilasciarci un’autorizzazione in carta bollata, ma quel che si apprende qui è che abbiamo tutti diritto a dettare delle condizioni di sopravvivenza “gestibili” e che, molto spesso, è complicato lasciar andare il dolore, perché il dolore riempie ed è pur sempre meglio del vuoto completo.
Non è un libro allegro, ma è onesto e prezioso proprio per la testimonianza di lungo periodo che offre, per il discorso che si sviluppa facendosi sempre più rarefatto e libero dal caso specifico, nella benevola ambizione di poter diventare fonte di conforto in una moltitudine di altri casi. Non si dimentica, ma si impara a tenere la fiamma accesa e a portarla vicino al cuore, dove ci scalda anche se non produce più la luce brillante e visibile che eravamo abituati a seguire.

Alcune fonti sono inaffidabili per scelta, perché ci vuole fin troppo coraggio per ritagliarsi un ruolo marginale nella storia della propria vita. Quella di Andrew Bevel, leggendario finanziere degli anni ruggenti pre-crisi del ’29 sul quale pare gravitare l’intero impianto narrativo di Trust di Hernan Diaz (uscito per Feltrinelli nella traduzione di Ada Arduini), è una superba parabola di demolizione di un mito meticolosamente edificato e alimentato dall’omissione. Soldi, potere, vita “pubblica”, speculazione, eredità, bene comune, eroismi imprenditoriali, fiuto, predestinazione, mecenatismo… tutto converge in quella che a prima vista potrebbe apparire come una delle più canoniche figure monumentali di Wall Street. Il genio visionario, il lavoratore indefesso, l’uomo che ha elevato la riservatezza a valore morale, il profeta delle contrattazioni, il ricco la cui frugalità desta persino sospetti… Bevel è tutto questo. O forse no? Dipende da chi si prende la briga di documentare le sue gesta.

Per offrirci un notevole saggio del potenziale di manipolazione narrativa della realtà  che poi qua è una realtà romanzesca E VIA COSÌ… INCEPTION -, Diaz gioca con la struttura. Trust contiene quattro generi letterari e quattro punti di vista diversi, che si intrecciano come un grosso enigma – telefonato ma pur sempre molto godibile proprio perché il libro è fatto così – per mostrarci finalmente un quadro più accurato della situazione.

  1. FORTUNE | Harold Vanner
    Un romanzo a chiave – parla male (almeno secondo Bevel) di Bevel e di sua moglie Mildred, inventandosi due personaggi immaginari che però sono palesemente loro.
  2. LA MIA VITA | Andrew Bevel
    L’autobiografia riparatrice di Bevel scritta da Ida Partenza – ghostwriter tenuta a riportare fedelmente la versione dettata dal suo datore di lavoro negli anni ’50.
  3. MEMORIE NEL RICORDO | Ida Partenza
    L’ormai ex-ghostwriter, diventata scrittrice di successo, torna a casa Bevel “da vecchia” e ci spiega com’è stato lavorare col titano di Wall Street, cercando di far luce sui molti punti nebulosi che già aveva subodorato.
  4. FONDAZIONE | Mildred Bevel
    I diari superstiti di Mildred, che finalmente prende la parola per raccontarsi senza filtri altrui.

Insomma, esce questo romanzo che Bevel trova diffamatorio. Per ristrutturarsi la reputazione e fornire al pubblico un ritratto “corretto” di Mildred, Bevel assume la talentuosa figlia di un anarchico italiano per scrivere la sua versione dei fatti. Ida Partenza comincia, ma Bevel crepa d’infarto all’improvviso e il lavoro resta incompiuto. Bevel dipinge Mildred come una specie di soave rimbambita ed è quell’immagine che intende tramandare ai posteri. Ida Partenza non se la beve, ma solo decenni dopo avrà modo di tornare dove tutto è cominciato per trovare un riflesso autentico di Mildred, il mistero vero di tutto il carrozzone.

Suona molto più contorto di quel che è. Leggendo funziona a meraviglia, anche se non avete una laurea in finanzia. In sintesi, è un bellissimo marchingegno che esplora l’ambizione umana, i confini dell’autoinganno e le molteplici forme (spesso mostruose) grazie a cui l’intelligenza può piegare la realtà – a volte per il puro gusto di farlo. Il potere vero, sembrano dirci i Bevel, è nella mano che disegna le linee del campo da gioco. E quella sì che è una “mano invisibile”, con buona pace del mercato.

 

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NN
è una casa editrice nuova-nuova
. Hanno cominciato a marzo, proprio con questo titolo – tradotto da Francesca Novajra -, e spero di vederli trionfare abbondantemente. Nelle schede-libro c’è anche il backstage, per dire. Super gioia – e ottima idea!

Sembrava una felicità di Jenny Offill somiglia a una raccolta di pensierini, tutti estremamente bizzarri. Ogni frammento, in maniera indiretta e imprevedibile, ci fa fare un passettino in avanti nella testa della protagonista. Comincia senza chiamarsi in nessun modo e prosegue diventando Moglie, un personaggio che si racconta mentre cerca di venire a patti con una nuova vita che non avrebbe mai pensato di potersi conquistare. La testa della protagonista, infatti, non è mica un luogo ospitale. Anzi, è un posto spigoloso, pieno di vicoli ciechi, sabotatori invisibili e trappole pazze.
Con i pensieri di Moglie, la Offill racconta i primi passi di una famiglia, dalle difficoltà quotidiane – BED BUGS! BED BUGS DELLA MALORA! – ai traumi piccoli e grandi che potrebbero far crollare la felicità costruita pian piano. C’è una bambina che nasce, piange moltissimo per parecchio tempo e cresce, fino a diventare una personcina serissima che corre nei boschi e dice cose spiazzanti e portentose. C’è l’analisi precisa dell’amore, dei compromessi che siamo disposti ad accettare e della paura assoluta che tutto quello che conosciamo vada in pezzi. Più di ogni altra cosa, però, c’è il dubbio. Di non essere mai abbastanza bravi da meritarci di combinare davvero qualcosa. E, ancora peggio, di non riuscire mai ad essere sufficientemente facili da amare.
La Offill, insomma, ci mette di fronte a una gran quantità di sentimenti complicati, piccole gioie e diffuso scoramento, affrontando ogni frammento del puzzle con uno sguardo obliquo, quasi scientifico. È pieno di citazioni e di riferimenti imprevedibili, questo libro. Da un lato, somiglia a una cronaca in presa diretta. Dall’altro, è una collezione di ricordi, momenti, letture e metafore, dallo yoga all’esplorazione spaziale, dagli animali strani ai terrificanti tipi-umani che ci si trova di fronte quando si manda un marmocchio all’asilo.
E basta, mi è proprio piaciuto.

In bocca al lupo, NN editore! <3

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Allora. Entro Natale, in teoria, avrei dovuto produrre un mezzo libro. Ma non “mezzo” nel senso di porcheria buttata lì mentre ti fai i piedi dai cinesi. “Mezzo” nel senso di quantità. Che divertente la roba che ci hai fatto leggere, riesci a riordinare un po’ le idee e mandarcene metà prima delle vacanze? Prova a fare così e così e poi vediamo cosa succede. Ma certo, non c’è problema. Facciamo che consegno la traduzione che devo finire per ottobre e poi mi ci metto. Capirai, mezzo libro lo metto insieme, in un paio di mesi. E che ci vuole.
Che ci vuole?
Ci vuole una piscina di Redbull. Ci vuole un frullato mela-banana-anfetamine ogni ventidue minuti. Ci vuole una cameriera a tempo pieno. Un cuoco. Della servitù. Dei professionisti che si occupino del tuo trasloco. Della gente seria da mandare in ufficio al posto tuo. Una macchina del tempo. Degli scemi da spedire all’IKEA a comprarti le seggiole. Degli gnomi che stiano le mezz’ore al telefono per farti le volture del gas e della luce. Uno stagista che non dorme mai. L’autista. Un dottore che si candidi spontaneamente per diventare il tuo medico della mutua. Qualcuno che capisca dove devi mettere il TFR quando cambi azienda. Una squadra di paggi. Uno psicologo che ti aiuti ad adattarti ai ritmi e ai costumi del nuovo posto di lavoro. La spesa a domicilio. Un cucciolo di foca da tenere in borsa, per superare i momenti difficili.
Voi fate, che io scrivo mezzo libro.

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Il problema è che questa cosa buffa devo assolutamente finirla. Ma proprio per orgoglio personale. Perché potrebbe essere divertente – e assai confortante – anche per gli altri. E perché, quando riesco a mettermici, fa gioia anche a me. Che mi sembra anche un po’ la ragione più valida, se proprio devo annichilirvi con un rigurgito di sincerità.
Nel tentativo di razionalizzare le mie difficoltà – al fine di superarle con un agilissimo Fosbury e/o di imbastire scuse sempre più sostanziose e plausibili – ho deciso di costruire una solida mappona cognitiva degli intoppi contingenti, psicologici e psicosomatici che mi stanno impedendo di mettere insieme un mezzo libro in relativa velocità. Il domandone che ci guiderà è il seguente. Che cosa succede a una persona normale e mediamente disorganizzata quando prova a scrivere qualcosa? Come sempre, ci faremo aiutare da un manipolo di volenterose bestiole.

N. B. Per offrirvi una riproduzione quanto più autentica e accurata possibile, i nostri fidi animaletti appariranno a caso, manifestando le più diverse emozioni senza alcun rispetto per le più basilari norme di causa ed effetto. Perché nulla è coerente e lineare, quando ci si imbarca in un’impresa del genere.

***

Ti è venuta un’idea. E, per una volta, è un’idea plausibile. Tutto è meraviglioso. Non vedi l’ora di iniziare. Sarà fantastico. Sarà divertente.
lontra manina
Le muse sono dalla tua parte, lo senti. Le muse tifano per te. Pure quelle cieche, storpie e deformi. Soprattutto loro, probabilmente.
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Mezz’ora a smanettare e hai addirittura prodotto un indice. Vittoria imperitura! Vulcani che eruttano cuccioli! Parate e pasticcini! C’è l’indice… hai praticamente finito! Cioè, una volta che c’è la struttura sei a posto, devi solo metterti lì e scrivere i fatti tuoi in bell’ordine. Che sarà mai. L’indice esiste, la salvezza è tua!
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Che facciamo, la buttiamo giù l’introduzione? Insomma, lo sanno tutti che l’introduzione bisogna farla alla fine. Però è anche vero che senza introduzione non si capisce niente… c’è gente che dovrà leggere la bozza, come si fa senza introduzione. Ma servirà? Cioè, a livello narrativo? La diamine di introduzione ha un’effettiva utilità nell’economia del racconto che ci accingiamo a sviluppare? Farne una zoppa potrebbe essere peggio che non farla affatto. Non è che si può sempre dire “eh, ma poi la metto a posto, non vi preoccupate che arriva”… (per comodità, troncheremo qui le riflessioni sull’introduzione. Ma aggiungete un 4 giorni di ritardo al GANTT del vostro libro).
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Cos’è che suona. Cos’è. Che c’è ancora. Non sarà mica la lavatrice?
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Eh, è la lavatrice. Niente. Stendo e vado a letto, che è già mezzanotte e mezza. E domani è pure lunedì. L’indice, ho fatto. L’indice e basta.
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Ma ha senso che io ci perda del tempo? Voglio dire, non ci farò mai un soldo, scrivendo delle cose… né ora né mai. E ho fame. Vorrei una pizza con le olive. Per comprare le pizze ci vogliono delle risorse economiche, delle entrate stabili. Ma chi me lo fa fare? Mi attende un destino di povertà, frustrazioni e stenti. Se voglio piantare lì, questo è il momento giusto. Cioè, al massimo butto nel cesso un misero indice… capirai.
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…c’è anche da dire una cosa, però. Che mi frega. Sono ereditiera dentro. Dentro, sono una nobile rampolla che porta la 38. Suono l’arpa, ricamo, dipingo e scrivo. Procediamo, tanto ho una rendita annuale di 47 mila franchi!
Ah, la meraviglia dell’ispirazione ritrovata! Ah, l’entusiasmo di una storia che germoglia! Cielo, l’impetuoso potere di un animo saldo!
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Però fuori c’è il sole. C’è caldino. Fuori c’è il mercatino dell’antiquariato che sono sei mesi che ci voglio andare. E dovrei pure fare la spesa. Perché mi sono messa in testa di scrivere questa roba. Ma chi me lo fa fare. Ho ancora tutta la vita davanti.
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Ho tutta la vita davanti… ma che cosa ci farò? Ho trent’anni. Ormai non sono più una bambina prodigio. Sono un relitto. Non ho combinato niente. Non sto combinando niente. E non combinerò mai niente. Che scoramento. Ed è pure finito il Braulio.
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Che cretina! Sto scrivendo un libro, non sto mica fondando Google! È tutta un’altra faccenda! Anche a cinquant’anni compiuti, sarò comunque una GIOVANE SCRITTRICE! Ma è bellissimo! Sono praticamente una neonata! Dove sono i miei minipony! Portatemi un saccottino all’albicocca!
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Esultate, genti del mondo, ho finito un altro capitolo! Inchinatevi alla sfolgorante magnificenza della mia arte!
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Dai, questa qui è proprio una bella frase. Chissà come m’è uscita. Non ne ho memoria. Sono evidentemente posseduta da un irrefrenabile afflato d’ispirazione.
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Perché. Perché ogni volta che apro il file – specialmente se è passato qualche giorno dall’ultimo DECISIVO intervento – mi sento il dovere di rileggere sempre tutto da capo. Perché. Che qualcuno ci metta delle password.
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Non importa, non importa. Nulla mi scalfirà. Tutto questo è ridicolo, ma non fa niente. Ho perso un po’ di tempo… ma ho un piano corazzatissimo. Ed è il piano che conta. Lo vedo, è solido. Anzi, tridimensionale. Basta procedere un pezzettino alla volta, con pazienza.
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Mai. Non finirò mai. Solitudine e patimento.
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Puoi abbassare la TV, gentilmente? Qui c’è gente che CREA.
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Flavia, hai voglia di leggere il capitolo nuovo? Niente di che, non pigliarti male. Tanto per capire se ridi o se ti vengono le convulsioni. Senza rancori, davvero. No ma solo se vuoi, non voglio mica farti ansia, ci mancherebbe. Ti piglio il computer, ti metti lì sul divano e io finisco di preparare la pasta. Vado di là, ok? Così non ti disturbo…
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Cioè. La Flavia ride. Ma anche con una certa spontaneità. Che vorrà dire. Che devo pensare. Va bene, no? È una scoperta positiva… è un segno della benevolenza dei cieli. O magari ride perché è gentile. E sa che la sto spiando da dietro lo stipite della porta.
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Forse ci sono un po’ troppi neologismi. Non ne ho la certezza, ma il sospetto è assai fondato. Non sono mica Michele Mari… se vedono un altro “POFFOSO” mi mandano a stendere.
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Smettetela di invitarmi agli aperitivi. Dimenticatemi.
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Smettetela di invitarmi alle cene. In posti buonissimi. Che costano poco. E dove si mangia un botto. Smettetela e basta.
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Io ho sonno, capite? Ho bisogno di dormire, di riposarmi. Non invitatemi al Plastic. Questi weekend sono importanti. Mi serve TEMPO. Non posso sprecare le mie domeniche a boccheggiare sul divano, nel remoto tentativo di ripigliarmi da orrori, disavventure e panini pesantissimi ingurgitati alle sei del mattino.
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Scusami. Pensavo di avere qualcosa da mandarti, ma sono ancora troppo indietro. Non dimenticarmi, però. Io sono qui. Che m’impegno. Con scarsi risultati, ma m’impegno davvero. Non lasciarmi. Non abbandonarmi. Trattami come se fossi una persona seria. Con le traduzioni sono puntualissima… puoi chiederlo a chi ti pare. Giuro. Ce la farò, te lo prometto.
serpente
“Cara Francesca, ci servirebbe la traduzione di questo nuovo romanzo per ragazzi. È un libro molto divertente e per noi si tratterà di un lancio importante. Sei libera? Pensi di farcela in un mese e mezzo? Ti ringrazio moltissimo”.
hovercat
HANNO BISOGNO DEI MIEI SERVIGI. E VOGLIONO PURE PAGARMI (A 60 GIORNI DALLA CONSEGNA DEL LAVORO). NON TEMERE, VALOROSO EDITOR, STO ARRIVANDO!
koala happy
Le vacanze… mi pagherò le vacanze senza andare in rovina. E in vacanza, finalmente, avrò un sacco di tempo da dedicare al mio libro. Che bel piano. Andrà tutto fantasticamente bene.
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Molto bene… sono passati due mesi. Dove eravamo rimasti?
gatto bagnato
Non lo so. Non lo so più. È come se mi fossi appena svegliata da dieci anni di coma. Chissà come volevo andare avanti. Chissà quante idee MIRABILI si sono dissolte. Come lacrime nella pioggia. Come peli nello scarico.
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Ed eccoci qua. A ricominciare da capo per la ventesima volta.

 

Se mai ce la farò, sarete i primi a saperlo.