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Qua non so bene come comportarmi, perché La spinta di Ashley Audrain – da noi uscito per Rizzoli con la traduzione di Isabella Zani – è un libro di una sgradevolezza rara. Succedono cose terrificanti, luttuose, traumatiche. E succedono nel territorio della maternità, una landa che già di suo presenta una gran quantità di garbugli e di potenziali pozzi oscuri. È un romanzo tremendo da leggere, difficile da sopportare e a tratti anche fin troppo calcato, ma eliminando tutte le tare del caso penso restino degli spunti di riflessione più che dignitosi. Certo, li si piglia e li si stiracchia fino al limite estremo del plausibile – per quanto possa aver senso stabilire confini -, ma pare quasi un esercizio speculativo. Che succede se deformiamo le domande basilari che una neo-madre può porsi? Da dove spuntano i mostri? Saremo capaci di fare quello che ci si aspetta da noi? Quanto possiamo ritenerci attendibili in situazioni di stress e isolamento? I “cattivi esempi” sono una profezia o un monito che può aiutarci a spezzare un destino fallimentare?

Blythe è il prodotto di una dinastia di madri che la società civile disapproverebbe. È sopravvissuta a un’infanzia infelice e al rifiuto costante, senza avere gli strumenti “anagrafici” necessari per decodificare i patimenti delle donne della sua famiglia. All’università conosce un ragazzo e, per la prima volta, riesce a immaginare un futuro tollerabile – anzi, un futuro felice. Sono innamorati, lui è convinto che in lei si nasconda una madre meravigliosa e lei ha un gran bisogno di crederci, di meritarsi questa vasta fiducia. Nasce Violet, ma Blythe ci capisce poco. Si ritrova inchiodata a casa – è Fox che lavora mentre lei prova a dedicarsi alla scrittura – con una neonata che pare richiedere più di quanto lei possa ragionevolmente darle. Nulla di quanto aveva immaginato trova specchio nella quotidianità con Violet, ma mostrarsi capace e padrona della situazione, dar prova di essere degna di quell’immagine di madre esemplare così cara al marito ha il sopravvento sulla realtà dei fatti. Chissà, magari Blythe esagera. Magari è lei che non ci sta dentro. Violet non sarà mica così terribile, dai. Perché la devi sempre dipingere a tinte così fosche? Verrebbe quasi da pensare che non le vuoi bene… ma sarebbe una mostruosità bella e buona. Sei un mostro, Blythe?

Blythe si convince, giorno per giorno, che in sua figlia ci sia qualcosa di anomalo, qualcosa che supera anche le sue potenziali inabilità nel “gestirla”. Chiaro, si sente in colpa per quattordicimila motivi e si vergogna pure di fare così fatica con lei, ma col passare dei mesi – e dei primi anni – quell’inquietudine di fondo resta. Violet è fredda, manipolatrice, crudele con gli altri bambini (e con lei). Insieme agli innumerevoli “ma dove ho sbagliato”, Blythe deve confrontarsi con suo marito, che Violet pare adorare e che vive un’esperienza di genitorialità completamente diversa dalla sua. Fox resta inserito nel mondo, fa carriera, arriva a casa la sera e viene accolto da sua figlia con evidentissimo entusiasmo. Fox, soprattutto, non accoglie i timori di Blythe. Anzi, li respinge con intransigenza. Il perché facciano un altro figlio è ben sviscerato nel romanzo – per quanto possa sembrarci controintuitivo. È come se Blythe avesse bisogno di riscattarsi, di dimostrare in maniera incontrovertibile che il problema è Violet e che lei è una madre capacissima – e capacissima di amare…

Audrain è abile nel gestire la tensione e i diversi piani temporali. Funziona così: sappiamo da subito che qualcosa è andato terribilmente storto, ma occorre l’intero libro per afferrare davvero l’estensione del disastro. Oltre al “piano temporale” di Blythe abbiamo a disposizione anche le storie di sua madre e di sua nonna che, pur in epoche e contesti differenti, rappresentano un precedente significativo. È come se tutto quello che circonda e “costituisce” Blythe lavori per corroborare la sua inattendibilità. È come se la spiegazione più semplice e valida, nel caso esista qualcosa di cui preoccuparsi, sia l’inadeguatezza della madre. Blythe è problematica a modo suo – e non è un personaggio che ispira chissà quali moti di simpatia -, ma non dispone mai di punti di riferimento accoglienti. Smette quasi di essere una persona e diventa una funzione, non ha più un posto o un’identità – a parte quella di madre, in cui sente esplodere tutto il suo fallimento. È un libro orrendo? Sì. Perché Audrain fa succedere orrori. È un libro potenzialmente utile? Anche. Perché può farci pensare, nonostante l’evidente situazione-limite che costruisce.

Hilma Wolitzer è una relativa novità per noi: per la prima volta la troviamo tradotta in italiano (da Bettina Cristiani) in quest’antologia in libreria per Mondadori, corredata da una prefazione di Elizabeth Strout – che non deve aver sudato sette camicie per scriverla, mi permetto di dire. Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato raccoglie i racconti di Wolitzer usciti in origine attorno agli anni Settanta su un nutrito manipolo di riviste americane. L’unica eccezione è l’ultimo, recentissimo e “pandemico”, ma il resto è una collezione meno vicina nel tempo ma che conserva un suo senso perché la coppia, la famiglia e l’identità modificata dalle relazioni sono temi che mai potranno dirsi vecchi o superati, anche se i contesti di produzione e ricezione cambiano inevitabilmente.

La bandella prova a vendervelo come un “romanzo di racconti”, ma non è particolarmente vero – anche se tutti i mariti sono degli Harold o degli Howard e tutte le mogli (più o meno abbandonate, insonni o intente a sbirciare il mondo dalle finestre di casa) ingaggiano con noi che leggiamo una conversazione che compensa il tran-tran ermetico di una vita domestica che pare ormai sicura, se non paludosa.
Si parla d’amore, di sesso e di gioventù sfiorite, di amanti che minacciano lo status-quo o di ex-mogli invadenti, di corpo, di compromessi e padri assenti, di alleanze femminili e vite alternative da immaginare visitando case in vendita, apparecchiate a tema per evocare idilli molto specifici. Parlano da sole, queste donne. Parlano con noi senza risparmiarsi e con una franchezza modernissima, affilata e amara. Tutte, prima o poi, potrebbero andare fuori di testa al supermercato, coi bambini che non smettono di tirarle per la gonna e che finiscono per farsi ingloriosamente la pipì addosso. Non sono racconti “appariscenti” o vulcanici, sono musica da camera suonata con tutti gli strumenti scordati e i vicini del piano di sopra che litigano, strascicano i piedi o passano l’aspirapolvere. E come finiscono? Così, di botto, dopo aver attraversato in una manciata di pagine uno accidentato e vasto paesaggio interiore.

Dalla gestione domestica all’organizzazione della famiglia, dai compiti di “cura” alle operazioni basilari e ripetitive che garantiscono il buon funzionamento di una casa, con Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli) Annalisa Monfreda si interroga sulle corrispondenze generi-ruoli e sugli automatismi che tradizionalmente condizionano il nostro abitare la coppia, la famiglia, il mondo del lavoro e la dimensione collettiva.
Quale imperativo biologico dovrebbe rendermi più qualificata del mio partner a caricare la lavastoviglie?
In base a quali costrutti stratificati ci sono compiti “da donna” e incombenze “da uomo”?
Perché i “ti aiuto, basta che mi dici cosa devo fare” è una trappola, per quanto forse mossa da buone intenzioni?
Quali strutture di potere diamo per buone senza renderci conto dei confini che ci impongono?

Tra fonti autorevoli e cronache di scleri condivisibili, Monfreda esplora le radici del carico mentale – e delle disparità lampanti ma mascherate che il concettone nasconde – per provare a immaginare una prospettiva che affianchi alla basilare idea di ribilanciamento degli sforzi anche una comprensione meno “meccanica” delle fatiche.
Il perno continua ad essere la scelta, secondo me. Si può scegliere se ci sono alternative. Si può scegliere se esiste un margine di manovra e se resta energia da convogliare in una determinata direzione. Si può scegliere quando ci si rende conto che l’orizzonte dovrebbe essere comune – e raggiungibile da entrambe le parti in causa. Una riflessione sincera, utile, liberatoria e pragmatica che sarebbe bello non leggessimo soltanto noi… WINK-WINK.

[Bonus-track: Bastava chiedere di Emma, il fumetto che ha recentemente rianimato il dibattito sul carico mentale.]

 

Sulle coppie felici si scrivono meno libri? È probabile. Il conflitto è molto più avvincente e ricco da raccontare rispetto al sereno decorrere delle cose. La felicità (sia coniugale che intesa come raggiungimento di un equilibrio personale) è il traguardo che non necessita di ulteriori precisazioni. “E vissero tutti felici e contenti”, che altro mai ti serve sapere? I libri sui matrimoni che si sfasciano, invece, sono una schiera foltissima, varia e riottosa. Barbara Frandino, con questo breve romanzo spigoloso, ci offre un altro spaccato di disastro e caparbi tentativi di raddrizzare una situazione che forse ha ormai superato il salvabile. Il nucleo apparente del contendere – non vi spoilero nulla che non si trovi già nelle prime pagine – è il marito che, oltre a cornificare la moglie, finisce per fare un figlio con l’amante.

Ma questo “niente, sai… è successo che ho fatto un figlio con un’altra”, si innesta su un’irrequietezza coniugale che ha radici profonde. Finiamo per domandarci dov’è che inizia davvero la catastrofe, perché due persone che stanno insieme da vent’anni si ritrovano a una distanza così fredda e siderale. Vale la pena di riprovarci? Avremo la forza e la volontà di rimettere insieme i cocci? Perché rimetterli insieme, poi? La risposta scoppia in faccia a entrambi mentre il marito è in cima a una scala per curare un albero, in giardino, e all’improvviso rovina a terra privo di sensi. La reazione della moglie diventa il segreto indigeribile che segnerà – più o meno consapevolmente – il corse delle schermaglie e dei tentativi futuri di rattoppare le cose, così come si cerca di rattoppare un cuore malandato.

Quanto siamo equipaggiati ad affrontare l’indesiderato? Quanto siamo disposti ad ammettere la fine di quello che ci sostiene e ci ha sostenuto per tanto tempo? Ha più peso la felicità che ricordiamo o il vuoto che viviamo nel presente? Senza fronzoli o svolazzi, Frandino esplora il pantano coniugale (e la maternità, mancata o compiuta), fa squagliare caffettiere e scompagina costantemente le carte, mostrandoci che è dalle apparenti minuzie che in realtà si prepara il campo di battaglia per l’indifferenza più bellicosa.

Non è una regola ferrea, ma nelle coppie capita spesso che ci sia uno che fa le foto e l’altro che non ci pensa neanche lontanamente. Anzi, che vive la faccenda quasi con fastidio. Te ne accorgi soprattutto in vacanza. Te ne accorgi soprattutto quando hai un bambino piccolo. Te ne accorgi in maniera inequivocabile se hai sposato Amore del Cuore.

Ora, per me fare le foto alle cose o alle persone è una maniera di creare ricordi, di ritrovare quello che mi ha stupito in un certo istante o di fissare un momento che non mi va di perdere per strada. Mi piace fare le foto e fotografo qualsiasi cosa, anche se non ho mai sviluppato un particolare talento “tecnico” o una fissazione spiccata per obiettivi, pellicole, marchingegni e attrezzature. La tecnologia si è evoluta di pari passo con la mia pigrizia, forse, quindi mi arrangio felicemente con il telefono o con una delle macchinette più elementari ed efficaci che ha inventato la Canon per la gente allegrona ma piuttosto sbrigativa.
Comunque.
Sarà che ho sempre l’angoscia del tempo che passa e che si trascina via quello che succede, sarà lo spiccato orientamento al visuale della società che abitiamo, sarà che quelle tre volte che mi vesto come un essere umano mi piace potermelo rammentare – SARÀ QUEL CHE SARÀ, ma io sono quella che fa le foto. E Amore del Cuore no.

Io lo fotografo spesso, Amore del Cuore. Mi fa piacere. Mi diverto. Se ha in braccio Cesare o se Cesare gli sta camminando sulla faccia, poi, lo fotografo ancora più volentieri. Se siamo insieme da qualche parte e sono contenta parto anche con “Amore del Cuore, facciamoci una foto insieme”. Ci provo io, ma tra i due non sono quella col braccio più lungo, quindi spesso finisce con un “Amore del Cuore, falla tu, che fai meno fatica e magari entriamo nell’inquadratura senza slogarci le clavicole”.
E già lì si percepisce del disagio.
Ma è solo la punta dell’iceberg dello scazzo.

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Io non so, onestamente, come facciano quelle con gli Instagram pieni di foto dove ci sono loro per strada, appoggiate a un portone interessante con un gelato in mano. O graziosamente accoccolate sull’erba di un giardino. O sedute sui gradini di qualche chiesa. Ragazze che passeggiano sospinte dalla brezza. Ragazze che osservano il tramonto dalla cima di una scogliera. Quella roba lì.
Ma chi è che vi fotografa, ragazze dell’Instagram?
Non Amore del Cuore, questo è certo.
La dinamica è la seguente. E no, non accade sei volte al giorno. Accade circa una volta ogni due settimane – il tempo necessario a riprendermi dal trauma causatomi dai precedenti tentativi di farmi fotografare dal mio consorte.
Ma parliamone.

È una giornata radiosa (o almeno sopportabile). Ho i capelli pulitissimi e ho avuto il tempo di mettermi addirittura il rossetto. Sono ben disposta verso l’esistenza e indosso un insieme di cose che mi rendono in qualche modo fiera di essermele comprate o di averle abbinate con criterio. Ci ritroviamo a passeggiare in un bel posto, non c’è tanta gente.

“Amore del Cuore, fammi una foto. Guarda che meraviglia. Per favore, su. Mi metto lì cinque secondi. Paf, paf e via”.

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Consegno il telefono ad Amore del Cuore – con la fotocamera già attiva, che così non deve manco sbattersi a pigiare l’icona per aprire l’app – e Amore del Cuore lo afferrerà con un misto di riluttanza e compatimento, come se gli stessi porgendo un paio di pattine da indossare per non rigarmi il parquet, o una sogliola umida, o la carcassa ricoperta di muffa di un gatto con tre zampe. Alla consegna del telefono, devo aggiungerlo per dovere di cronaca, Amore del Cuore reagisce anche alzando gli occhi al cielo e sbuffando con eloquenza.
Io, caparbia, mi vado a piazzare in un angolo – ben conscia del suo travolgente entusiasmo – e provo a pensare a che faccia dovrei fare o a come potrei mettermi per non somigliare a una cretina che sta ferma contro a un muro senza un motivo al mondo. Non posso dedicarmi a questo nobile sforzo intellettivo-plastico, però, perché Amore del Cuore non è visibilmente pronto ad affrontare il GRAVOSO compito a lui affidato con l’adeguata serietà.
Dovete sapere, infatti, che Amore del Cuore non si sposterà di un centimetro dal punto in cui gli avete consegnato il telefono. Potete andare a mettervi in posa a cento metri di distanza o rimanergli appiccicate, non farà la minima differenza. Lui starà lì dov’è, come un albero, cazzo. “Amore del Cuore, vieni qua, però. Cioè, non mi pigli neanche con lo zoom se rimani lì”. Una volta approdato a punto B – e scordatevi un punto C, dal punto B non lo schioderete mai più -, Amore del Cuore si metterà una mano in tasca, tirerà su il telefono e scatterà brutalmente una sequenza di foto. Ma così, a caso. Bam, bam, bam, bam.

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“Amore del Cuore, tralasciamo per un attimo la mia faccia, perché di quello non hai colpa, ma ho delle domande. Perché ho sei metri di spazio vuoto a sinistra e la spalla destra a filo del bordo? Dimmelo che ho una lama di luce che mi decapita, che così mi scanso leggermente. Ma poi non t’accorgi che se non ti abbassi un po’, quando mi fai le foto, somiglio a Tyrion Lannister? Avrò anche la testa grossa e le gambe non lunghissime, ma se non ti pieghi un po’ viene veramente fuori una roba che non ha senso. Le proporzioni di un neonato. E la porta, sto qua in mezzo perché sarebbe bello che si vedesse tutta, ma in una maniera un po’ più simmetrica. Cioè, quello stipite lì è in diagonale. Ma pesantemente. Non è una porta, sembra un triangolo scaleno, l’entrata di una piramide, un incubo geometrico”.
Che rompicoglioni, direte voi. Ottimo, venite a farvi fare una foto da Amore del Cuore e poi ne riparliamo.
Comunque.
Amore del Cuore accoglie benissimo le mie rimostranze. Si lancia, di solito, in una filippica contro i social network nel loro complesso (come se le foto che mi fa fossero pubblicabili), arrivando a denigrare il capitalismo e auspicando il ritorno della censura statale (ma quella delle monarchie illuminate e basta). E io là, appoggiata a una porta a sognare un selfie-stick.

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Il secondo giro di foto è lievemente migliore. O forse così mi pare, perché so benissimo che non ce ne sarà un terzo. Insomma, ho una testa di dimensioni accettabili, sto più o meno in mezzo alla foto, ho i piedi, sembro a fuoco… purtroppo. Perché, una volta risolti i problemi di posizionamento, subentra la disamina della mia faccia e della mia persona in generale. Non mi sento di imputare ad Amore del Cuore anche queste disavventure, ma una cosa devo dichiararla.
Doverosamente.
Se uno ti fotografa malvolentieri – e tu lo sai che ti stanno fotografando malvolentieri -, verrai di merda. Ma merda vera. Il cubismo è una straordinaria corrente artistica, ma quando guardi una tua foto e ci vedi del cubismo non è una bella cosa.
Come il 97% degli esseri umani, vengo meglio in foto se non m’accorgo che mi fotografano o se qualcuno prova insieme a me a farmi venire un po’ meno male. Ma basta poco. Girati un po’ di lì. Muoviti verso di là. Vieni verso di me. Saluta unicorni immaginari. Mangia il gelato. Fermati così.
Con Amore del Cuore è impossibile.
Non esisteranno mai momenti in cui mi fotograferà di sua sponte, mentre galleggio ignara in un istante di serenità. E nemmeno riceverò indicazioni durante questi infrequentissimi “Amore del Cuore, fammi una foto”. Che cosa volete che mi dica? Alzati un po’ te in punta di piedi se non vuoi venire con la testa troppo grossa, che io non ho proprio voglia di chinarmi?

Quindi niente, abbiamo delle difficoltà non particolarmente risolvibili. Sono problemi di indole, proprio. Amore del Cuore non ama immortalare una mazza di niente, ma ce ne faremo una ragione. Il mio profilo Instagram mi vedrà comparire in maniera sporadica – il che, tutto sommato, non credo sia una cattiva idea – e nelle foto di famiglia ci saranno solo lui e Cesare. Bellissimi. Che si stropicciano e si coccolano in ritratti pieni di sentimento e tenerezza.
Io lo accetto, tutto questo. 
Anzi… lo accetterei di buon grado.
Peccato, però, che poi si verifichi il seguente fenomeno.
“Ma Tesoro di Cuccioli, non abbiamo più stampato neanche una foto. Dobbiamo fare gli album di Cesare, dobbiamo riempire le cornici. È bello avere gli album e le foto per casa. Anche delle vacanze, non le abbiamo mai risistemate. Dobbiamo guardarle, anche quelle vecchie. Ti ricordi il nostro primo viaggio a Berlino? Diamo un’occhiata. Scegliamole, che poi le stampiamo”.
Scusa?

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Dunque. Siete andati a vivere da soli, finalmente. Ed è tutto bellissimo. Mangiate tonno in scatola cinque giorni a settimana (ricavando le vitamine necessarie al vostro sostentamento dal pomodoro che c’è sulle molteplici pizze che ingurgitate nel weekend insieme ai vostri amichetti), sperate che non vi caschi un bottone perché non ve lo sapete riattaccare e tornate a casa quando vi pare, senza dover fronteggiare vostra madre che, alle quattro e cinquanta del mattino, vi aspetta in camicia da notte al tavolo della cucina. Con una falce in mano.

Ma che cos’è che voglio dire.

I giovani virgulti che si levano dai piedi, tipicamente, sono costretti a lasciare a casa buona parte dei libri con cui sono cresciuti. In certi casi è meglio così. Spesso, però, è un gran peccato. Ma che ci volete fare. Col vostro stipendio vi potete permettere uno sgabuzzino per le scope, che libri volete portarvi. Pace, andrete all’Ikea, comprerete una di quelle mini-librerie da 22 euro e 90 e la ficcherete nell’unico angolo libero. E ci metterete i libri nuovi, quelli che vi accompagneranno trionfalmente in questa fase super avventurosa della vostra esistenza. I libri nuovi, dopo qualche mese, cominceranno ad invadere il pavimento. Si ammucchieranno sul comodino. Si impossesseranno di una porzione piuttosto rilevante del tavolo dove consumate frugalmente le vostre Spinacine. Vi sveglierete di notte per fare la pipì e, nonostante iTorcia, ne butterete in terra una pila. Ma sarete contenti, perché tutti quei nuovi libri li avete letti voi. E pazienza se non avete un posto decente dove immagazzinarli. Nel vostro disordine c’è comunque del criterio. Voi lo sapete. E che gli altri si attacchino al tram.

All’improvviso, se vi andrà particolarmente di culo, potreste innamorarvi a tal punto da decidere di traslocare, scegliendo consapevolmente di vivere con un altro essere umano. Una persona importante, la persona che potrebbe stare al vostro fianco per tutta la vita… o almeno così vi sembra. Farete il bucato, per questa persona. Mangerete negli stessi piatti. Vi scambierete fluidi corporei, a più riprese – e con una certa veemenza. Condividerete un bagno, delle lenzuola, la bottiglia d’acqua che sta vicino al letto per quando vi svegliate col mal di gola e non avete voglia di trascinarvi fino in cucina. Con questa persona programmerete delle vacanze, acquisterete un gatto anallergico e addobberete l’albero di Natale. Proprio voi, che immaginavate di invecchiare da sole – in una cantina buia piena di ratti scontrosissimi -, con questa persona riuscirete ad immaginare un futuro. Siete così felici e in pace che non litigate neanche. Vi verrà voglia di preparare delle torte. Maneggerete il terribile contenuto di una borsa del tennis piena di calzini sudati senza fare una piega. Per sbaglio, poi, una sera vi laverete i denti con lo spazzolino del vostro consorte. E, con vostra grande sorpresa, non verrete assaliti dall’irrefrenabile necessità di strapparvi la faccia.
Accadrà tutto questo. E anche qualcosa in più. La vostra gioia sarà così potente da condensarsi in una forma solida, sfaccettata e scintillante, che sventolerete con grande soddisfazione – e una certa tracotanza – in faccia alle vostre amiche. Ma nemmeno dopo aver ricevuto un anello di fidanzamento riuscirete a fare qualcosa di apparentemente semplicissimo. Nemmeno dopo aver tagliato una torta multistrato con sopra due improbabili dinosauri di ceramica riuscirete ad accettare l’idea mostruosa di disperdere e incasinare i vostri libri. Quelli vecchi, quelli nuovi, quelli che ancora dovete leggere. Sono vostri. Vi appartengono. Li avete portati in giro, vi hanno fatto compagnia, ci avete trovato dentro una quantità sterminata di cose. Vi piace girarvi e dire “Insomma, ho letto tutti questi libri. Vuol dire che qualcosa di buono l’ho combinato, alla fin fine”. E vi dispiacerà molto, ma non ce la farete proprio. Alla domanda “Gallina, ma nella casa nuova le possiamo unire le librerie?” risponderete ancora una volta con un risolutissimo NO. Le librerie no. Le librerie non si toccano, non si uniscono, non si ingarbugliano. Zero. Né ora, né mai.

 

Il regno è in festa! Abbiamo la libreria, finalmente! Vittoria! Saltini! Pioggia di cuccioli!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

 

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Amore del Cuore? Amore! Ciao! Sono tornata! Mi scappa la pipì! Aspetta che vado in bagno, così poi ti racconto tutto! Ma dov’è il gatto? OTTONE! OTTONE! Ma sei qui, PATATA! Cosa fai sempre nel bidet? Sembri un castoro gigante! Ti siamo mancati? Hai già mangiato tutte le crocchettine? Amore del Cuore! Che ore sono? Mamma mia, che sonno. Sto per morire. Guarda, sarei tornata prima, ma c’era Gabbia che continuava a fermare venditori ambulanti perché voleva un bastone per farsi i selfie. E loro lì a svuotare lo zaino per farglieli vedere. Uno l’ha tenuto lì mezz’ora, senza comprargli niente, poi. Quando se n’è andato l’ha anche mandata a cagare… insomma, non mi sento di biasimarlo, francamente. Comunque, abbiamo mangiato abbastanza bene. Cioè, l’antipasto era buono, il secondo mica tanto. Un polpettone un po’ molliccio, pesantissimo, prosciuttoso… ti dirò, niente di che. Di antipasto invece ci hanno portato tutti questi fritti super strani, con le verdure, le croccoline, le mozzarellette. Bisognerebbe andarci solo per quei cosi lì. Il posto è carino, anche se hanno quattro tavoli in croce e una scala a chiocciola che un giorno ammazzerà qualcuno. Ah, ma lo sai che quest’estate vogliono prendere la macchina e andarsene in giro tutte insieme? E mi hanno sgridata tantissimo perché non abbiamo ancora fatto la festa di inaugurazione della casa. Ma che ansia. Poi c’è la Giorgia che sta cercando un bilocale qua vicino, che vuole avvicinarsi un po’ all’ufficio. Fa tutto schifo, comunque. Catapecchie, ruderi. Robe scrostate. Soppalchi pericolanti. Per carità. Almeno non è capitato solo a noi… è anche vero che tutte le case di merda te le sei sorbite tu, Amore del Cuore. Io ho visto solo quella bella. Comunque, si fanno tutte la manicure col gel. Ma quando ci vanno? Io sono qua che manco riesco a smaltarmi le unghie in casa, figurati. Che poi te non lo sai, ma il gel è uno sbattimento cosmico, per fartelo togliere devi andare dalla tizia, che ci vuole un solvente speciale e da sola non puoi mica farlo. Ma che voglia hanno? Ad un certo punto siamo andate in questo posto qua in via Vigevano, che Giovanna è single. Ci siamo guardate un po’ intorno ma non c’era molto materiale. Il problema, secondo me, è che c’è pieno di uomini bassi e incredibilmente pavidi. Non fanno mica come te e Andrea. Nessuno che viene a dirti due cazzate, zero. Ad un certo punto è anche passata una tizia con un cane grosso come una pallina da tennis. Lo teneva in braccio, in una specie di fagottino. Solo che era così piccolo che sembrava una spilla. Non so come facciano a vivere, quei canini nani lì. Ma sanno camminare? In casa nostra durerebbe cinque minuti. Se lo pesti muore. Ah, ho raccontato a tutte che in ufficio abbiamo il cane. Cioè, non è mica il cane di tutti ma… hai capito, te l’ho già spiegato come funziona. E niente, erano molto stupite. Da loro manco gli fanno tenere la tazza per berci il tè al pomeriggio, figuriamoci. Una valle di lacrime. Alla fine, però, non è che sono quella che torna più tardi. Mi rompi tanto le balle, te, ma loro arrivano a casa alle nove e passa tutti i giorni. Cioè, come se io ti sgridassi perché la sera fai le copertine! Mi sono mai risentita? Ma va! Ah, mi hanno detto che c’è un sarto bravissimo, qua dietro. Ci ha portato un po’ di roba la Cri ed era molto contenta. Forse riesce anche a metterti a posto i pantaloni, quei jeans lì con lo strappo nel sottopalla. Dobbiamo esplorarlo di più, questo quartiere. Non sappiamo una mazza di niente. Dove eravamo prima sapevamo cosa fare e c’erano un milione di market cinesi sempre aperti… qua un po’ meno, ma se non ci applichiamo non è che possiamo migliorare la situazione. Documentiamoci, facciamo dei giri, guardiamoci intorno. E basta, mi sono divertita. I cocktail buoni, comunque, non ci sono più da nessuna parte. Un litro di benzina, mi hanno dato. Che schifo, cazzo. E te? Com’è andata? Chi c’era? Dove siete stati? Cos’avete fatto? Che ti hanno detto?

Ma no, niente. Tutto a posto. Ho mangiato un casino.

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