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TEGAMINI – Amore del Cuore, ma dove sono le Azzorre, di preciso?
AMORE DEL CUORE – …sono un po’ più in là delle Canarie.
TEGAMINI – Pensavo peggio.
AMORE DEL CUORE – Perché?
TEGAMINI – Perché potremmo andare là, in vacanza!
AMORE DEL CUORE – …
TEGAMINI – Massì, c’è la natura, ci sono le rocce vulcaniche, c’è l’acqua splendente, ci sono le balene!
AMORE DEL CUORE – Balene.
TEGAMINI – Ce ne sono tantissime, megabelle. L’ha detto Philip Hoare! Lui c’è stato e ci nuotava insieme… non vuoi nuotare con le balene? A Philip Hoare piacciono molto anche le balene dell’Artico, ma ho pensato che forse preferivi andare un po’ più al caldo in estate… quindi possiamo lasciar perdere la Groenlandia, per qualche tempo. Cosa dici? Ma lo sai che Melville c’è andato davvero, su una baleniera? Ma lo sai che il Physeter macrocephalus sta in una famiglia naturalistica tutta sua, che di bestie simili-simili non ce ne sono? Pensa, ha solo i denti di sotto, il capodoglio! E i calamari giganti esistono davvero e il capodoglio li mangia! Ma t’immagini? CAPODOGLIO vs CALAMARO GIGANTE!

Amore del Cuore, non ancora pronto ad affrontare un tale entusiasmo balenifero, mi ha lasciata sola a farneticare di cetacei, spermaceti, arpioni, fanoni, remore e vertebre. Ma posso sempre ammorbare voialtri. Perché ho letto Leviatano, mi sono divertita immensamente e adesso so anche mucchi e mucchi di cose, un po’ zoologiche, un po’ economiche, un po’ letterarie e un po’ sentimentali.

Mentre scorrazzano per i mari, i capodogli non si curano se sia giorno o notte. Come tutte le balene respirano in modo volontario e devono dunque rimanere svegli con metà del cervello quando si riposano. È quasi sicuro che sognino. A volte,dopo aver mangiato a sufficienza, fanno una pennichella tutti insieme, mettendosi in perpendicolare, come pipistrelli, con lo sfiatatoio sopra il pelo dell’acqua. Gradiscono il contatto reciproco e passano ore a strofinarsi e rotolare l’uno sull’altro appena sotto la superficie: «Sembra che si vogliano tutti bene, – dice Jonathan Gordon per descrivere questo balletto subacqueo. – Non è raro vedere individui che si tengono delicatamente per le fauci».

Teniamoci per le fauci!

In questo libro misterioso e bizzarro – scritto da Philip Hoare, l’uomo al mondo che più ama le balene, tradotto dai prodi Duccio Sacchi e Luigi Civalleri per le sempre adorabili Frontiere Einaudi – c’è tutto quello che serve per esplorare le profondità marine e tornare a galla per respirare con un bello sbuffone dallo sfiatatoio (N. B. se una balena che ha il raffreddore vi colpisce con il suo portentoso soffio, quando torna a galla, ebbene, il raffreddore ve lo prendete anche voi).
Comunque, Leviatano comincia con la storia di Moby Dick e delle ossessioni del suo autore, ci racconta le vicende dell’industria baleniera americana e i primi tentativi – sull’approssimativo andante – di studiare le creaturone più imponenti dell’oceano. Ci sono animali che si arenano sui litorali, richiamando l’attenzione di monarchi, principi e pittori. Ci sono lunghi viaggi, pericoli terrificanti, acque calde e acque gelide. C’è un beluga malinconico in un acquario di Coney Island e c’è la megattera che fa più versi di tutte le altre balene del pianeta. C’è la caccia con l’arpione e la descrizione di tutto quello che si può ricavare, ahimé, da una balena. C’è la balenottera azzurra appesa al soffitto del Museo di Storia Naturale di Londra, un affare gigante e molto realistico, costruito alla vigilia della Seconda guerra mondiale in una sala allestita appositamente… che le balene erano diventate TRENDY e la gente le voleva vedere.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1937, il capotecnico e imbalsamatore ufficiale del museo, Percy Stammwitz, si dichiarò disponibile a costruire il modello direttamente nella sala. Aiutato da suo figlio Stuart, impiegò quasi due anni per completare l’opera, basandosi sui dati forniti dalla spedizione scientifica nella Georgia del Sud. Seguendo giganteschi modelli di carta simili a quelli dei sarti, si tagliò il legno necessario per creare le varie parti dell’armatura e le stecche per tenerle assieme. Il tutto fu poi ricoperto di fil di ferro, sopra il quale fu modellato lo strato esterno di gesso. Era un lavoro lungo e faticoso. Durante la costruzione l’interno fungeva da tavola calda per le maestranze (nel 1853 Benjamin Waterhouse Hawkins ebbe l’idea di organizzare una festa di capodanno tra scienziati dentro il suo modello di iguanodonte ancora da completare, un evento che fu descritto dalla stampa periodica come una riunione di moderni Giona inghiottiti dalla balena).

Insomma, si fanno scoperte meravigliose – il cervello del capodoglio pesa sette virgola otto chili! Che roba è l’ambra grigia e per quale ragione olezza così tanto? Ah, che orrore! – e ogni tanto passa un serpente di mare mitologico. Conosceremo dinastie di cacciatori, marinai specializzati nell’intaglio di denti di capodoglio – J. F. K. li collezionava, pensa te -, leggende del mare e terrori atavici. E, finalmente, qualcuno ci rivelerà a che serve il corno del narvalo. Ma vi dirò di più, Philip Hoare, sui narvali, la pensa come me.

Anche nel narvalo ritroviamo la mesta bellezza del beluga, un’aura ferale suggerita dal suo stesso nome, derivato dall’antico norreno nar e hvalr, ovvero «balena cadavere», perché le chiazze della sua livrea ricordano le livide macchie dei corpi senza vita (…). Ciò non toglie che l’emblema della malinconia del narvalo risieda proprio nella sua caratteristica piú appariscente, sottolineata dal binomio del suo nome scientifico: Monodon monoceros, ovvero un solo dente e un solo corno.

BALENA CADAVERE.
MALINCONIA.
Povero, povero narvalo.

La zanna del narvalo è infatti un grosso dente vivo, che crescendo perfora il labbro sul lato sinistro della bocca e si avvita a spirale fino a sfiorare, e addirittura superare, i tre metri. (…) Le recenti analisi al microscopio elettronico hanno svelatola vera magia racchiusa nel dente del narvalo. La sua superficie,a differenza di quella dei denti normali, è attraversata da tubuli aperti verso l’esterno e connessi con i nervi interni.Il corno in pratica è un gigantesco organo sensoriale, fornito di decine di milioni di terminazioni nervose che permettono all’animale di registrare i piú lievi cambiamenti di temperatura e pressione. Si spiegherebbe cosí, tra l’altro, l’abitudine che hanno i narvali di sollevare il corno fuori dall’acqua, quasi annusassero l’aria. Altre ricerche hanno mostrato che questo dente, oltre a essere una sonda sensoriale, può anche fungere da trasmettitore e ricevitore acustico ed elettrico.

IL DENTE DEL NARVALO SERVE A MILLE COSE!
IL MONDO È UN POSTO MERAVIGLIOSO!

Ma ricomponiamoci, dopo questo momento d’euforia per il narvalo e le balene dell’Olartico – pagine bellissime, BELLISSIME, c’è persino il disegnone di un unicorno -, che bisogna concludere con dignità e un qualche genere di autorevolezza.

Leviatano mi è garbato immensamente. Philip Hoare è così felice di raccontarti tutte quelle storie sulle balene che finisci per appassionarti quanto lui. Io ho chiuso il libro e ho quasi pianto, consumata dal rimorso per essermi mangiata una bistecchina di balena quand’ero a Oslo. Philip Hoare, perdonami, non sapevo cosa facevo. Non conoscevo ancora la mirabile struttura del cranio del capodoglio o la complessità dei suoi rapporti sociali. Andrò all’inferno. Sprofonderò in un abisso pieno di furibondi calamari giganti. Comunque, se volete nuotare insieme al buon Hoare e alle musicalissime megattere, se volete partire per un viaggio con Ismaele – e capire, finalmente, anche le cose più astruse di Moby Dick – o anche solo imparare meraviglie sugli animali più grandi e difficili da studiare del nostro allegro pianeta, ecco, allora Leviatano vi garberà. Anzi, sarete tristi quando finirà… ecco una buona GIF in grado di riassumere i miei sentimenti:

***

P.S. Questa frase è straordinaria. Una cosa orribile, è vero, ma se cercherete di immaginarvi la scena sarà la fine.

A regnare sovrana era una palese indifferenza per la dignità degli animali, come illustra ancora il fatto che il personale delle stazioni antartiche di caccia alla balena era abituato a ravvivare il fuoco dei falò gettandoci sopra i pinguini come grasso da ardere.

Mi sono seduta con la schiena contro il muro e ha cominciato a battermi forte il cuore. Qualcosa stava venendo verso di me, allargandosi come una nuvola bassa all’orizzonte. La nuvola si è addensata. Mi ha riempito la bocca e gli occhi e a un tratto c’è stato un boato e hanno cominciato a succedere delle cose, molto in fretta e tutte allo stesso tempo, e poi ero seduta contro il muro e mi scendeva il sudore da sotto i capelli e mi sentivo più strana di quanto mi fossi mai sentita in vita mia.
E se dovessi dire come mi sentivo direi che mi sentivo come una scatola che era stata capovolta. E la scatola era stupita di essere così vuota.

Grace McCleen, Il posto dei miracoli
Einaudi (Supercoralli)
traduzione di Norman Gobetti

***


In questo libro si impara a far nevicare buttando in aria farina, zucchero e cotone. Si impara a fare una mongolfiera col filo di ferro, dei palloncini e una retina delle arance. E si impara anche a costruire un gatto. O delle persone. Impariamo perché Judith sa benissimo come si fa: pezzo per pezzo, ha messo insieme un universo in miniatura. Nella sua cameretta c’è un mondo intero, fatto con pezzi di vetro, matasse di lana, scatole e barattoli vecchi. È il mondo in cui si rifugia, ma è anche il mondo perfetto che spera di raggiungere, quando quello che abitiamo sarà finalmente spazzato via dall’Armageddon. Un mondo dove ritroverà sua madre e riuscirà a capire se il papà le vuole davvero bene. Un posto felice in cui non esistono bulli che minacciano di affogarti o fabbriche che fanno sciopero, dove non c’è bisogno di costruire un cancello gigantesco per tenere lontane le sassate e dove non sarà più necessario trascorrere le domeniche a predicare porta a porta. Ma Judith ha fede. E ha molta immaginazione. E quello che fa succedere nel suo mondo in miniatura finisce puntualmente per manifestarsi anche nel mondo reale. E nel momento di solitudine più buia, arriva anche una voce, la voce di Dio, a dire a Judith che ha un grande dono, ma anche che ogni scelta ha un prezzo. E le conseguenze, spesso, sono imprevedibili e tragiche, anche quando si prova a lottare per raddrizzare le cose, a difendersi e a sgomitare verso la felicità.

Ecco.
Le foto al Posto dei miracoli le volevo fare nella neve. Ma ce n’era poca in terra, quando ho finito di leggerlo. Allora ho pensato, ma che te ne fai della neve, piglia un mucchio di farina e cacciaci il libro in mezzo… Judith farebbe così. Ma poi mi sono accorta che non ho mai fatto una torta nella mia vita e che la farina in casa non esiste. Poi ho preso la pagina dove c’è tutto lo spiegone su come si costruisce una persona, ma per fare le cose per bene ci volevano ciuffetti di lana, colori, plastilina.  E ciao, idem con la mongolfiera, anzi, molto peggio. Poi, però, mi sono accorta che non erano necessari dei gran effetti speciali. Perché è già speciale il libro. E non credo sia solo per la sorpresa… perché parto sempre super prevenuta quando c’è un narratore bambino, magari un po’ stralunato e santo il cielo siamo tutti meravigliosi a nostro modo e vieni vieni caro lettore ad esplorare i segreti dell’esistenza attraverso il mio sguardo unico e spiazzante. Basta. Peggio c’è solo il narratore-gatto, il narratore-cane di casa o la mucca che ti racconta cosa le succede. E invece no, magimagia. La voce di Judith è delicatissima e tragica. E’ un personaggio che ti fa preoccupare, come se fosse una persona vera. E dove c’è Judith, Grace McCleen è bravissima a far addensare sempre dei nuvoloni minacciosissimi: che cosa succederà a scuola? E il suo papà, riuscirà a proteggerla? E la voce che sente, la distruggerà o la salverà? Ma è matta o fa davvero i miracoli? Insomma, è difficile incontrare un personaggio che ti fa preoccupare così tanto. Ed è anche complicato trovare una voce di bambina che analizzi la realtà con tanta dolcezza e perfetta consapevolezza della propria profonda infelicità.
Perbacco, è un libro complicato, poetico e crudele. Si prova a crescere e a capire come funziona il mondo. Si esplora la solitudine, in una famiglia che funziona sui dogmi di una religione che invade ogni minuto della giornata. Si scopre come ci si può difendere, quando non si può parlare con nessuno, ma solo giocare con i propri pensieri e la propria fantasia, perché non c’è nient’altro e non c’è nessuno che è davvero in grado di darci delle risposte. Insomma, se volete affezionarvi a una creatura immaginaria, affezionatevi a Judith. La sua storia si merita le preoccupazioni del vostro cuore.

 

I libri divertenti sono molto necessari. Almeno, a me i libri divertenti servono moltissimo. Mi riposano. Mi fanno delle sorprese. Mi scarrozzano in posti improbabili. Si fanno leggere in fretta e lasciano quella piacevole sensazione di contentezza cicciottella che, di solito, sopraggiunge appena dopo aver mangiato uno di quei cioccolatini giganti al RUM. Dovrei leggerne di più, di libri divertenti, dovrei mettermi in piedi su una bianca scogliera e gridare alla vastità degli elementi una roba tipo “leggetevi un libro divertente, ogni tanto!“.
Ecco.
Vi griderei anche qualcosa sull’Atletico Minaccia Football Club di Marco Marsullo, che è uscito da poco per Einaudi Stile Libero rallegrandomi quasi quanto mille foto di cuccioli molto piccoli. Potevo mettermi qua a far fatica, ma poi ho pensato che magari era più bello per tutti quanti se a dirvi delle cose ci veniva il Marsullo in persona. E allora gli ho fatto un po’ di domande. Qualcuna è seria, qualcuna per niente. Lui però è sempre impeccabile. Insomma, divertitevi qua e divertitevi col libro.

***

Messer Marsullo, direi di procedere con ordine e precisione. Che faceva prima di diventare un giovane scrittore?

Studiavo con scarso profitto all’università, facoltà di giurisprudenza: media del 21.9. Un salasso dell’anima. Poi una mattina Einaudi mi ha chiamato e sono diventato, automaticamente, un giovane scrittore.

Lo sa, vero, che sarà considerato un giovane scrittore fino ai cinquant’anni (indipendentemente da come se li porta)?

Lo so, da queste parti è così. Infatti io mi definisco, talvolta, uno “scrittore liquido amniotico”, a 27 anni giovane è pure troppo.

Il suo libro è pieno zeppo di gente che piglia a calci il pallone. Lei come se la cava?

Sono un difensore centrale senza fronzoli. Per me palla e gamba sono la stessa cosa. Chiaro: non entro mai duro per far male apposta, però può capitare. Diciamo che ho dovuto sopperire con il cuore ciò che madre natura non mi ha dato nei piedi. Ah, e sperdo (quasi) sempre il pallone fuori dal campo quando faccio un tiro al volo.

Scusandomi in anticipo per lo sfoggio di stereotipi, c’è una vicenda che mi stupisce. Che cosa spinge un napoletano a tifare Milan con travolgentissima passione?

Quando ero piccolissimo (5 anni) mio zio mi chiese quale fosse il mio calciatore preferito. La risposta fu Van Basten. La conseguenza fu AC Milan. E per fortuna, amo la mia squadra in modo viscerale. PS: Forza Lotta / Vincerai / Non ti lasceremo mai!

Come devo comportarmi con la mia maglietta di Ibrahimovic, ormai obsoleta?

Be’, io Ibra lo rispetto. Nel senso: lui è un mercenario, lo ammette, lo ha sempre dimostrato. Ma mercenario non in accezione negativa, come tanti calciatorini che si baciano la maglia e il giorno dopo trattano con altre squadre per guadagnare il doppio. Zlatan è così: non fa promesse, non si innamora, in campo dà tutto per i suoi colori del momento. Poi dopo un paio d’anni se ne va, cambia. Devo tanto a lui e ai suoi gol. Gli voglio bene, possiamo dirlo.

Continuo ad essere invaghita di Zvonimir Boban, dovrei preoccuparmi? È bello pure il nome: ZVONIMIR.

Anche io ho un problema con Zvonimir “Zorro” Boban. Era un numero 10 fantastico, un giocatore geniale. Lo amo ancora, infatti quando lo becco a commentare in tivù mi impallo lì davanti a fissarlo. Grazie, Zorro.

Un giorno si è svegliato – magari anche un po’ tardi – e ha deciso che avrebbe scritto un libro. Insomma, da dove viene l’Atletico Minaccia?

Viene da un’intuizione. Una sera guardavo Mourinho in televisione e in venti secondi si è materializzato Vanni Cascione (il mister sfigato dell’Atletico Minaccia). Il resto è venuto fuori in tre mesi, una storia che si è davvero scritta da sola. E poi l’Atletico è la squadra che tutti vorrebbero vedere in campo: non ortodossa ma piena d’onore, un’accozzaglia di pazzoidi con i tacchetti ai piedi.

Giocatore preferito dell’Atletico Minaccia. (Io adoro il quarantenne che in carriera ha superato la metà campo solo tre volte).

Voglio bene a tutti, però ne ho due. Peppe Sogliola, il centravanti, perché lui è il vero trascinatore, quello che più di tutti salva la panchina di Cascione in più riprese. E Sasi Mocciardi: il numero 10 arrogante e presuntuoso, col suo tatuaggio del “Pocho Lavezzi che si ammocca (bacia, per i non napoletani, ndr) con la Madonna” che gli ricopre la schiena. Ecco, lui mi è piaciuto proprio scriverlo, quando lo rileggo rido io per primo di gusto.

Tifoso preferito dell’Atletico Minaccia. (Io voto Renetta. E deve anche sapere che ero in treno, quando mi sono imbattuta nella meravigliosa storia del soprannome del Renetta. Ero in treno e ho riso da Asti a Milano Centrale, suscitando la curiosità di tutti i consulenti incravattati che mi circondavano e facendole così vendere almeno dieci copie, controllore compreso).

Michele Caputo: l’ex ultrà del Benevento che, senza nessun motivo, comincia a diventare folle dell’Atletico Minaccia Football Club. Però a Renetta e Caracas voglio proprio bene, come due amici.

Mourinho l’ha ricevuto, un Atletico Minaccia?

Gliene abbiamo mandata una copia, sì. Sono quasi sicuro che quando l’ha ricevuto, ha detto: “Marsullo? Non lo cunosco. Io cunosco Marzulo, presentatore tivù, marsupio, borza per purtare ojetti, ma Marsullo non lo cunosco”.

Consigli un bel libro alle nuove generazioni.

“I frutti dimenticati”, di Cristiano Cavina. Commovente e sincero ritratto del rapporto padre-figlio, e delle sue difficoltà. Oh, anche io riesco a essere serio, ogni tanto.

Lei da cucciolo che cosa leggeva?

Ho letto poco, e questo, seriamente, è il più grande rimpianto della mia vita. Ho iniziato con Paulo Coelho a 17 anni (!!!), poi ho incontrato (il primo) Ammaniti. Non proprio due cose accostabili. Da lì ho capito cosa mi piaceva.

Ma i calciatori, scrivono e basta o leggono anche qualcosa?

Non saprei, credo qualcuno legga, non sono così capre come sembra. Mi piace immaginare che qualcuno prenda (o gli venga regalato, va’) il mio Atletico Minaccia. Si farebbero un sacco di risate.

Fifa o PES? Ma soprattutto, che ci trovate in quelle robe lì?

Fifa, rigorosamente Fifa. Da più piccolo ero un accanito giocatore di PES (l’allora: Winning Eleven), ma da un paio d’anni (da quando, in pratica, ho preso l’Xbox) Fifa ha divorato il suo concorrente. Non c’è più partita. In “quelle robe lì” ci troviamo la cosa più sacra e forte che fa di noi uomini, Uomini: la Sfida. È tutto lì.

Fornisca alla popolazione italica qualche buon motivo per leggere il suo romanzo.

Fa ridere, fa pensare, fa appassionare alla vicenda, umana e non solo calcistica (le migliori recensioni le ho avute da donne, ad ora!), di questo allenatore scalcagnato, Vanni Cascione, un po’ canaglia e un po’ sognatore. E poi c’è il rapporto con sua figlia 14enne, che in tutto il romanzo è una specie di filo di Arianna che condurrà alla fine con una soluzione. Ma soprattutto, e vi parlo col cuore: l’ho scritto con tutta l’onestà e la sincerità del mondo. Volevo solo raccontare una storia, ho provato a farlo nel modo più vero possibile.

E ora, che cosa accadrà? Il tour promozionale le spezzerà per sempre le gambe o ha già in mente delle nuove storie?

Dopo i primi giorni in libreria posso dire solo una cosa: non ci sto capendo niente, e non me lo aspettavo. Ricevo ogni giorno messaggi via mail, su Twitter, su Facebook, dove tantissimi sconosciuti (gli amici l’hanno già preso, eh) mi fanno i complimenti e dicono di aver letto/preso il romanzo. Uau. È tutto stupendo. Poi sono stato a “Quelli che il calcio” e mi sono divertito un sacco. Diciamo che è una lavatrice, per ora. Ma detto questo: sto scrivendo il romanzo di dopo, sono a un ottimo punto, non dimentico mai una cosa: io sono uno che racconta storie. È la cosa che più mi piace fare. Non smetterò facilmente.

Per concludere, vorrei ricordarle che una volta, su Twitter, mi ha mandato un DM che così recitava: FIDANZIAMOCI IA’! Così, senza nemmeno un ciao.

Ti risponderò con una citazione finale di uno dei miei film (e romanzi) preferiti: “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”. E in ogni caso, Francesca: “Fidanziamoci, ià!”. E il “Ciao” lo aggiungo ora. A te e ai tuoi lettori. Stare su Tegamini è il mio sogno fin da quando non ero ancora un giovane scrittore einaudiano. Adelante! E grazie.

***

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero. Del resto, cos’è una rappresentazione realistica se non una forma di rappresentazione convenzionale come tante altre? Non è radicalmente diversa, né costituisce un progresso. Se non si cogliesse questo aspetto, non si capirebbe niente né dell’arte medievale né della storia delle immagini. Nell’immagine tutto è convenzione, compreso il “realismo”.

Michel Pastoureau
Bestiari del Medioevo

Saggi – Einaudi

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La meraviglia. Questo libro è la meraviglia.
Sul nostro pianeta, Michel Pastoureau è la persona che più sa di zoologia medievale. Ed è anche la persona che te la sa raccontare meglio.
Suddiviso in sezioni che rispecchiano le classificazioni originarie dei bestiari miniati –  quadrupedi selvatici, quadrupedi domestici, uccelli, pesci e creature acquatiche, serpenti e vermi -, il super saggio di Pastoureau è divertentissimo da leggere e straordinario da guardare: ogni animale viene presentato ricostruendone le proprietà, i vizi, le virtù e le valenze simboliche che gli erano attribuite nel Medioevo. E ogni bestia-capitolo è accompagnato da una miriade di illustrazioni e riproduzioni di venerabili pagine. Le illustrazioni non solo aiutano a comprendere meglio l’universo di significati che ruota intorno all’animale rappresentato, ma vengono utilizzate da Pastoureau per espandere il discorso e avvicinarlo, allo stesso tempo, all’uso dell’illustrazione così com’era inteso nel Medioevo. Per dire, il cervo, reso impetuoso dal suo sangue caldo, non riesce quasi mai a star fermo dentro i bordi di una miniatura… e c’è sempre qualcosa che esce, uno zoccolo che spunta, un corno che sconfina. Il testo di ogni Bestiario continua a raccontare delle cose (utili e didattiche per l’uomo Medievale) anche attraverso le immagini, che non sono solo un ornamento, ma un necessario proseguimento della trattazione.
Quadrupedi selvatici e domestici, uccelli, pesci, serpenti e vermi, si diceva. In questo libro, così come nei Bestiari europei che Pastoureau ha analizzato, troviamo bestie comuni, o meglio, bestie comuni per la sensibilità dell’uomo Medievale, con sporadiche incursioni di creature mitologiche. Ci sono l’aquila, l’asino, il bue, il gatto, la lupa… ma pure il leone, l’elefante. Animali che per noi, oggi, sono esotici abitatori della savana, nel Medioevo erano o molto presenti nell’iconografia – e quindi reali, roba da tutti i giorni – o attrazioni formidabili che poteva capitare di vedere, almeno una volta nella vita. I sovrani si scambiavano doni di ogni genere, inclusi orsi polari – dispensati con grande generosità dal re di Norvegia -, e l’arrivo di queste creaturone era spesso un evento per gli abitanti di sterminati territori, attraversati spesso e volentieri anche da serragli itineranti, gioia infinita per grandi e piccini. Insieme a queste apparizioni da documentario, i Bestiari, anche quelli di zoologia “standard”, non specializzati in mostri e mitologia, includevano spesso gli animali leggendari come l’unicono, la manticora, il centauro… capitava perché un milione di diverse tradizioni e variegate testimonianze dirette – da Plinio in poi – ne parlava e li raffigurava come il più reale dei conigli da cortile, giudicandoli al massimo un po’ più “rari” e difficili da scorgere del benedetto coniglio. Altro fattore, a rendere del tutto equivalenti gli animali (per noi) veri da quelli (per noi) mitologici, è l’onnipresente strato di insegnamenti e significati religiosi che la società Medievale utilizzava per interpretare il comportamento degli animali, trasformandoli in esempi di vizio o virtù.

Cavolo, se ho studiato.

Al di là di tutta questa erudizione, Pastoureau rende avvincentissimo anche il più scalognato dei serpenti di mare. Ogni animale è una minera di divertimento e stupefacenti rivelazioni, tra incredibili metafore cristiane, orribili pregiudizi e grande disapprovazione per gli appetiti sessuali più smodati (peste vi colga, se vi comportate come la lupa!).

Qualche pagina, così vi innamorate pure voi.
Và, che storia.

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Per i bestiari, (il riccio) è una bestia “nociva”, “avida e piena di spine”, che cerca di rubare l’uva dalle vigne. Quando è matura, il riccio si dirige furtivamente nel vigneto, scuote i pampini, fa cadere i chicchi e ci si rotola sopra: gli acini gli si conficcano negli aculei, conferendogli l’aspetto di un pesante grappolo; il riccio, allora, torna nella tana col bottino e si rimpinza a volontà. E’ un ladro che, come il cinghiale biblico, “devasta le vigne del Signore”. I bestiari ne fanno un ritratto negativo, molto lontano dall’immagine che ne abbiamo noi oggi.

***

Altre proprietà restano più enigmatiche, non essendo state commentate a sufficienza. Secondo i bestiari, il leone ha paura di un unico animale, il gallo bianco, e due cose sole lo spaventano: il fuoco e il cigolio delle ruote di un carro. Da dove viene questa credenza, presente già in Solino? Che senso ha? Non lo sappiamo. E poi, perché il gallo bianco, e solo lui, fa paura al leone? I bestiari non ce lo rivelano direttamente, ma ricordano che fu un gallo ad accompagnare per tre volte con il suo canto il rinnegamento di Pietro (associato al leone) e che, da allora, tutti i galli accompagnano con il loro verso lo scoccare delle ore del giorno in onore di Dio. Al crepuscolo, quando il gallo tace, scende la notte con il suo corteo di demoni malefici: la notte è nera, il gallo è bianco.
Il leone si distingue anche per altre caratteristiche, meno diffuse. Quando è arrabbiato, pesta per terra: è Dio che colpisce gli uomini per allontanarli dal male; castiga coloro che ama. Quando vuole andare a caccia, traccia un cerchio con la coda; tutte le bestie che vi entrano non vogliono più uscirne: il cerchio è il paradiso; la coda la giustizia divina; le bestie gli eletti chiamati in Cielo.

***

Quelli a sinistra, anche se non si direbbe, sono struzzi. E non importa che non somiglino a com’è davvero lo struzzo, per dire: “la maggior parte degli autori presenta lo struzzo con testa e corpo da uccello, ma gli attribuisce zampe da cammello. Altri lo assimilano al misterioso camaleonte, creatura polimorfa che cambia colore a suo piacimento. Del resto, non soltanto non vola, ma non costruisce nemmeno il nido. Non può essere un uccello!”
Altre magimagie dello struzzo:

Stando ai bestiari, lo struzzo può ingoiare qualsiasi cosa. Il suo stomaco è in grado di digerire tutto, anche il metallo: la sua natura calda fa sciogliere ciò che vi si introduce, come in una pentola. Di qui, nelle immagini, la scelta di un attributo metallico che aiuta a riconoscere lo struzzo: un chiodo o un ferro di cavallo nel becco.

Lo struzzo depone uova enormi, che non cova: le nasconde sotto la sabbia del deserto, poi le dimentica, preferendo passare il tempo a guardare le stelle. Per alcuni autori, la femmina è una cattiva madre, pigra, smemorata, indifferente. Altri le trovano qualche giustificazione: è così pesante che schiaccerebbe le uova, se le covasse; spetta dunque al sole riscaldarle con i suoi raggi.

Quelle a destra, invece, sono gru. Occhio a quella davanti, col sasso nella zampa.

Tutti i bestiari raccontano che durante i loro lunghi viaggi le gru si posano a terra per dormire. Una sola monta la guardia, e per non scivolare nel sonno stringe un sasso con una zampa. Se si addormenta, la pietra cadrebbe sull’altra zampa e la sveglierebbe.

La gru, paladina dei Metronotte.

***

Sembra un libro di favole. Ed è anche scritto come un libro di favole. Solo che è anche un saggio storico, una bellissima collezione di immagini che mai al mondo avrei sospettato che i miniatori del 1200 potessero fare pavoni così “moderni”, un’avventura artistica, un trionfo per i curiosoni e uno spaccato di vita quotidiana in un tempo lontano… molto meno buio di quanto siamo abituati a pensare.
Insomma, io mi sono divertita immensamente. E ho anche scoperto che le donnole venivano ritenute molto più abili dei gatti a cacciare i topi. E ora so anche perché i delatori li chiamiamo “corvi”. Ma è lunga da spiegare, bisognerebbe avvalersi di una volpe e di una foresta… e poi Pastoureau è molto più bravo a raccontarvelo. Vi affido a lui, senza indugi.
Fatevi un regalo. E campate mille anni, come il cervo.

***

 

– Michele?
– Dimmi.
– Ti chiami Michele, giusto?
– Sì. Scusa. Otto anni.
– Sono otto anni che lavori qui?
– Otto anni e sette mesi.
– E ti trovi bene?
– Abbastanza.
– A me qui piace tantissimo.
Gervasini grattò con la punta della forchetta la base della collina giallognola. Niente da fare. Persino il purè era più forte di lui.
– Senti Adele, io non ti conosco. Ma…
– Facciamo finta che ci conosciamo. Così è più semplice.
– Ok. Allora, posso chiederti una cosa?
– Certo.
– Sicura?
– Sicura.
– Come fa a piacerti tantissimo un posto dove la gente si ammazza?

Peppe Fiore, Nessuno è indispensabile
Einaudi (i Coralli)

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Non si lavora. Si lavora troppo. Si lavora bene ma nessuno se ne accorge. Si fa finta di lavorare, tanto c’è sempre un pirla che si prende la colpa. Si timbra il cartellino quattro volte al giorno. Non si timbra perchè col progetto non c’è da timbrare. Ad agosto non si può accendere l’aria perchè la tua collega ha i bronchi di cristallo. Ad agosto devi stare a meno sei perchè la tua collega in menopausa deve tenere a bada le scalmane. Ci sono quelli che hanno la firma in fondo alla mail, quelli che scrivono mail come se fossero verbali dei carabinieri, quelli che si personalizzano il carattere perchè l’Arial 10 è da impiegato senz’anima. Scrivanie con foto di cani. Scrivanie con foto di bambini. Tutti hanno una tazza, te hai un portamatite di plastica. Il temperino non ce l’ha mai nessuno. Tutti attaccano qualcosa di straordinariamente originale alla chiavetta del caffè. La macchina del caffè non caccia latte neanche a pedate. Se c’è il latte, non vengono giù le palettine per mescolare la roba. La chiavetta del caffè le distribuisce sempre una persona importante, che non è mai quella che custodisce i buoni pasto. I buoni pasto li hanno gli stagisti e quelli col contratto. In ogni caso, sono sempre di almeno un euro sotto a quanto mangi effettivamente. Si scorgono tupperware pieni di pasta vecchia, i salamini Beretta nella pratica confezione con lo scompartino per i taralli, le piade del bar che ti fanno venire sonno, i cous-cous organico che non si capisce se vada mangiato caldo o freddo. La mensa c’è se lavori in uno di quei posti scomodissimi fuori città. Se lavori al confine tra la città e la non-città sei fregato, non c’è la mensa e l’unico bar dei dintorni è in mezzo a un deserto nucleare, punteggiato dalle ossa dei grandi rettili del passato. E la benzina costa. E i mezzi non funzionano. La metro è comoda, ma poi arrivi in ritardo perchè ci sono quelli che si gettano sulle rotaie. Leggi il Leggo. E in Metro leggi Metro. Alle fermate all’aperto leggi City. L’unica differenza è l’oroscopo. Passano sempre dei piccioni, poi volano via e te devi andare in ufficio e allora li guardi e ti ritrovi su un marciapiede a domandarti come sei riuscito a produrre un sentimento d’invidia per dei piccioni. E allora entri e passi il resto della giornata a cercare di capire perchè sei lì.

Non credevo che venisse così lungo, il benedetto preambolo. Sarà perchè l’ufficio confonde. E debilita anche un po’. Il fatto è che l’ufficio produce anche una girandola di emozioni e sentimenti assolutamente non richiesti. Sarà che ci si passa troppo tempo per far finta che non stia davvero capitando a te, alle tue variopinte occhiaie e alle tue lauree. Allora ti adatti, ti arrabbi, ti stanchi, qualche volta ti diverti e immancabilmente inveisci come un vichingo contro le trattenute. Ma poi capisci che ti è andata bene, perchè alla Montefoschi, nobile azienda a ex-conduzione familiare per la produzione di latte e derivati, c’è chi decide di darsi fuoco nell’armadio delle scope.

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Raggiunse lo schedario di alluminio verde alle spalle di Gervasini, infilò il faldone nel cassetto della lettera C. Tornò a sedersi, e concluse: – La paura, Gervasini. La nostra cara, umana, preziosa paura. L’unica forma di democrazia che resiste al tempo. Altrimenti perchè crede che la gente si uccida?
– Lucia Frangipani non aveva paura di niente.
– E lei cosa ne sa? I colleghi sono persone fino a un certo punto. Per questo si chiamano risorse umane.

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Nessuno è indispensabile è un libro pieno zeppo d’intelligentissimo e malvagio divertimento. Imperscrutabili mucche in vetroresina, gente che s’ammazza in ufficio, agghiaccianti siti per cuori solitari, stagiste col nasone che però se le guardi bene non sono poi così degli scaldabagni, integratori alimentari che spazzano via i risparmi di una vita, code sul raccordo, silos pieni di latte che luccica al chiaro di luna, case con dentro solo un’iguana, grezzoni col gessato che fanno i brillanti alla macchinetta del caffè e amministratori del personale con la katana appesa in ufficio… personaggi inespressivi e insensibili, che mandano mail direttamente dal cimitero dei tuoi sogni.

from: segreteria.hr@montefoschicorporate.it
to: m.gervasini@montefoschicorporate.it
subject: CONVOCAZIONE

Alla c.a. del sig. Michele Gervasini
La SV è invitata a presentarsi il giorno lunedì sg. corrente mese alle ore 17.00 presso l’Ufficio del personale, piano V, stanza 127 all’attenzione del dott. Stefano Bigazzi.

Si prega cortesemente di dare conferma di avvenuta ricezione della presente.

Cordiali saluti,

La Segreteria Direzione Human Resources

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E l’eroe? C’è, l’eroe?
Peppe Fiore ha deciso di scrivere un libro sul più sfortunato e goffo dei vostri colleghi. Quello che se anche si cambia vi sembra sempre vestito allo stesso modo e che la gente si tira dietro sul balcone perchè non c’è neanche un ficus su cui indirizzare il fumo della sigaretta. Una faccia che mai riuscirete ad associare a un nome… e non perchè siete rincoglioniti, ma perchè proprio non v’interessa.
E Michele Gervasini è lì, che fa il suo, sperando fortissimo che non gli capiti più niente di male.
Lo devono promuovere da quattro anni, ma non è mai il momento giusto. E quella totale assenza di eventi che contraddistingue la sua giornata lavorativa finisce pian piano per invadere anche il resto del tempo. Fa il contabile per mozzarelle e yogurt e, non pago, campa a mozzarelle e yogurt. Tollera orribili spostamenti mattutini nell’incubo del traffico di Roma, ma solo per andare in ufficio, che se lo invitano da qualche parte a farsi due risate non ci va perchè pigliare la macchina è troppo faticoso. Gervasini viene rimbalzato, ignorato, maltrattato e lasciato a marcire come un delfino disorientato sul bagnasciuga dell’ufficio contabilità. Zero carriera, mai una gioia… e i suoi conti sono un casino perchè l’unico che doveva dargli una risposta urgente s’è buttato dalla finestra. Gervasini un po’ ti fa tenerezza e un po’ lo prenderesti a sganassoni. E gli sganassoni sono per quelle innumerevoli piccole cose della sua personalità che ti fanno venire in mente anche la tua, di giornata lavorativa.

Insomma, panico, scrivanie, contabilità, cattiverie burocratiche ed estrema disperazione impiegatizia… sembrerebbe una roba che non potrebbe mai e poi mai far ridere (sia forte e allegramente che con amara pensosità), ma probabilmente Peppe Fiore è cascato in un ruscello magico da piccolo.

Insomma, è con passione e scompigliatissimo trasporto che vi consiglio questo libro. Ci sono pure dei piccoli lavoratori che si gettano ordinatamente nel vuoto dal codice a barre. Parliamone!

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Ai piedi delle due immagini c’era scritto cubitale LAVORARE UCCIDE! e più sotto ancora la convocazione di un’assemblea sindacale straordinaria per il martedì successivo. Gervasini, come tutti gli altri, si appallottolò il volantino in tasca, e si avviò a passo deciso verso l’ingresso degli uffici. Doveva lavorare, lui.
Anche il sindacalista, ovvio, doveva lavorare. Ma questo non gli impedì di presidiare il piazzale finchè non fu sicuro che il grosso dei dipendenti avesse avuto almeno un volantino. Avrebbe timbrato il cartellino in ritardo, ma amen: la rivoluzione non ha orari d’ufficio.

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E ricordate. Chi non legge Nessuno è indispensabile è un Michele Gervasini!

Giovanna ha problemi con il suo Hot Fire. Vorrebbe iniziare subito con una scena hard, ma Leonora Forneris le ha bocciato un semplice atto di sesso orale praticato dalla protagonista, Olean, nei confronti del protagonista, Kosak. Leonora obietta che al sesso orale ci arriveranno non prima del terzo o quarto capitolo, e che nel frattempo al massimo possono avere un rapporto solo apparentemente casuale nel deposito bagagli della nave da crociera su cui entrambi viaggiano. Solo apparentemente casuale perchè in seguito nessuno dei due potrà dimenticare quel momento, e questo impedirà a lui di sedurre, come programmato, la presidentessa della Indusrials Union del Canada.
– Che faccio? Lui la rovescia su una Samsonite?
– Troppo dura. Fai uno zaino.

Romanzo rosa è un piccolo libro immensamente spassoso. C’è questa bibliotecaria di quasi sessant’anni che decide di frequentare un corso del Circolo dei Lettori per imparare a scrivere un Melody. Ed è una poco abituata ad essere travolta dall’impeto della passione… quando proprio si emoziona è perchè va a mangiare al Flunch con la sua vicina di casa, che la sconfigge sempre a canasta. Insomma, va a questo corso. L’insegnante è la celeberrima Leonora Forneris, maestra del Melody e gran signora, una che si veste con colori mai sentiti, tipo l’ardesia. Nel libro ci sono la storia del corso, le dispense della Forneris (con dettagliate istruzioni su come strutturare un glorioso Melody capitolo per capitolo) e il romanzo della signora Olimpia.
Bene. In due diversi punti ho distintamente pianto dalle risate. E la sera che l’ho letto ho scordato che dovevo lavarmi i capelli ed è finita che ho dovuto rimediare alle tre di notte, in uno sconvolgimento totale di bioritmi. Insomma, sarebbe importantissimo prendere la signora Bertola, vestirla tutta di rosa confetto e mandarla a soccorrere le vittime di Christian Grey, che farsi una sonora e intelligente sghignazzata sui luoghi comuni è decisamente più salutare che farsi sfigurare a sberloni – anche se pieni di romanticismo – da giovani uomini con insondabili disordini della personalità.
E poi l’ardesia è la più nobile delle sfumatura di grigio.

 

Le renne non sono originarie dell’Islanda, ma vi furono importate tra il 1770 e il 1778. Il mostro più famoso dell’Islanda è il serpente di fiume Lagarflijòt dell’Egilsstadir. Il primo tentativo del mondo di frenare una colata lavica con l’acqua fu portato felicemente a termine nel 1974, durante l’eruzione delle isole Vastmannaeyjar. In Islanda non ci sono nè ferrovie nè treni. Il campionato del mondo di bridge fu vinto nel 1961 dalla nazionale islandese. Il nuoto è meteria obbligatoria per tutti nelle scuole elementari. Il merluzzo più grande mai pescato in acque islandesi pesava 50 chili, mentre il più grosso salmone mai catturato con la lenza era lungo 130 centimetri – fu pescato nel 1992 nel Bakkaà, aveva undici anni ed era immangiabile.
Oltre al mitologico serpente di fiume, alle renne d’importazione e ai merluzzi affetti da gigantismo, in Islanda c’è anche Auður Ava Ólafsdóttir, autrice di Rosa candida, un romanzo di rara e piacevolissima morbidosità.

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– Le verdure non sono mai state la mia passione, mio caro Lobbi. Piuttosto erano il pallino della mamma. Io riuscirei a mangiare al massimo un pomodoro alla settimana. Quanti pomodori hai detto che può dare ogni pianta?
– Almeno prova a regalarli.
– Non è che posso bussare di continuo alla porta dei vicini con i miei pomodori in mano.
– E se li dài a Bogga?
Glielo domando anche se ho il sospetto che la vecchia amica della mamma abbia gli stessi gusti di papà.
– Non ti aspetterai mica che vada a trovarla tutte le settimane con tre chili di pomodori. Insisterebbe per farmi rimanere a cena.

Dunque. Lobbi ha ventudue anni, un padre affettuoso e goffo che si ostina a cucinare anche se non è troppo capace, un fratello gemello autistico che non dimentica mai di indossare la cravatta e un talento autentico e pacifico per il giardinaggio, ereditato dalla mamma. Questa mamma, morta da poco in un incidente stradale, riusciva a far crescere gli alberi anche nello stravento ed era il tipo di donna straordinaria che esce di notte per andare a lavorare in pace nella sua serra super lussureggiante. Lobbi, alto, secco, coi capelli rossi e una sbilenchissima prospettiva sul mondo e gli altri esseri umani, passa parecchio tempo nella serra… ci va a leggere, a studiare le piante, a pensare e a fare l’amore con amiche di amici. Quando ci finisce con Anna, però, l’effetto imprevedibile di quelle poche ore trascorse insieme sarà una bambina bionda, curiosa e tranquilla. Lobbi non sa bene che cosa pensare. All’inizio la risolve imbarcandosi per qualche mese su un peschereccio – vomitando l’anima – e decidendo, una volta tornato in Islanda, di accettare un lavoro da giardiniere in un paese del Nord Europa dove non c’è lava congelata da tutte le parti e le rose possono crescere senza sbriciolarsi. E visto che con Anna non è che si stia proprio insieme, anzi, Lobbi compra un po’ di pigiamini per Flòra Sòl, saluta tutti quanti e inizia il suo viaggio verso il lontano giardino. L’avventura inizia con un attacco di appendicite, prosegue con un istruttivo tragitto in macchina e s’ingarbuglia in difficoltà linguistiche – che Lobbi risolve parlando a tutti di piante, possibilmente in latino -, fino all’approdo al monastero e al suo leggendario roseto, ormai invaso dai rovi e reso opaco dal decennale menefreghismo degli anziani frati. Tra un’aiuola, un bicchierino con padre Tommaso – appassionato di cinema d’autore – e il costante tentativo di far capire a chi vede la foto che Flòra Sòl ha tutti i capelli che dovrebbe avere una bambina di nove mesi, Lobbi cerca di fare a patti con la nostalgia e di ricordare che cosa mai l’abbia spinto a finire laggiù. A chiarirgli le idee, o forse ad aggrovigliarle ancora di più, arriva una telefonata improvvisa di Anna, che vorrebbe lasciargli Flora Sòl per qualche settimana, il tempo necessario a portare a termine la sua tesi di genetica…

– Come si capisce se una donna ti ama?
– In amore è difficile essere sicuri di qualcosa, – ribatte l’abate spostando la bambola verso Flóra Sól.
– E se una donna dice di avere paura che il suo uomo non torni piú, ma lui è uscito soltanto a fare la spesa?
– Allora può voler dire che chi ha voglia di andarsene via è lei.
Mentre si rivolge a me, osserva la bambina intenta a giocare.
– E quando una donna sembra assente? Significa che non è innamorata?
– O che è innamorata. Entrambe le cose.
– E se una donna dice a un uomo che è meglio che lui non s’innamori di lei?
– Allora può voler dire che è lei ad amare. Mi viene in mente un vecchio film italiano che magari t’interessa, affronta proprio queste problematiche. Il regista, in realtà, non utilizza quasi per niente i dialoghi: è per mettere in risalto i sentimenti.
– E se lei dice che non si sente pronta per una relazione?
Mia figlia mi passa la bambola pretendendo che le tolga l’abitino di filo.
– Allora può voler dire che lei è pronta, ma dubita che lo sia tu. Quindi teme di essere rifiutata.
– E se lei dice che ha intenzione di partire per starsene da sola?
– Allora può voler dire che desidera che tu la accompagni.
L’abate si alza e inizia a frugare tra le mensole.
– Esiste una carità ragionevole, recitano certi versi, – continua dall’altro lato della stanza, – ma non un amore ragionevole. Se si vivesse con la testa e basta, sarebbe impossibile incontrare l’amore, come sta scritto qui, da qualche parte… – conclude, e so che non si riferisce alla Bibbia.

Allora, il giardinaggio e i neonati sono esattamente i due temi che mai mi andrei a cercare di proposito. Non è il mio genere, non entro in libreria con la smania di leggere un bel romanzo pieno di concimi floreali e concimi prodotti da piccoli esseri umani, non è cosa. E cucinano anche un sacco… in Islanda è un continuo impanare rombi, mentre nel paesino del roseto c’è un gran spadellare tra fettine di vitello e grosse lepri selvatiche. E le confetture, e i budini. Insomma, anche chi se ne importa della salsa al vino rosso. È quindi con grandissima sorpresa nel cuore che v’informo che Rosa candida mi è piaciuto. È un libro che fa le coccole e ti porta a spasso per posti pensosi attaccato a dei palloncini. È una storia fatta di immagini semplici e rassicuranti, spezzetta le difficoltà in mattoncini che si possono controllare… e non ti cambierà la vita, ma di tanto in tanto fa bene farsi raccontare una cosa del genere. Non so poi che rapporto abbiate voi col romanzo islandese, ma a me non era mai capitato di farmi coccolare da un’islandese. Siamo abituati a storie di persone, famiglie, ricordi e compagnia tenute insieme da interminabili dialoghi, arguzie e macro-espedienti narrativi, qua uno si spoglia nudo all’improvviso e per uscire dall’imbarazzo propone di fare il tè. E basta, va bene così.

Insomma, se volete provare al mondo che anche il vostro cuore di ghiaccio è, in realtà, ripieno di morbida lava o se avete bisogno di leggere qualcosa di soffice e felice – per una volta -, Rosa candida vi farà contenti, anche se ammazzate puntualmente pure le piante grasse.

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Linkarama:

Lo speciale sul sito Einaudi

Il board su Pinterest

Per le straordinarie curiosità sull’Islanda si ringrazia il Consolato Generale

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Fare conversazione a tavola per me è difficile. Credo sia perchè mangio molto lentamente, mastico con grande concentrazione e non ho voglia di far perdere tempo agli altri, che spazzolano tutto con efficienza e poche cerimonie. Insomma, se mangio non parlo e, anche se parlo, finisce che non m’impegno e mi escono robe da nobildonna che va alla bettola di Gassman e Tognazzi per assaggiare l’orrendo zuppone alla porcara, mentre in cucina volano polipi e parrucchini.
Per tutte queste ragioni, mangiare da sola non mi dispiace. Mi porto un libro, sto in pace e ciao. Anzi, leggere mentre mangio mi piace tantissimo, soprattutto a pranzo.
Ultimamente, però, il mio felice isolamento biblioalimentare del mezzogiorno è disturbato da Niccolò Ammaniti.
Sono lì, incagnata nell’angolo vicino alla finestra col mio libro e il couscous pollo grigliato-nocciole. Tranquilla e contenta come una torta di mele, ma rido così forte che la gente viene a rompermi i coglioni per sapere che cosa sto leggendo.
Sto leggendo Il momento è delicato, accidenti a voi.

Che sensazione singolare, continuava a sentire il braccio al solito posto, addirittura gli pareva di poter stringere le dita eppure il gigante lo brandiva come una clava.
Che ci vuole fare?
La risposta gli arrivò subito quando venne colpito in faccia dal suo stesso bicipite per tre volte di seguito.

E no, non sono affatto disturbata da fratture, colonne vertebrali strappate dal tronco, cartilagini frantumate, guardoni obesi, seghe, Alba Parietti, piscio di santoni indiani e mostri mutaforma ghiotti di carne umana. La torta salata ricotta e spinaci non mi va di traverso, faccio solo delle gran brutte figure. C’è la gente lì, col completo da consulente, le ballerine pratiche ma eleganti e la vaschetta di verdure grigliate. Gente gioviale che si nutre coi colleghi. E a due metri ci sono io che m’imbatto in cose così:

Il vero problema era il letto. Che fare con le lenzuola? L’unica era coprire quel profumo con un odore più forte. E se accidentalmente gli fosse caduto sul letto qualcosa? Ecco! Tirò fuori dal congelatore dei sofficini al pomodoro e li gettò in padella ripetendosi: “Avevo fame e mi sono fatto dei sofficini e per sbaglio mi sono caduti sulle lenzuola”. Quando furono cotti, li versò sul letto con tutto l’olio che si fuse con il rivestimento del materasso di lattice generando un mezzo incendio e una nuvola di fumo nero e tossico, ma eliminando per sempre l’odore di Angela. Mara avrebbe pensato che era un coglione totale, non un fedifrago. Eccellente, si disse compiaciuto.

O in robe abominevoli, che non sai nemmeno tu perchè ti divertono così, tipo tutto quanto Fa un po’ male, racconto che mi ha fatto battere ogni record di rallentamenti per curiosi vicino al tavolo. E per un racconto che ha i pompini come snodo narrativo centrale, son belle soddisfazioni.
Produco i doverosi esempi:

Se Angela Milano, studentessa al terzo anno in odontoiatria, avesse fatto un pompino a Robbi Cafagna tutti questa triste vicenda non sarebbe mai avvenuta e io non starei qui a raccontarvela.
Ma una sorte amara volle che proprio quel pomeriggio Angela, dopo una lunga discussione con l’amica del cuore Verdiana Ceccherini, decise di cessare, almeno per un po’, quest’antica pratica orale che, a suo giudizio, rischiava di definirla solo per una delle sue innumerevoli qualità.

Robbi Cafagna è uno tra i più sventurati dell’intero libro. E se lo merita.
I suoi guai nascono, per la sacrosanta legge del contrappasso, da un’affermazione molto decisa ma poco lungimirante.

– Allora, che hai contro gli omosessuali, si può sapere?
Non mollava.
–  Niente. Assolutamente niente -. Quanto avrebbe voluto invece dirle: “I froci mi fanno schifo. E’ gente malata che si sente pure ‘sto cazzo e si credono artisti solo perchè lo prendono in culo”.

E dopo una roba del genere, ti siedi lì e ti godi tutto il disastro che si abbatterà sul Cafagna. Io ero solo dispiaciuta di non potermi togliere le scarpe al ristorante per stare più comoda, ma ero però ben contenta di vedere che il Tenaglia non faceva un bel niente per aiutare Robbi (che è pure spilorcio e genericamente razzista), scegliendo di rimanere sul divano ad ammirare la Cuccarini al Telethon.

All’inizio si era fatto delle seghe a caso, dissipando energie a cazzo, osservando il suo “amore” mentre introduceva gli ospiti, scherzava, guardava il tabellone e incitava la gente a casa a mandare soldi. Poi si era reso conto che aveva davanti a sè ancora tante ore di trasmissione e quindi aveva deciso di ottimizzare le seghe per arrivare a fine maratona vivo.
Se ne sarebbe fatta una per ogni miliardo che totalizzavano.

Qua m’è cascato in terra un panino. L’abbigliamento. L’abbigliamento male assortito con altro abbigliamento e ancor peggio con la situazione generale mi fa ridere da sempre:

Aprì il cofano. Dentro c’era il motore. Nero, sporco, pieno di fili, incomprensibile come un manufatto alieno.
Lo guardò.
– Se lo guardi non si aggiusta mica.
Robbi girò la testa.
C’era un travestito, abbronzatissimo, che assomigliava a Mara Venier, solo più femminile. Addosso aveva la maglia di Totti, Aveva le gambe lunghe e due scarpe argentate con delle zeppe alte venti centimetri. – E’ un problema elettrico. Controlla lo spinterogeno. A volte si stacca e non fa più contatto.

Facevo prima a fare le fotocopie del racconto, ma pazienza. Facciamo che vi risparmio la sinossi del film porno anelato da Robbi, anche se era molto bellina, con questa tribù di amazzoni che per una strana mutazione genetica sono costrette a nutrirsi solo di sperma. Povere creature. Dicevo, vi risparmio le voraci amazzoni, ma questa no. E poi basta, così vi andate a comprare il libro e mi lasciate mangiare in pace, col mio imbarazzo da giovane donna che ride da sola.

Robbi provò a scappare, a scavalcare la recinzione ma dietro aveva un piccoletto calvo con un cacciavite in mano. Glielo infilò nelle reni. Robbi urlò di dolore come un babbuino ferito. Una vecchia gli tirò una bottiglietta di Oransoda in testa.
Poi si sciolsero le corse e lo spinsero verso il centro dell’arena.
Provò di nuovo a uscire fuori ma il piccoletto lo colpì ancora col il cacciavite. Tutto intorno era un muro umano. Lo incitavano a combattere. Da dietro le fiamme apparve Django. Ruotava sopra la testa una corda a cui era legata una batteria Magneti Marelli.

Un’altra, dai. Ma giuro che è l’ultima. Così capite che non c’è niente di disdicevole a leggere una raccolta di racconti e potete inveire anche voi contro l’autore, se finisce che vi fermano mentre fumate una sigaretta prima di salire in ufficio e vi si accucciano sotto al libro per vedere il titolo. E’ imbarazzante anche la gente che non conosci e che all’improvviso ti si rannicchia vicino alle ginocchia, ve lo assicuro.

Sprofondò in un cumulo di immondizia senza farsi niente. Era finito tra buste, frutta marcia, poltrone di automobili, scatole di cartone. C’era una puzza da vomitare.
Doveva fare come Rambo quando era inseguito dall’esercito degli Stati Uniti.
Cominciò a coprirsi con bucce di banana, lische di pesce marcio, la carcassa di un pastore tedesco, giornali.

Ecco, io ho finito. Ma c’è tutto quanto il resto del libro. Ha una copertina nera con delle case e ci sono anche delle storie non trucide, se vi prendete male con gli orchi, le viscere che si srotolano e i denti aguzzi. Ci sono anche i racconti belli coi bambini. Coi cani da salvare sul raccordo anulare. Insomma, prendetevela con Ammaniti e fatemi masticare senza dovervi rispondere ficcando tutto nelle guance, come un cricetone.

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Per fare un fantasma occorrono una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa. Di alcune caratteristiche fondamentali di questa casa si dirà più avanti. Il male dev’essere intollerabile, porti o non porti al suicidio; dove l’intollerabilità, si badi, dev’essere destinata a non scemare per scorrer di tempo ma, al contrario, a vieppiù incrudelire: e prima, e dopo il decesso.

Michele Mari
Fantasmagonia
Einaudi (Supercoralli)

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Un fantasma non succede per caso. Per fare un fantasma devono incastrarsi diciannove circostanze sciagurate, faccende che hanno a che fare con un posto – molto piccolo e spesso percorso dagli avanti e indietro di qualcuno che sia profondamente intento a rimuginare l’odio antico di un torto intollerabile – e con un “irrimarginabile squarcio” del cuore. Tra i due opposti estremi – l’essere vivo e l’essere uno spettro che infesta una casa – c’è tutta una storia di respiro, molecole che si fondono, polvere che si accumula e rancore che non si dimentica. Si chiama fantasmasi, o fantasmagonia… a Mari piacciono tutti e due i termini, ma io preferisco fantasmagonia, fa più teatro, con le botole che si spalancano in mezzo al palcoscenico. In questo libro bellissimo si aggira di tutto: c’è il mostro dei fratelli Grimm – che abita nel sotterraneo e racconta favole per loro -, ci sono dinamiche familiari distrutte dai tortelli, c’è Lord Shelley – pieno di bulloni e cuciture – e ci sono principesse impazzite a causa di rape che si rifiutano di vivere e sanguinare. C’è una creatura strana e sinistra per ogni ossessione creativa, c’è una storia per ogni angolo buio in cui ci siamo mai seduti. Perchè c’è chi si rannicchia in angolini morbidi e riparati e chi, invece, trova il suo angolino già occupato da qualcosa di vecchio e paziente, con molti occhi e molti artigli.

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Per ulteriori e avvincenti carinerie, c’è il Fantasmagonia-board che sto aggeggiando su Pinterest

 

Vorrei dire subito che non ho ancora letto Infinite Jest e Il re pallido.
Di Infinite Jest ho sia l’edizione Fandango che quella Einaudi. Il re pallido sul mio scaffale è un Pale King, ma non giace intonso e sonnacchioso perchè ho paura di lottare con le tasse in inglese. La verità è che sono equipaggiatissima e che sarei anche pronta all’impresa, con tanto di bandana che garrisce al vento e cesti di frutta ammucchiati sul letto, ma non li voglio leggere, non subito. Finchè Infinite Jest sarà estraneo al mio cuore, finchè resterà lì ad aspettarmi con tutte le sue mille pagine – più note -, ecco, fino a quel momento potrò pensare che Wallace deve ancora raccontarmi delle storie. Il che mi autorizza anche a immaginarlo che festeggia il compleanno. E no, non credo di aver abbracciato un qualche tipo di culto dello scrittore-zombie… è solo davvero confortante sapere che una meraviglia sta facendo dei pisoli vicino a te. E che sarà paziente abbastanza da aspettare e tollerare un po’ di polvere che si ammucchia. Così, nonostante l’odio viscerale che nutro per ricorrenze, anniversari, celebrazioni più o meno postume e cerchietti sul calendario, farò gioiosamente gli auguri al genio che ha inseguito invano la cameriera Petra, che ha fatto crepare d’invidia Jonathan Franzen – con tutti gli occhiali – e che ha inventato, tra le altre cose, uno dei personaggi più strabilianti dell’universo tutto: Stonecipher LaVache Beadsman III, detto l’Anticristo.

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Sono molto fortunata perchè ho dei colleghi che si prodigano per ridurre la mia rotondissima ignoranza. Grazie al cielo, ad un certo punto mi hanno messo in mano La scopa del sistema. Come facessi a stare al mondo prima, per me è un mistero. In questo libro, che dovrei rileggere e tatuarmi addosso, si incontrano miracoli come il pappagallo Vlad l’Impalatore, si trovano favole, raganelle che si annidano tra le clavicole di ragazze timide e deserti di sabbia nera, costruiti assemblando il peggio della natura per temprare la volontà della popolazione dell’Ohio, gente piccia come la neve del pomeriggio. L’amico che non avete mai avuto, però, è LaVache.
Arriva così:

Che Stonecipher LaVache Beadsman avesse un aspetto luciferino era cosa innegabile. Aveva la pelle di un rosso cupo e lustro; e i capelli di un nero unto e ravviati all’indietro a liberare la fronte spaziosa su cui aggettava la V dell’attaccatura, e le sopracciglia di spessore brezneviano, che partivano alte quasi dalle tempie per poi piombare torvamente verso gli occhi, e la testa piccola e ovale e non proprio saldamente ancorata al collo e decisamente propensa a ciondolare di lato, come la testa di un calzascarpe snodabile. Felpa OBERLIN e bermuda a coste, e peli sul piede, quest’ultimo situato accanto a un paio di Converse nere modello alto. Aveva una lavagnetta attaccata alla gamba, e dalla lavagnetta pendeva una catenella con una penna, ed era seduto su una sedia a sdraio, e guardava la televisione, di profilo rispetto a Lenore ferma sulla soglia.

Vi servirà anche sapere che LaVache non possiede ufficialmente un telefono – ma un linfonodo – e che barcolla su un’astuta gamba di legno:

LaVache sollevò la lavagnetta, aprì un cassetto di plastica ricavato nella gamba artificiale, e ne cavò una canna già rollata, che lanciò a Heat.
– Un cassetto? – disse Lenore.
– Ce l’ho sin dai tempi del liceo,  – disse LaVache . – Solo che a casa metto quasi sempre i pantaloni lunghi. Dài, non dirmi che non sapevi del cassetto.

Il cassetto della gamba serve a raccogliere i tributi. LaVache è, infatti, un accorto benefattore e si prodiga affinchè schiere di studenti riescano a passare con dignità gli esami. Che si tratti di Hegel, Darwin o calcolo combinatorio, tutto quello che devono fare, per accedere alla sconfinata conoscenza di LaVache, è adagiare un obolo nel prezioso scomparto segreto. La magia del sapere è, nel suo caso, del tutto indipendente dalle lezioni:

– Io ho lezione, – disse LaVache. – Lo so per certo perchè così dice la mia agenda -. Si pulì un’unghia col fermaglio della lavagnetta.
– A me ha detto che in questo semestre seguirà almeno una lezione, – disse Heat a Lenore mentre si esibiva in una verticale sul pavimento, con la camicia che gli spioveva sulla faccia. – Ha deciso che almeno a una ci andrà.
– Bè, sono pur sempre un
disabile, – disse LaVache. – Non si può pretendere che un disabile arranchi fin lassù ogni santo giorno per seguire tutte le lezioni del semestre.

La magia del sapere è anche del tutto immune a Ciao Bob. Ciao Bob è un gioco di raffinatissimo sadismo, una cosa da Primo Testamento. LaVache e i suoi sventurati coinquilini guardano il “Bob Newhart Show” passandosi una bottiglia di vodka. Ogni volta che qualcuno dice “Ciao Bob”, chi ha la bottiglia in mano deve bere un sorso. Se “Ciao Bob” lo dice Bill Daley, chi ha la bottiglia deve berla tutta, in cinque minuti al massimo. Sopravvivere sembrerebbe impossibile, ma c’è una soluzione a qualsiasi disgrazia:

– Ormai non si vomita più, – disse LaVache. – Qui all’Amherst qualche anno fa c’è stato un tizio, un tizio veramente mitico, che ha introdotto l’usanza per cui invece di vomitare ci si mette a picchiare la testa contro il muro.
– A picchiare la testa?

– Molto forte.

Stupidaggini a parte, LaVache è un vero Beadsman, anche se gli piacerebbe dimenticarlo. Come chiunque nella sua famiglia, il linguaggio non serve solo a trovare un nome alle cose, ma esiste per trasformarle in quello che dovrebbero essere. Ecco perchè non sopporta di sentirsi chiamare Stoney.

– Stoney mi rammenta di aspettative irritanti. Stoney mi rammenta Papà. Come Stoney sono più o meno dedotto…
– Cosa?
– …mentre come l’Anticristo semplicemente
sono, – disse l’Anticristo, puntando enfaticamente la canna verso l’orizzonte rosso e nero. – Come l’Anticristo ho una cosa, ed è eroicamente chiaro dove finisca io e inizino gli altri, e nessuno si aspetta che io sia altro da ciò che sono, cioè una vita sprecata, uno che si fa in quattro per gli altri allo scopo di sostentare la propria gamba.

La gamba sarà anche la super-metafora di una mente brillante che si manda a far benedire da sola, ma serve anche a far giocare i bambini.

La bambina fissava un versante del lustro e scuro viso dell’Anticristo, notò Lenore. La bambina lo tirò per un lembo della felpa.
– Tu sei il diavolo? – gli chiese, a voce alta. I genitori parvero non sentire.
– Non in questo momento, – disse l’Anticristo alla bambina, affidandole del tutto la gamba, per un po’.

***

Si potrebbe andare avanti per dei mesi, lunghissimi mesi d’insolita bellezza. E a leggervi/rileggervi La scopa del sistema ci mettereste di meno, quindi desisto, senza nemmeno dover ricorrere al pappagallo più vanitoso e blasfemo della letteratura. E visto che sono qua apposta, tanti begli auguri a David Foster Wallace, perchè oggi compie cinquant’anni. E andrà avanti a compierli, finchè non avrò letto Infinite Jest.