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Inés Cagnati

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Sarò sintetica. Nel 2022 ho letto un po’ di meno rispetto al 2021. Ne prendo atto con spavalda noncuranza al grido di E VORREI BEN VEDERE. Mi piace però arrivare in fondo riordinando un pochino i pensieri. Anzi, mettendo in fila i libri che, qua dalle mie parti, hanno saputo suscitare ammirazione, sorpresa, curiosità e moti assortitissimi dello spirito. Non sono necessariamente novità editoriali del 2022, ma sono libri che ho incrociato quest’anno. Visto che ne ho invariabilmente già scritto, per approfondimenti vi rimanderei ai post originari, che trovate linkati con allegria e grandi slanci funzionali in corrispondenza dei titoli.
Fine del preambolo, vostro onore. Ecco qua i miei preferiti del 2022. 🙂


Daniel Mendelsohn – Un’Odissea
Traduzione di Norman Gobetti
Einaudi


Matthew Baker – Perché l’America
Traduzione di Marco Rossari e Veronica Raimo
Sellerio


Robert Kolker – Hidden Valley Road
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli


Inés Cagnati – Génie la matta
Traduzione di Ena Marchi
Adelphi


Sarah Perry – Il serpente dell’Essex
Traduzione di Chiara Brovelli
Neri Pozza


Hernan Diaz – Trust
Traduzione di Ada Arduini
Feltrinelli


Brian Phillips – Le civette impossibili
Traduzione di Francesco Pacifico
Adelphi


Jackie Polzin – Quattro galline
Traduzione di Letizia Sacchini
Einaudi


Claire Keegan – Piccole cose da nulla
Traduzione di Monica Pareschi
Einaudi

 

“Con la mia testimonianza volevo rendere meno assurde certe vite fatte solo di miseria”: uscito nel 1976, Génie la matta di Inés Cagnati – in libreria per Adelphi nella traduzione di Ena Marchi – è uno di quei “ripescaggi editoriali”, se così vogliamo chiamarli, che riportano al presente romanzi o autor* che ci hanno sfiorato un po’ alla lontana o che, nel nostro contesto, son pervenuti poco o niente.
Inés Cagnati arriva da una famiglia di contadini veneti emigrati in Francia e da molto di quello che ha vissuto e conosciuto in prima persona (anche dal punto di vista del lavoro agricolo) spunta come un’erbaccia tenace questa storia asciutta e tremenda che gravita sul rapporto simbiotico – per quanto sbilanciatissimo, almeno all’apparenza – tra una madre e una figlia, entrambe emarginate da una comunità rurale che mal le tollera ma non esita a sfruttarle. 

Génie campa come camperebbe una bestia da soma. Sua figlia le trotta attorno dimostrandole una devozione assoluta e disperata, crescendo di fatto da sola in una specie di cono d’ombra fatto di attesa e dubbio (la mamma tornerà? Per quanto ancora dovrò aspettarla e starle alle calcagna nel timore che mi lasci indietro? Ma mi vorrà un po’ bene, anche se non me lo dimostra?). Marie si spiega il mondo (e ce lo racconta) con i pochi strumenti che ha, imparando gradualmente a immaginare un altrove più clemente che non sarà mai davvero alla sua portata.
Génie e Marie vivono in una casupola lontana da tutto, mangiando quello che Génie riceve in cambio delle sue titaniche fatiche nelle fattorie vicine. La famiglia d’origine di Génie è assai benestante e rinomata nel circondario, ma la piccola Maria è nata da una violenza di cui OVVIAMENTE viene ritenuta responsabile solo la madre e, per questo “peccato”, entrambe dovranno continuare a portare il peso della vergogna e del disonore, forse per sempre.

A parte la ricostruzione minuziosa della vita materiale – Albero degli zoccoli, se tu? -, uno dei temi più rilevanti è quello della follia come stigma sociale.
Génie non è “matta”, ma fa comodo a tutti dipingerla così. Si chiude nel silenzio, rifiuta di partecipare in maniera canonica alla vita di una comunità che l’ha scacciata per una colpa non sua e, deviando dalla norma, sia dal punto di vista relazionale che economico, si guadagna l’etichetta di pazza e perde il diritto di essere trattata come una persona. Il matto, come osserva anche Cagnati nell’intervista che trovate in appendice al volume, serve sia a confermare la nostra normalità e la nostra piena adesione al sistema sociale a cui apparteniamo che a fornirci un comodo appiglio per disumanizzare chi si ribella. Non solo creiamo un bersaglio posticcio, ma anche i presupposti su cui far leva per sentirci in diritto di fare del nostro peggio alle spese del soggetto deviante di turno.
Finché Génie darà mostra di accettare il ruolo di matta che le è stato assegnato – in un posto del genere l’isolamento somiglia a una forma di libertà -, tutti le permetteranno di continuare a esistere, per quanto in maniera miserabile, all’interno di un meccanismo iniquo di sfruttamento. Appena rialzerà la testa per cercare di condurre una vita canonicamente ritenuta “normale”, però, gliela faranno pagare amaramente.

Génie la matta è una delle cose più tristi, ingiuste e scoraggianti che io abbia mai letto? Penso proprio di sì.
È un libro che avanza di stagione in stagione come una filastrocca mesta – e delle filastrocche rispecchia la futilità, credo, soprattutto se vogliamo vederci un parallelo con quello che Génie deve fare per sopravvivere, un giorno dopo l’altro, come un mulo che non può concedersi di pensare – e precipita in un finale repentino che mai e poi mai, finché starò al mondo, riuscirò a metabolizzare.
SANTO IL CIELO, SIGNORA MIA.