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Nella Città Chimica Numero 4 dello Stato Mondiale, Leo Kall conduce un’esistenza irreprensibile. Si affaccenda nel suo laboratorio, portando avanti ricerche a beneficio del progresso collettivo e torna a casa dalla sua famiglia nell’alloggio che è stato loro assegnato. Casa sua non ha nulla di speciale e, come si conviene, è identica a quella degli altri compagni dello Stato. Copre i suoi turni serali di servizio militare, partecipa con il fervore richiesto alle attività di aggregazione sociale, scandaglia i comportamenti degli altri in cerca di segnali di sedizione – come ogni buon cittadino è tenuto a fare. Collaborativo, solerte e ligio, Kall non ha nessun tratto degno di nota: spiccare non è richiesto e non è di certo incoraggiato. Sono, come sempre, tempi grami. Altre potenze sembrano sempre pronte a minacciare l’armonioso e tentacolare ordine costituito e tutti devono fare la loro parte affinché lo Stato perduri, immutato nella sua perfetta omogeneità ideologica, puro e incorrotto. Quel che c’è “fuori” è talmente empio e pericoloso che l’orrore al di là dei confini sembra aver reso temibile anche l’aria stessa dello Stato Mondiale: all’aperto non si può stare e le città si snodano sotterranee, come un formicaio efficiente ed ermeticamente chiuso. Kall non ha lì per lì niente di eccezionale, è vero, ma gli toccherà a un certo punto l’estrema scalogna (o l’inaspettata fortuna) di inventare qualcosa di difficile da maneggiare: il siero della verità.

Come funziona? Basta una puntura di Kallocaina per spingere chiunque a spiattellare ogni segreto con il massimo candore: quel che si pensa ma non si dice può diventare all’improvviso informazione di pubblico dominio, come già capita per ogni altro aspetto della vita collettiva e privata – per quanto possa definirsi tale – dei cittadini-lavoratori. Chi finge fedeltà ma nasconde un cuore sovversivo? Chi si abbandona – nei pochi coni d’ombra disponibili – a comportamenti antisociali? Chi trama? Chi non denuncerebbe alla polizia un tradimento? Chi osa pensare con la propria testa? Chi dubita dello Stato? Con il siero di Kall è ora possibile scoprirlo… e una sostanza così potente non può di certo passare inosservata. Cosa ne farà il regime? Quale futuro può prospettarsi, se nemmeno le intenzioni e le ipotesi possono più dirsi al riparo dal controllo totale?

Kall comincia il suo racconto da prigioniero e, per capire come sia finito lì, dobbiamo immergerci in un resoconto che ci restituirà le tappe della funesta invenzione del siero e del suo potere destabilizzante. Che un preparato simile – reso disponibile a un regime totalitario – possa tramutarsi in un ulteriore giogo è piuttosto intuibile, ma cosa può scatenare sul “singolo”? Kall si professa fedele pedina, volenterosa componente del grande ingranaggio. Vive sapendo di non dover essere rilevante perché solo l’obbedienza è un valore. E vive, soprattutto, reprimendo ogni manifestazione di scontento e rifiutando in maniera strutturale la possibilità di una realtà alternativa: qua va tutto a meraviglia, non ci manca proprio niente, lo Stato bada a noi e ci mette a disposizione tutto il necessario, di che mai dovremmo lagnarci? Là fuori è peggio, là fuori non sopravviveremmo. Questo assunto, che solleva i cittadini-lavoratori dall’onere di obiettare, di pensare, di mettere in discussione un ordine repressivo ma benintenzionatissimo nel suo provvidenziale paternalismo – ci siamo dentro tutti, siamo tutti uguali e collaboriamo per ripararci dal caos esterno, vale la pena aderire alle regole, se ognuno fa il suo ci salveremo – è la maschera definitiva del potere. Dona un’illusione di protezione e di partecipazione, dovrebbe compensare l’assenza di ambizione – valore nefastissimo – e soffocare moti di emersione individuale, dovrebbe rafforzare la sacra uguaglianza ed eliminare l’idea stessa di personalità. Non pensare, lo Stato Universale pensa per te. Obbedisci, che ti conviene. Kall scopre gradualmente di non riuscirci più. Quanto si sente “automaticamente” in dovere di consegnare allo Stato la sua scoperta è già contaminato dal germe pericoloso dell’agire autonomo e cerca di nascondersi dietro a un’intransigenza ancora più ferrea, sapendo di essere l’ultima persona su cui si augurerebbe di collaudare la sua stessa invenzione. Azione e intenzione si avvicinano pericolosamente e la Kallocaina spazza via anche l’ultimo rifugio d’indipendenza: la sfera dell’identità, dell’anima, del sentimento. Perché una coscienza collettiva compatta può funzionare solo se nessuno ha segreti e aderisce completamente ai medesimi dogmi. Il nemico può essere ovunque, ma il primo posto dove cercarlo è dentro di noi. Kall lo scoprirà a sue spese e si ritroverà sguarnito, non più protetto dal conformismo così necessario al buon funzionamento della macchina.

Kallocaina è stato originariamente pubblicato nel 1940 da Karin Boye, scrittrice e poetessa svedese a suo modo disallineatissima. Uscito qualche anno prima rispetto alle più “diffuse” distopie di Huxley e Orwell, Kallocaina – qui riproposto da Iperborea nella traduzione di Barbara Alinei dopo una lunga assenza dal catalogo – continua a spiccare per minuzia di dettagli e architettura del sistema, oltre che per abilissima gestione del confine tra “dentro” e “fuori”. Lo ritroviamo nella contrapposizione tra mondo chiuso del regime – anche negli spazi stessi di vita e di lavoro, oltre che nell’assenza di cultura, svaghi e di una storia studiabile non manipolata – e mondo “naturale”, selvaggio e pericoloso che preme ai confini, ma anche nella pretesa di riuscire a controllare anche i recessi più invisibili e profondi di quello che ci rende umani. Il cittadino-lavoratore dello Stato Mondiale non dovrebbe avere pelle o corazze, dovrebbe offrirsi al sistema come un calzino a rovescio, totalmente leggibile e privo di superfici in grado di schermarlo. Quel che la propaganda, le illusioni di protezione e la paura dell’umiliazione e della repressione violenta non hanno saputo ottenere si dovrebbe poter finalmente conquistare con un grimaldello nuovo. Ma fin dove si può tollerare? Chi può ragionevolmente dirsi privo di ombre? Perché pretendiamo dagli altri quello che mai ci augureremmo di dover offrire? Potrà mai esserci perdono o pace per Leo Kall?

[Il libro si può trovare chez Iperborea o ascoltare su Storytel, come ho fatto io anche in questo frangente. La consueta prova gratuita di 30 giorni abita qui.]

Dunque, Keanu Reeves aveva già gettato le fondamenta di questo mondo qua con una serie a fumettiBRZKR. Vorrei potervene parlare ma non l’ho letta e quello che sono in grado di dire è che Unute – il berserker del titolo – è disegnato per evocare una certa somiglianza con Keanu Reeves, anche se non abbiamo la corrispondenza perfetta che si è manifestata con Cyberpunk. Se ci mettiamo dentro pure John Wick – celebre per la sua allergia alla morte e il suo vasto talento per lo sterminio di nemici, amici e semplici passanti – mi viene da pensare che Keanu Reeves gestisca la sua produzione creativa all’interno di un vasto trope a metà tra il funereo e il metafisico. Ne siamo felici? Personalmente sì. Per The Book of Elsewhere si è fatto prestare tutte e due le mani da China Miéville, che del fantastico “letterario” è un nobile esponente e che in libreria mancava ormai da un decennio. Il risultato finale di questo incontro di mortifere ambizioni meditabonde somiglia più a Evangelion che a Kentarō Miura e, pur avendo un respiro piuttosto cinematografico e una base zarra indiscutibile, resta un esperimento cervellotico e misterioso, direi degno della curiosità che ha inevitabilmente suscitato.

Una dadolata di elementi di contesto: c’è questo tizio che non può morire e che è al mondo da circa 80.000 anni. Nato in circostanze quantomeno leggendarie – sei figlio del fulmine! -, vaga ramingo e invulnerabile per il pianeta cercando risposte e seminando occasionalmente distruzione. Legami? Pochi, se escludiamo un maiale particolarmente aggressivo – anzi, un babirussa. Unute accetta di farsi “studiare” e di collaborare con un’unità militare segretissima nella speranza che qualcuno trovi il modo di garantirgli la mortalità. Unute non vuole morire, vuole avere la POSSIBILITÀ di morire. Può sembrare una strana ambizione, ma io non sono una specie di semidio che campa dai tempi del Neolitico, quindi cosa ne posso sapere. E cosa ne sanno Reeves e Miéville? Il giusto, direi.

I libri con personaggi che gestiscono l’eternità o l’immortalità sono quasi sempre ridicoli o, ben che vada, poco appaganti. Ogni volta che il personaggione eterno apre bocca ci aspetteremmo chissà quale rivelazione, ma finiscono spesso per donarci delle cretinate conclamate. O li si ammutolisce – TROPPO INSONDABILE È IL MISTERO CHE MI AMMANTA, ECCOVI UN SILENZIO CHE DOVREBBE FARMI PASSARE PER SAGGIO MA È SOLO UN MALDESTRO ESPEDIENTE! – o li si rende oracolari fino all’ingestibilità – insomma, non si capisce niente – o la si butta dichiaratamente in caciara, trasformando tutti quanti in macchiette e buonanotte. Con Unute, qua, c’è una dignitosa via di mezzo. Aiuta il contesto, che funziona su molti registri diversi, e aiutano i flashback che esplorano diverse epoche e fasi della lungherrima vita di Unute – e aiuta quello che lui sostiene di sapere sul funzionamento della memoria. C’è una trama con indagini, cospirazioni, doppiogiochismi e spazi decenti dedicati alla relazione “umana”. Unute crea frizioni, paura e discordie, perché non controlla quello che fa durante la “trance” e non ricorda cos’ha fatto.
È un mostro?
È una divinità?
È uno scherzo del cosmo?
È unico nel suo genere?
È l’araldo dell’apocalisse o una “semplice” forza della natura?
Va distrutto o va aiutato?
Là fuori potrebbe esserci di peggio?
Chissà! Ma mi farebbe piacere se Reeves e Miéville continuassero a domandarselo – supercazzolandoci magari un po’ meno sul finale.

[Una nota pratica: com’è in inglese? Non proprio una passeggiata di salute – Miéville non può non oracoleggiare e il nucleo complessivo è leggenda o speculazione filosofica. Se non volete affannarvi eccessivamente, forse conviene attendere la traduzione.]

Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

Una nave si accosta a un mondo nuovo. Non ne conosciamo nei dettagli la missione e apprendiamo solo a grandi linee le mansioni dell’equipaggio, formato da umani che ricordano la Terra e da umanoidi che sulla Terra non sono nati, anche se sono programmati per somigliare alle persone “vere” e per collaborare con loro. Misteriosi oggetti dalla bizzarra vitalità minerale soggiornano muti in stanze apposite, luoghi sospesi che un po’ somigliano a sacrari privati e un po’ a un limbo onirico-sensoriale dove sia gli umani che gli umanoidi si recano con assiduità per trovare conforto o per lasciarsi attraversare da una forma di trascendenza.

I dipendenti di Olga Ravn – in libreria per Il Saggiatore con la traduzione di Eva Kampmann – è costruito per accumulazione di testimonianze rese dall’equipaggio a una “commissione” inviata dall’organizzazione-madre che, nominalmente, ha l’incarico di studiare gli effetti di questi oggetti enigmatici sugli occupanti della nave. Le testimonianze sono un diario di bordo collettivo, una cronaca a più voci del graduale collasso di un sistema che illude i suoi partecipanti di avere un compito da svolgere, mentre l’unica “cosa” che si produce davvero è il loro perdurare in quel microcosmo chiuso. Ed è proprio l’illusione di contribuire a una causa superiore – in un contesto dove gli unici compiti che davvero ci vengono resi noti sono quelli destinati a far “funzionare” la forza lavoro, umana o umanoide – che diventa il nucleo inesorabile di un esperimento in cui le cavie soccombono, si arrendono o si ribellano per eccesso di consapevolezza, deviando dal programma o sprofondando nei ricordi di una casa ormai irraggiungibile.

È un libro opaco e snervante da leggere, ma di certo animato da una sottigliezza affascinante. Dona poche soddisfazioni perché è rarefatto e fumoso, ma pone domande intriganti, specialmente quando si indaga la relazione tra vita “biologica” e vita simulata da una programmazione che sfugge ai parametri originari per produrre qualcosa che, in un contesto completamente sgombro dall’umano, diventa un territorio inedito d’azione. Cosa ci rende umani? È l’accumulo dell’esperienza, delle relazioni e dell’emotività o la presa di coscienza di esistere e di “sentire”, scrivendo un codice nuovo, facendo qualcosa che non dovrebbe essere possibile?
Quel che accomuna tutti – umani e umanoidi – sembra essere la ricerca di un appiglio, di qualcosa che vada oltre il mero esserci per assolvere a una funzione e il rifiuto di essere costretti a un’unica dimensione che fa coincidere il ruolo “produttivo” con l’identità. Accorgersene, su una nave che si nutre dei suoi figli per continuare a esistere immutata, è forse la scintilla d’anima che tanto cerchiamo – e che ci porterà a camminare sulla superficie di un mondo sconosciuto.

[Sì, come copertina del post ho scelto un evocativo fotogramma del camino di Netflix, pietra miliare delle feste nella nostra abitazione.]

Poche tradizioni si confermano salde – almeno da queste parti – come il listone dei libri da donare e/o farvi donare a Natale.
Il consiglio metodologico è sempre lo stesso: basiamoci un po’ meno sul mero dato demografico – AKA “cosa regalo a mia figlia che ha 24 anni?” – e cerchiamo di riflettere meglio su interessi spiccati, passioni manifeste e ambizioni esplorative dei destinatari e delle destinatarie. Un dono funziona se asseconda il cuore di chi lo riceve, credo, e la vivace produzione editoriale limitrofa al Natale – la vasta schiera delle famigerate “strenne” – è qua per assisterci con gran lena.

In vista delle feste faccio del mio meglio per assemblare lenzuolate di consigli in grado di inserirsi in maniera chiara in un determinato tema o filone, privilegiando magari le edizioni un po’ più “importanti” del consueto. Troverete dunque libri di grande formato, argomenti disparatissimi e anche parecchi illustrati. L’auspicio generale è di far felice chi aprirà il pacchetto (anche se fate schifo a fare i pacchetti, tipo me) e anche di farvi fare bella figura.

Visto che i libri non scadono, per completezza vi incoraggio anche a consultare le edizioni precedenti delle guide natalizie. Trovate qua quella del 2020 e qua quella del 2019.

Procediamo? Procediamo, che nel mondo c’è scarsità di carta.

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Mateusz Urbanowicz
Botteghe di Tokyo
(L’ippocampo)

Arrivato in Giappone nel 2016 per lavorare come illustratore di sfondi per uno studio d’animazione di Tokyo, Urbanowicz ha esplorato in lungo e in largo la città armato di macchina fotografica, catturando tanti di quelli che sulle guide turistiche che piacciono alla gente che piace tendono ad essere classificati come “posticini caratteristici”. Ha iniziato a disegnare, con poetica meticolosità, le facciate delle botteghe che più l’avevano colpito, alimentando gradualmente una collezione che nel tempo si è espansa fino a riempire questo meraviglioso volume. Diviso per quartieri, Botteghe di Tokyo è sia un esercizio visivo di rara bellezza che una guida alle numerose attività commerciali, spesso minuscole, che sembrano rievocare un’altra epoca e riportarci a una dimensione di familiare accoglienza e antiche stratificazioni.

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Irene Cuzzaniti
La casa verde. Piante e composizioni per ogni stanza
24 Ore Cultura

Sono innegabilmente diventata una gattara delle piante. Balcone, salotto, camera da letto… non c’è ambiente che venga risparmiato dalla mia furia verdeggiante. In questo adorabile manuale illustrato – che va benone anche per chi è alle prime armi -, Irene Cuzzaniti ci fornisce le informazioni base per cominciare a fare amicizia con le piante e per scegliere quelle più adatte ai nostri spazi. Il volume è diviso per ambienti domestici e propone anche numerosi tutorial ben fotografati e spiegati per destreggiarvi tra diversi progetti ornamental-orticoli, dai centrotavola al terrario aperto per i cactus.

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Tracy Turner & Andrew Donkin
La storia del mondo in 25 città
(Nord Sud)

Dall’antica Menfi alla San Pietroburgo degli zar (in odore di sanguinosa deposizione), diecimila anni di storia globale condensati in 25 mappe “parlanti”, per esplorare le città diventate simbolo di una precisa epoca o di un balzo “evolutivo” potenzialmente rivoluzionario per il genere umano. Un volume visivamente splendido – curato dal British Museum – che soddisfa curiosità topografiche e sintetizza con puntualità gli aspetti più salienti di civiltà, popoli e snodi geopolitici irripetibili.

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Art Spiegelman
Maus
Cofanetto in 2 volumi

(Einaudi)

Stile Libero ospita già da lunghissimo tempo Maus nel suo ricco catalogo e, negli anni, sono usciti anche diversi materiali “extra”, che completano l’universo di Art Spiegelman aggiungendo tasselli sempre preziosi alla sua opera più emblematica. È uno di quei libri per cui vale la pena sprecare l’abusata definizione di “necessario” e, se l’idea è quella di tramandarci un’opera fondamentale e di passare il testimone della memoria a chi ancora non ha avuto occasione di leggerlo, una nuova edizione è rubricabile tra le buone notizie. Dall’immagine si intuisce poco, ma questo Maus è in due volumi – che rispettano la suddivisione originaria di Spiegelman – raccolti in un cofanetto che contiene anche un sedicesimo con disegni preparatori, un albero genealogico dell’autore (pre e post Seconda Guerra Mondiale) e due storie brevi, uscite in altri lidi ma propedeutiche a Maus.

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Daniela Collu
Perché no? Il libro delle domande… che con le risposte sono tutti bravi
(Mondadori)

Da millenni ci rimettiamo alla presunta sapienza di oracoli di ogni genere, uscendone irrimediabilmente più confuse e confusi di prima. Perché non cominciare, dunque, a porci domande migliori invece di cercare risposte fin troppo semplici? Daniela Collu quest’anno aveva voglia di divertirsi e, prendendo ispirazione dalle surreali sessioni di Q&A che popolano le sue Instagram Stories, ha deciso di ristrutturare il tradizionale Libro delle risposte – feticcio editoriale che popola da quando ne ho memoria l’area limitrofa alla cassa del 100% delle librerie di catena che m’è capitato di frequentare nella vita – ribaltandone l’assunto di base: io non ti rispondo, anzi… son qua per proporti altri abissali quesiti. Per farsi una risata e/o per disinnescare i dubbi – spesso cretinissimi – che ci attanagliano inutilmente.

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Wally Koval
Wes Anderson, quasi per caso
(il Saggiatore)

Pochi account Instagram riescono a pacificarmi come @accidentallywesanderson. Il fenomeno è ben presto spiegabile, perché le premesse che animano questo ormai articolatissimo progetto fotografico sono le stesse che generano quel pesante effetto ipnotico che ci coglie di fronte alle pellicole di Wes Anderson. Non è più un regista “e basta”, Wes Anderson si è tramutato in una specie di vasta e puntigliosissima esperienza estetica fatta di simmetrie, piani sequenza, prospettiva centrale, un certo gusto rétro e una precisa palette di colorini. Vedendo le sue ultime imprese cinematografiche mi viene da pensare che l’ambizione estetica stia superando quella narrativa e che Wes Anderson sia ormai diventato una macchina perfetta che replica all’infinito i suoi stessi stilemi, ma la riconoscibilità di quel che produce è immediata e affascinante – per quanto io rimpianga la famiglia Tenenbaum. Questo volumone è una collezione di scorci del mondo reale che sembrano usciti da un film di Wes Anderson – ogni “quadro” è accompagnato da precise coordinate geografiche e va a comporre una variegato e pazzissimo atlante che pare l’emanazione diretta, per quanto accidentale, di scenografie, location e scorci andersoniani.

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Ursula K. Le Guin
La mano sinistra del buio
(Mondadori)

Ursula K. Le Guin non ha avuto in Italia una storia editoriale che grida accessibilità e facile reperibilità. Io l’ho scoperta relativamente tardi, ordinando cose qua e là in lingua originale o ascoltando in inglese su Storytel – le lacune sono ancora molte, per quanto mi riguarda, ma sono felice di registrare un’accresciuta attenzione sia per l’autrice che per il fantastico/fantascientifico. The Left Hand of Darkness è uno dei suoi romanzi più celebri e ricompare ora nella nuova traduzione di Chiara Reali per la brigata di Oscar Vault: un’ottima occasione per far capolino in un universo sterminato e per sostenere una riscoperta che spero possa dimostrarsi ampia e battagliera.

[Visto che siamo in tema “libri che tornano disponibili dopo un passato un po’ singhiozzante”, Fazi ha inglobato Jonathan Strange & il signor Norrell di Susanna Clarke, ripubblicandolo in una bella edizione. Clarke è già approdata da loro con Piranesi.]

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Caterina Zanzi (& company)
Conosco un posto. Milano
(Magazzini Salani)

Madame Zanzi è per me un molteplice punto di riferimento. Sono una fervente frequentatrice del blog – che in questi anni si è sempre dimostrato una risorsa preziosa per orientarmi a Milano – e considero anche Caterina una specie di collega fidata. Insomma, è una di quelle persone che se fa bene una cosa, come nel caso di questa guida, mi infonde fierezza e mi suscita della sincera partecipazione. Il libro è un lavorone sia di Caterina che della redazione di Conoscounposto, una sintesi ragionata e ben organizzata dal punto di vista della consultazione – sia per zona che per “occasione” – degli indirizzi migliori dove mangiare, bere, svagarsi, fare compere e “vivere” a Milano. Abito ormai da un pezzo in questa città ma non ho ancora finito di esplorarla e tanti degli spunti più azzeccati – che hanno poi prodotto ricordi belli e momenti di gioia in compagnia – li devo a Caterina e ai suoi sodali. Insomma, che siate autoctone/autoctoni o neo-Milanesi, è un tomo utile che non mi farei scappare.

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COSE – Spiegate bene. A proposito di libri
(Il Post feat. Iperborea)

Da operatrice editoriale ormai quasi veterana, mi trovo spesso (soprattutto su Instagram) alle prese con un vasto e anche legittimo domandone: “il mio sogno è lavorare nel mondo dell’editoria. Da dove comincio? Come si fa?”. Non è un interrogativo banale, anzi. Il mondo dell’editoria viene spesso percepito come una sorta di bolla mitologica popolata da titani della cultura, nobilissimi propositi e stanze ricolme di imperdibili manoscritti. La realtà dei fatti è di certo meno poetica, ma non per questo manca di fascino. Il Post – facendosi di volta in volta aiutare da “collaboratori” d’eccezione – ha lanciato qualche mese fa una rivista a forma di libro, ospitata da Iperborea. Il primo numero – A proposito di libri – mi sta aiutando a rispondere alla domanda di partenza: fornisce un’infarinatura sintetica su come mediamente funzionano le case editrici e offre una panoramica generale su ruoli aziendali e struttura del settore, a metà tra racconto curioso e spiegone introduttivo.
Se il progetto vi interessa, è uscito anche il secondo numero: Questioni di un certo genere.

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Antoine Pecqueur
Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga: il nuovo soft power
(ADD Editore)

Che diamine è il “soft power”? Il concetto è stato coniato nel 1990 da Nye – politologo americano – per definire l’uso dell’arte e dei valori culturali come leva di potere a livello geopolitico. L’Atlante della cultura di Antoine Pecqueur, in trenta capitoli o casi di studio tematici, esplora i meccanismi relazionali, politici, comunicativi ed economici che compongono il grande ingranaggio dei nuovi rapporti di forza mondiali, evidenziando come la cultura – nelle sue molteplici espressioni – si sia affermata come uno dei pezzi più importanti della scacchiera, nonostante spesso rifugga le metriche numeriche “oggettive”.
Per approfondire ulteriormente, qua il post dedicato.

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Pokémon – L’enciclopedia
(Mondadori)

Qua siamo in realtà in possesso di un vasto catalogo editoriale a tema Pokémon, un po’ perché in questa casa abita un ex-bambino che ha vissuto l’epoca d’oro dei Pokémon e un po’ perché il bambino vero che abbiamo messo al mondo si sta godendo con grande trasporto il revival – già, sono usciti parecchi cartoni nuovi e l’universo dei Pokémon pare destinato a un’espansione infinita. Insomma, non di soli Pikachu, Charizard e Bulbasaur campano i giovani virgulti del presente e questa enciclopedia è un garrulo strumento per aggiornare le vostre antiche conoscenze o passare il testimone alle generazioni future.

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Brooke Vitale & Teo Skaffa
I Goonies. La storia illustrata
(Nord Sud)

Mi sono infilata nel tunnel del vintage coi Pokémon, tanto vale proseguire con un’altra pietra miliare della mia infanzia: i Goonies! Anche in questo caso l’applicazione è doppia: un ottimo dono per i fan di vecchia data che non si imbattono in un’emanazione “nuova” dei Goonies da un bel pezzo, ma anche piccoli lettori da coinvolgere in un’avventura senza tempo. Ma com’è fatto? È presto detto: è la trasposizione a fumetti del film. A Cesare – anni 5 – lo stiamo leggendo noi senza riscontrare difficoltà di comprensione. Se avete bambini o bambine che leggono per conto loro è assolutamente proponibile in autonomia.

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Beatrice Mautino
È naturale bellezza
(Mondadori)

Beatrice Mautino è una delle divulgatrici che seguo con più attenzione e gratitudine per l’opera meritoria di informazione e pacato ma inflessibile “debunking” che ogni giorno viene portata avanti sul suo account Instagram – là la trovate come @divagatrice. Tanto si parla di sostenibilità, greenwashing, plastica diabolica, creme miracolose, materie prime da ostracizzare e virtù non sindacabili del “bio”, ma quanto di quello che compriamo o che ci viene venduto come indiscutibilmente buono per la nostra faccia e per il pianeta fa davvero quel che dichiara di fare? Quanto di quello che a suon di slogan pubblicitari abbiamo imparato a considerare benefico e quasi in odore di santità produttiva può dirsi davvero tale? Anche in questo saggio e con la consueta chiarezza argomentativa, Mautino ci offre qualche strumento interpretativo in più – powered by SCIENZA, baby – per accrescere la nostra consapevolezza di consumatori/consumatrici e destreggiarci con un pizzico di razionalità in più anche nel comparto della cosmesi.

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Angela Nicente
Atlante femminista – Alla scoperta del patriarcato
(Edizioni Clichy)

Grafica e illustratrice, Angela Nicente ha presentato una versione di questo atlante come progetto per la tesi di laurea. Ora è diventato un libro che, tappa dopo tappa – anzi, isola dopo isola – condensa i “temi caldi” del dibattito attuale su femminismo, patriarcato e questioni intersezionali limitrofe. Uno strumento sintetico e visivamente molto ben strutturato che può trasformarsi in un’efficace lettura introduttiva ai molti tasselli di tutto quello che ci fa quotidianamente arrabbiare e che varrebbe la pena demolire insieme. Per ogni isola troverete un riassunto di “cosa si dice”, chi la abita, una mappa territoriale – che in realtà è una mappa concettuale – e un testo con le doverose spiegazioni, fenomeno per fenomeno.

Intanto che siamo in quest’area tematica, vi rammento anche dell’esistenza dell’Atlante delle donne di Joni Seager, uscito per ADD Editore. Lavoro, salute, maternità, alfabetizzazione, contraccezione, diritti… una panoramica multidisciplinare che ambisce a fotografare la condizione femminile nel mondo, avvalendosi di dati assai aggiornati e di un assortimento di infografiche, cartine e grafici.

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Vivienne Westwood. Sfilate
(L’ippocampo)

Qua scelgo Vivienne Westwood come portabandiera, perché quella delle sfilate è una collana ormai molto ricca di volumi monografici curatissimi e dedicati, di volta in volta, a una diversa casa di moda. Scelgo Vivienne Westwood anche perché mi è particolarmente cara e sono una cliente fedele – non assidua come vorrei o come mi potrebbe disegnare Ai Yazawa, ma non lamentiamoci. Il librone – rivestito di godurioso tartan – è frutto di un improbo lavoro d’archivio e recupero: contiene i look di tutte le sfilate del marchio, dal 1981 a oggi, insieme a un succulento backstage, sia “storico” che filosofico…. perché il Vivienne-pensiero è quasi più avvincente di quel che vediamo transitare in passerella.

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Quaderno d’inverno. Giochi ed esercizi per adulti
(Blackie Edizioni)

Editori “giovani” con tradizioni ormai solide alle spalle? Eccoci! Blackie ha già sfornato con successo e spasso due eserciziari di compiti per le vacanze estive – sempre rivolti ai grandi – e questo Quaderno è il primo che promette di sostenerci anche nei mesi invernali. Lo spirito è sempre il medesimo: quiz, passatempi, rompicapi, cruciverba e zuzzurellonate varie che attingono alla cultura pop e puntano a intrattenerci con ironia.

Sempre di Blackie – visto che di zuzzurellonate stiamo parlando – segnalo volentieri anche L’arte di essere Bill Murray di Gavin Edwards. Trattasi tecnicamente di una biografia del pacioso attore ma, dato il personaggio, è più che altro un manifesto spirituale. Dagli esordi come spalla ben poco considerata del Saturday Night Live alle leggendarie incursioni alle feste di compleanno di privati cittadini ignari, Bill Murray proietta immancabilmente l’immagine di uno che si diverte moltissimo e che ha imparato a fregarsene al punto giusto. Come fa? Edwards cerca di spiegarcelo, catalogando le sue gesta e provando a restituirci un’immagine più “realistica”, ma non meno assurda e imprevedibile, del Murray che ci pare di conoscere.

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Zerocalcare
Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia
(Bao Publishing)

Qua io la metterei giù così: c’è in libreria una cosa nuova di Zerocalcare? Perfetto, la si compra a scatola chiusa. Che altro vi serve sapere? Niente. Esatto.
Mi rendo però conto che molti “nuovi” fan, complice Strappare lungo i bordi, possano sentirsi un po’ persi nella produzione ormai molto consistente dell’ottimo Zerocalcare e che amerebbero ricevere qualche indicazione per cominciare a volergli bene non solo su Netflix ma anche leggendo. Ebbene, Bao ha già fatto i compiti per me: qua trovate una comoda guida che, tra cavalli di battaglia e lista ragionata delle gesta, mappa efficacemente il lavoro del trafelato Michele. Se volete sapere la mia, per chi parte da una base non ancora nutritissima voterei per un approccio cronologico, visto che tanto di quello che racconta Zerocalcare procede per accumulazioni autobiografiche.

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Italia in 52 weekend. Itinerari inconsueti tra natura, arte e tradizioni
(Lonely Planet – EDT)

Ah, signora mia! Andiamo tanto lontano ma poi non apprezziamo le meraviglie della nostra splendida terra! Sembra una di quelle frasi da vecchi tromboni e trombone a cui reagire alzando con veemenza gli occhi al cielo, ma non posso negare che nasconda un fondo di verità – maledizione, quanto detesto dover dare ragione alla categoria dei tromboni. Comunque, regalare una guida di viaggio mi sembra sempre un gesto di sommo buon auspicio: vai, ti divertirai, scoprirai delle cose nuove, trascorrerai momenti spensierati. Di questi tempi – coi viaggi a lungo raggio tornati nemmeno troppo all’improvviso più impervi – una raccolta di itinerari “italiani” potrebbe rappresentare una validissima soluzione. Lonely Planet ne raccoglie qua 52 – uno a settimana per un anno intero, in pratica – occupandoci egregiamente i weekend ed esortandoci a vagare per borghi, città e luoghi relativamente vicini ma forse ancora poco battuti.

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Leonardo Bianchi
Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto
(Minimum Fax)

Ho condiviso con Leonardo Bianchi un divano al Salone del Libro. Io ho espresso la mia simpatia per quell’innocuo complotto che teorizza l’immortalità di Keanu Reeves e lui, che ai complotti ha deciso di dedicare un saggio intero, mi ha raccontato come si “costruiscono” le fandonie di maggior successo e cosa può trasformarle in ostacoli veri per la convivenza civile, oltre a un potente veleno che deforma il dibattito pubblico. Dal Pizza-gate agli Illuminati, un testo per esplorare la faccia più irrazionale del nostro rapporto con la realtà, l’informazione e la scienza. Se li conosci li disinneschi, mi verrebbe da pensare… ma forse la faccenda è assai più complicata di così. Nel dubbio, vi auguro di non trovarvi a Natale seduti a tavola con una schiera di complottisti agguerriti. Voi, se potete, opponete una strenua resistenza.

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Con la certezza di aver scordato circa l’86% dei libri che volevo segnalare, spero comunque di essere riuscita a fornire qualche spunto sfizioso per i vostri doni. Se ce la faccio, mi piacerebbe molto sfornare anche una lista focalizzata sulla narrativa. Vediamo come va. Nel caso servissero consigli miratissimi e personalizzati, mi trovate con indefessa costanza su Instagram o nel nostro bellissimo gruppo Telegram. Per frugare ulteriormente, vi indirizzerei senza indugio anche alla ricca categoria Libri qua sul blog.

 

Provo a sbilanciarmi. Se dobbiamo proprio individuare un grande cambiamento “significativo” per la mia generazione, quel cambiamento gigante riguarda l’introduzione della tecnologia nel modo in cui ci rapportiamo agli altri esseri umani. Ho visto il “prima” – senza smartphone, blog, social, app e compagnia danzante – e sto vivendo il “dopo”, questo presente in cui gradualmente stiamo cercando di capire come abitare insieme agli altri innumerevoli spazi di auto-rappresentazione, contatto, conflitto, informazione e intrattenimento. L’aver “visto” questo cambiamento di paradigma credo sia uno dei fattori che contribuiscono ad accendere il mio interesse per la narrativa che cerca di immaginare un’ulteriore evoluzione – proprio in chiave tecnologico-relazionale – di questo ecosistema che ci avvolge e ci appartiene.

Non è una gran novità per la fantascienza, che ha sempre parlato di mondi “altri”, di creature sconosciute e di congegni alieni rispetto al nostro presente più visibile per interrogarsi realmente su quello che accade alla vita che conosciamo, a noi come esseri umani, all’anima che ci separa dal meccanico.
Sono storie che sperimentano con la nostra identità, con la razionalità e la matrice di quello che ci rende delle “persone” per trovare limiti o abbattere confini. Ci si serve del conosciuto, dislocandolo, per darci (anche) una lente per vedere meglio cosa siamo.
Per me, almeno, l’aspetto più avvincente della fantascienza non combacia tanto con la poliedrica descrizione di un pianeta alieno, ma il racconto di quello che succede ai miei simili che su quel pianeta approdano per la prima volta. Vale per i pianeti come per le intelligenze artificiali, per quello che creiamo, per l’innovazione e per quella fetta grande di imprevedibilità che vive in ogni grande rivoluzione.

Ecco, la raccolta curata da Sheila Williams (e approdata qui in Italia sotto l’ala della neonata 451, costola di Edizioni BD specializzata in fantascienza) è un po’ una grande panoramica di quello che tende ad affascinarmi di più nel fantascientifico. È un’antologia di racconti che immaginano un ventaglio di domani differenti in cui molti semi tecnologici già ben piantati nell’oggi sono arrivati a un pieno sviluppo, innestandosi nel nostro modo di stare con gli altri, di ripensare l’idea di famiglia, di coppia, di relazione tra esseri umani. Il libro fa parte, in origine, della collana Twelve Tomorrows edita dal MIT che, ogni anno, sforna un volume tematico a cui vengono chiamate a contribuire le voci più vivide e brillanti della sci-fi globale.

Concepiamo spesso la tecnologia come un mezzo facilitatore. Per tantissime realtà continua ad essere vero – ci sono macchine che non devono dirci niente, devono limitarsi a svolgere per noi una mansione meccanica, per esempio. Ma cosa succede quando alla tecnologia domandiamo di farci da ponte per raggiungere gli altri? Cosa succede quando la interpoliamo all’amore, al ricordo e alla socialità? Il mondo cambia. E in questa raccolta troviamo tante finestrelle da spalancare su questi orizzonti nuovi – non sempre incoraggianti e risolutivi, ma irrimediabilmente umanissimi… nonostante tutto.

Mi sono resa conto che le listine vi garbano. E anche a me non urtano particolarmente, anzi. Mi impongono un certo sforzo di sintesi che le rende forse più fruibili rispetto alle mie consuete lenzuolate. Ciò detto, ecco qua quattro libri (tre romanzi e un saggio “sentimentale”) che ho apprezzato in questo periodo. Sono scompagnatissimi fra loro, ma non mi pare uno svantaggio. Ci sarà (potenzialmente) qualcosa di bello per tutti. O almeno spero.
Procedo con celerità.

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M. T. Anderson
Paesaggio con mano invisibile
(Rizzoli)
Traduzione di B. Capatti

Un adolescente racconta le trasformazioni della società statunitense dopo lo sbarco sul nostro pianeta di una specie aliena. I vuuv sono esseri tozzi e sgraziati, dotati di una tecnologia capace di renderli quasi onnipotenti. Il loro arrivo determina il collasso dell’economia terrestre, che si riconverte alle esigenze produttive vuuv, distruggendo di fatto il tessuto delle comunità umane e generando una disparità siderale tra i ricchi – quelli più vicini agli alieni – e i poveri – tutti gli altri. Il romanzo è costruito “a dipinti”: Adam, infatti, è un artista, ed è attraverso i suoi quadri, i suoi disegni a carboncino e i suoi schizzi che ci ritroviamo progressivamente immersi in un mondo nuovo, dove la schiavitù è una realtà e anche i sentimenti possono diventare materiale di simulazione.
Un romanzo stranissimo e crudo, una piccola storia fantascientifica di ribellione, di disperazione e di lotta per preservare il bene più prezioso che possediamo: la dignità (nonostante le conseguenze invalidanti dei virus intestinali cronici).

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Paolo Giordano
Divorare il cielo
(Einaudi)

Dunque, è il primo romanzo di Giordano che leggo. Perché, mio malgrado, soffro della sindrome del lettore rompicoglioni: se una roba la leggono tutti ne diffido automaticamente. Molto spesso ci prendo, altre volte mi perdo qualcosa di bello. Ecco, a questo giro mi sono sforzata di zittire la vocetta da lettrice rompicoglioni e ho deciso di provare a fare amicizia con Giordano. Non ho idea di come siano gli altri suoi libri, ma Divorare il cielo è un polpettone che ti fa venire voglia di vedere come va a finire. La vicenda ruota attorno a un quadrangolo amoroso – esisterà il “quadrangolo amoroso”? Chi può saperlo – dalle radici adolescenziali e dagli sviluppi devastanti. Teresa, di anni quindici e rotti, passa tutte le estati a Speziale dalla nonna, in Puglia. Una notte si ritrova in piscina tre bagnanti clandestini. Li guarda dalla finestra – mentre vengono scacciati senza molti riguardi dal padre e dal tuttofare della villa – e, anche se non può ancora sospettarlo, continuerà a guardarli per i due decenni successivi (o quasi), finendo anche per trasformarsi nel loro occhio del ciclone, il punto verso cui tutti e tre convergono, si scontrano, gravitano e si aggrovigliano, pur da distanze e con intensità variabili. I tre – Bern, Nicola e Tommaso – sono fratelli a tutti gli effetti, anche se il sangue non li lega. Vivono tutti quanti alla masseria confinante con la villa di Teresa, in una sorta di famiglia allargata capeggiata da un benevolo ma complicato figuro che legge loro la Bibbia, organizza funerali per i passerotti stecchiti, elogia le virtù del sano lavoro manuale e professa la reincarnazione. Che cosa potrà mai andare storto? Parecchio. Ma tante tribolazioni saranno comunque punteggiate da nitidissimi momenti di felicità, perdizione, speranza e gioia.
Nonostante tutto l’impianto del romanzo dipenda dalla quasi totale incapacità di Teresa di comprendere con esattezza che cosa le stia succedendo – o di interpretare i tormenti altrui -, l’intreccio dei piani temporali funziona molto bene e, nonostante certi episodi siano un po’ “iperbolici” per i miei gusti – e pure un po’ WTF -, il lavoro di scavo psicologico sui personaggi è davvero riuscitissimo. Insomma, mi sembra di aver trovato il modo di apprezzare Giordano. O almeno questo libro. Vittoria!

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Rossella Milone
Cattiva
(Einaudi)

Quanti romanzi e/o opere di assortita non-fiction ci sono sulla maternità? Millemila. Quanti di questi libri sono prescindibilissimi, stucchevoli e anche un po’ fastidiosi, con quella loro patina forzata di GUARDAMI SONO UNA MAMMA PASTICCIONA TI RACCONTO COME FUNZIONANO LE COSE CON ARGUZIA E CORROBORANTE DISINCANTO SONO CERTA CHE TROVERAI I MIEI GUAI TANTO CONFORTANTI E ALLEGRAMENTE SCANZONATI? Quasi tutti. Ecco, è raro imbattersi in una narrazione materna come quella della Milone. E mi sento di ringraziarla, sul serio. È un libro che si legge in un paio d’ore, ma che riesce a filtrare in maniera potentissima nelle pieghe dei ricordi (spesso freschi) di chi ha più o meno recentemente vissuto l’esperienza della nascita di un figlio. È il primo libro di questo “filone” che mi sembra voglia prendere sul serio le mamme, riconsegnandoci – con una lingua bellissima – quei momenti di profonda gioia e di profonda difficoltà che fanno parte dell’universo nuovo che ci troviamo ad attraversare insieme ai nostri bambini, senza sapere bene come si fa. È una storia di istinti confliggenti ma, soprattutto, di correnti sotterranee che ti trascinano lontano e di piccole ancore – che sembrano non fare altro che mangiare, piangere e riempire pannolini di roba immonda – che hanno immancabilmente il potere di restituirti il cuore.

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Giorgio Amitrano
IRO IRO
(DeA Planeta)

Giorgio Amitrano è un’istituzione. Accademico e traduttore “ufficiale” per l’Italia dei più grandi narratori giapponesi, è da tempo immemore un vero punto di riferimento per chi si occupa di cultura nipponica, dalla letteratura all’intrattenimento. IRO IRO è il suo primo saggio – di taglio gioiosamente autobiografico – sul Giappone. È un testo “colto” ma lontano dai toni specialistici, un ordinato divagare che tocca i nodi salienti della società, della storia e dell’impianto “visivo-filosofico” giapponese reinterpretandoli con la sensibilità di chi ha fatto di quel paese materia di studio e di fascinazione perenne. Dall’arte della calligrafia al karaoke, Amitrano ci fa da guida in uno splendido puzzle di suggestioni letterarie, artistiche e cinematografiche – rigorosamente raccolte nella bibliografia finale -, consegnandoci un diario di bordo in cui i ciliegi in fiore convivono con i robottoni e gli haiku spuntano come isolette fra le pagine di Murakami. Delizioso.

 

Non so perché, ma Guardians of the Galaxy in Italia esce il 22 ottobre. Sarà che qua d’estate i cinema chiudono. Sarà che ormai in casa la gente ha l’aria condizionata e in agosto non sente il bisogno di andarsi a rinfrescare le ascelle alla multisala. Sarà che il doppiaggio di Groot, l’albero senziente che dice solo I AM GROOT, si è dimostrato più complesso del previsto. Io non lo so, ma va così. Visto che ero in America al momento giusto, però, io i Guardiani della Galassia sono andata a vederlo. A Santa Monica, dove i ricchi passano le vacanze. In un cinema con lo schermo così grosso che spanciava nel mezzo e un sottofondo di gente che masticava senza sosta. In America c’è sempre qualcuno che mastica rumorosamente o che minaccia di andare in giro senza scarpe. Comunque, visto che uscirà fra secoli e che la mia prosa è irresistibile – una giovane donna, su Twitter, mi ha sgridata perché le ho spoilerato Spiderman… Ma scusa, io lo scrivo sempre all’inizio del post se ci sono degli spoiler. Eh, lo so, ma non riuscivo a smettere di leggere. MADRE le avrebbe detto di andare a pescare, io le ho mandato un cuorino -, insomma, per tutti questi validissimi motivi ho pensato di fare una di quelle recensioni da personcina professionale, senza dire un cavolo di quello che succede e dedicandomi semplicemente al com’è questo film. Visto che ho difficoltà ad elaborare delle argomentazioni organiche e ben strutturate perché non sono abituata a litigare con le persone sui social network, si procederà in ordine sparso – ma non senza entusiasmo.

guardians of the galaxy poster

La Marvel ha annunciato il nuovo film!
FIGATA!!!! Cos’è?
Guardiani della Galassia!
…e chi diavolo sono?

Ecco.
Quando ho dovuto spiegare ad Amore del Cuore – che non aveva visto manco il trailer e, in genere, subisce con pazienza e diffuso disinteresse la mia fissazione per i supereroi -, insomma, quando ho dovuto spiegargli che cosa sapevo del nuovo polpettone Marvel, mi è uscita all’incirca questa descrizione. Amore del Cuore, in questo film ci sono una gnocca verde – quella che in Avatar faceva la zebrona blu che tirava le frecce e dopo un po’ stava in plancia sull’Enterprise -, un procione parlante che spara, Batista – quello del wrestling col collo grosso come una mortadella, dai, quello della Batista Bomb -, uno sbruffone biondo mai visto in vita mia e una specie di albero semovente alto tre metri. Non ho idea di che cosa ce ne faremo di questa gente o del perché questo film esista, non ho capito chi è il cattivo e, in generale, non so una mazza di niente, ma dobbiamo vederlo assolutamente. Sono nello spazio! Ci sono le astronavi! C”è UN PROCIONE CHE PARLA… anzi, c’è un procione che parla con la voce di Bradley Cooper! E l’albero è Vin Diesel!
Sul serio, non vi serve sapere altro. Pensano a tutto loro. E sono adorabili.
Guardiani della Galassia è un po’ la Marvel che va a sedersi al bar di un villaggio turistico. Quei bar in mezzo alla piscina, tipo. Che ne facciamo di tutte queste strampalate scene post-credits che disseminiamo in giro da almeno un lustro? Non possiamo mica buttar via un Benicio Del Toro incredibilmente ossigenato! Ebbene, quelli che odiano gli sprechi di idee e di incastri saranno contenti di accogliere nei loro esigenti cuori un bel po’ di mondi nuovi, roba che completa e rende più comprensibile quello che abbiamo già visto succedere. Ah, gli anguilloni corazzati degli Avengers, ma da dove verranno? Eh, da quei posti lì della fantascienza caciarona. Perché va così, è un bel film di fantascienza come si deve. Anzi, è un film di fantascienza super divertente. Era un po’ che non sentivo dei dialoghi così spassosi. E vedere quei cinque coglioni lì tutti assieme è una felicità. Non ce n’è neanche uno che riesca vagamente a non interessarti, albero e procione compresi. Cioè, Groot è il mio nuovo idolo. Se dovessi scegliermi adesso un testimone di nozze piglierei Groot, ma senza pensarci cinque minuti. In generale, ogni scena è una sorpresa. C’è quella leggerezza intelligente che ti fa contento, ma senza smenarci dal punto di vista della tensione o dell’empatia. Vuoi bene a tutti, ti preoccupi, ti prendi male. Ma c’è proprio della gioia, anche. Saranno le musicassette vintage e le spacconate, sarà che quei cinque lì sono – a loro modo – degli sfigati e dei fenomeni da baraccone, sarà che è facile tifare per la gente simpatica che – nonostante le apparenze – ha anche un casino di senso della giustizia, dell’amicizia e dell’onore. Non capisco bene che cosa sia successo, ma questo film è un mezzo prodigio. E c’è pure Lee Pace. Lee Pace dovrebbe diventare patrimonio Unesco. Bisognerebbe costruirgli attorno un museo. Te entri e vai a guardare Lee Pace che vive la sua vita, coi suoi sopracciglioni.  In questo film ha un costume corazzato che lo fa somigliare a una suora-samurai ricoperta di bitume fosforescente. Uno spettacolo. Ed è sempre incazzato come una biscia. E non vi parlo neanche di chi rivedrete nella scena post-credits… quella roba lì è una perla immortale. Un tributo alla vostra infanzia – se ne avete avuta una come si deve. Insomma, ho ritrovato la fede nella fantascienza felice. Vi esorto con veemenza a presentarvi al cinema il 22 ottobre… e informo gli arcigni uffici stampa che se mi vogliono regalare un costume da Gamora sono pronta anche ad andare un po’ a correre al parchetto. In alternativa, si accettano dei Groot per il giardino. O dei contrabbandieri-redneck da scatenare contro le forze del male. Van bene anche un paio di Gemme dell’Infinito, a farle montare ci penso io.
Viva i Guardiani.
Viva i procioni!
Viva Zoe Saldana, che non si capisce perché la debbano sempre dipingere come una matta, povera stella.
E in bocca al lupo a Batman vs Superman, che se pigliano anche uno solo di questi qua e lo mettono vicino a Tony Stark la galassia esplode in un trilione di coriandoli a forma di unicorno bionico!
Ah, la vita è meravigliosa.

 

PER COERENZA, LA RECENSIONE DI PACIFIC RIM DOVREBBE ESSERE TUTTA IN MAIUSCOLO. E SE SOLO FOSSI CAPACE DI AUMENTARE LE DIMENSIONI DEL CARATTERE LA SCRIVEREI PURE PIU’ GROSSA. VISTO CHE NON SO FARE NIENTE DEL GENERE E CHE DOPO TRE RIGHE DI STAMPATELLO COMINCIO A SENTIRMI A DISAGIO COME QUANDO SI PROVA A CHIACCHIERARE IN DISCOTECA, CREDO CHE MI RIDIMENSIONERO’. MA NEL MIO CUORE C’È TUTTO UN TRIPUDIO DI CARATTERI CUBITALI, E VE LO DIMOSTRERO’! GO BIG OR GO EXTINCT!

SANTO CIELO, COME MI SONO DIVERTITA.
È COME SE FOSSE ARRIVATO UNO A DIRMI CHE I CARTONI ANIMATI SONO VERI.

Pacific Rim è una gloriosa celebrazione delle nostre lontane infanzie. Tutto è grosso, fosforescente, stereotipato, fumettoso, rumoroso, semplicione e pieno di lucette e accartocciamenti. Ruggiti, mazzate, devastazione, macchiette assolute, pepperepé musicali e unioni che fanno la forza. Alla terza volta che ho visto un pilota di jaeger che tirava su i pugni per spaccare il testone a un kaiju li ho tirati su anch’io. Quando ho visto i russi, poi, non vi dico, credo di aver sgambettato. Se avessi avuto un colbacco me lo sarei cacciato in testa.

Ma quanto sono meravigliosi, nella loro infinita improbabilità? Ma sono anche più belli dei cinesi sul robottone con tre braccia e lama rotante. Cioè, i russi guidano un coso che si chiama CHERNO ALPHA e somiglia a un ferro da stiro che ha avuto una brutta giornata. E niente, accetterete l’esistenza di due personaggi del genere perché il buon Del Toro – ma quanto gli piacciono gli ingranaggi e i bulloni, a Del Toro? – vi ha già abbondantemente mostrato ogni genere di enormità. Creature di milioni di tonnellate che rosicchiano i palazzi e corrodono interi quartieri con delle bave fluo super acide. Robot mezzi rotti che collassano su litorali dimenticati. Variegati terrori che emergono da portali in fondo all’oceano, così, perché la vita è ingiusta. E troverete il tutto estremamente rilassante, accetterete ogni cosa con serenità e gioia. E poi, una volta che vi sarete abituati all’intrinseca assurdità di quello che state vedendo – abbandonando consapevolmente la speranza di sentir dire a qualcuno una battuta che non sia una tonante spacconata e/o un bel luogo comune -, comincerete a fare il tifo. Io ho iniziato a sbracciarmi quando Gipsy Danger ha fatto partire il PUGNO-GOMITO, o come diamine si chiamava. L’apice della felicità, però, è la battaglia di Hong Kong. Sono convinta che l’ingegno umano non riuscirà a partorire nulla di più bello di un jaeger che si avvicina a grandi falcate a uno di quegli schifoni anfibi pieni di denti brandendo UNA PETROLIERA. Concretamente, non riesco a capire che cosa ci sia di così bello in un robot che prende a sganassoni un kaiju degli abissi con UNA PETROLIERA. Non me ne capacito, a livello razionale. So solo che ero felice come una bambina. Ci sarei stata delle ore, a vedere entità gigantesche che si percuotevano con delle imbarcazioni. Ma poi, che meraviglia era il kaiju grasso – felice incrocio tra un gorilla, un lottatore di sumo e un carlino – che lancia un’onda elettromagnetica scassa-macchinari dalla cima di quel suo cranio pieno di pistilloni frementi? E quanto era ancora più bello l’altro kaiju – quello che prende la petroliera in faccia – che si trasforma all’improvviso in un astiosissimo pterodattilo? Il momento pterodattilo ha risvegliato in me ogni genere di entusiasmo infantile. Al momento “tagliamolo in due con l’agile spadone seghettato in dotazione al nostro jaeger analogico” ho esultato, ammirando il maestoso orizzonte terrestre pieno dei pezzi maciullati del maligno creaturone.

Del Toro, diciamolo, coi mostri è sempre stato bravo. E i suoi kaiju sono belli sul serio. Tutti diversi ma anche tutti familiari, per qualche strano motivo. Un po’ coleotteri, un po’ coccodrilli, un po’ serpenti o scimmioni, sono delle bestie spaventose di un altro pianeta, ma qua e là, nei loro corpaccioni incasinati, c’è sempre qualcosa che possiamo riconoscere. E quando te ne accorgi ti spaventi davvero, perché smettono di sembrarti entità astratte e, anche nella loro infinita improbabilità, cominciano quasi a diventare plausibili. E poi sono interessanti. Hanno i loro poteri, i loro attacchi, sono dei cosoni complicati e, ogni volta che ne sbuca qualcuno per azzannare un ponte, sai bene che non vedrai lo stesso combattimento che ti ha fatto agitare i pugnetti in aria quindici minuti prima. Viva i kaiju e la loro immane varietà… anzi, fossero così avvincenti pure i personaggi, saremmo a cavallo.

Io dei personaggi non volevo nemmeno parlare, perché se tiri a mano un personaggio poi devi anche soffermarti su quello che dice e su come lo dice… e qua sarebbe meglio mettersi lunghi e distesi su una zattera appena sopra la breccia-portale-ingresso-kaiju. Inghiottici, kaiju gigante! O almeno, azzannaci le orecchie. Diciamolo, perbacco: i Power Ranger avevano una vita interiore ben più ricca di questi piloti di jaeger.
La povera Rinko Kikuchi, che l’avevano pure nominata a un Oscar, non fa altro che sgranare gli occhi. Io non so perché, ma passa metà del film a girarsi di scatto con due occhi così, come una foca monaca che ha appena preso una mazzata sul cranio, PAM! La sua versione piccola e disperata – con cappottino azzurro e scarpetta di vernice rossa -, è invece di un’espressività commovente. Quel che sospetto è che, in realtà, non piangesse tanto per il kaiju gigante che aveva appena sterminato la sua famiglia, quanto per la recitazione surreale della sua controparte adulta. Bei capelli, certo, ma santo il cielo.
L’altro marimittone biondo che guida Gipsy Danger non è da meno. Dovrebbe essere un’anima ferita, uno che ha sentito morire suo fratello con tutte le sinapsi a sua disposizione, uno che ha perso ogni ragione per vivere e passa il tempo a dare martellate a un muro inutile in Alaska. Ecco, noi dovremmo assistere alla trasformazione di questo reietto in un baluardo di speranza, in un eroe capace di vendicare l’intera umanità. E invece zero, tutte le volte che lo inquadrano ci ritroviamo a sperare, segretamente, che tornino a farci vedere un personaggio a scelta tra A) tizio hipster con basettoni, bretelle e farfallino (la sua unica funzione è osservare un display e annunciare l’arrivo di un nuovo kaiju. Se c’è proprio del dramma gli fanno anche dire di che categoria è e come si chiama) – B) matematico zoppo con la sindrome di Asperger – C) il biologo nerd, iperattivo come uno scoiattolo che ha passato la vita a rossicchiare semi di caffé, che dovevano fargli fare uno degli amici di Sheldon Cooper ma poi hanno capito che non era brutto abbastanza per essere sfigato sfigato davvero.
Sarò poi io che non ho capito, ma in base a che cosa si è deciso che Rinko e Marmittone Biondo – che mai s’erano visti in vita loro – erano così assolutamente adatti a guidare un robottone insieme? È perché lei continuava a sbirciarlo dal buco della serratura (con tanto di sobbalzo e sgranata d’occhi quando è passato mezzo nudo)? Per le quattro bastonate che si son dati davanti a tutti? Perché entrambi nascondevano traumi profondissimi e sconcertanti? Boh. A me sembravano due concorrenti del Grande Fratello. Sai no, quando arrivano nella casa, che nessuno sa chi è nessuno e dopo ventisei minuti si amano tutti alla follia? Ecco.
Palma imperitura dell’odio, però, va al cane di papà-figlio-Australia. E se mi venite a dire che quei cani lì sono belli e/o dolci, nella loro bavosa goffaggine, vi meritate una cataratta. Ron Perlman, ne sono certissima, la pensa come me… anche perché il cane lo si vede molto più spesso del suo spregevole e godibilissimo contrabbandiere di pezzi di kaiju.

Tutto quel pippone lì sui personaggi l’ho scritto solo per far vedere che non ho perso la voglia di criticare. Volevo però anche dirvi che è un discorso del tutto inutile: mettersi a questionare sulle espressioni più o meno ridicole di Rinko Kikuchi non ha alcun senso, così come recriminare per la buffa serietà marziale di Idris Elba. Se va avanti così, a fare parti da albero parlante – Heimdall! -, Idris Elba camperà cent’anni senza manco una ruga.
Comunque, non agitatevi, che non serve: al minuto uno vedrete un iguanodonte crestato alto ottanta metri che sgranocchia un viadotto e non ve ne fregherà più niente di niente.
Non vi sembrerà strano che bastino dieci elicotteri per trasportare a pelo d’acqua un jaeger che pesa come un Gesù. Non vi chiederete come sia possibile che a furia di mollare mazzate a bestie acide i robottoni non si ritrovino coi pugni tragicamente corrosi. Non batterete ciglio di fronte alla signorina Mori che nuota allegramente con tanto di armatura e stivaloni piombati, galleggiando con l’agilità di un delfino saltatore.
Nulla di tutto questo riuscirà a scalfirvi, perché ad un certo punto Marmittone Biondo e Rinko schiacceranno un bottone rosso con su scritto SWORD e ciao, insieme a un kaiju urlante e sputacchioso il buon Gipsy Danger affetterà in due anche il vostro cervello. L’emisfero sinistro vi spingerà a gettare per aria dei popcorn e ad emettere suoni inarticolati. L’emisfero destro governerà l’altro braccio, che deciderete di preservare così com’è, bello lindo e morbido, per farvelo ricoprire di tatuaggi di kaiju. E niente, sprofonderete felici nella magnifica insensatezza di questo film. Pacific Rim farà contento il vostro cuore, come il più gigantesco e ben fatto dei cartoni animati della vostra infanzia… e uscirete con un unico rimpianto: il Megazord di jaeger, perché non han fatto un Megazord coi jaeger? C’è un sequel, vero? MEGAZORD, vi prego, fate un MEGAZORD!


Il mio papà è, da sempre, il compagno di cinema ideale per determinati generi. Col papà si vede la fantascienza, si vedono le tamarrate tecnologiche e le catastrofi. Abbiamo condiviso momenti felicissimi davanti ad Armageddon, Deep Impact, Il quinto elemento e addirittura Contact, che in pratica è piaciuto solo a lui. Che vi devo dire, anche il più granitico dei genitori ha, ogni tanto, un cedimento astronomico-mistico. Dimenticavo, guardiamo pure i film con gli esorcismi, ma quelli solo a casa e in seconda serata su Sky che, si sa, sono tutti delle cacate pazzesche e non vale la pena sprecare i soldi del biglietto. Comunque, in quest’epoca di revival e rispolveroni di vecchie cose care, io e il papà abbiamo un sacco da fare. Siamo andati a vedere Tron e il primo Star Trek di GEIGEI Abrams e volevo pure portarlo a vedere Prometheus ma poi è finita che ci sono andata da sola… e per fortuna, sarebbe stato uno spezzacuore per il mio papà. Mostri a forma di biscia-vagina, culturisti albini e parti cesarei fai-da-te. Dov’è la poesia dello spazio. Dov’è la mirabile dicotomia uomo-mostro. Al mio papà piacciono quelle cose lì, oltre al sedere sodo di Ripley. Dategli un HAL9000 che blatera filastrocche ed è subito Natale. Fategli vedere Io, Robot e vi compatirà brandendo un tomo di Asimov e declamando a memoria le tre leggi della robotica. Per dire, il suo film preferito credo sia L’uomo bicentenario, che se lo sceneggiava Asimov in persona veniva difficile farlo più rispettoso del libro e del sacro materiale di partenza.

Diamine, sto divagando. Se solo avessi un cervello positronico, lì sì che andrei in ordine.
Quel che volevo dire – credo – è che anche per Star Trek. Into Darkness abbiamo onorato le tradizioni e ci siamo allegramente presentati al cinema a braccetto. Visto che il papà ha più di 65 anni ma si vergogna a usufruire dello sconto-anziani, col bigliettaio ci parlo io. “Senta, nonostante il mio gagliardo genitore se li porti benissimo, temo proprio che dovrà fargli il ridotto”… al che interviene anche lui, solitamente con un “Che ci vuole fare, gli anni passano”, perché comunque gli rode un po’ che gli facciano quel biglietto lì. Poi niente, quando entriamo in sala o fa il melodrammatico (durante i trailer di Tron è riuscito a dire “Che poi insomma, sono contento di vedere il 3D, che di opportunità per andare al cinema non me ne restano poi molte, ormai”) o si stupisce (“Ma guarda, c’è anche il buco per metterci la bibita”). L’unica costante è che ci mettiamo in quinta-sesta fila, che la miopia è ereditaria.

Alla fine, Into Darkness ci è piaciuto perché non poteva non piacerci, siamo fatti per amare questi film qua.
L’Enterprise che emerge dalle acque, Spock che cementa un vulcano, Benedict Cumberbachichachech che prende a mazzate un intero plotone di klingon incagnatissimi, sentimenti, Chris Pine con la faccia gonfia, scudi al minimo, il cammeo della mummia di Leonard Nimoy, criogenia!
Ci è garbato, è vero, ma non ci ha convinto del tutto. E la recensione più accurata e corretta che posso fornirvi è, al momento, quella del mio saggio e sintetico papà.

Che spettacolo. Bello, bello. Mi è piaciuto molto. Non so bene perché Sherlock Holmes fosse così agitato, ma mi è piaciuto.

Dateci dei cattivi motivati. Dateci dei cattivi per cui fare il tifo. Dateci dei cattivi di cui conosciamo e comprendiamo il passato – e non solo perché eran già in uno Stak Trek del 1982. Se non lo fate, ce ne fotteremo altamente del loro futuro. E continueremo a fissare rapiti le frangette dei vulcaniani.